Medical Humanities: una proposta interpretativa e didattican.83, 2019, pp. 3697-3705, DOI: 10.4487/medchir2019-83-5

Abstract

In the context of the international debate on the Medical Humanities, we discuss how and why they should be inserted in the training of young physicians. The core idea is that the humanists should not teach just what they research on, but what students actually need. The proposal is within a framework where compassion replaces empathy and the narrative approach is critically considered.

Articolo

Premessa
C’è un ampio consenso sul ruolo delle Medical Humanities (da ora MH) quale approccio interdisciplinare per conciliare medicina e humanities al fine di promuovere un atteggiamento pienamente centrato sul paziente. A fronte di tale condivisione, permane tuttavia una molteplicità di posizioni in merito a come tale obiettivo si debba realizzare. È sufficiente un veloce sguardo al panorama internazionale e nazionale per rendersi immediatamente conto che tra gli studiosi che riconoscono le MH come loro ambito di indagine è possibile identificare profili disciplinari e interessi anche totalmente distanti. Può accadere che un esperto di letteratura inglese/tedesca/francese/spagnola/russa/ecc. assegni alle MH il compito di analizzare come scrittori di lingua inglese/tedesca/francese/spagnola/russa/ecc. si siano occupati del corpo o della malattia; che un esperto di storia dell’arte sostenga che le MH debbano mostrare come attraverso l’arte si possano meglio capire concetti quali malattia, salute, cura, terapia ecc.; che un esperto di pedagogia difenda l’idea che le MH siano il terreno della sua disciplina; che uno studioso di fenomenologia difenda la sua importanza nell’approccio al paziente; che uno storico sottolinei la rilevanza di Ippocrate e Galeno per un modo proprio di inten- dere le MH; che un bioeticista enfatizzi il ruolo della riflessione etica; che un grecista sostenga la necessità dell’etimo delle parole usate in clinica; e così via, in un moltiplicarsi di prospettive legate alla provenienza disciplinare e agli interessi specifici.
La varietà di approcci costituisce senza dubbio una ricchezza nella misura in cui guardiamo alle MH come terreno di ricerca ampio e aperto, entro il quale ogni studioso è libero di indirizzare i propri studi lungo i filoni tematici che preferisce, di adottare le metodologie proprie dell’approccio scelto, e di pubblicare ed esporre i risultati dove meglio crede e può. Un atteggiamento “ecumenico” sul versante della ricerca non può però essere semplicemente traslato sul versante della formazione medica, dove ciò che entra in gioco sono le conoscenze e le competenze di giovani medici, i loro percorsi di studio e, attraverso questi, le caratteristiche delle loro future attività cliniche e di ricerca.
Senza nulla togliere alla varietà di approcci e prospettive incluse nelle MH, qui vorremmo argomentare a favore di uno specifico modo di interpretarle
– qualificabile come “concettuale” – che pensiamo possa essere adottato soprattutto in ambito didattico. Si tratta di una particolare caratterizzazione dettata dal riconoscimento i) che la medicina sta cambiando;
ii) che la compassione è più rilevante dell’empatia; iii) che l’approccio narrativistico deve essere ripensato criticamente; iv) che l’agenda delle MH nella formazione del medico debba essere dettata non dagli interessi di chi si trova di volta in volta a insegnarle, bensì dalle esigenze e priorità identificate all’interno della stessa professione medica.

Che cosa sono le MH?

Per iniziare, richiamiamo alcuni dei tratti della recente riconsiderazione delle relazioni tra humanities e medicina, visto che specie negli ultimi decenni sono stati gli sviluppi stessi delle scienze biomediche a stimolare un rinnovato interesse per le scienze umane e a stimolare un ampio dibattito in merito.
Ciò che le MH promettono è di farsi promotrici di una concezione ampia della medicina, entro la quale diverse dimensioni vengano valorizzate in ambito di ricerca e di cura, nonché di formazione. Così ci si aspetta, da un lato, che esse consentano a chi pratica la medicina di integrare numerose prospettive di stampo umanistico per una comprensione migliore di ciò che la loro disciplina è e di ciò che si prefigge, dall’altro, che permettano di migliorare la qualità delle relazioni tra medici, operatori sanitari, pazienti e loro parenti.
A partire dall’introduzione della proposta culturale delle MH (negli anni Sessanta), si è sviluppato il dibattito relativo alla loro natura e al loro status disciplinare (cfr. Evans and Greaves 2002 e 2010). Se a tutt’oggi non vi è accordo sugli scopi specifici delle MH, si conviene generalmente che le MH possano i) abbracciare tutte le discipline che contribuiscono all’analisi concettuale della medicina, senza ovviamente trascurare quella relazionale (approccio concettuale) e/o ii) promuovere attraverso un qualche tipo di narrazione (storica, letteraria, artistica ecc.) una maggior empatia tra il professionista della sanità, il paziente e suoi cari (approccio narrativista). Molte delle discussioni ora in corso riguardano proprio la possibilità di trovare un equilibrio tra queste due istanze distinte (Meites et al. 2003, Ahlzén 2007, Crawford et al. 2010) e quindi pure un bilanciamento fra le discipline coinvolte (Downie 2003), sebbene appaia piuttosto difficile conciliare questi due filoni in una visione unitaria (Puustinen et al 2003; Campo 2005; Ahlzén 2007; Boniolo et al. 2012; Boniolo, Chiapperino 2014).

Oltre al dibattito fra concettualisti e narrativisti, vi è anche un’ampia discussione su quale ruolo le MN debbano avere nella formazione del medico (e.g. Grant 2002; Campaner, Coccheri, Boniolo 2019). Esse sarebbero, infatti, chiamate a svolgere un ruolo attivo nei curricula medici, garantendo che il futuro medico riceva, accanto a una formazione di tipo prettamente tecnica, anche gli strumenti necessari per raggiungere un’adeguata comprensione concettuale ed esistenziale delle condizioni del paziente. C’è chi sostiene che non si possa trattare solo di elementi trasmessi entro un certo percorso di formazione medica, ma  che il medico debba procedere a una vera e propria “assimilazione”  di  una  concezione  umanistica della malattia (e.g. Evans 2008). Quindi, non una giustapposizione additiva, avanzata da chi pensa che la pratica medica dovrebbe essere “ammorbidita” da professionisti che abbiano una qualche esposizione a temi umanistici, quanto una visione integrativa, secondo la quale lo status, gli obiettivi, i metodi e le procedure della medicina clinica dovrebbero essere orientate da una concezione comprensiva della condizione in cui si trova il paziente, ispirata alle riflessioni etico/esistenziali nonché concettuali elaborate in seno alle MH. Quest’ultima posizione parte dall’assunzione della necessità di una prospettiva umanistica sul paziente e la sua malattia che non può non passare attraverso l’apprendimento di una serie di elementi fondamentali che caratterizzano la prospettiva stessa, i suoi significati e le possibilità di applicazione.
Certo una via non facile, ma richiesta dalla professione stessa del medico. Di questo dobbiamo tenere conto, se non vogliamo che essa si depersonalizzi e si tecnologicizzi sempre di più, senza comportare un momento riflessivo. Crediamo infatti che la prospettiva integrativa sia in grado di accrescere la consapevolezza concettuale degli operatori medici e di renderli più attenti alle implicazioni teoriche ed esistenziali del loro lavoro. Riteniamo che l’educazione dei futuri professionisti in ambito medico sia lo strumento mediante il quale raggiungere l’integrazione di conoscenza umanistica e scientifica auspicata dalle MH. La visione additiva, viceversa, rischia di lasciare fondamentalmente inalterata la comprensione della malattia come fenomeno strettamente biologico, e di non promuovere, pertanto, un ripensamento dei suoi modelli descrittivi, classificatori ed esplicativi. Certo, una via additiva rischia di essere una facile scorciatoia per umanisti ansiosi di insegnare in una Scuola di Medicina. Questo obiettivo non deve essere raggiunto al prezzo di svilire il ruolo formativo delle loro discipline, ammettendo che esse siano considerate solo come accessori, come una “ciliegina umanistica” sopra un sapere interamente tecnico. È fondamentale, viceversa, non dimenticare che la medicina tratta con uomini e donne che hanno una loro visione del mondo e della vita e una loro biografia, a cui lo studente può imparare ad accedere solo attraverso un approccio integrativo delle humanities. Una mera esposizione ad alcuni dei temi e problemi delle discipline umanistiche che non sfoci in un’assimilazione del loro messaggio concettuale più profondo, avrà come unico risultato una generica contrapposizione tra approcci “umanistici” – qualunque cosa questo possa significare – alla medicina e approcci “tecnici”. L’obiettivo dovrebbe invece essere proprio quello di individuare strade per conciliare i progressi e i cambiamenti di paradigma della biomedicina con le indicazioni delle scienze umane, fornendo lenti diverse sulla malattia, dal laboratorio fino al capezzale del paziente.

La medicina sta cambiando: Biomedical Humanities?

A partire dal sequenziamento del genoma umano, ormai nel “lontano” 2001, la medicina ha iniziato a compiere un drastico cambio basato su un approccio dove tecniche fisiche, chimiche, informatiche e biologiche sono usate per descrivere strutture, processi e meccanismi molecolari, cercando di comprendere a quel livello le basi delle malattie e delle loro terapie. Sicuramente i prodromi di questo mutamento si erano visti molto prima del 2001, forse addirittura prima dei lavori con cui la vulgata data l’inizio della medicina molecolare, ossia quelli del 1949 di Linus Pauling sull’anemia falciforme vista, appunto, quale “malattia molecolare” (cfr. Boniolo, Nathan 2017). Comunque sia, da quella partenza, forse troppo piena di promesse di cure definitive, specie contro malattie complesse come il cancro, ci si è resi conto che non contano solo i geni che si hanno, ma come e quando essi sono espressi in dati tessuti. Ovvero, dall’inizio pioneristico della genomica si è passati a quella che, con un termine ombrella, è stata chiamata post-genomica e che comprende le famose ‘omics’ (epigenomica, proteomica, transcrittomica, meta- bolimica ecc.).
Questo, anche grazie alle nuove tecniche di sequenziamento, alle nuove biotecnologie specie in ambito di imaging molecolare e al sempre più rilevante uso di metodi computazionali per l’analisi di dati popolazioni e individuali, ha comportato giungere alla medicina di precisione e alla medicina personalizzata di oggi. Non ha senso, soprattutto qui, discutere se medicina personalizzata e medicina di precisione siano la stessa cosa. Si può accettare la proposta dell’US National Research Council, secondo cui la medicina di precisione è un approccio per il trattamento e la prevenzione delle malattie che tiene in conto della variabilità genetica di ogni individuo, del suo ambiente e del suo stile di vita, al fine di permettere ai ricercatori di predire più accuratamente quali strategie di prevenzione e cura possano essere efficaci per individui raggruppati su base soprattutto genomica e post-genomica. Su questa si innesta la medicina personalizzata, che è tale non perché si focalizza sulla singola persona, come dovrebbe, d’altronde, essere sempre stato per la medicina, ma sulla particolare costituzione genomica e post-genomica del singolo individuo. In definitiva, secondo questa definizione, la medicina di precisione si occupa più di classi di pazienti realizzate sulla base di dati genomici, post-genomici, ambientali elegati agli stili di vita, mentre la medicina personalizzata tenta di portare i risultati preventivi e di cura lì trovati al letto del dato paziente1.
Non ha qui importanza che tutti accettino que- sto modo convenzionale di distinguere medicina di precisione e personalizzata: l’importante è capire di cosa si sta parlando e riconoscere che chi si occupa di humanities in ambito medico non può non essere consapevole di questo fondamentale cambiamento. Il passaggio dalla medicina classica alla medicina di precisione e alla medicina personalizzata ha aperto una moltitudine di nuovi problemi e di nuovi temi che non possono essere ignorati o sottovalutati da chi si occupa di MH. Certo, non in tutti gli ospedali del mondo si pratica la medicina di precisione. È, a ben guardare, una medicina “per ricchi fatta in paesi ricchi”, in quanto necessita non solo di una cooperazione molto stretta fra chi opera in un laboratorio di ricerca e chi agisceal lettodel paziente, masoprattutto di una piattaforma biotecnologica estremamente raffinata (ed estremamente costosa), nonché di capacità computazionali sofisticate.
In ogni caso, è la medicina dei giorni nostri, e si deve tenerne conto. Questo significa che più che di Medical Humanities, forse si dovrebbe iniziare a parlare di Biomedical Humanites. Non si tratta di un mero gioco linguistico, bensì di una modifica volta a sottolineare che, per esempio dal punto di vista etico, non basta più saper affrontare le usuali tematiche (inerenti inizio e fine vita, scelte riproduttive, placebo, vaccinazione, consenso, qualità della vita, partecipazione ai trial clinici ecc.), ma si deve sapere trattare anche questioni legate agli incidental findings, al diritto di sapere e al dovere di informare in seguito ai test genetici, al tema della sovra-diagnosi e del sovratrattamento connessi con gli screening genetici, ai temi riguardanti la diversità (sia essa di sesso, di genere, culturale, socio-economica ecc.), alla problematica del right-to-try, al problema dei patients-in-waiting, alla privacy e alla discriminazione genetica, alle mutazioni rare, ai nuovi trial clinici ecc. (cfr. Boniolo, Campaner 2019; Carrieri, Peccatori, Boniolo 2018; Boniolo, Maugeri 2019).
E non basta. Essendo il sapere biomedico, sia di ricerca sia clinico, prodotto e utilizzato in ambito di medicina di precisione e personalizzata fortemente basato sulla probabilità e sulla statistica, è impensabile che chi si occupa di MH non ne affronti anche la parte fondazionale, ossia umanistica. È, infatti, assolutamente rilevante, specie a livello formativo, l’inserimento di percorsi narrativisti all’interno dei curricula formativi del medico e il raggiungimento di una migliore comprensione delle condizioni dei pazienti o delle relazioni con i loro cari.

Dall’empatia alla compassione

‘Empatia’ e ‘compassione’ sono due termini che designano atteggiamenti diversi. Compassione deriva dal latino cum-patior (soffro con) e prima dal greco sym-patheia (simpatia, ossia provare emozioni con…). È sempre stata intesa come indicante un sentimento per il quale un individuo percepisce emozionalmente la sofferenza altrui desiderando di alleviarla. Empatia, invece, deriva dal greco en-pathos ed era un termine che veniva usato per indicare il rapporto emozionale di partecipazione soggettiva che univa lo spettatore del teatro all’attore recitante, come pure quest’ultimo con il personaggio che interpretava. Solo verso la fine del 1800 e l’inizio del 1900, e grazie al filosofo tedesco Robert Vischer, il termine greco entra nel vocabolario della teoria estetica come Einfühlung, per poi essere usato per designare un atteggiamento verso gli altri caratterizzato dal “sentire dentro” il loro dolore o la loro gioia, permettendo, in tal modo, di comprenderli (cfr. Novak 2011).
Si è detto che il medico dovrebbe essere empatico e che le MH dovrebbero, specie attraverso la narrazione, contribuire alla formazione di questo atteggiamento. Noi, soprattutto sulla scorta di Khen Lampert (2003 e 2006), siamo a favore della compassione, ossia di un atteggiamento che tiene conto della sofferenza del paziente e dei suoi cari, ma considera essere un imperativo morale quello di cercare di alleviarla attraverso un’analisi razionale e pacatamente distaccata delle sue cause e delle possibilità di cura. Inoltre, non scordiamoci che è assolutamente impossibile essere totalmente empatici con l’altro da noi perché questi ha una storia e una biografia totalmente diversa dalla nostra e quindi la sua sofferenza, nella sua essenza, ci è totalmente preclusa. D’altronde il ruolo del medico non è quello di “avere dentro di sé” la sofferenza del paziente, ma di capire che sta soffrendo e tentare razionalmente di alleviare questo suo stato.
Può sembrare si cerchi di ridimensionare il ruolo dell’empatia, visto lo spazio che ha trovato nella riflessione contemporanea, a partire da filosofi morali per arrivare a primatologi come Frans de Waal (2011) e a neuroscienziati come Giacomo Rizzolati (Rizzolati, Sinigaglia 2019). Assolutamente senza negare l’importanza di questi studi, ci sembra tuttavia rilevante riconoscere che esistono anche voci critiche, come quella di Paul Bloom che nel suo lavoro del 2016, Against Empathy: The Case for Rational Compassion, sostiene che l’empatia possa essere una pessima guida morale, perché getta le basi per giudizi non adeguati e può condurre a decisioni ingiuste. Correttamente a nostro avviso, Bloom mette in luce che non si può essere empatici con tutti nello stesso modo. Questo significa che sulla base dell’empatia non possiamo garantire di prendere decisioni giuste (ossia, a situazioni simili decisioni simili ea situazioni diverse decisioni diverse), visto che si può essere più empatici con un paziente rispetto a un altro, pur in presenza di situazioni patologiche simili. Supponiamo che ci siano due persone che hanno contratto l’epatite virale, ma uno l’ha contratta perché ha inciampato su una siringa infetta, mentre l’altro l’ha contratta perché ha usato, da tossicodipendente, una siringa sporca. La situazione patologica è analoga, ma potremmo essere più empatici con la sofferenza del primo che non con la sofferenza del secondo e questo potrebbe portarci a decisioni non giuste. In aggiunta si noti che se anche il medico fosse veramente empatico con tutti e nello stesso modo (cosa impossibile), correrebbe il rischio del burnout: un problema molto sentito nelle discipline cliniche che trattano pazienti in fin di vita (cfr. Larkin 2015).
Lungo una via totalmente diversa da quella di Bloom, ma sempre a favore di un approccio compassionevole e razionale, si muove anche Dominic O. Vachon, con il suo HowDoctors Care: The Science of Compassionate and Balanced Caring in Medicine del 2019. Qui trova spazio l’idea che la compassione sia l’abilità di notare che cosa sta accadendo di patologico in un’altra persona e così di focalizzare su di essa la propria formazione e competenza medica al fine di agire nel miglior modo possibile.

Sull’utilità e l’inutilità dell’insegnamento della storia della medicina

Non vogliamo certo mettere in discussione l’importanza della storia della medicina. Quelloche interessa è chiedersi se abbia utilità culturale e formativa insegnare porzioni molto limitate di storia della medicina in quei corsi di laurea di medicina e chirurgia dove a tale insegnamento vengono dedicate sei/otto/dieci ore. È difficile immaginare che possano avere un impatto decisivo un numero esiguo di ore allocate a tale materia se occupate insegnando poche notizie, inevitabilmente frammentarie, su chi furono Ippocrate, Galeno, Morgagni ecc. Il rischio, dato il tempo limitato, è di fornire informazioni aneddotiche già facilmente rintracciabili in riassunti o siti divulgativi. Ma allora che fare?
La Storia della medicina, di una disciplina, non ha solo valore in sé, quale ricostruzione di un passato che non può e non deve essere dimenticato e che è messo a disposizione di chiunque voglia conoscerlo, ma può anche essere un modo per capire le sfaccettature della professione collegata a quella particolare storia (Gazzaniga 2018).
Pensiamo al giovane che sta seguendo il suo corso di studi in medicina e che così si prepara ad affrontare una professione che è ricca di implicazioni etiche, esistenziali, decisionali, epistemologiche, metodologiche, ecc. Ebbene, le poche ore a disposizione del docente di Storia della medicina forse non dovrebbero essere impiegate nel consegnare letture estremamente ridotte e veloci o percorsi monografici molto circoscritti, che difficilmente possono essere rilevanti per uno studente di medicina del XXI secolo.
Quelle poche ore potrebbero invece essere utilizzate per una sorta di introduzione storico-concettuale alla professione medicina, che fornisca chiavi di lettura con implicazioni chiare e facilmente riconoscibili anche dallo studente. Nello specifico, potrebbero essere usate per far leggere e/o commentare alcuni classici della medicina, o alcuni passi tratti da questi, che abbiano una valenza per la formazione del giovane medico, e, attraverso questo, portino a riconoscere l’importanza della dimensione storica per l’esercizio della professione.
Pensiamo all’Introduction à l´étude de la médecine experimental, che Claude Bernard pubblicò nel 1859. Non è solo un testo in cui compare per la prima volta una distinzione fra la medicina sperimentale e la medicina clinica, ma anche un lavoro che presenta i problemi epistemologici della scienza medica di ricerca. È un lavoro dal quale si può imparare moltissimo su che cosa sia il metodo scientifico e come questo possa essere declinato in ambito di ricerca medica. Inoltre, esso può essere facilmente utilizzato come snodo storico dal quale è semplice poi passare a considerazioni storico-critiche su come si sia sviluppato il metodo scientifico nei secoli precedenti e seguenti. E questo è un tema fondamentale per un ricercatore o per un medico contemporaneo, visto che è ripreso in modo preoccupato su grandi riviste internazionali dove molti hanno denunciato le lacune conoscitive proprio relative al metodo scientifico in ambito biomedico.
Un altro testo assai rilevante e formativo è quello di Georges Canguilhemdel 1943, Essai sur quelques problèmes concernant le normal et le pathologique. Esso permette di riflettere su che cosa siano il normale e il patologico: due concetti fondamentali che dovrebbero essere analizzati e digeriti a fondo dal giovane medico in formazione, che deve assumere consapevolezza del fatto che non è banale sancire una volta per sempre quale sia la demarcazione fra sanità e malattia. Anche questo è un testo che permette di procedere verso il passato e verso il futuro per un excursus storico-concettuale sulla nozione di malattia. Tra l’altro la lettura del lavoro di Canguilhem consente pure di meditare sul fatto che il vivere “normale” può essere qualcosa che caratterizza anche una vita segnata da una patologia.
Oppure si può far leggere Why We Get Sick? The New Science of Darwinian Medicine, pubblicato nel 1994 da Randolph Nesse e George Williams. Questo è uno dei testi classici della medicina darwiniana, che permette di fare fruttuose divagazioni storico-concettuali non solo sulle cause evolutive di molte malattie umane, ma anche su che cosa sia il darwinismo – fondamentale specie per capire da dove viene Homo sapiens.
Si può, ancora, proporre la lettura, commentata e guidata, di articoli come il già citato lavoro del 1949 di Linus Pauling sulla Sickle Cell Anemia. A Molecular Disease, da cui si può trarre un’intera serie di lezioni sullo sviluppo della medicina molecolare, sulla medicina di precisione e personalizzata dei giorni nostri. Oppure si può commentare il lavoro di Archibald Edward Garrod del 1902 su The Incidente of Alkaptonuria: A Study in Chemical individuality, che può essere un trampolino di lancio per una serie di considerazioni storiche sulle malattie genetiche.
Vorremmo concludere questa piccola lista di proposte con due testi italiani. Uno è Metodologia medica: principi di logica e pratica clinica: un lavoro di Enrico Poli del 1965 dal quale si impara che cosa sia la metodologia clinica soprattutto in ambito diagnostico e dal quale si può partire per una riflessione storico-critica sia su questo importante momento della pratica medica, sia su come la tradizione metodologica italiana sia stata pionieristica a livello internazionale, per poi quasi scomparire anche sul territorio nazionale. L’altro è un piccolo testo di Giacinto Viola del 1932, La costituzione individuale, nel quale si chiarisce il rapporto fra il paziente ideal-tipico descritto dal patologo generale e il reale paziente singolo curato dal clinico. È un saggio che, tenendo conto del periodo in cui è stato scritto, è di assoluta rilevanza internazionale e forse solo il fatto che fosse redatto in lingua italiana ha impedito che diventasse uno dei testi classici sul dibattito fra sapere nomotetico e sapere idiografico. È, infatti, un testo contente delle illuminanti considerazioni sulla natura della pratica medica come scienza dell’individuale, anche in contrasto con molto più superficiali affermazioni che si sono poi avute fra gli anni ’70 e ’80 che han visto molti sostenere che la pratica medica sia un’arte basata su un fantomatico “occhio clinico”.

Pochi esempi, quelli sopra, che però possono far riflettere sul fatto che la Storia della medicina, anche se relegata a poche ore nel curriculum di uno studente di medicina, può essere di reale impatto nella sua formazione e nella sua comprensione storico-concettuale di che cosa sia la sua professione.

A chi servono le Medical Humanities?

Come premesso già all’inizio, la varietà di approcci, interessi e metodi oggi inclusi nelle MH è senza dubbio apprezzabile dal punto di vista della ricerca teorica, dove è sempre auspicabile permanga una molteplicità di punti di vista e filoni di indagine. Come emerge da quanto sopra, la situazione sembra però richiedere un giudizio diverso se il punto di vista si sposta dalla ricerca alla pratica, intesa tanto come pratica di ricerca biomedica quanto come pratica cli- nica. Se, come moltissima letteratura sostiene da tempo, le MH non sono soltanto un esercizio teorico, ma crescono in un rapporto di interazione con la medicina stessa, chiediamoci allora: quale configurazione e quali sbocchi è auspicabile che tale interazione abbia? Se guardiamo alle MH con lo sguardo del medico – ricercatore o clinico – e non dell’umanista, quali appaiono gli aspetti di questo ambito di studio che possono impattare maggiormente sulla professione medica? A chi e a che cosa servono, in ultima analisi, le MH, e in quale accezione devono essere intese per poter soddisfare i compiti loro assegnati?
Perché il rapporto tra le due anime – quella medica e quella umanistica – si sviluppi in modo integrato, la medicina non si deve configurare solo come terreno per testare alcune delle posizioni elaborate entro una particolare disciplina umanistica, ma come ambito da cui partire e a cui ritornare, fornendo strumenti di indagine utili per il professionista delle scienze mediche. Bisogna, quindi, mettersi in un atteggiamento di ascolto nei confronti delle esigenze dei professionisti delle scienze mediche per capire quali siano gli apporti di maggiore rilievo che possono provenire dalle scienze umane affinché l’incontro tra gli ambiti sia davvero proficuo. D’altronde, a livello internazionale mai come in questo momento vi è una richiesta di humanities relativamente ai cambiamenti dettati dalla medicina precisione e personalizzata; alle possibilità prospettate dall’ingegneria genetica; alla natura delle patologie complesse e alla multi-morbilità; alle metodologie di raccolta e valutazione delle evidenze scientifiche; alla ripetibilità e riproducibilità dei risultati; al problema del conflitto di interessi; all’interpretazione dei dati statistici e alla loro rilevanza clinica (cfr. Campaner, Coccheri, Boniolo 2019). Anziché fornire contenuti preconfezionati, e/o comunque ritagliati sui particolari interessi tutti interni alle scienze umane, le MH hanno l’opportunità di fornire dei supporti reali eimmediati.
Se – parafrasando il titolo di un articolo di William Stempsey (2008) – qualcuno potrebbe dire che “le MH sono ciò che fanno i professionisti delle MH”, non tutte le discipline coinvolte avranno la stessa capacità di rispondere ai problemi che emergono dalla pratica clinica quotidiana o in laboratorio. Riteniamo che gli strumenti della filosofia e della metodologia della scienza e della bioetica, ovviamente all’interno di un quadro storico-critico, costituiscano la risposta più adeguata al tipo di problemi sopracitati. Per poter aiutare il ricercatore e il clinico a costruire un’impalcatura critica solida e rigorosa, su cui innestare la costruzione, la valutazione e l’utilizzo della conoscenza scientifica, è auspicabile che questi ambiti disciplinari occupino uno spazio crescente nei curricula medici. Lì dove sappiano configurarsi non come riflessione “da poltrona”, ma come interlocutori attenti della medicina, possono aspirare a svolgere un ruolo di rilievo
– non accessorio o ornamentale ma costitutivo- della formazione del medico. Acquisire durante il proprio percorso formativo qualche “grimaldello teorico” proveniente da una filosofia della scienza, da una bioetica e da una storia della medicina opportunamente declinate consentirà al medico di affrontare adeguatamente questioni di metodo, validità, applicabilità della conoscenza scientifica, e situazioni in cui sia chiamato a decidere su temi eticamente sensibili.
Al di là del successo delle MH come ambito di ricerca autonomo, è nell’effettiva capacità di interazione con la medicina e, soprattutto, con i professionisti della medicina che si gioca la capacità delle scienze umane di “uscire dalla quarantena” (Stempsey 1999) a cui rischia di condannarle una concezione puramente ancillare del loro ruolo. Attraverso l’integrazione di temi e strumenti filosofici in tutte le fasi della formazione medica diventerà sempre più evidente la loro rilevanza sia per il lavoro di ricerca che per le valutazioni e decisioni cliniche. Tale integrazione può avvenire solo ricordando – come suggerito da Louhiala (2003) –che la filosofia della medicina solleva domande sulle domande che solleva la medicina, che devono quindi – aggiungiamo noi – essere per questa rilevanti. E se i temi affrontati devono essere percepiti come cruciali all’interno delle stesse scienze mediche, anche i metodi di insegnamento dovranno essere commisurati al contesto formativo, privilegiando pertanto un approccio per problemi, e l’analisi critica di casi e situazioni effettivi: “qualunque sia la modalità di insegnamento, il contenuto dev’essere in qualche modo legato al mondo medico in cui gli studenti sono quotidianamente immersi” (ibid., p. 87). La costruzione di curricula medici in cui siano integrati insegnamenti di filosofia e metodologia della scienza e bioetica è senz’altro un’operazione complessa (cfr. Pellegrino 1984, parr. 4 e 5.1), ma può avere (almeno) tre effetti positivi: i) fornire ai futuri ricercatori e clinici strumenti teorici fondamentali per la loro professione; ii) migliorare i processi decisionali e di cura; iii) favorire la collaborazione anche tra figure senior di medici e filosofi nell’ambito della costruzione stessa dei curricula.

Conclusioni

Traendo spunto dall’innegabile e crescente successo delle MH, si è cercato di metterne a fuoco la declinazione più adeguata a raggiungere l’obiettivo della promozione di un atteggiamento autenticamente centrato sul paziente e di un processo di integrazione tra pratica medica e humanities realizzato attraverso una maggior consapevolezza anche teorica della prima. Abbiamo illustrato quali aree di indagine risultino a nostro avviso più funzionali a tali scopi, e perché. Senza assolutamente escludere, né sminuire, il valore disciplinare e l’interesse teorico di tutti gli ambiti di studio che si riconoscono nelle MH, abbiamo voluto sottolineare la validità di un approccio concettuale in ambito di formazione: l’inclusione dello studio della metodologia della scienza, della filosofia della scienza e dell’etica all’interno di un quadro storico-critico nei curricula medici può impattare in modo diretto sulla formazione dei futuri medici, tanto in un ambito clinico quanto di ricerca, e, quindi, indirettamente, sulle condizioni di salute del singolo e della popolazione. Si tratta di una posizione che abbiamo sostenuto lungo diverse direttrici, facendo riferimento a: i) argomentazioni teoriche di carattere concettuale; ii) riflessioni sulla storia disciplinare recente delle MH; iii) istanze che emergono all’interno delle stesse scienze biomediche. Ciò che, innegabilmente, manca per rendere cogenti le nostre considerazioni sono studi definitivi di carattere empirico che rilevino un rapporto causale tra l’insegnamento di alcune discipline, la loro assimilazione da parte di professionisti delle scienze biomediche, e un miglioramento effettivo di percorsi di ricerca o di cura. Qualche studio, in realtà, comincia ad apparire (Macnaughton 2000; Wershof et al. 2009; Macpherson, Owen 2009; Athari 2013; Lee, Lee, Shin 2019), ma per avere risultati definitivi sono necessarie altre ricerche che permettano di misurare l’efficacia dell’incontro tra medicina e MH nell’accezione qui invocata. Nel frattempo, riteniamo che le riflessioni teoriche all’intersezione della filosofia e della pratica medica sopra esposte forniscano buone ragioni per sostenere che la filosofia della scienza, la riflessione storico-concettuale e metodologica, e la bioetica possono aiutare in modo significativo la medicina a superare la sua attuale “crisi esistenziale”, come l’ha etichettata il passato Editor del British Medical Journal (Smith 2016).

L’articolo a firma di Boniolo, Campaner e Gazzaniga vuole segnare l’apertura di un dibattito sul ruolo, la posizione  e l’utilità dell’insegnamento delle Scienze Umane nei Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia. La necessità di utilizzare capacità di lettura della realtà clinica e sperimentale caratterizzate da approcci inter e transdisciplinari che attingano a diversi saperi umanistici è da tempo chiara a chi insegna Storia della medicina nelle università italiane. La possibilità di confrontare i frutti del pensiero medico e scientifico con le letture che di esso si possono fornire in senso storico, filosofico, epistemologico, antropologico e bioetico è oggi riconosciuta come essenziale per gli studenti dei corsi di laurea in medicina e delle professioni sanitarie, che necessitano di perfezionare gli strumenti a loro disposizione per comprendere l’impianto epistemologico e storico della medicina contemporanea. Per sviluppare il dialogo inter e transdisciplinare sul ruolo delle Scienze Umane in Medicina, è stata recentemente fondata presso Sapienza-Università di Roma una nuova Società Scientifica, la SISUMed: la società, i cui fondatori provengono da formazioni diverse (medici, storici, filosofi, pedagogisti, antropologi, bioeticisti), si propone di incentivare la discussione sul ruolo, la natura, l’utilità delle Scienze Umane nella formazione del medico, mettendo a punto nuove strategie che anche sul piano didattico agevolino il dibattito sulle sfide, sempre più complesse, che la medicina affronta sia sul piano sperimentale che clinico e applicativo.
Chi volesse contribuire alla costruzione di tale dibattito può inviare il suo testo, steso in accordo con le norme editoriali dei Quaderni, a
valentina.gazzaniga@uniroma1.it.

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Cita questo articolo

Boniolo, G.; Campaner, R.; Gazzaniga, V.; Medical Humanities: una proposta interpretativa e didattica, Medicina e Chirurgia, 83, 3697-3705, 2019. DOI: 10.4487/medchir2019-83-5

Affiliazione autori

Giovanni Boniolo – Dipartimento di Scienze Biomediche e Chirurgico Specialistiche, Università di Ferrara
Raffaella Campaner – Dipartimento di Filosofia e Comunicazione, Università di Bologna
Valentina Gazzaniga – Unità di Storia della Medicina e Bioetica, , Sapienza-Università di Roma.

SISUMed: una nuova sfida per le Scienze Umane in medicinan.82, 2019, pp. 3666-3667

Articolo

Sinergie ‘antiche’ per una nuova Società scientifica
Fondata a Roma il mese di febbraio 2019, per iniziativa di un gruppo di docenti che insegnano Storia della medicina, Bioetica e Scienze Umane in medicina, la Società Italiana di Scienze Umane in Medicina (SISUMed) nasce come primo frutto del lavoro della Commissione Medical Education delle tre Facoltà mediche di Sapienza (Medicina e Odontoiatria; Medicina e Psicologia; Farmacia e Medicina) e, in particolare, di un suo gruppo di lavoro sulle Scienze Umane in Medicina, da alcuni anni attivo nel definire nuove strategie di pedagogia medica aperte al contributo possibile che le scienze umane possono apportare alla complessa formazione del medico del futuro.
Il lavoro inter e transdisciplinare portato avanti in questi anni da colleghi con formazione culturale molto diversa (storici della medicina; patologi; clinici; pedagogisti medici; antropologi culturali; psichiatri e psicologi) ha progressivamente messo in luce il fatto che la letteratura internazionale, sebbene si sia da decenni occupata della definizione e del ruolo possibile da attribuire alla scienze umane nella formazione del medico, ha fornito solo di rado contributi effettivamente innovativi, che non indulgano a un mero atteggiamento compiacente o, peggio, all’idea che la competenza ‘umanistica’ sia una decorazione elegante per il medico in formazione, ma non una necessità pedagogica sostanziale nella definizione dei curricula medici.
Il recente rinnovato interesse nei confronti delle soft skills, abilità trasversali volte a migliorare le prestazioni lavorative e a ottimizzare il clima in cui esse si svolgono, sembra imprimere una nuova direzione al dibattito scientifico. Gran parte delle riflessioni che gravitano attorno alle Scienze Umane in medicina tendono a porre l’accento sulle criticità del sistema formativo biomedico, a cui viene imputato il fenomeno di depersonalizzazione e reificazione del paziente e della ‘commercializzazione’ delle professioni mediche. Molto più rare sono le riflessioni e le proposte volte a strutturare linee guida condivise che possano condurre alla costituzione di programmi formativi adeguati all’interno delle diverse scuole mediche. Molti contributi1 evidenziano, infatti, le difficoltà incontrate nella misurazione dell’impatto delle Scienze Umane in medicina nei percorsi formativi, sottolineandone la fumosità e indeterminatezza, la cui causa è attribuita in genere alla loro spiccata vocazione interdisciplinare. Diversi autori manifestano un’allarmante preoccupazione in merito e dichiarano che la mancanza di prove quantitative riguardanti l’efficacia dell’insegnamento delle Scienze Umane in medicina può comportare la svalutazione dell’utilità di un approccio inclusivo nei percorsi di studio. Gli stessi studi riconoscono la quasi impossibilità di misurare l’impatto e l’efficacia formativa delle Scienze Umane in medicina attraverso strumenti sinora adottati nell’educazione medica, individuando ostacoli metodologici probabilmente insormontabili a causa della ampia pluralità di possibili confondenti. Da ciò discende una palese criticità nella misurazione dell’impatto formativo, che tuttavia non esclude la necessità di maggiore chiarezza in merito ai fondamenti epistemologici, fini, metodi e strumenti da utilizzare nella formazione degli studenti nel campo delle Scienze umane.
Un’interessante osservazione di Clayton J. Beker et al del 2017 2 propone un approccio di valutazione complesso, che non utilizzi soltanto un metodologia empirica, numerica e tassonomica ma che possa accostare ad essa la raccolta di narrazioni sull’esperienza individuale degli studenti di medicina.
Oltre queste problematiche metodologiche, il punto in cui sembra possano confluire le diverse prospettive sulle Scienze umane in medicina è il riconoscimento della necessità di accogliere due assunti fondamentali che ne definiscono l’utilità: da un lato, il bisogno di riconoscere una visione che possa storicizzare l’arte medica eurooccidentale, cercando di capire come il mondo medico viene a comporsi quale forma distinta di realtà per chi si accinge a immergersi nello studio della medicina; dall’altro, la consapevolezza degli avanzamenti conoscitivi e operativi della biomedicina che, se hanno consentito l’espansione della Sanità Pubblica nella sfera globale determinando un notevole controllo rispetto alle patologie infettive, hanno anche favorito, insieme a processi di altro ordine e grado, il conseguente e progressivo emergere di altre patologie come quelle degenerative, verso le quali i modelli virtuosi di lavoro scientifico sembrano aver perso gran parte del loro mordente. Al contrario e contemporaneamente, cresce la necessità dello studio e dello sviluppo della compliance fra professionista e paziente.
Nel suo celebre studio, La nascita della clinica, Michel Foucault3 riconosce criticamente come il nucleo della biomedicina si fondi su un logos di “visibilità” empirica del corpo e della malattia. La medicina scientifica e la formazione medica basano, secondo questo modello, il loro sguardo sul paradigma empirista che guarda al corpo come a una cosa in un mondo di cose. Segni e sintomi, allora, vengono messi in relazione con la ripetizione della frequenza di malattia. Dunque, decriptati dal significato individuale, segni e sintomi divengono significanti: la patologia assume un significato prestabilito. È quindi evidente quanto il processo di costruzione dell’idea di paziente quale oggetto dell’attenzione medica significa sottoporre lo studente a un lavoro di plasmazione culturale. A partire dalla consapevolezza della necessità di implementare questo lavoro culturale all’interno del percorso formativo biomedico è semplice comprendere l’importanza delle Scienze Umane in Medicina per arrivare, come suggerisce A. Bleakely ,alla dereificazione e de-oggettivazione del paziente. Se dunque è chiaro quanto nei documenti ufficiali della professione medica, sia nazionali che internazionali, da tempo si invochi un’evoluzione della medicina chiamata al compito gravoso ma ineluttabile di conciliare il progresso biomolecolare e lo sviluppo tecnologico con il recupero di una visione della cura e di chi è curato orientata alla complessità, l’approccio metodologico allo sviluppo congiunto di competenze riflessive di sensibilità globale rimane tuttora problematico. Ciò non toglie però che il vasto dominio delle discipline ricomprese negli ambiti delle Scienze Umane in medicina (in letteratura anglosassone, Medical Humanities: storia della medicina, filosofia della medicina, bioetica, antropologia culturale e antropologia medica, museologia medica e della sanità, storia della sanità pubblica, sociologia della medicina, storia della biologia, storia delle neuroscienze, filosofia della biologia, neurofilosofia, pedagogia medica, paleopatologia) ) e dei rispettivi metodi di indagine sembra avere le caratteristiche necessarie a garantire gli esiti di ricerca, di formazione e di applicazione necessari alla sfida. Le scienze umane possono aiutare a focalizzare quali strumenti culturali siano effettivamente utili al medico del futuro, chiamato a fronteggiare sfide importanti: l’aumento crescente delle disuguaglianze in salute4, delle diseguaglianze in relazione al genere, l’epidemia globale delle patologie croniche e la complessità della loro gestione in un contesto di crescente disagio socio-economico, unitamente ai cambiamenti culturali, socio-demografici legati all’invecchiamento della popolazione e a movimenti di popolazione, sono tutti componenti che, ci sembra, contribuiscono a rendere necessaria una riflessione strutturale sui campi di applicazione clinica del concetto di equità in salute. Queste premesse pongono l’urgenza di incentivare e incrementare, nel percorso formativo dei medici e dei professionisti della salute, un approccio interdisciplinare e multidimensionale.
La strada intrapresa dalla Società Italiana di Scienze Umane in Medicina (SISUMed) rispetto alla promozione di un perfezionamento del percorso formativo appare dunque attuale e necessaria: essa prevede la costruzione di esperienze di sviluppo e diffusione di conoscenze avanzate di interesse multie transdisciplinare, finalizzate a ottenere standard educativi sempre più alti e a monitorare costantemente processi di apprendimento che abbiano ricadute concrete nel garantire alle prestazioni sanitarie livelli intellettuali, professionali e etici elevati, a garanzia della comunità medica e dei pazienti che ad essa si affidano.

Bibliografia

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  2. Bleakley A, When I Say… the Medical Humanities in Medical Education. Medical Education 2017;49(10):959-960
  3. Foucault M, Nascita della clinica. Un’archeologia dello sguardo medico. Torino: Einaudi; 1998.

Cita questo articolo

Gazzaniga V., Iorio S., SISUMed: una nuova sfida per le Scienze Umane in medicina, Medicina e Chirurgia, 82, 3666-3667, 2019.

Affiliazione autori

Valentina Gazzaniga – Università Sapienza Roma

Silvia Iorio – Università Sapienza Roma

Analisi Preliminare sulla Survey in corso sullo stato attuale dell’insegnamento delle Medical Humanities nei Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia Italianin.81, 2019, pp. 3620-3621, DOI: 10.4487/medchir2019-81-5

Articolo

In questo articolo è descritta l’analisi preliminare dei dati raccolti ad oggi dalla survey sullo stato attuale dell’insegnamento delle Medical Humanities nei Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia Italiani.

Metodo: Ai presidenti del CdL in Medicina e Chirurgia è stato chiesto di compilare una survey online divisibile, per comodità di analisi, in tre sezioni:
1) Anagrafica, 2) Domande bersaglio e 3) Note personali.
1 – La sezione Anagrafica era composta da tre domande con la finalità di indagare lo stato dell’arte dell’insegnamento delle MH presso l’università di appartenenza e come esse venissero definite a livello di curriculum formativo.
Nello specifico ai Presidenti è stato chiesto: 1) C’è un corso denominato Medical Humanities nel Corso di Studi di Medicina e Chirurgia della sua università di appar-tenenza? (Sì/No); 2) In quali anni/o vengono insegnate le MH? (I-II-III-IV-V-VI) e 3) Quale è il Settore Scientifico Disciplinare (SSD) che insegna prevalentemente le MH? (Risposta aperta).
2- La sezione Domande bersaglio conteneva due domande: 1) Come definiresti le MH? (Risposta aperta) e 2) “Scienze umane in medicina”- Approveresti questa traduzione per la denominazione di un corso? (Sì/No).
3- L’ultima sezione Note personali era costituita da una domanda aperta in cui i Presidenti avevano la possibilità di lasciare propri commenti o opinioni in merito alle MH.

Procedura: Le informazioni quantitative raccolte sono state riportate su un file excel così da poter essere opportunamente sottoposte a revisione critica e analisi statistiche descrittive.

Risultati Preliminari
Dalle analisi condotte sulla sezione Anagrafica della survey online compilata dai Presidenti del CdL in Medicina e Chirurgia sono emersi i seguenti risultati.
Alla domanda “C’è un corso denominato Medical Humanities nel Corso di Studi di Medicina e Chirurgia della sua università di appartenenza?” 15 partecipanti hanno risposto affermativamente mentre gli altri 28 non hanno dato una risposta affermativa.
La seconda domanda della sezione recita “In quale/i anno/i vengono insegnate le MH?” ed è stato possibile per i Presidenti fornire più di una risposta: 27 Presidenti hanno indicato il I anno di Corso, 11 hanno indicato il II anno, in 18 sedi invece le MH sono insegnate al III anno, in 11 corsi al IV, in 14 sono collocate al V, in 12 sedi sono indicate al VI anno ed infine, cinque Presidenti di Sede hanno risposto che in nessun ano di corso è previsto l’insegnamento curriculare delle MH.
L’ultima domanda delle anagrafiche era la richiesta di indicare “Quale è il Settore Scientifico Disciplinare (SSD) insegna prevalentemente le MH?” che permetteva, una risposta aperta: i SSD delle MH si sono configurati come segue:

Nei settori M-PSI è quindi – in modo congruente con le caratteristiche della disciplina e con il senso dei contenuti e dei metodi delle MH – il settore della psicologia clinica maggiormente presente, insieme alla psicologia generale e a quella sociale. E’ interessante che a questa presenza importante della psicologia tra i SSD delle MH non corrisponda una uguale menzione nelle narrative dei Presidenti (vedi art. in questo numero), aprendo la domanda di quanto effettivamente vi sia un trasferimento di informazioni e una reale integrazione tra le discipline che concorrono a costituire l’area delle Medical Humanities.
Nei prossimi numeri della rivista verranno elaborati i questionari completi.

Cita questo articolo

Streppafava M.G., Gazzaniga V., Consorti F., Basili S., Marcucci G., Analisi Preliminare sulla Survey in corso sullo stato attuale dell’insegnamento delle Medical Humanities nei Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia Italiani, Medicina e Chirurgia, 81, 3620-3621, 2019. DOI: 10.4487/medchir2019-81-5

Le Medical Humanities 1.081, 2019, pp.3608-3609

Nei documenti ufficiali della professione medica, sia nazionali (Bianco, 2010) che internazionali (ABIM, 2002) da tempo si invoca un’evoluzione della medicina, chiamata al compito gravoso ma ineluttabile di conciliare il progresso biomolecolare e lo sviluppo tecnologico con il recupero di una visione della cura centrata sulla persona intera. È altresì cruciale che tale rinnovata sensibilità umana si accompagni allo sviluppo di una competenza orientata ai fenomeni di globalizzazione.
Nonostante la dichiarata importanza, l’approccio metodologico allo sviluppo congiunto di competenze riflessive di relazione umana e di sensibilità globale è tuttora problematico.
Il vasto dominio dei metodi indicati come Medical Humanities (MH) sembra avere le caratteristiche necessarie a garantire gli esiti di formazione necessari alle sfide indicate in premessa, ma nonostante l’abbondanza di letteratura internazionale, le MH vengono percepite ancora troppo spesso come un fenomeno di nicchia, un bel divertissement collaterale alla “vera” formazione medica.
La necessità di un insegnamenti di MH nella formazione medica nasce essenzialmente dal fatto che i curricula universitari attuali non sembrano rispondere ancora in modo sufficiente ai bisogni emergenti dalle nuove circostanze con cui possono doversi confrontare oggi i medici e gli altri operatori sociosanitari. Questi possono infatti, con sempre maggiore frequenza, avere in cura pazienti provenienti da altre parti del mondo e appartenenti orizzonti cognitivi e valoriali completamente differenti da quello biomedico, essere coinvolti in ricerche policentriche, essere impiegati in società e organizzazioni internazionali, essere sollecitati a dare un contributo professionale in discussioni su problemi di sviluppo mondiale, sia da un punto di vista professionale che sociale essere sottoposti a pressioni professionali eccessive.
Contemporaneamente a queste considerazioni, da diversi anni il tema delle Medical Humanities applicate alla formazione medica sta trovando largo spazio nella letteratura scientifica internazionale. La multidisciplinarietà che le caratterizza rende esplicita la complessità del dibattito che gravita attorno a un campo così articolato da essere compo-sto dalla filosofia, dall’etica, dalla storia, dalla sociologia, dall’antropologia, dalla psicologia dalla letteratura e dalle arti (Batistatou A 2010). La letteratura internazionale però non sembra apportare sviluppi innovativi sul tema e mostra un atteggiamento compiacente senza produrre analisi costruttive. Le riflessioni che gravitano attorno alle Medical Humanities tendono a porre l’accento sulle criticità del sistema formativo biomedico attuale a cui viene imputato il fenomeno della depersonalizzazione e della reificazione del paziente e della commercializzazione delle professioni mediche.
Molte meno sono le riflessioni e le propo-ste volte a strutturare delle linee guida condivise che possano condurre alla costituzione di programmi formativi adeguati all’interno delle diverse scuole mediche. Tendenzialmente i diversi contributi constatano la quasi impossibilità di misurarne l’impatto e l’efficacia formativa delle MH tramite gli strumenti sino a ora predominanti nell’educazione medica, individuando ostacoli metodologici probabilmente insormontabili a causa della ampia pluralità di possibili confondenti.
Da ciò ne discende una palese criticità nella misurazione dell’impatto formativo, che però non esclude la necessità di una maggiore chiarezza in merito ai fondamenti epistemologici, ai fini, ai metodi e agli strumenti da utilizzare nella formazione degli studenti. Una interessante osservazione di Clayton J. Beker et al del 2017 propone un approccio di valutazione complesso che non utilizzi soltanto una metodologia empirica, numerica e tassonomica ma che possa combinare a essa la raccolta di narrazioni riguardanti l’esperienza individuale vissuta degli studenti di medicina. Oltre queste problematiche metodologiche ciò che sembra far convergere le diverse prospettive riguardanti le MH è il riconoscimento della necessità di accogliere due assunti fondamentali che ne definiscono l’utilità: da un lato, il bisogno di riconoscere una visione che possa storicizzare l’arte medica euro-occidentale cercando cioè di capire come il mondo medico viene a comporsi quale forma distinta di realtà per chi si accinge a immergersi nello studio della medicina; dall’altro, la consapevolezza degli avanzamenti conoscitivi e operativi della biomedicina che se hanno consentito l’espansione della Sanità Pubblica nella sfera globale determinando un notevole controllo rispetto alle patologie infettive hanno anche favorito, insieme a processi di altro ordine e grado, il conseguente e progressivo emergere di altre patologie come quelle degenerative, verso le quali i modelli virtuosi di lavoro scientifico sembrano aver perso gran parte del loro mordente, mentre al contrario cresce la necessità dello studio e dello sviluppo della compliance fra professionista e paziente.
Sembra dunque necessario superare la subordinazione che le MH ricoprono in rapporto alla disciplina biomedicina, troppo spesso costrette in una cornice di intrattenimento e svago per gli studenti. Inoltre, l’aumento cre-scente delle disuguaglianze in salute, delle diseguaglianze in relazione al genere, l’epidemia globale delle patologie croniche e la complessità della loro gestione in un contesto di crescente disagio socio-economico, unitamente ai cambiamenti culturali, socio-demografici legati all’invecchiamento della popolazione e a movimenti di popolazione, sono tutti componenti che contribuiscono a rendere necessaria una riflessione strutturale sui campi di applicazione clinica del concetto di equità in salute. Queste premesse evidenziano la necessità di sviluppare nel percorso formativo dei professionisti della salute un approccio interdisciplinare e multidimensionale volto a creare connessioni fra le riflessioni bioetiche riguardanti il principio di giustizia e la pratica clinica rivolta a soggetti caratterizzati da vulnerabilità sociale. L’opportunità di un ampliamento del percorso formativo dei professionisti della salute è dunque sempre più attuale e prevede la promozione di esperienze di sviluppo e diffusione di conoscenze avanzate di interesse multidisciplinare, finalizzate a ottenere standard educativi sempre più alti e a monitorare costantemente processi di apprendimento che abbiano ricadute concrete sugli standard delle prestazioni sanitarie. L’intento è quello di sviluppare delle sinergie multidisciplinari che connettano l’ottica della sanità pubblica, della bioetica e dell’antropologia al tema delle diseguaglianze in salute, degli stili di vita e della medicina di genere etc.

Formare i medici nel mondo anticon.80, 2018, pp. 3588-3590, DOI: 10.4487/medchir2018-80-4

Articolo

E’ a tutti noi evidente che le modalità con cui oggi viene strutturato il curriculum degli studi medici abbia conseguenze di estrema importanza non solo per la definizione dei profili culturali dei professionisti in formazione, ma per il futuro stesso della medicina e per l’orientamento futuro degli scenari di salute e malattia con cui le gene-razioni a venire dovranno confrontarsi.

Per quanto la medicina sia stata nel mondo antico qualcosa di profondamente dissimile da ciò che essa oggi è per noi, tuttavia anche per epoche antiche il discorso conserva una sua validità: non è possibile comprendere la medicina antica, le sue connotazioni e le sue teorie, le sue pratiche prognostiche e terapeutiche prescindendo dalle modalità in cui gli aspiranti medici venivano formati, dagli strumenti che hanno a disposizione per la loro crescita culturale, dagli orientamenti teorici e pratici che ogni epoca ha immaginato come bagaglio culturale medico da assumere e sviluppare.

Anche limitandoci all’analisi sommaria della medicina razionale (la medicina di stampo ippocratico che, sulla scia delle indicazioni del ma-estro di Kos, limita l’indagine medica al mondo della physis/natura, escludendo dalla causalità di malattia la volontà divina) la questione dell’educazione medica in antico appare molto più complessa e distante da noi di quanto non immaginiamo. La medicina antica è un sapere – o meglio, un insieme di saperi – assai diversi tra loro: frutto di una stratificazione complessa e spesso sincrona di dimensione sapienziale, di sapere iniziatico e di spostamenti sul piano dell’indagine raziona-le sui fenomeni del mondo naturale e del corpo dell’uomo, la medicina si trasmette, per lo più, in modo informale, senza diplomi che attestino il conseguimento delle competenze, senza licenze di esercizio sul territorio né luoghi fisici stabili di riferimento per la trasmissione e l’addestramento; essa è insegnata con modalità itineranti, in conte-sti familiari prima e poi comunque ristretti, oscillando tra una fortissima caratterizzazione pratica iniziale e la via via crescente importanza di un quadro teorico di riferimento, in costante aggiornamento e modificazione. Le modalità di forma-zione del medico non sono state costanti e hanno subito cambiamenti significativi in archi di tempo abbastanza ristretti; molti fattori apparentemente estranei alla medicina hanno condizionato le modalità del suo strutturarsi. Tra questi, l’influenza della Sofistica ha creato figure di maestri professionali che si sono via via sostituiti alla trasmissione del sapere medico in ambito familiare.

Anche testi molto celebri, come il Giuramento di Ippocrate, con il suo dettato deontologico, suggeriscono la necessità di trovare regole di comportamento in grado di reggere un insegnamento in transizione dal piano della trasmissione iniziatica e familiare a quello pubblico, aperto a chiunque desideri apprendere l’arte. Il pubblico a cui si indirizzano gli insegnamenti è variegato: tra gli stessi libri attribuiti a Ippocrate, alcuni sembrano evidentemente essere stati concepiti per formare studenti, altri sembrano destinati a colleghi, pazienti e – cosa per noi bizzarra – anche a un va-sto pubblico ‘laico’, per cui la medicina è uno dei molti orizzonti possibili di crescita culturale.

Dunque, siamo di fronte a una medicina priva di luoghi fisici di trasmissione, culturalmente pervasiva e destinata a un pubblico eterogeneo (basti pensare a quanti riflessi delle teorie mediche ippocratiche si leggono nella descrizione della pe-ste di Atene di Tucidide, ai legami attestati e studiati tra la tragedia greca e il mondo intellettuale di Ippocrate, o allo sforzo di alcuni testi medici e filosofici di formare un ‘paziente competente’); un sapere in movimento, al seguito del maestro prescelto, da una città all’altra e spesso, per le vi-vaci dinamiche di movimento che caratterizzanole culture antiche del Mediterraneo, da un paese all’altro. Ippocrate è un viaggiatore, e così Teofrasto, Erasistrato, Galeno e molti altri, il cui training è caratterizzato da brevi o lunghe permanenze in città diverse, al seguito di uno o più maestri dalla cui abilità e fama dipende il futuro degli allievi, il loro buon nome e il successo professionale. La mobilità della formazione medica ha importanti ricadute anche sugli usi e sulle pratiche di cura: basti pensare a quanto la farmacologia antica si giova, nel tempo, dell’utilizzo di piante e sostanze che arrivano da tutto il bacino del Mediterraneo e, non di rado, anche da molto più lontano (dalla Siria, dal vicino Oriente antico, dall’India).

Per quanto riguarda la formalizzazione degli studi, non disponiamo di alcuna evidenza che attesti che venisse concessa licenza, diploma o altro tipo di riconoscimento ufficiale al termine di un periodo di formazione. Quest’ultimo, del resto, può avere estensione temporale molto variabile: da pochi mesi a molti anni, come ci ricorda Galeno – mettendo in guardia i pazienti dal rivolgersi a medici che si siamo formati in appena sei mesi. Nessun medico antico, inoltre, ha usato il Giuramento di Ippocrate per sancire la fine del percorso di studi: la riscoperta del testo e la sua lettura pubblica è pratica in uso da tempi molto più recenti, in contesti universitari consolidati.

Spesso anche altri medici colti mettono in guardia i pazienti dai pericoli dell’improvvisazione o dell’amore, molto diffuso soprattutto in epoca imperiale, per il saper strabiliare la platea di pazienti e colleghi (per esempio, con fascia-ture complicatissime, di gran moda nella Roma imperiale): l’abilità retorica, anche se può essere utilizzata per ottenere aderenza del paziente alle prescrizioni, non equivale sempre a reale competenza. La formazione non deve essere conseguita attraverso un training continuo e, anzi, può essere caratterizzata da cronologie anche molto distanziate.

Non è documentata una selezione a priori degli ‘studenti ideali’: ma alcuni prerequisiti (più morali che culturali) possono essere richiesti, come ci ricorda Celso nel tratteggiare la figura del chirurgo ideale, o Sorano di Efeso quando, nel suo Trattato sulle malattie delle donne, dipinge l’ostetrica per-fetta: giovane età, forza fisica, coraggio, resistenza agli stress emotivi e mano salda in un caso; cultura, buon temperamento, memoria, amore per la professione nell’altro.

Quanto al curriculum, anche questo è fluido e eclettico, nel mondo greco e a Roma; improntato, come si è detto, a una importante formazione re-torica per convincere il paziente a affrontare tutti i faticosi percorsi di cura – ma anche per essere in grado di pubblicizzare la propria arte, al fine di guadagnare clientela in un ‘medical marketplace’ variegato e ricco di offerte di livello differente – prevede competenza matematica, necessaria per valutare e computare i giorni fausti e infausti, sui quali si fonda la formulazione della prognosi e la preparazione delle ricette; conoscenza della geometria, per comprendere l’estensione del corpo; comprensione dell’ astrologia, per spiegare gli in-flussi della natura su salute e malattia; in logica, per impostare il ragionamento clinico; in etica e etichetta, per essere medico moralmente adeguato – quod optimus medicus sit quoque philosophus, come titola una celebre opera di Galeno. Una formazione globale, del tutto priva della percezione della distinzione tra scienze e umanesimo, tesa a leggere arte e letteratura come strumenti per affermare la superiorità della formazione medica rispetto alle altre discipline scientifiche.

In questa formazione totale, ha ruolo centrale ciò che oggi chiameremmo ‘bedside teaching’: Galeno ricorda al lettore come il vero luogo dell’insegnamento sia la stanza dell’ammalato, dove si apprende a fare, ma soprattutto a compiere delicate operazioni intellettuali che costituiscono il nucleo dell’approccio clinico- vedere, ascoltare, percepire, paragonare, prescegliere, prevedere.

Via via che la medicina diventa professione, chi la studia si dota anche di strumenti e supporti materiali di trasmissione del sapere, formalizzando modelli di insegnamento e nuclei concettuali di riferimento per la spiegazione dei fenomenidel corpo sano ed ammalato: trattati e ‘definitiones’ (cioè elenchi esplicativi di segni, malattie e concetti, dizionari allargati di facile immediato utilizzo nella pratica), lettere private tra colleghi di discussione clinica e farmacologica, testi a domande e risposte per facilitare l’apprendimento, ricettari e sintesi agili stese sul modello degli Aforismi ippocratici, vaste enciclopedie, sinossi e commenti alle opere di maestri più antichi. Attraverso questi materiali, la medicina dell’antichità classica consegna se stessa al medioevo arabo e poi occidentale e, di lì, alle università.

[Bibliografia]

Horstmanshoff M., Hippocrates and Medical Edu-cation. Selected Papers at the XIIth International Hippocrates Colloquium, Universiteit Leide, 24-26 August 2005. Brill, Leiden-Boston, 2010.

M. Vegetti, Le origini dell’insegnamento medico, in Medical Teaching: Historical, Pedagogical and Epistemological Issues «Medicina nei secoli» 16, n. 2 (2004), pp. 237-251.

[Tab:Cita questo articolo]

Gazzaniga V., Formare i medici nel mondo antico, Medicina e Chirurgia, 80: 3588-3590, 2018. DOI: 10.4487/medchir2018-80-4

Storia e medicina di generen.78, 2018, pp. 3503-3505, DOI: 10.4487/medchir2018-78-5

Articolo

La salute non è un campo neutrale. Il concetto di diversità, declinato sui temi del sesso e del genere, è uno degli strumenti della riflessione clinica, ma anche di quella bioetica – quando discute, in particolare, del principio di uguaglianza. Il tema ha una storia medica recente. Proviamo rapidamente, attraverso un riesame della letteratura, a verificare se, in prospettiva storica, questa affermazione di ‘contemporaneità’ sia effettivamente condivisibile.

Il concetto di genere ha fornito significativi risultati alla ricerca storica negli ultimi venti anni su temi che riguardano il rapporto tra concezione del corpo femminile, l’evoluzione del concetto di malattia e di salute, le variabili ambientali e socio-culturali che hanno storicamente prodotto o modificato comportamenti legati alle differenze di sesso, il ruolo stesso delle donne nella storia della medicina. Prospettive anche cronologiche diverse sono state affrontate per rispondere a domande su come si sia prodotta una competenza medica sul corpo delle donne, e su come essa sia stata tramandata e modificata in contesti diversi1. Ogni domanda posta per epoche storiche e contesti diversi ha dimostrato di essere strettamente connessa ad altre, in una tessitura della quale non è semplice sciogliere i nodi. Come è stato concettualizzato il corpo delle donne; come il suo funzionamento; quali competenze si sono esercitate su questo “corpo segreto”; quali sono le tappe nodali che vanno analizzate per comprendere come si sia generata l’idea di una ‘diversità’ femminile; e, infine, come e se questa idea abbia influenzato la pratica medica. Molte le difficoltà: in primis, la voce delle donne, pressoché inesistente nei documenti fino ad epoche recenti. La medicina, in particolare, è un territorio paludoso, dove le donne sono assenti o, se presenti, con ruoli marginali e non facilmente ricostruibili. Su un arco cronologico esteso più di qualsiasi altra scienza, la medicina, la biologia e la filosofia naturale hanno assunto posizioni molto diversificate, anche all’interno di epoche e culture coerenti: lavori come quelli di Joan Cadden hanno messo in luce che, anche solo nell’ ambito dell’antico, esiste una diversità molto notevole tra le posizioni assunte dagli autori di opere mediche e biologiche in tema di salute femminile, fisiologia e concettualizzazione sessuale2; e questa molteplicità di punti di vista trascina la sua eredità almeno sino alle soglie dell’epoca contemporanea.

In secondo luogo, pesa il fatto evidente che in ogni epoca storica le conoscenze anatomiche, fisiologiche e patologiche non possono essere scisse dal panorama culturale nel quale si collocano – con la conseguenza che ogni concettualizzazione del corpo è in qualche modo “gendered”, inscindibile dalla tessitura sociale e dai ruoli imposti nelle società che la produce. Può essere, pertanto, difficile ‘isolare’ e ricostruire qualcosa che, soprattutto a un pubblico medico, possa essere presentato come una ‘storia della medicina di genere’. 

Un dibattito storiografico

Il dibattito storico, già avviato negli anni ‘80 del Novecento, si fa più si fa intenso a partire dal 1990, anno di pubblicazione del libro di Thomas Laqueur, Making Sex. Body and Gender from the Greeks to Freud3. Per Laqueur, tutta la tradizione medica occidentale è stata occupata in modo pervasivo da un “one sex-model”, in cui l’anatomia femminile è la semplice inversione del maschile. Questo modello (maschile/paradigma; femminile/ devianza), sarebbe derivato da un’elaborazione della concettualizzazione aristotelica del femminile come versione dimensione diminuita, fredda ed incompleta del maschile: la donna, ferma a uno stato intermedio sin dal momento dell’embriogenesi, è un mostro – necessario alla riproduzione della specie, ma pur sempre teras4.

Questo modello sarebbe stato traghettato attraverso Galeno al Medioevo e all’Età moderna: tanto la tradizione di iconografia anatomica (cfr. le tavole anatomiche in Andrea Vesalio De Humani corporis fabrica, in cui gli organi riproduttivi femminili richiamano, introiettati, quelli del maschio), quanto un dibattito di Evo moderno sull’ esistenza di uomini ‘mestruanti’ testimonierebbero per la correttezza della tesi proposta da Laqueur. Il modello ‘one sex’ sarebbe stato soppiantato da un modello di diversità solo a partire dal 1700, quando l’Occidente medico avrebbe intrapreso un dibattito sulle differenza sessuali e, conseguentemente, avrebbe introdotto nuove modalità di relazione sociale basate sull’idea del dimorfismo biologico.

La posizione di Laqueur è stata appoggiata da L.

Schiebinger5 che, analizzando una serie di trattati anatomici pubblicati in Europa in ambiti diversi a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, sostiene che sia stato solo il secolo dei Lumi a definire il corpo nelle sue differenze sessuali.

Testi come quello di E. Th. Moreau, J. Ackermann6, o illustrazioni come quelle di G.-Ch.Thiroux d’Arconville e S. Th. von Soemmering, pubblicati tra metà e fine del Settecento, hanno in questa prospettiva lo scopo di estendere l’indagine delle differenze sessuali dagli organi riproduttivi all’intero corpo, a partire dallo scheletro, che ne costituirebbe fondamento e impalcatura. Trovare differenze nelle ossa significherebbe, per un nutrito gruppo di autori che lavorano tra il 1730 e il 1790 in Francia, Germania ed Inghilterra, postulare l’estensione di queste differenze a tutto il corpo, dagli organi alla pelle, e sancire l’idea di disuguaglianza su base ‘scientifica’, in accordo con la legge naturale che assegna alle donne il solo ruolo di madri. Insomma, questi testi, che sembrerebbero archiviare definitivamente l’idea di una ‘imperfezione’ del corpo femminile, utilizzano invece proprio il concetto di perfezione del progetto naturale per inchiodare le donne in un ambito sociale e culturale estremamente ristretto. Il dibattito settecentesco (in realtà, già la medicina seicentesca aveva intrapreso una discussione medico-legale sulla possibilità che la diversità femminile si potesse esprimere attraverso un odore differente del sangue, che ne avrebbe testimoniato differente composizione chimica) viene ripreso e armonizzato, in tal senso, nel corso dell’Ottocento, da una nuova ‘medicina evoluzionistica’: nel 1820, John Barclay, nel cercare una mediazione tra le rappresentazioni anatomiche di d’Arconville (le donne hanno crani piccoli, costole strette e pelvi allargate) e von Soemmering (minori disparità tra scheletro maschile e femminile, soprattutto in relazione alle misure del cranio, che nelle donne è più largo in proporzione e più pesante), sostiene che le proporzioni maggiori del cranio femminile non siano da ricollegare in alcun modo a una maggiore intelligenza (come sostenuto da Gall), ma semplicemente a uno stadio interrotto dell’evoluzione, in cui le donne hanno arrestato la crescita, essendo di fatto simili alla struttura anatomica dei bambini o a quella di determinate popolazioni ‘primitive’.

Alle tesi proposte da Laquer e Schiebingen ha risposto, in prima istanza, M. Stolberg, che ha sostenuto che l’origine di un dibattito anatomico e scientifico sulla diversità di costruzione e funzionamento del corpo femminile debba essere fatta risalire più indietro, al Rinascimento.

Le sue tesi hanno raccolto un grande consenso tra studiosi che, a partire da un celebre convegno a Harvard nel 20067, hanno protestato il fatto che il modello ‘one sex’ abbia semplicemente rappresentato uno solo dei modi in cui la medicina e la biologia hanno affrontato il dibattito sulla natura della diversità del femminile.

Possiamo selezionare due esempi storici per illustrare l’inadattabilità del modello laqueriano all’intera medicina occidentale: da un lato l’antico, a partire dal mito esiodeo di Pandora fino ai testi ippocratici sulle malattie delle donne, in cui il corpo femminile è rappresentato come diversità pervasiva, che non si limita a colpire gli organi della riproduzione, ma è fondata su una alterità strutturale (le carni femminili, di tessitura porosa, trattengono umido) che codifica per una diversità anatomica, fisiopatologica e temporale.

Nei testi ippocratici questa diversità innata (che non dipende da un difetto: in CH sono predicati due semi, due contribuzioni diverse e ugualmente necessarie alla generazione) produce la conseguenza che le donne non possono essere medicalmente trattate come gli uomini.

Hanno bisogno di una terapia ad hoc, fatta di sostanze mai testimoniate come componenti di farmaci destinati all’uso sugli uomini. Ora, se è vero che queste richiamano quasi sempre il mito di un femminile fecondo (Afrodite, Era) o guerriero (Artemide, le Amazzoni), è altrettanto vero che esiste una farmacopea del femminile, alla cui costruzione devono aver contribuito direttamente anche le stesse donne greche8.

A questo modello, soprattutto durante il Medievo, si affianca il modello ‘one sex’ , la cui fortuna appare in larga parte dipendente dalla tradizione scolastica aristotelica.

Dal Cinquecento, invece, la riscoperta e la pubblicazione dei testi medici antichi dedicati alle malattie delle donne apre una nuova stagione di interesse sulle modalità di funzionamento (e non funzionamento) dei corpi femminili. I titoli di queste opere rinascimentali spesso ingannano: il ricorso al classico titolo Gynaekia (parola di per se multisignificante, che copre le sfere della mestruazione, della riproduzione e del parto, dell’isteria e dei disturbi correlati, del trattamento farmacologico delle donne), cela spesso opere collettanee, raccolte di estratti da testi non ginecologici, selezionati nelle sole parti che trattano dei disturbi del femminile. Gianna Pomata9 ci ha mostrato, d’altro canto, che anche nelle Curationes e Observationes di età moderna (raccolte di casi clinici), le pazienti donne sono numerose, e che nella quasi totalità dei casi i disturbi che i medici ritengono interessanti non riguardano affatto gli organi della riproduzione. In tutti questi testi, che si ispirano all’idea di diversità ippocratica, le donne hanno manifestazioni diverse delle stesse patologie che colpiscono gli uomini: diverse manifestazioni delle affezioni polmonari, diverse manifestazioni del morbo gallico. Diversi sono, di conseguenza, i trattamenti applicati (come lo erano nella medicina ippocratica, del resto: un solo esempio, quello del salasso, quasi mai prescritto in antico alle donne, che sono purificate attraverso il ciclo mestruale).

Il medico spagnolo Luis Mercado si meraviglia di come non sia evidente che persone che hanno stili di vita e condizioni di salute diverse debbono essere trattare con la consapevolezza che le manifestazioni delle malattie saranno in loro peculiarmente connesse alle diverse condizioni che li caratterizzano.

Il dibattito avrà echi importanti ancora alla fine del Settecento: per esempio, nella questione dell’”anatomizzazione” dell’isteria, che una tradizione tardo seicentesca, ancora viva e attestata in Morgagni, interpreta non come una malattia legata all’utero in sé , ma ad alterazione degli impulsi dei nervi trasmessi in date parti anatomiche: con la conseguenza che ciò che nelle donne è l’isteria negli uomini diventa affezione ipocondriaca, alterazione del funzionamento degli ipocondri – che ha le stesse cause della malattia nelle donne, ma peculiari manifestazioni cliniche a seconda del sesso e del genere.

In conclusione

La medicina da sempre ha avuto interesse a discutere del dimorfismo sessuale, della natura delle donne, della fisiologia e patologia della diversità. Rimane da chiedersi perché in certi momenti storici lo studio scientifico delle differenze ha assunto centralità, diventando in altri momenti (fine Settecento-Ottocento) una vera priorità. Ciò è ovviamente da ascriversi al fatto che la medicina è cultura specialistica centrale in ogni epoca storica e in ogni contesto: costruisce e decostruisce immagini del corpo necessarie a prescrivere ruoli sociali diversi, talvolta subalterni, talvolta complementari. Si è sempre prestata alla costruzione di un concetto di genere; nel mondo antico, postulare la diversità strutturale e fisiopatologica serve a indicare un ruolo apparentemente fondamentale per la polis, la generazione del futuro cittadino. Nella realtà storica, è noto invece che, a parte casi eccezionali, le donne rivestono ruoli solo là dove gli uomini non entrano- nel gineceo, nella stanza dove si nasce o si muore, nelle dimensioni riservate del rito.

Nel Rinascimento, se pur attraverso la riscoperta dei testi ippocratici, le cose cambiano: la Riforma introduce un dibattito teologico e sociale sul ruolo dei generi nel matrimonio; l’opposizione alla scolastica impone alla dottrina medica di cercare modelli alternativi alla fisiopatologia della mutilazione e della minoranza di matrice aristotelica; le donne di classe sociale elevata guadagnano ruoli nelle corti come patrone degli intellettuali e degli artisti. La medicina non è indifferente a questo mutamento di prospettiva: nuovi ruoli femminili impongono maggiore attenzione a nuove pazienti e cure di efficacia per i loro malanni. La medicina dotta deve, inoltre, riguadagnare un’utenza tradizionalmente in mano alle maie-ostetriche. In questo senso, costruire una teoria del funzionamento peculiare del corpo femminile significa indicare che la necessità di particolare competenza, da parte di uomini che abbiano studiato per essere in grado di trattare condizioni fisiopatologiche peculiari con mezzi terapeutici adeguati.

L’apparente cambio di rotta nei testi anatomici e medici tra Settecento e Ottocento non deve, infine, trarre in inganno. Si tratta solo dello sforzo congiunto di filosofia, medicina e politica di tratteggiare una ‘legge naturale’ che indichi le donne come diversità irriducibile- inadeguata a funzioni socio culturali che siano altro rispetto alla maternità e alla cura dei figli.

La costruzione medica di una diversità anatomica, fisiopatologica e terapeutica continua a servire il compito antico: predicare la necessità della rinuncia alla vita attiva e confinare le donne nel recinto della naturalità, lasciando agli uomini costruzione culturale e progettazione politica del vivere sociale.

Attualmente è proprio la necessità di particolare competenza, da parte di uomini e donne che abbiano studiato, che viene richiesta al fine di riconoscere, trattare adeguatamente e prevenire nel genere femminile condizioni patologiche che, pur essendo simili, possono avere come substrato condizioni fisiopatologiche peculiari e/ o espressione sintomatologica diversa.

Bibliografia

1 M. Green, Gendering the History of Women’s Healthcare. Gender and History 2008; 20,3: 487-518. V. Andò, Ancient Greece and Gender Studies, in Greek Science in the Long Run: Essays on the Greek Scientific Tradition(4th. c. BCE-17th c. CE), Cambridge Scholars Publishing, 2012, pp. 27-52.

2 J. Cadden, Meanings of Sex Difference in the Middle Age: Medicine, Science and Culture. Cambridege University Press, 1993.

3 T. Laqueur, Making sex. Body and gender to the Greeks to Freud. Harvard University Press, 1990.

4 Aristotele, De gen. anim. 775a, 15-16 5 L. Schiebinger, Skeletons in the closet. The first illustrations of the Female Skeletons in Eighteenth-Century Anatomy. Representation 1986;14: 42-82 6 E. T. Moreau, A medical Question: Wheter Apart from genitalia There is a Difference Between the Sexes? Paris, 1750.

7 “Remaking Sex in Classical, Medieval and Early Modern Medicine,” Radcliffe Institute for Advanced Study, Harvard University , June 2006. Stolberg M., A women down to her bones. The anatomy of sexual differences in the sixteenth and early seventeenth centuries.Isis 2003; Jun 94 (2): 274-99

8 V. Andò, Terapie ginecologiche, saperi femminili e specificità di genere, in Aspetti della terapia nel Corpus hippocraticum, Olschki,Firenze 1999, pp. 255-270.

9 G. Pomata, Was there a Querelle des femmes in Early Modern medicine? Arenal 2013; 20,2: 313-341.

Cita questo articolo

Gazzaniga V., Basili S., Sciomer S., Storia e medicina di genere, Medicina e Chirurgia, 78: 3503-3505, 2018. DOI: 10.4487/medchir2018-78-5

Università e disabilitàn.69, 2016, pp. 3127-3132, DOI: 10.4487/medchir2016-69-3

Abstract

According to the most recent conceptual models, disability is a ‘diversity condition’; its recognition is a tool of social and cultural enrichment. Its normative re-definition had important consequences in University organization models.  This article briefly presents Sapienza’s experience, comparing it with that of a sample of Italian Universities and proposing possible integration of Medical curricula.

Articolo

  1. Evoluzioni recenti del concetto di disabilità; aspetti di rilevanza per l’ambito lavorativo e universitario

E’ ben noto come, per secoli, le strutture sociali del mondo occidentale siano state pensate in relazione alle caratteristiche fisiche di una maggioranza di ‘corpi’, percepiti come normali.

In un lunghissimo arco di tempo, sono stati prodotti diversi modelli concettuali che hanno tentato di discutere il concetto di norma e quelli di diversità, disabilità e mancanza, spostandosi variamente dal piano religioso a quelli medico, genetico e sociale; su di essi si fondano le nostre risposte culturali e organizzative al mondo della disabilità1. A partire dagli anni Settanta del Novecento, il progressivo abbandono del modello medico e assistenziale attraverso cui, sin dall’Ottocento, le società occidentali si erano andate relazionando con i portatori di deficit di varia natura2 ha condotto al prevalere di un’idea ‘sociale’ della disabilità; Di conseguenza, la misura della disabilità sarebbe da vedersi, principalmente, negli ostacoli architettonici e sociali che i gruppi sociali costruiscono o non contribuiscono ad abbattere, favorendo in questo modo l’isolamento fisico ed intellettuale di un gruppo numeroso di individui, mentre la diversità sociale dovrebbe intendersi tutte quelle differenze che possono modificare i rapporti all’interno di un gruppo.

Abbandonato o marginalizzato il determinismo medico con cui si era guardato a lungo al ‘problema disabilità’, dunque, la necessità diventava quella di proporre un nuovo modello interpretativo, in grado di fornire strumenti per la costruzione, a vari livelli, di pari opportunità nella vita quotidiana, nel lavoro, nell’istruzione e nella relazionalità in genere. Il modello bio-psico-sociale, che consegue a questo assunto, presuppone l’idea delle ‘differenze funzionali’ che caratterizzano il portatore di disabilità; tali differenze debbono permanere, per l’appunto, tali, senza degradarsi in condizioni di marginalità e non partecipazione3. Tale modello è espresso, già nel 2001, nell’ICF, documento prodotto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, in cui la disabilità è indicata come il prodotto dell’interazione di fattori diversi, alcuni legati ovviamente alla specificità delle dimensioni patologiche, altri invece determinati dall’incontro tra fattori individuali e condizioni ambientali e sociali4. In studi condotti su vari gruppi sociali caratterizzati dalla presenza di diversità è stata osservata la possibilità di una maggiore qualità della produzione, oltre all’espressione di una maggiore creatività e capacità decisionale di gruppo. In generale, la cultura dell’integrazione va ad arricchire l’insieme di esperienze e prospettive che caratterizzano un ambiente di lavoro produttivo, mettendo in gioco  le abilità e le capacità che ogni essere umano possiede5.

Una cultura di integrazione si caratterizza nel mettere in luce tutti questi potenziali benefici che scaturiscono dalla presenza di differenze individuali, favorendo lo scambio inter-gruppo.

Il mancato riconoscimento delle persone disabili come parte descrive i tratti di una cultura di esclusione che mal si accorda con la tutela dei diritti e la garanzia della libertà.

L’idea che il disabile sia tale in quanto l’ambiente non è in grado di fornirgli mezzi adeguati al disvelamento delle sue capacità impone, ovviamente, anche ai contesti educativi la necessità di ridurre progressivamente e abbattere “ogni barriera che impedisca la piena valorizzazione delle realtà presenti nel tessuto sociale”6. In modo concreto, l’adozione di un modello fondato sul concetto di uguaglianza e di empowerment delle persone con disabilità ha comportato la possibilità di un accesso equo alla distribuzione e condivisione dei saperi7, senza ovviamente che questo comporti alcuna variazione delle regole dell’istituzione universitaria stessa8, ma  prevedendo l’onere di abbattimento delle barriere e degli ostacoli, non solo fisici9.  A tal fine, l’ICF sottolinea l’importanza della figura e del ruolo del facilitatore al fine di ridurne l’impatto negativo su portatori di disabilità di varia natura.

Nella Convenzione Internazionale sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dall’ONU nel 200710, si sposta definitivamente il discorso sul piano dei diritti umani, tra i quali va incluso un generale ‘diritto alla diversità’, a cui a buon diritto fa riferimento l’universo della disabilità. Il forte portato di innovazione che, in anni recenti, ha segnato il prevalere del concetto di inclusione è, dunque, quello di non concettualizzare il disabile come bisognoso di un trattamento eccezionale11: egli è solo un individuo a pieno diritto partecipe della vita sociale del gruppo di riferimento, di cui condivide diritti, doveri e opportunità.

E’ evidente come, all’interno di questa prospettiva, l’università sia uno dei principali attori a essere chiamato in causa. Proprio al fine di limitare situazioni di disagio, l’università si impegna a diffondere una cultura di condivisione, che promuova nella comunità docenti-studenti la condivisione di progetti centrati sull’ inclusività12. Infatti va ricordato che al fine di valutare l’impatto della disabilità nella società del lavoro, in uno studio effettuato dalla National Institute on Disability and Rehabilitation Research (NIDRR) insieme all’università di Harvard sulle piu’ importanti compagnie industriali leaders nei rispettivi settori dell’economia, è stato evidenziato che, sebbene queste società adempiano ad obblighi di legge adottando una politica di supporto e tutela della diversità  in ambito lavorativo (diversity policies), tuttavia nelle loro definizioni/statement di diversità solo in meno della metà dei casi (42%) si cita tra queste la disabilità. In aggiunta, le poche compagnie industriali che, invece, sotto l’ombrello della diversità comprendono la disabilità e che mostrano policies standardizzate secondo i principi di legge e pari opportunità, non esprimono reale impegno nell’assumere le persone con disabilità; ciò pur confermandosi l’attenzione nel  promuovere la tolleranza nell’ambiente lavorativo13.

Infine, va ricordata anche la intervenuta riqualificazione ‘lessicale’ dei termini utilizzabili per indicare i disabili (da invalido a diversamente abile, con tutta una serie intermedia di variazioni). Le ambiguità terminologiche sembrano essere state affrontate e almeno parzialmente risolte nel 2006: un documento del CNB (“Bioetica e riabilitazione”) suggerisce che il termine prescelto debba essere quello di “persona con disabilità”, laddove il “con” non segnala una qualificazione assoluta dell’individuo, ma una qualità conseguita che lo rende non abile proprio in relazione ai contesti fisici, ambientali e culturali con cui interagisce14.

  1. Riflessioni sulla ridefinizione del concetto di disabilità: giurisprudenza, linee guida e diritto allo studio

E’ solo dal 1992 che l’Italia si dota di una normativa organica in merito alla tutela della disabilità, con la legge quadro 5 febbraio 1992 per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, nota con il nome di Legge 104.

Il diverso grado di disabilità, che condiziona le possibilità di inserimento all’interno del contesto universitario, impone la programmazione di una serie di interventi, atti nello stesso tempo a garantire il più possibile l’autonomia degli studenti e la realizzazione di tutti quegli interventi didattici e assistenziali che garantiscano ai  disabili il maggior benessere possibile, riducendo al massimo i disagi prettamente personali, ma anche quelli che coinvolgono i contesti di provenienza – le famiglie.

I successivi sviluppi normativi e di riflessione etica in Italia costituiscono un miglioramento anche in relazione alle trasformazioni sociali e tecnologiche e alle evoluzioni filosofiche, mediche e culturali che investono a livello internazionale il concetto stesso di disabilità.

Sette anni più tardi, la Legge 28 febbraio 1999, n.17 introduce direttive per gli Atenei italiani rispetto alle attività che devono essere svolte e ai servizi che devono essere erogati per favorire l’integrazione degli studenti con disabilità. Al fine la Legge prevede l’assegnazione di una quota del Fondo Finanziario Ordinario e la nomina di un delegato del Rettore alla Disabilità con funzioni di coordinamento, monitoraggio e supporto di tutte le iniziative concernenti l’integrazione degli studenti con disabilità nell’ambito dell’ateneo.

Nel 2001 nasce la Conferenza Nazionale dei Delegati per la Disabilità (CNUDD), – con cui la CRUI collabora dall’anno successivo – che promulga nel 2014 le Line Guida atte ad indirizzare le politiche d’Ateneo verso una migliore qualificazione del diritto allo studio.

Il 9 gennaio 2004 viene approvata la Legge n.4, ‘Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici’, mentre nell’ottobre 2010, la legge n. 170 introduce “Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico” e le relative Linee Guida. I principi ispiratori delle line guida nascono dal presupposto che la conoscenza, la cultura superiore e la partecipazione alla ricerca favoriscano il pieno sviluppo umano, l’ingresso nel mondo del lavoro e la realizzazione della libertà, intesa come opportunità di concretizzare le aspirazioni personali. Considerando la disabilità come una dimensione di diversità si possono valutare/riconoscere le reazioni da parte dell’ambiente nei confronti dei disabili anche in funzione delle diverse organizzazioni culturali, comprese quelle scolastico-universitariei che dovrebbero essere fondate su una culture of unity, in cui maggiore è l’obiettivo comune minori risultano le differenze tra i costituenti del gruppo lavorativo.

L’impegno pertanto è di promuovere e sostenere l’accesso all’Università, alla formazione e all’apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Per queste ragioni, il perseguimento delle finalità e degli obiettivi deve essere valorizzato dalla cooperazione all’interno del sistema universitario e sostenuto dalla attivazione di reti e collaborazioni con altri istituti di formazione e ricerca, – il sistema scolastico e gli enti territoriali – a livello non solo nazionale.

La disinformazione e la scarsa attitudine verso le persone disabili sono elementi di una cultura poco inclusiva, cui consegue il basso tasso di impiego lavorativo. I corsi dedicati alla diversità rappresentano interventi sociali e culturali molto efficaci per il miglioramento della conoscenza e delle relazioni all’interno dei gruppi con le persone disabili, con notevole riduzione dei pregiudizi sociali.

  1. Sapienza risponde…

Dalla necessaria applicazione del dettato costituzionale e di leggeii, ma anche dalla consapevolezza condivisa che l’università deve essere concepita come uno dei luoghi principe che consente l’esternazione di talenti e capacità individuali scaturisce il coinvolgimento di Sapienza, come delle altre università italiane, nella predisposizione di sistemi organizzativi atti a concretizzare il concetto di inclusività e a favorire l’affermazione del ‘diritto alla diversità’ anche nei settori della formazione.

Nel 2004, il Senato Accademico della Sapienza Università di Roma approva il Regolamento per i servizi in favore degli studenti disabili. Il Regolamento assicura la fruibilità delle strutture, servizi e prestazioni per garantire la libertà e la dignità personale, realizzare un’uguaglianza di trattamento e rispettare la specificità delle esigenze dello studente; promuove, infine, la partecipazione attiva in ambito universitario e sociale, favorendo così l’iter formativo ed impedendo i possibili fenomeni di emarginazione.

Esso è articolato in 18 articoli che stabiliscono la carta dei servizi, la struttura organizzativa, le modalità di accesso ai servizi e alle attività e l’aspetto finanziario e contabile degli stessi. Particolare interesse (Titolo I Art.6) viene posto sulla rilevazione del grado di soddisfazione dei destinatari delle attività e dei servizi.

Promuovere l’accesso all’apprendimento e alla formazione, nonché sensibilizzare sulla pari opportunità del diritto allo studio inserendo alla pari gli studenti diversamente abili e con disabilità/DSA, non solo è un mandato delle università, ma anche un mezzo per accrescere la qualità dell’istituzione.

Per questa ragione si è ritenuto necessario che ogni Ateneo si doti di una struttura specifica di servizi alla disabilità/DSA, coordinata da un Delegato del Rettore, coadiuvato da Referenti di Facoltà e/o delle altre strutture organizzative.

Il Delegato è un riferimento cardine, nella misura in cui, se da una parte favorisce l’integrazione, risolve le complesse problematiche presentate dalla disabilità e orienta le politiche dell’ateneo in materia di disabilità, dall’altra è il referente universitario per tutte le istituzioni, le strutture, gli enti extrauniversitari che si occupano di disabilità.

Compiti del Delegato sono la sensibilizzazione al tema della disabilità a qualsiasi livello dell’istituzione (Consiglio di Facoltà, Dipartimento, Scuola, ecc.), il coordinamento e la verifica funzionale di tutte le strutture coinvolte, la mediazione tra lo studente disabile e gli organismi didattici durante tutto il percorso formativo. Compito del Referente, invece, è stimolare la partecipazione attiva dello studente disabile, indirizzando questo verso i servizi di tutorato specializzato, offrendo collaborazione alla soluzione di eventuali problematiche logistico-organizzative, diffondendo le informazioni specifiche all’interno della propria Facoltà.

Il Servizio Disabilità di Ateneo (SDDA), istituito dal Regolamento suddetto e già presente in moltissimi altri atenei italiani, essendo il primo riferimento, ha in primis compito di accoglienza. Funge da interfaccia, quando necessario, con le famiglie e con i servizi territoriali e accompagna lo studente, in collaborazione con il Tutor ed il Referente di Facoltà attraverso tutto l’iter formativo. Queste figure, a più livelli, non operano in sostituzione dello studente, ma, fin dove possibile, lo stimolano ad una crescente autonomia, alla partecipazione attiva al processo formativo e all’integrazione in ambito accademico, pure stabilendo programmi personalizzati a seconda degli specifici bisogni e delle esigenze formative di ciascuno.

L’affiancamento del SDDA allo studente che abbia adeguati requisiti, nasce ancor prima del momento di ingresso nell’università, attraverso la progettazione di percorsi d’orientamento in ingresso che dovrebbero rendere più fluido il passaggio.  In modo analogo, esso non termina con il conseguimento della laurea, ma è programmato per progettare, in sintonia con l’ufficio di Job Placement dell’Ateneo, tutti gli interventi possibili finalizzati alla agevolazione dell’inserimento nel mondo del lavoro.

L’attività del Servizio, inoltre, si spende in collaborazione con gli uffici tecnici di Ateneo nel censimento e nella segnalazione delle criticità ambientali per il loro superamento;  nella mappatura dell’accessibilità degli edifici universitari per l’abbattimento delle barriere architettoniche; nella facilitazione della mobilità all’interno dell’Ateneo e nei percorsi di accesso, attraverso convenzioni con gli enti di trasporto del territorio e con le cooperative di servizi ed assistenza nei casi di disabilità che limitano significativamente l’autonomia dello studente.

Particolarmente significativo in questo ambito è il contributo che tende, infine, a facilitare la strutturazione di programmi funzionali all’organizzazione di soggiorni studio all’estero, sensibilizzando gli studenti alla partecipazione a progetti che prevedono la mobilità internazionale e favorendo reti organizzative che permettano la realizzazione di tali iniziative.

Tutta questa complessa attività viene nel tempo costantemente monitorata dal Delegato di Ateneo al Nucleo di Valutazione Qualità, onde revisionare e migliorare l’erogazione e la qualità dei servizi.

I numeri sono tali da giustificare un importante impegno: per l’a.a. 2014-2015, i soggetti iscritti ai corsi di laurea di Sapienza- Università di Roma che hanno presentato certificati attestanti disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) e invalidità pari o >66% nell’a.a. 2014/2015 sono distribuiti nelle facoltà come esposto nella tabella 1.

  1. Iniziative universitarie in Italia: esperienze campione

Già da alcuni anni il mondo universitario ha progettualizzato il suo rapporto con la disabilità, in modo centrale e in singoli contesti localii. Vogliamo qui solo segnalare alcune esperienze campione che, soprattutto per la loro replicabilità, sembrano di particolare interesse formativo.

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Già nel 2009, la Fondazione CRUI ha proposto il progetto “Socializziamo la disabilità”, nel quale 45 volontari di servizio civile reclutati in Abruzzo, Campania, Lombardia, Piemonte, Puglia, Sardegna, Umbria e Veneto erano impiegati, per trenta ore settimanali, al fine di creare le condizioni materiali entro le quali gli studenti con disabilità potessero “implementare le loro capacità personali, al fine di far emergere risorse e potenzialità inespresse”. Tutte le Università sono state coinvolte nella stesura di schede per il rilevamento dati, nel loro completamento attraverso la rilevazione dei bisogni dei ragazzi disabili e la successiva riprogrammazione dei servizi sulla base delle necessità e segnalazioni emerse. La partecipazione al progetto consentiva di maturare competenze professionali spendibili in altri contesti, regolarmente certificate dalle Università partecipanti. Inoltre, la partecipazione al progetto ha consentito di cumulare un numero di CFU variabile, da sede a sede, da 5 a 9; o, in alternativa, una certificazione di tirocinio.

L’Università di Parma, con un precoce impegno sui temi della disabilità intrapreso già nel 1969, ripropone da anni il tema dell’attività di servizio volontario, sia nella forma del servizio studentesco riconosciuto, sia nella forma della Banca del tempo, che consente di acquisire e di spendere crediti-ore anche attraverso il supporto alla disabilità. In particolare, ci sembra da segnalare come esperienza replicabile in altri contesti l’organizzazione parmense di corsi base e avanzati LIS per studenti con disabilità uditive.

In altri contesti, le Università si sono consorziate in progetti di analisi e di studio; è il caso di un progetto promosso dalla FISH – Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap e co-finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Gioventù. Il progetto si è articolato attraverso focus tematici e interviste, e ha prodotto un report, consultabile on line; il report ha il merito di evidenziare l’esistenza di alcune realtà di ‘buone prassi’ in contesti diversi del Sud italianoii.

Per quanto riguarda il Lazio, una rapida indagine ha consentito di verificare che le Università regionali si sono dotate da tempo di centri di servizio per studenti con disabilità; segnaliamo come particolarmente fruibili i siti di Roma Treiii, di Unituscia e dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale – CUDARI.

  1. Conclusioni

La brevissima analisi di quanto fatto finora suggerisce esperienze di replicabilità in altre sedi: in particolare, alcune delle proposte formative dell’Università di Parma sembrano poter essere facilmente inserite nei curricula formativi almeno delle Facoltà mediche, nella forma di attività didattiche elettive. I corsi integrati di Metodologia Medico- scientifica appaiono come i più idonei ad accogliere attività di formazione elettive che ricadono nelle sfere di competenza culturale tanto della psicologia, quanto della storia concettuale della medicina, dell’etica e della bioetica.   La creazione di corsi aperti agli studenti, volti a fornire competenze tecniche diverse a seconda del livello e della tipologia di disabilità, sembra essere particolarmente consigliabile perché favorisce quelle forme di facilitazione e apprendimento ‘alla pari’ che si sono rivelate particolarmente utili a superare criticità e momenti di difficoltà formativa e comunicativa. Inoltre, la frequenza di corsi qualificanti anche dal punto di vista professionale consentirebbe il doppio vantaggio della facilitazione ai percorsi di inclusione e della creazione di competenze professionalizzanti spendibili in contesti diversi. In uno studio inglese condotto su 597 studenti della facoltà di Medicina presso il Department of Clinical Medicine – University of Bristol, in un periodo di 4 anni sono stati valutati i termini scelti dagli studenti che venivano associati con la parola “disabilità” prima e dopo un breve corso sulla disabilità. Prima del corso gli studenti selezionavano termini di depersonalizzazione o con significato negativo, come ‘Sedia a rotelle, Handicap, Svantaggio, Insufficienza, Difficoltà, Pregiudizio’. Successivamente al corso, questa associazione si modificava, ribaltandosi nettamenteiv. Emerge, quindi, l’importanza degli effetti positivi legati all’insegnamento e alla sensibilizzazione sociale su temi sulla disabilità, per una cultura di integrazione e riconoscimento della disabilità come diversità. Secondo alcuni autori, l’educazione medica nei confronti delle persone disabili dovrebbe cominciare a livello universitario già nei primi anni, the logical place to start – in particolare da quegli insegnamenti nel cui core curriculum è trattato il rapporto medico-pazientev. Il docente-tutor dovrebbe, infatti, spiegare agli studenti come il modello tradizionale di diagnosi-trattamento debba trovare uno specifico modo di coniugarsi nella relazione con le persone disabili.  La “whole person medicine” rappresenta un approccio al paziente globale che si prende cura anche dello stato emozionale e delle relazioni con il proprio ambiente e rappresenta il principale ambito in cui la disability medicine trova la sua collocazione ideale. Essa richiede, peraltro, notevoli capacità comunicative e abilità da parte dei docenti. L’importanza del posizionamento all’interno dei primi anni di corso, motivato dal tentativo di limitare il rischio che la tendenza al tecnicismo possa affievolire la disposizione ad un rapporto più empatico con il paziente, è stata evidenziata da diversi studivi.

A livello regionale, un suggerimento potrebbe riguardare l’istituzione (all’interno del CRUL) di un coordinamento degli Atenei del Lazio sul tema specifico della disabilità: modello ispirativo potrebbe essere il CALD, la rete di coordinamento degli atenei lombardi per la disabilità, operante già dal 2011, le cui numerose attività sono consultabili al sito www.cald.it.

Sforzi congiunti di questo tipo risponderanno all’esigenza di applicare anche all’ambito universitario un concetto di cultura inclusiva, che non mortifica la diversità ma la rispetta dandole un valore, uno spazio perché possa esprimersi come opportunità per tutti.

Bibliografia

1) Clapton J., Fitzgerald J., The History of Disability: A history of ‘Otherness’. Reinassance Universal, New Renaissance Magazine. http://www.ru.org/human-rights/the-history-of-disability-a-history-of-otherness.htlm. Malaguti E., Donne e uomini con disabilità. Studi di genere, disability studies e nuovi intrecci contemporanei. Ricerche di pedagogia e didattica 2011; 6,1: 1-20

2) Schianchi M., La terza nazione del mondo. Milano, Feltrinelli, 2009.

3) Marra A.D., Ripensare la disabilità attraverso i Disability Studies in Inghilterra. Intersticios 2009;3,1: 79-99 http://www.intersticios.es

4) OMS, International Classification of Functioning, Disability and Health. http://www.who.int/classifications/icf/en

5) Spataro S.E., Diversity in Context: How Organizational Culture Shapes Reactions to Workers with Disabilities and  Others Who Are Demographically Different. Behav Sci Law, 2005,23(1):21-38

6) CNB, Bioetica e disabilità, parere 17 marzo 2006, p. 11, in cui si sottolinea come questo passaggio comporti la divulgazione del concetto di inclusione, destinato a soppiantare quello di integrazione, ritenuto non più adeguato in quanto presuppone che sia il disabile a dover accogliere un panorama già precostituito, in cui i modelli non sono stati specificamente pensati in relazione alle sue esigenze, ma sono predeterminati sulla base di un assunto principio di normalità.

7) D’Alessio S., Disability Studies ed Educazione Inclusiva. Seminario Università di Bergamo ‘I Percorsi dell’Inclusione’, Maggio 2009.

8) Cfr. La formazione docente per un sistema scolastico inclusivo in tutta Europa. European Agency for Development in Special Needs Education, Odense-Brussels, disponibile al sito https://www.european-agency.org/sites/default/files/te4i-challenges-and-opportunities_TE4I-Synthesis-report-IT.pdf

9) L’Art. 24 della Convenzione ONU (Educazione) sancisce nello specifico che il sistema di istruzione deve essere pensato come inclusivo, atto a garantire “un apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita”. A tal fine, gli Stati parti sono chiamati, tra l’altro, a garantire  che le persone con disabilità non siano escluse dal sistema di istruzione generale in ragione della disabilità, che venga loro fornito un accomodamento ragionevole in base ai bisogni di ciascuno, che ricevano il sostegno necessario, all’interno del sistema educativo generale, al fie di agevolare la loro effettiva istruzione e che “siano fornite efficaci misure di sostegno personalizzato in ambienti che ottimizzino il progresso scolastico e la socializzazione, conformemente all’obiettivo della piena integrazione”.  Questo intento, come specificato dal comma 5 dello stesso articolo, riguarda anche l’educazione universitaria, la formazione professionale, l’istruzione degli adulti e l’apprendimento continuo. Cfr. AAVV (a cura di), ICF e Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. Nuove prospettive per l’inclusione. Trento, Erickson, 2009, in part. TERZI L., L’approccio delle capacità applicato alla disabilità: verso l’ingiustizia nel campo dell’istruzione.

10) L’art. 5 della Convenzione delle Nazioni Unite presuppone in questo senso l’attivazione di misure e sostegni atti a garantire ai disabili la partecipazione a tutte le attività sociali della comunità di riferimento, dalla sfera dell’accesso ai beni e ai servizi ai trattamenti socio-sanitari.

11) Modelli socio-educativi che  si richiamano al concetto di inclusività sono oramai diffusi in ogni parte del mondo: l’educazione inclusiva, fondata sulle raccomandazioni UNESCO già dal 1994 (adottate dalla Conferenza di Salamanca nello stesso anno), si riflette anche nella Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Bambini del 1989, nella Dichiarazione di Jomtien dell’anno successivo, e in tutta una serie di documenti successivi (cfr. per esempiole Standard Rules on the Equalization of opportunities for Person with Disabilities, 1993) che sottolineano  “the principle of equal…educational opportunities for youth and adults ewith disabilities in integrated settings”. MUNYI C.W., Past and Present Perception Towards Disability: A Historical perspective. Disability Studies Quarterly, 8th jan. 2014.

12) Pavone M., L’inclusione educativa. Indicazioni pedagogiche per la disabilità. Milano, Mondadori, 2014. Vaccarelli A., Studiare in Italia. Intercultura e inclusione all’Università. Milano, Franco Angeli, 2015.

13) Ball P., Monaco G., Schmeling J., Schartz H., Blanck P., Disability as diversity in Fortune 100 companies. Behav Sci Law. 2005,23(1):97-121

14) Barattella P. e Littamé E., I diritti delle persone con disabilità. Dalla Convenzione Internazionale ONU alle buone pratiche. Trento, Erickson, 2009.

15) Phillips B.N., Deiches J., Morrison B., Chan F., Bezyak J. L., Disability Diversity Training in the Workplace: Systematic Review and Future Directions.  J Occup Rehabil 2015, Published online: 30 October.

16) D’Amico M., introduzione a D’Amico M., Arconzo G., Università e persone con disabilità. Percorsi di ricerca applicati all’inclusione a vent’anni dalla legge n. 104 del 1992. Milano, Franco Angeli, 2013.

17) Alcune esperienze  sono già codificate, con risultati pubblicati: cfr. per esempio il già citato  M. D’Amico, G. Arconzo, Università e persone con disabilità. Percorsi di ricerca applicati all’inclusione a vent’anni dalla legge n. 104 del 1992. Milano, Franco Angeli 2013, che ben documenta lo stato dell’arte negli Atenei milanesi.

18) Si segnala qui il sito SINAPSI dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, a cura del quale viene pubblicata anche una newsletter. http://www.sinapsi.unina.it/

19) Cfr. anche il convegno internazionale organizzato nell’Ottobre 2015 dall’Università di Roma Roma Tre in collaborazione con la Regione Lombardia e la Fondazione Charta “L’Università Roma Tre per l’Inclusione. Formazione continua e Progetto di vita”, http://www.uniroma3.it/news2.php?news=7483&p=1

20) Byron M, Cockshott Z, Brownett H, Ramkalawan T., What does “disability” mean for medical students? An exploration of the words medical students associate with the term “disability”. Med Educ. 2005 Feb;39(2):176-83.

21) Claxon A., Teaching medical students about disability. The logical place to start. BMJ, 26 March 1994,vol;308; Fielder A.R., Teaching medical students about disability. BMJ, Birmingham B15 2TT 1994vol. 308 28mAY

22) Wilkes M., Milgrom E., Hoffman J. R., Towards more empathic medical students: a medical student hospitalisation experience. (Commentary) Med Educ 2002;36:504–5; 36:528–33;

23) Downie R. S., Towards more empathic medical students: a medical student hospitalisation experience. (Commentary.) Med Educ 2002;36:504-5.

Cita questo articolo

Cavaggioni G., Gazzaniga V., Mitterhofer A.P., Università e disabilità, Medicina e Chirurgia, 69: 3127-3132, 2016. DOI: 10.4487/medchir2016-69-3

Questa mia senile fatica. Giovan Battista Morgagni e il De sedibus et causis morborum per anatomen indagatisn.66, 2015, pp.2998-3003, DOI: 10.4487/medchir2015-66-6

Abstract

Giovan Battista Morgagni’s De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis is a masterpiece in the history of medicine, as well as in human anatomy and pathology. Its immediate reception all over Europe well testify the novelty of Morgagni methodological and experimental approach to human pathological anatomy. The article shortly examines the cultural and geographical context in which De sedibus has been conceived by its author, the very rich scientific and personal relationships linking Morgagni to the medical élite of XVIII century, and finally the structure of the text and its significance in medical history studies.

Articolo

L’anatomia patologica prima dell’anatomia patologica

Il De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis, il magnum opus di Giovanni Battista Morgagni dato alle stampe a Venezia nel 1761, quando il suo autore era oramai ottantenne, rappresenta sotto molti aspetti un nuovo inizio per la medicina di fine Settecento e lo scardinamento di una clinica di matrice ippocratica (dunque qualitativa, non solidistica e olistica), che ancora costituiva un saldo riferimento intellettuale per molte delle scuole mediche europee. Dire che il libro di Morgagni rappresenta un punto da cui diventa obbligatorio ripensare il modo in cui si progetta, si fa e si scrive l’anatomia, come diceva Mirko Grmek, è certamente vero; tuttavia, affermare tout court che il libro di Morgagni spalanca le porte per la prima volta a una riflessione sistematica sulle relazioni possibili tra dimensione anatomica e prospettiva clinica sarebbe un’ingenuità contro cui ci mettono in guardia, con rinnovate argomentazioni, molti buoni studi storici recenti. Alla fine del XVIII secolo, infatti, in Francia e, seppure meno sistematicamente, in Inghilterra e in altri paesi europei, erano venute realizzandosi le condizioni per il graduale riavvicinamento della dimensione clinica con quella chirurgica: l’Italia era in questo senso un territorio di avanguardia, con alcuni avamposti in cui le ripetute e frequenti contaminazioni tra il sapere pratico, localizzante e solidistico dei chirurghi e il sapere dotto trasmesso dai contesti accademici avevano prodotto risultati di grande interesse, soprattutto in relazione alla storia di alcune sedi ospedaliere. L’ospedale moderno rappresenta, infatti, il luogo di elezione dove le storie cliniche dei pazienti possono incontrare i dati della riflessione autoptica, muovendo una ricerca che da osservazione sporadica e non sistematica di malformazioni ed esiti patologici diventa tentativo di costruire un discorso organico sulle cause di morte. La registrazione di alterazioni patologiche sul cadavere, sottratta alla casualità e alla rarità con cui i secoli precedenti l’avevano pure registrata, incontra una quantità ingente di ‘materiali di lavoro’ proprio nelle sedi ospedaliere, in cui i decessi per malattia diventano la fonte che rende possibile l’iniziale idea di correlare le storie cliniche con il dato autoptico. La relazione con le sedi universitarie, con le gilde e i collegi professionali, fa il resto, rendendo utilizzabile anche come programma didattico il dato di osservazione.

Schermata 2015-07-09 alle 11.25.54Roma è, in questo senso, insieme a Parigi, tra le città la cui storia ospedaliera più fortemente è connotata da questo nuovo atteggiamento di studio e ricerca; le vicende storiche degli ospedali romani, dalla Consolazione al Santo Spirito, sedi di lavoro congiunto di diverse tipologie di professionismi medici e chirurgici, ne forniscono un buon esempio. La grande ricchezza “di letti e di ammalati” degli ospedali italiani, già registrata come fatto straordinario da Martin Lutero durante il suo viaggio in Italia, costituisce il punto di avvio della ricerca anatomo-clinica molto prima della nascita formale del metodo e della disciplina anatomo-patologica. Ma in realtà, nella seconda metà del Settecento, molti grandi ospedali europei – primi fra tutti, evidentemente, quelli parigini, enormi per dimensione e capacità di accoglienza, ma anche, come si diceva, in Inghilterra, Germania, in Russia, nei paesi Baltici e in America – avevano reso la pratica dissettoria su chi moriva in ospedale un’attività quasi ‘normale’, accompagnandola con la dissezione di corpi lasciati per legato testamentario alla ricerca scientifica da esponenti delle classi più facoltose e colte. Questo ha condotto, in un arco di tempo relativamente breve, anche alla creazione di veri e proprie collezioni anatomo- patologiche, che consentivano insieme di attrarre un numero maggiore di studenti presso gli ospedali e le sedi universitarie e di rispondere al bisogno di classificazione strutturale e nosologica che è uno dei punti caratterizzanti il pensiero medico settecentesco (Bynum W.F., Porter R.).

La spinta a riunificare l’approccio clinico con quello chirurgico, più forte a partire dalla data in cui Giovan Battista Morgagni da alle stampe il suo opus magnum e almeno fino agli anni Novanta del secolo, consentendo il superamento dell’olismo di matrice ippocratico-galenica che di fatto rendeva ‘fluido’ e indistinto il confine tra la sfera del normale e quella del patologico, permette di spostare la malattia dal piano dell’astrazione teorica a quello della concretezza ‘materiale’; si vanno così realizzando così i sogni di intere generazioni di anatomisti europei che, da almeno due secoli, erano andati in cerca di evidenze tangibili e della possibilità di collocare in una parte specifica del corpo l’essenza dei morbi. L’aspirazione di Antonio Benivieni (1443-1502), che voleva stabilire una correlazione tra le osservazioni sul cadavere e quelle che precedentemente erano state condotte sul paziente vivo, e il suo sostenere la necessità metodologica dell’acquisizione diretta dei dati da parte del medico per mezzo di una valutazione visiva e tattile della malattia (“quos ego et vidi et tetigi”), alla fine del Settecento si è compiutamente realizzata: le straordinarie intuizioni e le descrizioni patologiche di autori come Jean François Fernel (1497-1558), Felix Platter (1536-1614), Johann Schenck (1530-1598), Nicolaus Tulp (1593-1674), François de la Boe (16141672), Thomas Bartholin (1616-1680), Gaspare Aselli (1581-1625), William Harvey (1578- 1657), tutti variamente interessati all’idea della costruzione di una ‘medica anathomia’, avevano condotto alla nascita di una ‘anatomia pratica’, ancora legata fortemente a un empirismo di matrice anatomo-clinica ma proiettata a diventare quella che nel 1713 Friedrich Hoffmann (1660-1742) per la prima volta definirà come anatomia patologica.

Lo sforzo di correlazione tra descrizione clinica e relazione autoptica, seppure ancora caratterizzato dalla ricerca del reperto straordinario e poco frequente, tipizza ampia parte della ricerca anatomica seicentesca; esso è raccolto, nella seconda metà del secolo, da Marcello Malpighi, che dichiara la necessità della creazione di quadri teorici coerenti che consentano di distinguere l’anatomia umana normale da quella patologica. Le autopsie di Malpighi, fatte “per comprendere la clinica”, sono strumenti che servono alla costruzione di una disciplina autonoma, allo stesso tempo subordinata e dialogante con la clinica: non una storia né una filosofia naturale, dunque, ma uno strumento da utilizzare per la costruzione di una nuova diagnostica e di una nuova terapia.

Schermata 2015-07-09 alle 11.26.03Insieme alle suggestioni che vengono a Morgagni da tutto questo percorso e dalla scuola romana di Giorgio Baglivi e di Giovanni Maria Lancisi, suo maestro e amico e primo autore a progettare, nel trattato De subitaneis mortibus (1706), l’incontro tra analisi epidemiologica e dimensione anatomo- patologica, la considerazione malpighiana “delle cause, delle sedi, della struttura e del moto della materia morbosa” (Bologna, Biblioteca Univ., Ms. Malpighiani, vol. XII) è più che un motivo ispiratore per il testo di Giovan Battista Morgagni: egli la sceglie a manifesto del suo progetto scientifico e ne fa titolo e principale linea guida del suo vastissimo lavoro di revisione e organizzazione dell’esperienza sua e altrui sul corpo morto per malattia (Zampieri, F., Zanatta A., Thiene G., 2014).

Padova città di anatomie

Che il De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis veda la luce all’interno dei circuiti culturali che legano la sede universitaria di Padova, città nella quale Morgagni insegnava, dopo un soggiorno bolognese, sulla cattedra di Medicina teorica dal 1711 e su quella di anatomia dal 1715 (e ininterrottamente fino al momento della sua morte) e Venezia, ancora alla fine del secolo uno dei centri editoriali di eccellenza in Italia, è ovviamente cosa che non stupisce chi conosca anche sommariamente la storia della disciplina anatomica in Italia e in Europa, la storia dell’editoria e del libro scientifico in evo moderno, la storia anche geografica del lungo magistero di Morgagni.

Padova era stata sin dal XVI secolo il centro di una ricerca anatomica organizzata e di altissimo livello, in grado di attrarre studenti e docenti da tutto il territorio europeo; dotata dal 1595 del celebre teatro anatomico, voluto da Girolamo Fabrizi di Acquapendente e da lui fatto realizzare su progetto di Paolo Sarpi per rispondere alle esigenze degli studenti della Nazione Germanica che reclamavano una struttura permanente ove potessero apprendere l’anatomia attraverso la partecipazione diretta all’apertura del cadavere, Padova aveva visto succedersi negli insegnamenti di chirurgia e di anatomia i nomi dei principali anatomisti del tempo. Alessandro Benedetti (1450ca.- 1512), Andrea Vesalio (1514-1564), Realdo Colombo (1510 ca.- 1559), Gabriele Falloppio (1523-1562), Girolamo Fabrizi da Acquapendente (1533 ca.-1619), Giulio Casserio (1552-1616), Adriaaan van den Spiegel (1578-1625), Johann Vesling (1598-1649), Domenico Marchetti (1626-1688) tennero per periodi diversi (alcuni, come Falloppio, per cinquant’anni di fila) le cattedre di anatomia e di chirurgia dell’ateneo patavino, mettendo a punto il metodo anatomo-comparativo, permettendo il compiersi del passaggio dall’anatomia descrittiva all’anatomia funzionale, strutturando innovativi sistemi di iniezione intravasale per la conservazione del materiale anatomico e collaborando in modo continuativo con il Collegio medico veneziano (G. Ongaro). A questi nomi si debbono unire quelli di altri che, pur non essendo direttamente coinvolti nella didattica anatomica formale, scelgono Padova come luogo di eccellenza in cui si rende possibile l’incontro con personalità del calibro di Galilei e l’elaborazione di una fisiologia rivoluzionaria che scardina in modo definitivo la complessa costruzione del sapere anatomico e funzionale antico, in particolare galenico; il nome di William Harvey fornisce l’esempio paradigmatico di quello che Padova costituì come centro di attrazione dell’intelligenza medica europea. Infine, la forte presenza a Padova di studenti tedeschi, ricchi e motivati alla ricerca anatomica al punto che le loro modalità di procacciamento dei cadaveri costituivano motivo di attrito con la Nazione ebrea ancora negli anni venti del Settecento, costituisce un ulteriore motivo di attrattività per chi, come Giovan Battista Morgagni, aveva fatto della ricerca anatomica il principale motivo di ispirazione della propria vita, al quale sacrificare persino la serenità familiare e la qualità dei rapporti con i numerosi figli e figlie.

Cinque Accademie, cinque lettere, cinque prefazioni

Giovan Battista Morgagni, al momento della pubblicazione del De sedibus, era un’autorità accademica indiscussa, un potente signore della medicina, rispettato e temuto da colleghi e rivali, che lamentavano che in Padova l’unico a poter liberamente disporre della sala di autopsie fosse proprio l’ottuagenario maestro. Della rete di relazioni intellettuali e personali intessute nei lunghi anni della sua vita resta traccia negli epistolari, nelle cronache degli incontri personali, nella corrispondenza con viaggiatori, nella discussione di temi politici, nelle polemiche accademiche che lo vedono protagonista fino a pochissimo tempo prima della sua morte. I nomi di Lazzaro Spallanzani, Domenico Cotugno, Antonio Scarpa, Michele Sagramoso, Scipione Maffei, Giuseppe Torelli, Leonardo Targa, Ludovico Salvi sono solo alcuni di quelli cui si può far ricorso per documentare la ricca rete di relazioni morgagnane.

Essa è testimoniata dall’interno anche dalle lettere prefatorie ai cinque libri in cui è diviso il De sedibus, ognuna dedicata a una delle accademie europee di cui Morgagni, talvolta da decenni, era membro, citate, come è detto espressamente nella Prefazione all’intera opera, secondo l’ordine “ del tempo in cui io ero stato ammesso in ciascuna Accademia” e con il fine esplicito di dimostrare in contesti diversi l’utilità delle dissezioni condotte su corpi morti per malattia. Ogni lettera è indirizzata al Direttore in carica: Cristoph Jacob Trew (1695-1769), professore a Norimberga e promotore della fondazione di un teatro medico in quella città, medico di corte e conte palatino con la passione per la botanica, amico di H. Boerhaave e corrispondente dei più celebri medici europei, dal 1743 direttore dell’Accademia Imperiale Leopoldina di Scienze, fondata in Vienna con il nome di Accademia dei Curiosi della Natura nel 1652; William Bromfield (1712-1792), chirurgo fondatore del London Lock Hospital, lettore di anatomia a Londra, autore di un Syllabus anatomicus pubblicato nel 1736 e di un Syllabus chirurgicus del 1743, inventore di tecniche innovative di chirurgia generale e ortopedica, un personaggio invero dai profili discussi (fu accusato a più riprese di imperizia e negligenza), ma cui Morgagni è legato, oltre che dal comune esser membri della Royal Society, anche dal fatto di condividere la formazione del figlio maggiore di Bromfield, studente laureato a Padova sotto la sua guida; Pierre Sénac, archiatra del re di Francia, anatomico autore di un trattato sulla struttura, fisiologia e patologia cardiaca, rappresentante di quella Academie Royale des Sciences fondata da Colbert nel 1666, di cui Morgagni era entrato a far parte prendendo il posto di F. Ruysch, morto nel 1731; Johan Friedrich Schreiber (1705-1760), lettore a Lipsia dal 1729 di Filosofia, medicina e Botanica, dal 1731 medico militare per l’esercito russo e dal 1742 professore di Anatomia e chirurgia a San Pietroburgo, direttore dell’Accademia delle Scienze, voluta da Pietro il Grande come parte del grandioso progetto di costruzione culturale suggeritogli da G.W. von Leibniz, e pensata su modello dell’Accademia delle Scienze di Parigi, di cui Morgagni era entrato a far parte già nel 1735; e, infine, Johann Friedrich Meckel (1724-1774), professore di anatomia, botanica e ostetricia a Berlino dal 1751 e dal 1773 membro dell’Accademia Reale svedese delle scienze, fondata nel 1739 da Federico I di Svezia, inizialmente come società privata (Linneo fu uno dei primi protagonisti delle sue attività culturali), ultima società ad accogliere all’unanimità Morgagni tra i suoi membri.

Oltre a testimoniare il livello alto delle relazioni scientifiche morgagnane, le dedicatorie alle cinque accademie europee rivestono il preciso ruolo di individuare gli enti cui deve essere affidata la divulgazione del solo metodo che Morgagni ritiene indispensabile alla creazione di una medicina nuova: da un lato lo studio dei corpi malati, che “mediante la lesione di una data parte congiunta con lo sconcerto di una data funzione” serve “meravigliosamente, non solo a confermare le vere funzioni delle parti, ma eziandio ad illustrarle, e talvolta a scoprirle, e a far rigettare quelle che son false” e a “scoprire le cause delle malattie affatto nuove e sconosciute che talvolta s’incontrano”. Dall’altro, una politica di educazione medica che imponga la collezione di storie cliniche corredate del dato autoptico, da trasmettere alle generazioni future in modo che “i nostri discendenti abbiano tanto numero di osservazioni quanto possa bastare” per una nuova anatomia che sappia curare.

Un nuovo metodo “clinico”

Le basi concettuali su cui poggia la progressiva e lenta creazione del De sedibus sono certamente fondate anche sul lungo sodalizio intellettuale ed amicale di Morgagni con Giovanni Maria Lancisi, l’archiatra pontificio che con i suoi trattati De subitaneis mortibus del 1706 e De motu cordis et aneurysmatibus, date alle stampe dopo la sua morte nel 1728, aveva intrapreso la strada della correlazione sistematica – elevata a metodo di indagine – tra la sintomatologia clinica e la lesione anatomica rilevata post mortem. La ricerca lancisiana di segni che rendessero possibile l’identificazione della ‘specie’ della malattia cardiaca e la loro proiezione sulla base di una epidemiologia clinica ante litteram consentono, infatti, lo strutturarsi di un metodo epicritico che si sviluppa attraverso la descrizione dei reperti autoptici e la messa in relazione della testimonianza dei reperti anatomo-patologici con tutta una serie di variabili relative agli stili di vita dei pazienti, alla loro dieta e alle loro attitudini lavorative. Giuseppe Ongaro attribuisce un ruolo determinante nello strutturarsi del piano editoriale dell’opera morgagnana anche a Ippolito Francesco Albertini (1662-1738), allievo di Malpighi e dal 1701 professore di medicina pratica all’università di Bologna, città in cui incontrò e fu maestro di Morgagni: Albertini, nella sua opera Animadversiones super quibusdam difficilis respirationis vitiis a laesa cordis et praecordium structura pendentibus, letta nel 1726 in una seduta dell’Accademia bolognese delle Scienze e data alle stampe nel 1748 ad opera di Francesco Zanotti, aveva infatti a più riprese sottolineato l’urgenza di riconoscere nei malati “quello che avevo visto nei cadaveri molte volte, disponendo di segni diagnostici sicuri e conosciuti, mediante i quali poter discernere l’alterazione anatomica”.

A questi stimoli diretti, testimoniati anche dalla fitta corrispondenza tra Morgagni e Lancisi, si debbono aggiungere gli insegnamenti del Valsalva, al cui magistero si deve l’insistenza sul ricorso all’anatomia comparata, alle dissezioni degli animali e alla pratica sperimentale, intesi come sistemi utili alla risoluzione di problemi osservati sul corpo degli uomini; nonché le occasioni fornite dalla nascente medicina sociale e della medicina del lavoro di matrice ramazziniana che, mettendo in luce l’esistenza di legami verificabili tra la professione svolta in condizioni di scarsa salubrità e l’insorgere di malattia, di fatto avevano aperto la strada a una nuova riflessione sulla causalità in medicina.

Una forte motivazione del De Sedibus è poi da rintracciare nella critica sistematica alla scarsa puntualità e alla mancanza di spirito critico che Morgagni individua come i principali difetti del Sepulchretum di Th. Bonet (1620-89), medico del duca di Longueville a Neufchatel, che aveva dato alle stampe nel 1679 quella che è forse la compilazione più dettagliata e lunga della storia dell’anatomia seicentesca in Europa. Il Sepulchretum, opera che pure aveva incontrato opinioni valutazioni e favorevoli, consiste in effetti in un lunghissimo elenco di esempi tratti quasi sempre dallo spoglio della letteratura precedente, corredati di scoli in cui Bonet registra tutto ciò che su una data malattia è stato pubblicato, sia in termini di sintomatologia che di terapia; per molti aspetti, malgrado le critiche, costituisce per Morgagni il modello da antagonizzare. Concepito ugualmente con tradizionale esposizione a capite ad calcem, il principale difetto del lavoro di Bonet è la sua destinazione al medico pratico, e l’assenza totale del tentativo di trovare collezione sistematica tra lesione sul cadavere, sintomi in vita e cause della malattia. Gli indici di Bonet, che Morgagni aveva in giovane età accolto entusiasticamente come una novità da valutare con attenzione, finiscono per diventare la sua più grande delusione e il primo difetto da emendare nel suo nuovo lavoro, che è avviato almeno dagli anni ‘40. Esperienze in ospedale, dissezioni pubbliche ‘morbose’, letteratura pregressa mettono alla luce lesioni specifiche sul cadavere che pongono a Morgagni un problema che è, innanzitutto, metodologico: è possibile intenderle ed indagarle non solo come causa dei sintomi accusati dai pazienti prima della morte, ma anche e soprattutto come causa della malattia? L’attenzione di Morgagni, motivata dall’idea che sostanzialmente il concetto di causalità di malattia vada a sovrapporsi a quello della sua predicibilità, si pone sulle modalità con cui la lesione si è generata e modificata nel tempo: la lesione è sempre in lento divenire e, come la malattia, essa non può essere intesa come fatto statico. Le storie dei pazienti servono alla costruzione di questo lento processo: senza le dissezioni dei corpi malati, nessuna ipotesi sulla natura della malattia e sulle sue cause può essere avanzata, come Morgagni stesso già sosteneva nella Nova Institutionum Medicarum Idea, la prolusione accademica pronunciata dopo la sua chiamata a Padova, nel 1712, in cui sono contenute le sue principali idee sulla riforma necessaria degli studi medici.

Settecento casi racchiusi in settanta lettere anatomiche, idealmente indirizzate a un giovane amico appassionato di studi anatomici, divise in cinque libri e racchiuse in due volumi in folio; progettata a Bologna e con un programma editoriale già abbozzato nel 1707, il De sedibus è un’opera monumentale, in cui confluiscono di fatto le esperienze di una vita interamente trascorsa tra l’ospedale e la sala settoria, le annotazioni contenute negli appunti che Morgagni quotidianamente registrava in un taccuino compilato senza soluzione di continuità dal 1699 al 1767, le cronache di dissezioni compiute da Valsalva, alcuni casi tratti dalla letteratura e ritenuti particolarmente utili, qualche resoconto delle autopsie condotte da Giandomenico Santorini (1681-1737), dimostratore di anatomia a Venezia, in cattedra nella stessa città dal 1706 al 1728, caro amico di Morgagni che aveva assistito per un paio di anni consecutivi, dal 1707 al 1709, alle sue dissezioni patologiche, nelle sedi di Bologna e Venezia.

Tutta l’opera è frutto di un rigoroso confronto con la letteratura, esaminata con spirito critico e scandagliata anche nella presentazione dei casi che sono frutto dell’esperienza dello stesso Morgagni; ogni questione è sottoposta al vaglio finale della ‘sensata esperienza’.

Le lettere, ordinate secondo lo schema classico a capite ad calcem, sono ispirate a un meccanicismo di matrice malpighiana, che delinea l’organismo come un complesso sistema di macchine minute il cui corretto funzionamento garantisce la vita; a ogni lesione, pure minima, delle macchine corrisponde un deterioramento e una diminuzione dell’efficienza di funzione. A ogni guasto organico corrisponde, dunque, un’alterazione funzionale; all’alterazione funzionale, sintomi e manifestazioni che il clinico vede, nelle corsie, generarsi e svilupparsi in modo che si scoprirà correlato alla sede e alla natura del guasto primario. Si ritrova qui l’attenzione di Lancisi per la lesione anatomica intesa come fondamento della ‘specie morbosa’ e l’eco, seppur lontano, delle teorie che A. von Haller (cui Morgagni più volte nel corso della vita si era relazionato difficilmente, barcamenandosi in una diplomazia di maniera ma non accogliendo mai la teoria emergente dell’irritabilità delle fibre, che diceva sprezzantemente essere adatta allo studio degli animali, non degli uomini) andava formulando in tema di fisiologia, pubblicandole nei suoi Elementa physiologiae corporis humani, venuti alla luce tra il 1757 e il 1766, quasi contemporaneamente all’uscita del De sedibus per i tipi della Tipografia Remondiniana.

Localizzare le malattie e individuare, attraverso un metodo statistico utile a valutare quelle “che più di frequente infieriscono”, la relazione costante e ripetuta eventualmente esistente tra la loro sede di origine e l’alterazione funzionale è lo scopo cui tendere – anche se Morgagni è ben conscio che non tutto il patologico ha una sua possibilità di essere correlato a una sede anatomica specifica, come dimostra il suo reiterato rifiuto di sottoporre a dissezione i corpi di ammalati di patologie infettive, a dispetto di una dichiarata fede per l’ ancora non tramontata eziopatogenesi miasmatica di ippocratica memoria.

Ma il vero merito del libro, oltre le scoperte che la medicina ha celebrato assegnando a sindromi e difetti il nome di Morgagni, è nel metodo e nel principio con cui il materiale di ricerca e l’enorme quantità di casi e di osservazioni sono ordinati; e il metodo, che è malpighiano e dunque galileiano, si manifesta compiutamente nell’idea geniale di creare quattro indici, che consentano di incrociare i dati dell’esperienza autoptica con le testimonianze della clinica, di modo che veramente l’anatomia patologica possa essere disciplina utile ‘a curar vivi’.

Bibliografia

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Cita questo articolo

Gazzaniga V., Questa mia senile fatica. Giovan Battista Morgagni e il De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis, Medicina e Chirurgia, 66: 2998-3003, 2015. DOI:  10.4487/medchir2015-66-6

Anatomia, libri e auctoritas: Galeno di Pergamon.59, 2013, pp.2652-2658, DOI: 10.4487/medchir2013-59-7

1. “Il plesso chiamato rete mirabile dagli anatomisti è il più meraviglioso dei corpi collocati in questa parte del corpo. Esso circonda la ghiandola stessa e si estende verso il retro; di modo che quasi tutta la base dell’encefalo ha quasi questo plesso che giace al di sotto. Non è una rete semplice ma appare come se tu avessi preso molte reti da pescatore sovrapponendole l’una con l’altra…. per la delicatezza delle parti che lo compongono e per la stretta connessione della sua tessitura, non è possibile comparare questa rete a nessuna rete fatta artigianalmente…piuttosto, la natura si appropria del materiale per questa rete mirabile per la maggior parte dalle arterie che salgono dal cuore fino alla testa. Piccoli rami vengono emessi da queste arterie verso il collo, il viso e le parti esterne della testa. Le parti rimanenti, diritte come si sono formate all’inizio, passano attraverso il torace e il collo fino alla testa e sono comodamente accolte li in una parte del cranio, che è attraversata (dal canale carotideo) e le accoglie senza problemi nella parte interiore del capo. Anche la dura madre le riceve ed è stata già perforata lungo la linea della loro invasione e tutte queste cose danno l’impressione che le arterie si affrettino a raggiungere l’encefalo. Ma questo non è il caso. Perché quando esse sono passate oltre al cranio, nello spazio tra questa e la meninge spessa essi si dividono prima in molte arterie piccole e sottili e poi si intrecciano e passano una dentro l’altra, alcune verso la parte anteriore della testa, altre verso la parte posteriore, altre a destra e a sinistra, dando l’impressione opposta, cioè che hanno perduto la strada verso l’encefalo. Comunque, questo non è vero; infatti, dopo che da molte di quelle arterie coese come radici in un tronco si sviluppa un’altra giunzione di arteria simile a quella che all’inizio si era originata dal cuore, allo stesso modo penetra il cervello attraverso i fori della grande madre” (De usu partium IX, 4).
2. “Tutte le parti che hanno gli uomini le hanno anche le donne, la differenza tra loro essendo in una sola cosa, che deve essere ben tenuta a mente durante la discussione, cioè che le parti delle donne sono all’interno del corpo, mentre nell’uomo sono esterne, nella regione detta perineo….lo scroto prenderebbe necessariamente il posto dell’utero, con i testicoli giacenti al di fuori, accanto ad esso da ciascuna parte; il pene del maschio diventerebbe il collo della cavità che si è formata; e la pelle alla fine del pene, chiamata ora prepuzio, diventerebbe la stessa vagina…puoi vedere qualcosa del genere negli occhi della talpa, che hanno umor vitreo e cristallino e la tunica che li circonda e che cresce dalle meningi…ed hanno ciò come molti animali che sono in grado di usare i propri occhi. Gli occhi della talpa, invece, non si aprono…ma rimangono lì imperfetti e come gli occhi degli altri animali quando sono ancora nell’utero…così anche la donna è meno perfetta dell’uomo per quanto riguarda le parti destinate alla generazione. Perché le parti sono formate in essa ancora nella vita fetale, ma non possono emergere ed essere proiettate all’esterno a causa della mancanza di calore… (De usu part. XIV, 6-7).

Abstract

Galen is the most representative medical author in the history of ancient anatomical studies. His experiments and researches, mainly perfomed on animals, are the fundamentalbasis of the medical tradition of Middle and Early Modern Age. The article analyzes two passages of the Galenic work on which the Western medical tradition based its anatomical  teaching  for many centuries: on one side, the description of the ‘rete mirabile’, surely observed by Galen in goats and sheeps; on the other, the Galenic description of uterus and genital feminine apparatus, the last one thought by Galen as the introjection of the more complete and perfect male genital one.  Both passages well document the long lasting Galenic ideas, still discussed as authoritative in the XVII century.

Articolo

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Fig. 1 – Anagni, Cattedrale, Galeno e Ippocrate.

Una vita esemplare

Nella più che prolifica produzione di Galeno, una delle più ricche e complete che la tradizione della medicina antica ci abbia conservato e consegnato, non è certo possibile individuare un solo testo che possa essere indicato come masterpiece di una storia della medicina narrata attraverso i libri e le storie che essi raccontano. Al nome di Galeno sono ascritti, infatti, oltre quattrocento trattati; essi non sono tutti sicuramente autentici ma, anche limitandosi a quelli che conosciamo certamente come opere originali del maestro di Pergamo, diventa veramente difficile operare una scelta giustificata e che non penalizzi uno dei molti aspetti che fanno di Galeno non solo un padre fondatore,  ma anche l’auctoritas che di sé impronta l’insegnamento medico, la ricerca anatomica, la sperimentazione fisiologica in medicina  fino al pieno Evo moderno.

Galeno costituisce, da questo punto di vista, un unicum che è impossibile replicare o anche solo imitare per molti secoli: filosofo dotto ed esperto, allievo di molti maestri che, in paesi diversi, dalla terra natale fino all’Egitto e poi a Roma, ne alimentano la curiosità intellettuale, anatomista che “rivoluziona” l’approccio al corpo integrando con l’osservazione dei corpi animali il sapere umorale e qualitativo ippocratico, fisiologo e sperimentatore infaticabile, clinico infallibile in grado di affrontare tipologie molto variegate di pazienti (dai gladiatori ai membri della cerchia imperiale romana), studioso della natura, delle erbe e delle sostanze che possono essere impiegate per la fondazione di una farmacologia molto più ricca e complessa di quella ippocratica, bibliofilo e scrittore fecondissimo, uomo di “reti” e relazioni pubbliche altolocate e politicamente determinanti prima nella Roma di Marco Aurelio e poi in quella retta da suo figlio Commodo. Certo, poche di queste notizie derivano dai contemporanei; se il quasi silenzio dei medici suoi coevi potrebbe essere giustificato dall’invidia che lo stesso Galeno denuncia come forte ed avvertibile nei suoi confronti, è più difficile spiegare perché Marco Aurelio non faccia mai menzione, nei suoi scritti, delle straordinarie qualità del medico cui affidò il figlio bambino. Molte parti del quadro biografico attraente e affascinante di Galeno derivano, infatti, dalle sue stesse parole e sono, dunque, il riflesso di una personalità molto cosciente del proprio ruolo nel panorama della medicina dell’epoca e probabilmente anche in grado di prevedere quale e quanta fortuna le sue osservazioni, le sue sperimentazioni, la sua rilettura del sistema ippocratico e i suoi libri avrebbero avuto nel corso dei secoli a venire. Non tutto, dunque, di quello che Galeno narra, soprattutto in quel racconto autobiografico straordinario che è contenuto nei trattati Sull’ordine dei propri libri e Sui propri libri, deve essere accolto come assoluta oggettività; nonostante, però, questa insita tendenza a esaltare i propri meriti ed intuizioni, come a più riprese ha annotato una delle più grandi studiose di Galeno, Véronique Boudon Millot, il problema con lui non è quello di trovare documentazione sulla sua vita e sulla sua opera, ma solo di operare una cernita faticosissima tra l’immensa quantità di notizie che egli, in prima persona, ci ha consegnato. Nato a Pergamo nel 129 d.C., figlio di un intellettuale-architetto che lo avvia agli studi medici e insieme ad una competenza filosofica che si configurerà, nel tempo, come un originale sincretismo principalmente delle teorie platoniche ed aristoteliche, si forma presso maestri del calibro di Satiro, Pelope e Numisiano; giovane, arriva ad Alessandria, la grande fucina del sapere scientifico antico, dove si accende il suo desiderio di approfondire le conoscenze anatomiche, sulle tracce di quanto presso quella scuola medica era stato fatto, in epoca ellenistica e per un periodo brevissimo, attraverso studi dissettori e vivisettori, da Erofilo e da Erasistrato. Nel 162 Galeno da Pergamo (dove aveva esercitato anche come medico dei gladiatori, attività in grado di fargli perfezionare dal vivo alcune osservazioni anatomiche) arriva a Roma; qui si spalanca per lui una carriera luminosa, garantita dalla cura coronata da successo da lui offerta, tra primo e secondo soggiorno romano, al filosofo Eudemo e ad un gruppo di nobili pazienti, tra cui la moglie del console Boeto e molti esponenti della stretta cerchia imperiale. Tra questi spicca il nome del piccolo Commodo, guarito da una misteriosa malattia di fronte alla quale, a sentir Galeno, tutti gli altri medici attivi a Roma si erano dimostrati incompetenti. Il periodo romano, seppur interrotto tra 166 e 169 da un improvviso ritorno nella città d’origine e da una serie di viaggi di conoscenza erboristica e farmacologica, dietro il quali si intravede l’ombra minacciosa di un’ epidemia (di vaiolo?) che colpì la città, è molto fecondo per la produzione delle sue opere anatomiche e fisiologiche, scritte sulla base dei risultati di dissezioni su piccole scimmie appositamente fatte venire dall’Africa, ma anche su una svariata congerie di animali, dal maiale al cane alla mucca alla capra, passando anche attraverso il corpo di un elefante impiegato in giochi circensi, il cui cuore gli viene consegnato dai cuochi imperiali per una dissezione “esotica” e foriera di uno degli errori galenici più eclatanti, la descrizione dell’”osso del cuore” (in realtà una piattaforma cartilaginea che sostiene l’organo esclusivamente in animali di enormi dimensioni) come parte costituiva dell’anatomia cardiaca di tutte le specie. Lo studio anatomico è, nella medicina galenica, fondamento ineludibile per la comprensione dei meccanismi fisiologici, per il corretto inquadramento patologico, per la correzione terapeutica; senza l’anatomia nulla si giustifica nell’operato del medico, al punto che i trattati anatomici costituiscono per Galeno l’avvio anche didattico primario delle competenze dei giovani allievi. Le osservazioni accumulate nel corso degli anni sui piccoli macachi e su altri animali sono ricostruite in un quadro coerente e, spesso, di altissimo livello descrittivo (lo scheletro, i muscoli, buona parte del sistema nervoso, nell’accuratezza con cui sono descritti, offrono buona testimonianza del livello di perizia anche tecnica raggiunto da Galeno) che trova il suo coronamento in una proiezione analogica dell’anatomia animale sul corpo dell’uomo, organizzata intorno a tre organi- chiave, il cervello, il cuore ed il fegato. In essi abita, nelle sue varie forme, il pneuma vitale che garantisce rispettivamente pensiero, sensazione, emozioni e mantenimento in vita della macchina corporea. L’anatomia, insomma, diventa anche il luogo privilegiato in cui si “concretizzano”, insieme, le istanze filosofiche di tripartizione del corpo di matrice platonica e il teleologismo aristotelico, che in ogni organo vede la sede di una funzionalità, che va espletata ai fini del mantenimento dello stato di salute.

La straordinaria capacità galenica di coniugare osservazione e filosofia, pratica manuale ed esercizio del logos, e di utilizzare tutti questi elementi contemporaneamente per costruire un sistema anatomo-fisiologico di complessità sconosciuta al resto dell’antichità, se unita all’idea che soggiace a tutta la sua produzione anatomica di una natura che non sbaglia e che risponde ‘perfettamente’ alla programmazione delle leggi del corpo pensate dal Demiurgo,  giustificano la nota, enorme fortuna che Galeno incontra nei medici bizantini; gli arabi poi ne apprezzano il connotato teleologico e la componente aristotelica e, attraverso la loro mediazione, Galeno attraversa il medioevo per giungere, in piena autorevolezza, fino alla prima modernità. L’anatomia di Galeno, infatti, offre un’immagine di corpo umano disegnata secondo il progetto di un artefice divino (non importa se dio pagano) molto facilmente impiegabile dal Cristianesimo e dalla Chiesa ai fini della propaganda dell’idea della creazione divina e della sua infallibilità; la macchina perfetta di Galeno, in cui abita anche un pneuma psichico che non è anima ma all’anima è assimilabile, non confuta ma completa l’umoralismo di matrice ippocratica e lo indica come il testo ideale sul quale insegnare l’anatomia nelle nascenti università.

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Fig. 2 – Vesalio, De humani corporis Fabrica, Basel, Oporinus, 1543, utero.

Abbiamo scelto di illustrare brevemente due passi dell’opera anatomica e fisiologica galenica che illustrano bene le modalità in cui la voce del medico di Pergamo si è costituita come auctoritas assoluta e via di trasmissione privilegiata, dal medio Evo al primo Evo moderno, di topoi anatomici descrittivi in grado di condizionare e, in qualche misura, anche di arrestare in una ‘lunghissima durata’ tutta la tradizione medica occidentale fino alla prima metà del XVI secolo. Abbiamo trascurato di inserire e commentare il passo del trattato galenico sulle facoltà naturali (Fac. Nat. III, 208) in cui si descrive la struttura del setto intraventricolare del cuore come permeabile e attraversata da una miriade di sottilissimi fori, che consentono il passaggio di una minima quantità di sangue dal ventricolo destro, dove esso arriva direttamente dal fegato per nutrire quello che nella fisiologia galenica è un organo della respirazione, sino al ventricolo sinistro, ove il sangue è osservato in sede di dissezione – sebbene la teoria galenica lo ritenga contenitore del solo pneuma immesso durante la respirazione; questa omissione deriva solamente dalla celebrità del passo stesso, cui viene tradizionalmente imputata la responsabilità di aver bloccato la dimostrazione della circolazione del sangue fino al 1628, anno di pubblicazione dell’Exercitatio de motu cordis di W. Harvey. Questo testo, è noto, dimostra, attraverso l’adozione di un metodo di misurazione quantitativa di ispirazione galileiana, che è impossibile che il sangue che si muove nel corpo sia il prodotto dei processi di nutrizione, continuamente impiegato per l’alimentazione e la crescita; l’unica soluzione alternativa, che riesce a spiegare perché il sangue emesso dal ventricolo sinistro in una data unità di tempo sia di molto superiore alla quantità di sangue contenuta nell’intero corpo, è che esso si muova in un processo di ‘circulatio’ perfetta, che mima all’interno del corpo umano l’ordinato muoversi delle stelle galileiane.

Ancora, la scelta di passi che illustrano quelli che, all’occhio del medico moderno, potrebbero sembrare due meri errori osservativi non deve, però trarre in inganno; la complessità delle teorie che essi nascondono è una delle tracce più significative della grandezza di un pensiero rimasto ineguagliato per secoli. Spesso il percorso per arrivare a grandi e rivoluzionarie dimostrazioni, come quella di William Harvey sulla circolazione del sangue, era in realtà in buona parte già tracciato nei testi galenici.

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Fig. 3 – Scipione Mercuri, La Commare raccoglitrice. Venezia, 1595. Biblioteca di Storia della medicina, Sapienza Università di Roma.

“Il plesso chiamato rete mirabile…”

Il termine rete mirabile, che oggi descrive una struttura patologica, è nella tradizione medica occidentale post galenica indicatore di una complessa struttura anatomica, descritta dal maestro di Pergamo come un intreccio serrato di arterie molto sottili, che si dipartono dall’arteria carotide, alla base della teca cranica, cui viene attribuito un senso funzionale ben preciso.

Infatti, secondo Galeno, l’aria immessa nel corpo attraverso i processi di respirazione subisce una serie di trasformazioni, attivate dal calore vitale, variamente distribuito nei tre distretti di cui l’organismo umano è composto, comandati rispettivamente dal cervello, dal cuore e dal fegato; essa si muove attraverso le arterie, mescolata al sangue (le arterie dunque non veicolano più solo aria, come sosteneva la tradizione anatomica alessandrina), subendo una serie di trasformazioni imputabili alle dynameis dei diversi distretti corporei, che ne modificano la natura prettamente materiale, rendendola pneuma utilizzabile per la vita organica, per i processi di sensibilità e movimento, infine, nella sua forma più raffinata, per la vita psichica dell’individuo. In particolare, quando l’aria raggiunge il cervello, per la via della respirazione nasale, ma anche attraverso i pori della pelle o le cavità vuote all’interno delle ossa, essa incontrerebbe una struttura anatomica complessa – un plesso arterioso circonvoluto, posto alla base del cervello, noto appunto nella tradizione occidentale sotto il nome di rete mirabile, che avrebbe il compito di distribuire nutrimento vitale a tutto il cervello e veicolare al corpo vita e pensiero (De usu partium III, 4.9). In particolare, la struttura annodata di questo plesso, che somiglierebbe ad una sottile rete da pesca, sarebbe dovuta alla necessità di far decantare l’aria e purgarla, attraverso una stasi forzata, delle materialità che le derivano dal suo essere proveniente dal mondo naturale esterno; giacendo in condotti che per il loro andamento tortuoso non ne consentono il rapido spostamento, infatti, l’aria risulterebbe decantata e purificata e riuscirebbe, in questo modo, a raggiungere la qualità di affinamento necessaria per divenire pneuma psichico, il più sottile ed immateriale degli elementi che costituiscono e governano il corpo. Dunque, la rete mirabile sarebbe un organo vitale, deputato dal progetto perfetto dell’artefice della natura ad assolvere uno dei compiti più alti della funzionalità fisica umana. Ora, è noto che tale struttura anatomica non esiste nell’uomo, mentre è descritta nell’anatomia animale, in particolare nei ruminanti, specie nella quale poteva essere stata osservata sia dallo stesso Galeno sia, in precedenza, da Erofilo che,  come ci ricorda Von Staden,  in effetti per primo la descrisse durante gli anni dei suoi esercizi dissettori ad Alessandria. Cosa abbia visto realmente Galeno, se abbia confuso una rete extradurale di origine vascolare con una arteriosa, se e perché abbia trasposto un’osservazione condotta su un gruppo minoritario di animali da ricerca fino a costruire su di essa  una complessa teoria della trasformazione pneumatica nell’uomo; come egli non abbia registrato in alcun modo l’assenza della struttura arteriosa nell’anatomia cerebrale delle scimmie, che rappresentano certamente il suo bacino preferito di animali da sperimentazione, sono domande che costituiscono i tasselli di un rompicapo su cui generazioni di storici della medicina e del pensiero scientifico si sono esercitati, nel tentativo di comprendere la genesi di quello che appare, a tutti gli effetti, uno degli errori più significativi che Galeno ha trasmesso alla medicina moderna.

Vesalio, pur nella sua formale adesione al dettato galenico, dietro alla quale nasconde la rivoluzione di uno studio anatomico assolutamente innovato dall’esperienza diretta del dissettore che rifiuta l’autorità degli antichi come unico criterio di conoscenza scientifica, non è il primo autore a esprimere un dubbio sistematico sull’esistenza della struttura: già Berengario da Carpi, come ci ha ricordato S. Pranghofer, si era chiesto perché non fosse mai riuscito a isolare la rete durante le sue lezioni di anatomia, e si era interrogato sulla sua reale natura di plesso arterioso. Tuttavia, la discussione più celebre della supposta osservazione di Galeno rimane proprio quella di Andrea Vesalio:  “Quante cose, spesso assurde – scrive nel 1543 –  sono state accolte sotto il nome di Galeno….tra queste vi è quel mirabile plesso reticolare, la cui esistenza viene costantemente sostenuta nei suoi scritti…e di cui tutti i medici parlano continuamente. Essi non lo hanno mai visto, ma tuttavia continuano a descriverlo sulla scorta dell’insegnamento di Galeno. Io stesso…a causa della mia devozione a Galeno, non intrapresi mai una pubblica dissezione di una testa umana senza contemporaneamente servirmi di quella di un agnello o di un bue per dimostrare ciò che non riuscivo a riscontrare in alcun modo nell’uomo…e per evitare che gli astanti mi rimproverassero di essere incapace di trovare quel plesso a tutti loro così ben noto per nome. Ma le arterie carotidi non formano affatto il plesso reticolare descritto da Galeno” (De humani corporis fabrica, 1543, p. 310, 524 e 642).

L’attitudine vesaliana del controllo personale, diretto e ripetuto delle affermazioni anatomiche, anche quando esse provengano da autorità non discusse del passato, getta una luce così forte sul problema della dimostrazione dell’esistenza della rete mirabile nell’uomo da essere stata utilizzata più volte come esempio della capacità del testo del De humani corporis fabrica di costituirsi come il punto nodale della riscrittura e reinterpretazione critica della medicina degli antichi in Evo moderno (A. Wear, A. Cunnigham, V. Nutton, N. G. Siraisi).

Nonostante, però, il forte criticismo espresso da Vesalio nei confronti di una struttura che egli stesso, solo pochi anni prima della pubblicazione della prima edizione della Fabrica, includeva tra le iconografie delle sue Tabulae anatomicae sex (1538), un interessante recente lavoro di S. Pranghofer (Med. Hist. 2009) ci ha dimostrato come la rete continui a essere utilizzata nella tradizione  di didattica anatomica occidentale per un lungo periodo: nel corso del XVII secolo ancora alcuni autori la accolgono come realtà indiscutibile e ne illustrano la forma e la funzione attraverso tavole illustrate. Se ancora libri anatomici come quelli di Adriaan van der Spiegel (1627) o di alcuni tra i suoi successori sulla cattedra di Anatomia dell’Università di Padova, come Johan Vesling (1641), pure nella difficoltà di riadattare pattern iconografici preesistenti (risalenti alle tavole anatomiche contenute nell’opera di Giulio Casserio) e di localizzare e descrivere visivamente in modo esatto la discussa struttura arteriosa,  continuano a sostenerne l’esistenza nell’uomo, pur annotandone l’enorme difficoltà di rilevamento, vuol dire veramente che l’anatomia galenica, trasmessa attraverso una mole tanto poderosa di testi, ha improntato di sé in modo indelebile la storia della medicina. Una conferma di questo ruolo prepotente e protratto del medico di Pergamo viene ancora dai primi anni del Settecento, quando autori del calibro di J. J. Wepfer e T. Willis continuano a ritenere la discussione dell’ esistenza della “sua” rete mirabile un topos ineludibile della ricerca neurostrutturale, anche se solo per giungere alla negazione dell’esistenza della struttura nell’uomo e al suo rilevamento come tipizzante il cervello di solo alcune specie animale.

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Fig. 4 – Vesalio, Tabulae anatomicae, 3, rete mirabile.

“Tutte le parti che hanno gli uomini le hanno anche le donne….”

La descrizione anatomica dell’apparato genitale femminile fornita da Galeno si basa sull’idea di una perfetta corrispondenza esistente tra gli organi sessuali del maschio e le parti della femmina; secondo la descrizione galenica, tutte le parti anatomiche  che  sono nel maschio esterne e visibili, dal pene ai testicoli, sono nella donna proiettate all’interno, non visibili, come conservate in una struttura chiusa e non accessibile. Gli organi genitali esterni femminili corrispondono al prepuzio, il collo dell’utero al corpo del pene, le ovaie ai testicoli. Tutto è  perfettamente rispondente, in ogni sua parte, alle strutture anatomiche osservabili facilmente nel corpo dell’uomo, in cui esse sono esterne. Questa immagine anatomica, che non a caso Galeno definisce in base alla somiglianza con quanto accade nel corpo di una specie animale, la talpa (le donne condividono con gli animali, nell’idea aristotelica da cui Galeno trae spunto, una condizione di incorreggibile minorità), non è un’idea originale e riflette una combinazione complessa tra la tradizione ippocratica e il contributo poderoso della teorizzazione aristotelica sulla mancanza e incompiutezza del corpo femminile. Come è noto, gli scritti ginecologici del Corpus Hippocraticum pensano e presentano un’idea di corpo femminile fondata sull’idea di una differenza radicale che caratterizza il corpo delle donne rispetto a quello del maschio: più umide e fredde, le carni dei corpi femminili tendono a comportarsi come il panno di lana o la spugna, che assorbono e trattengono liquidi (CH, Morb. Mul. 1.1). Questo, oltre a rendere le strutture più deboli e più lasse, contribuisce ad alimentare una sorta di circuito chiuso, in cui i corpi imperfetti delle donne continuano ad accumulare umidità e freddezza, a rendere difficile la cottura degli alimenti ingeriti e, di conseguenza, a generare residui difficili da eliminare (Morb. Mul. 1.1). Essi tendono ad accumularsi e ad occupare i condotti del corpo e sono potenzialmente induttori di ogni tipo di patologia. La fisiologia mestruale ippocratica, in cui il flusso mensile viene immaginato come il sistema naturale di eliminazione delle scorie prodotte da un corpo qualitativamente alterato per disposizione fisiologica e non in grado di portare a termine i normali processi di cozione che caratterizzano il corpo del maschio, delinea i confini di un funzionamento dei corpi femminili che è totalmente altro rispetto a quanto accade nell’universo fisiologico maschile. Questa totale alterità del femminile fisiologico ippocratico corrisponde nei testi del Corpus ad un’anatomia “cava”, in cui l’utero è un vaso di tessitura molle ed elastica, capace come le bisacce per contenere il vino di dilatarsi per accogliere il feto durante la sua crescita. L’utero ha una struttura peculiare, aperta in due bocche che si affacciano verso l’alto e verso il basso, mettendo in comunicazione tutte le cavità del corpo femminile, in un indistinto e immaginato vuoto interno. La descrizione galenica ha ben altra anatomica e reale consistenza; l’anatomia alessandrina ha dimostrato l’esistenza delle ovaie, la struttura dell’utero è definitivamente delineata. Tuttavia, l’intera descrizione anatomica galenica paga un debito importante all’idea aristotelica di un corpo femminile non radicalmente diverso da quello maschile (come sostenevano gli autori ippocratici), ma solo qualitativamente e quantitativamente inferiore: la freddezza del corpo delle donne (De Util. Part. 14, 6-7), che le rende in Aristotele simili a bambini imperfetti o a maschi mutilati (GA 737a27-28), quando nei processi di generazione incontra un seme maschile indebolito (per circostanze interne, vizio di cibo o bevanda, condizioni climatiche particolari), impronta il feto con la sua incapacità di portare a termine i processi di cozione, impedendone la corretta maturazione. Esso, infatti, custodito nell’utero, dovrebbe riprodurre, se il calore vitale somministrato dal contributo paterno attraverso lo sperma fosse sufficiente, un figlio perfetto, cioè identico al padre, anche nel sesso (GA 727 b 31-33). Quando questo non accade, si genera un prodotto difettoso (ancorché necessario alla natura, perché consente che avvenga la riproduzione della specie – senza madri… non si nasce!), un eidos minoritario e debole che è la figlia femmina. Nelle femmine, l’insufficienza di calore vitale non riesce a far si che gli organi sessuali, potenzialmente pronti a divenire perfetti, cioè maschili, si sviluppino perfettamente fino ad essere espulsi all’esterno; essi se ne stanno li, inglobati in una dimensione interna, incompiuti come gli occhi delle talpe, animali che, per essere abituati a vivere sottoterra, in ambienti freddi ed umidi come corpi femminili non riscaldati, non compiono il ciclo di formazione completo degli organi della vista e rimangono, per questo, ciechi. Il dogma galenico che disegna il corpo femminile come il doppio invertito (e indebolito) del corpo maschile e la relazione di corrispondenza aristotelica tra anatomia del maschio e della femmina che esso riflette avranno una storia molto lunga, facilmente rintracciabile attraverso le immagini anatomiche di evo moderno: Andrea Vesalio, nella sua Fabrica del 1543, utilizza come tavola anatomica una celebre incisione che riproduce esattamente il mondo ginecologico invertito di Galeno, autore a disposizione del pubblico umanistico colto a partire dal 1525-1526; Scipione Mercuri, autore di un trattato (La Commare raccoglitrice), che si propone la formazione culturale dell’ostetrica, dato alle stampe per la prima volta a Venezia nel 1595 e ristampato a più riprese nel secolo successivo, fa uso immodificato della medesima immagine.

Anche attraverso questa riedizione iconografica si consegna, attraverso l’intero XVII secolo, la competenza galenica e un’immaginario anatomico femminile profondamente antico a un pubblico nuovo, in cui si mescolano competenze dotte e saperi popolari ed in cui i medici cominciano a muovere i primi passi nella sostituzione delle loro competenze a quelle tradizionalmente esercitate dalle ostetriche.

Conclusioni

Come ha brillantemente dimostrato N. Siraisi, il Rinascimento anatomico cinquecentesco, spesso presentato come una rivoluzione armata e un sovvertimento globale degli assunti e dei dettati dell’insegnamento anatomico galenico, è in realtà una mistura molto complessa di devozione, rispetto, criticismo, rilettura e riscrittura del testo del maestro di Pergamo. Il rinnovato uso delle mani dell’anatomista e dei suoi occhi, impegnati nel controllo di quanto asserito dall’autorità antica, non debbono trarre in inganno: “In sixteenth -century anatomy as in other branches of natural and mathematical knowledge the reading of ancient books and the writing of modern ones were inextricably interwined to constitute, in and of themselves, a major part of scientific endeavor” (Ren Quart 1997;50,1; 1-37). Leggere il libro del corpo e attribuire nuovo significato alle vicende dell’esperienza anatomica diretta non significa, negli anatomisti di Evo moderno, dismettere la lettura del testo anatomico antico, né dimenticare Galeno, ma solo reinterpretare una lezione autorevole alla luce di strumenti cognitivi e interpretativi tali da metterne in luce, oltre gli errori compiuti nel medioevo, la significatività e la durata.

Bibliografia

Valentina Gazzaniga è professore ordinario di Storia della medicina presso Sapienza-Università di Roma. Si è occupata di storia del concetto di corpo femminile nella tradizione di ‘lunga durata’ e di storia della ginecologia; di storia della medicina nell’antichità classica; della concezione della malattia infantile dall’antichità al primo evo moderno, di storia del concetto di disabilità, di storia della medicina legale e della medicina di urgenza. Ha pubblicato per i tipi di Carocci una monografia sulle perizie medico-legali inedite di Giovan Battista Morgagni e, insieme a M. Conforti e G. Corbellini, Dalla cura alla scienza. Malattia, salute e società nel mondo occidentale. Milano, Encyclomedia Publishers, 2011

Cita questo articolo

Gazzaniga V.,Anatomia, libri e auctoritas: Galeno di Pergamo, Medicina e Chirurgia, 59: 2652-2658, 2013. DOI:  10.4487/medchir2013-59-7