Università e disabilitàn.69, 2016, pp. 3127-3132, DOI: 10.4487/medchir2016-69-3

Abstract

According to the most recent conceptual models, disability is a ‘diversity condition’; its recognition is a tool of social and cultural enrichment. Its normative re-definition had important consequences in University organization models.  This article briefly presents Sapienza’s experience, comparing it with that of a sample of Italian Universities and proposing possible integration of Medical curricula.

Articolo

  1. Evoluzioni recenti del concetto di disabilità; aspetti di rilevanza per l’ambito lavorativo e universitario

E’ ben noto come, per secoli, le strutture sociali del mondo occidentale siano state pensate in relazione alle caratteristiche fisiche di una maggioranza di ‘corpi’, percepiti come normali.

In un lunghissimo arco di tempo, sono stati prodotti diversi modelli concettuali che hanno tentato di discutere il concetto di norma e quelli di diversità, disabilità e mancanza, spostandosi variamente dal piano religioso a quelli medico, genetico e sociale; su di essi si fondano le nostre risposte culturali e organizzative al mondo della disabilità1. A partire dagli anni Settanta del Novecento, il progressivo abbandono del modello medico e assistenziale attraverso cui, sin dall’Ottocento, le società occidentali si erano andate relazionando con i portatori di deficit di varia natura2 ha condotto al prevalere di un’idea ‘sociale’ della disabilità; Di conseguenza, la misura della disabilità sarebbe da vedersi, principalmente, negli ostacoli architettonici e sociali che i gruppi sociali costruiscono o non contribuiscono ad abbattere, favorendo in questo modo l’isolamento fisico ed intellettuale di un gruppo numeroso di individui, mentre la diversità sociale dovrebbe intendersi tutte quelle differenze che possono modificare i rapporti all’interno di un gruppo.

Abbandonato o marginalizzato il determinismo medico con cui si era guardato a lungo al ‘problema disabilità’, dunque, la necessità diventava quella di proporre un nuovo modello interpretativo, in grado di fornire strumenti per la costruzione, a vari livelli, di pari opportunità nella vita quotidiana, nel lavoro, nell’istruzione e nella relazionalità in genere. Il modello bio-psico-sociale, che consegue a questo assunto, presuppone l’idea delle ‘differenze funzionali’ che caratterizzano il portatore di disabilità; tali differenze debbono permanere, per l’appunto, tali, senza degradarsi in condizioni di marginalità e non partecipazione3. Tale modello è espresso, già nel 2001, nell’ICF, documento prodotto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, in cui la disabilità è indicata come il prodotto dell’interazione di fattori diversi, alcuni legati ovviamente alla specificità delle dimensioni patologiche, altri invece determinati dall’incontro tra fattori individuali e condizioni ambientali e sociali4. In studi condotti su vari gruppi sociali caratterizzati dalla presenza di diversità è stata osservata la possibilità di una maggiore qualità della produzione, oltre all’espressione di una maggiore creatività e capacità decisionale di gruppo. In generale, la cultura dell’integrazione va ad arricchire l’insieme di esperienze e prospettive che caratterizzano un ambiente di lavoro produttivo, mettendo in gioco  le abilità e le capacità che ogni essere umano possiede5.

Una cultura di integrazione si caratterizza nel mettere in luce tutti questi potenziali benefici che scaturiscono dalla presenza di differenze individuali, favorendo lo scambio inter-gruppo.

Il mancato riconoscimento delle persone disabili come parte descrive i tratti di una cultura di esclusione che mal si accorda con la tutela dei diritti e la garanzia della libertà.

L’idea che il disabile sia tale in quanto l’ambiente non è in grado di fornirgli mezzi adeguati al disvelamento delle sue capacità impone, ovviamente, anche ai contesti educativi la necessità di ridurre progressivamente e abbattere “ogni barriera che impedisca la piena valorizzazione delle realtà presenti nel tessuto sociale”6. In modo concreto, l’adozione di un modello fondato sul concetto di uguaglianza e di empowerment delle persone con disabilità ha comportato la possibilità di un accesso equo alla distribuzione e condivisione dei saperi7, senza ovviamente che questo comporti alcuna variazione delle regole dell’istituzione universitaria stessa8, ma  prevedendo l’onere di abbattimento delle barriere e degli ostacoli, non solo fisici9.  A tal fine, l’ICF sottolinea l’importanza della figura e del ruolo del facilitatore al fine di ridurne l’impatto negativo su portatori di disabilità di varia natura.

Nella Convenzione Internazionale sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dall’ONU nel 200710, si sposta definitivamente il discorso sul piano dei diritti umani, tra i quali va incluso un generale ‘diritto alla diversità’, a cui a buon diritto fa riferimento l’universo della disabilità. Il forte portato di innovazione che, in anni recenti, ha segnato il prevalere del concetto di inclusione è, dunque, quello di non concettualizzare il disabile come bisognoso di un trattamento eccezionale11: egli è solo un individuo a pieno diritto partecipe della vita sociale del gruppo di riferimento, di cui condivide diritti, doveri e opportunità.

E’ evidente come, all’interno di questa prospettiva, l’università sia uno dei principali attori a essere chiamato in causa. Proprio al fine di limitare situazioni di disagio, l’università si impegna a diffondere una cultura di condivisione, che promuova nella comunità docenti-studenti la condivisione di progetti centrati sull’ inclusività12. Infatti va ricordato che al fine di valutare l’impatto della disabilità nella società del lavoro, in uno studio effettuato dalla National Institute on Disability and Rehabilitation Research (NIDRR) insieme all’università di Harvard sulle piu’ importanti compagnie industriali leaders nei rispettivi settori dell’economia, è stato evidenziato che, sebbene queste società adempiano ad obblighi di legge adottando una politica di supporto e tutela della diversità  in ambito lavorativo (diversity policies), tuttavia nelle loro definizioni/statement di diversità solo in meno della metà dei casi (42%) si cita tra queste la disabilità. In aggiunta, le poche compagnie industriali che, invece, sotto l’ombrello della diversità comprendono la disabilità e che mostrano policies standardizzate secondo i principi di legge e pari opportunità, non esprimono reale impegno nell’assumere le persone con disabilità; ciò pur confermandosi l’attenzione nel  promuovere la tolleranza nell’ambiente lavorativo13.

Infine, va ricordata anche la intervenuta riqualificazione ‘lessicale’ dei termini utilizzabili per indicare i disabili (da invalido a diversamente abile, con tutta una serie intermedia di variazioni). Le ambiguità terminologiche sembrano essere state affrontate e almeno parzialmente risolte nel 2006: un documento del CNB (“Bioetica e riabilitazione”) suggerisce che il termine prescelto debba essere quello di “persona con disabilità”, laddove il “con” non segnala una qualificazione assoluta dell’individuo, ma una qualità conseguita che lo rende non abile proprio in relazione ai contesti fisici, ambientali e culturali con cui interagisce14.

  1. Riflessioni sulla ridefinizione del concetto di disabilità: giurisprudenza, linee guida e diritto allo studio

E’ solo dal 1992 che l’Italia si dota di una normativa organica in merito alla tutela della disabilità, con la legge quadro 5 febbraio 1992 per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, nota con il nome di Legge 104.

Il diverso grado di disabilità, che condiziona le possibilità di inserimento all’interno del contesto universitario, impone la programmazione di una serie di interventi, atti nello stesso tempo a garantire il più possibile l’autonomia degli studenti e la realizzazione di tutti quegli interventi didattici e assistenziali che garantiscano ai  disabili il maggior benessere possibile, riducendo al massimo i disagi prettamente personali, ma anche quelli che coinvolgono i contesti di provenienza – le famiglie.

I successivi sviluppi normativi e di riflessione etica in Italia costituiscono un miglioramento anche in relazione alle trasformazioni sociali e tecnologiche e alle evoluzioni filosofiche, mediche e culturali che investono a livello internazionale il concetto stesso di disabilità.

Sette anni più tardi, la Legge 28 febbraio 1999, n.17 introduce direttive per gli Atenei italiani rispetto alle attività che devono essere svolte e ai servizi che devono essere erogati per favorire l’integrazione degli studenti con disabilità. Al fine la Legge prevede l’assegnazione di una quota del Fondo Finanziario Ordinario e la nomina di un delegato del Rettore alla Disabilità con funzioni di coordinamento, monitoraggio e supporto di tutte le iniziative concernenti l’integrazione degli studenti con disabilità nell’ambito dell’ateneo.

Nel 2001 nasce la Conferenza Nazionale dei Delegati per la Disabilità (CNUDD), – con cui la CRUI collabora dall’anno successivo – che promulga nel 2014 le Line Guida atte ad indirizzare le politiche d’Ateneo verso una migliore qualificazione del diritto allo studio.

Il 9 gennaio 2004 viene approvata la Legge n.4, ‘Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici’, mentre nell’ottobre 2010, la legge n. 170 introduce “Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico” e le relative Linee Guida. I principi ispiratori delle line guida nascono dal presupposto che la conoscenza, la cultura superiore e la partecipazione alla ricerca favoriscano il pieno sviluppo umano, l’ingresso nel mondo del lavoro e la realizzazione della libertà, intesa come opportunità di concretizzare le aspirazioni personali. Considerando la disabilità come una dimensione di diversità si possono valutare/riconoscere le reazioni da parte dell’ambiente nei confronti dei disabili anche in funzione delle diverse organizzazioni culturali, comprese quelle scolastico-universitariei che dovrebbero essere fondate su una culture of unity, in cui maggiore è l’obiettivo comune minori risultano le differenze tra i costituenti del gruppo lavorativo.

L’impegno pertanto è di promuovere e sostenere l’accesso all’Università, alla formazione e all’apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Per queste ragioni, il perseguimento delle finalità e degli obiettivi deve essere valorizzato dalla cooperazione all’interno del sistema universitario e sostenuto dalla attivazione di reti e collaborazioni con altri istituti di formazione e ricerca, – il sistema scolastico e gli enti territoriali – a livello non solo nazionale.

La disinformazione e la scarsa attitudine verso le persone disabili sono elementi di una cultura poco inclusiva, cui consegue il basso tasso di impiego lavorativo. I corsi dedicati alla diversità rappresentano interventi sociali e culturali molto efficaci per il miglioramento della conoscenza e delle relazioni all’interno dei gruppi con le persone disabili, con notevole riduzione dei pregiudizi sociali.

  1. Sapienza risponde…

Dalla necessaria applicazione del dettato costituzionale e di leggeii, ma anche dalla consapevolezza condivisa che l’università deve essere concepita come uno dei luoghi principe che consente l’esternazione di talenti e capacità individuali scaturisce il coinvolgimento di Sapienza, come delle altre università italiane, nella predisposizione di sistemi organizzativi atti a concretizzare il concetto di inclusività e a favorire l’affermazione del ‘diritto alla diversità’ anche nei settori della formazione.

Nel 2004, il Senato Accademico della Sapienza Università di Roma approva il Regolamento per i servizi in favore degli studenti disabili. Il Regolamento assicura la fruibilità delle strutture, servizi e prestazioni per garantire la libertà e la dignità personale, realizzare un’uguaglianza di trattamento e rispettare la specificità delle esigenze dello studente; promuove, infine, la partecipazione attiva in ambito universitario e sociale, favorendo così l’iter formativo ed impedendo i possibili fenomeni di emarginazione.

Esso è articolato in 18 articoli che stabiliscono la carta dei servizi, la struttura organizzativa, le modalità di accesso ai servizi e alle attività e l’aspetto finanziario e contabile degli stessi. Particolare interesse (Titolo I Art.6) viene posto sulla rilevazione del grado di soddisfazione dei destinatari delle attività e dei servizi.

Promuovere l’accesso all’apprendimento e alla formazione, nonché sensibilizzare sulla pari opportunità del diritto allo studio inserendo alla pari gli studenti diversamente abili e con disabilità/DSA, non solo è un mandato delle università, ma anche un mezzo per accrescere la qualità dell’istituzione.

Per questa ragione si è ritenuto necessario che ogni Ateneo si doti di una struttura specifica di servizi alla disabilità/DSA, coordinata da un Delegato del Rettore, coadiuvato da Referenti di Facoltà e/o delle altre strutture organizzative.

Il Delegato è un riferimento cardine, nella misura in cui, se da una parte favorisce l’integrazione, risolve le complesse problematiche presentate dalla disabilità e orienta le politiche dell’ateneo in materia di disabilità, dall’altra è il referente universitario per tutte le istituzioni, le strutture, gli enti extrauniversitari che si occupano di disabilità.

Compiti del Delegato sono la sensibilizzazione al tema della disabilità a qualsiasi livello dell’istituzione (Consiglio di Facoltà, Dipartimento, Scuola, ecc.), il coordinamento e la verifica funzionale di tutte le strutture coinvolte, la mediazione tra lo studente disabile e gli organismi didattici durante tutto il percorso formativo. Compito del Referente, invece, è stimolare la partecipazione attiva dello studente disabile, indirizzando questo verso i servizi di tutorato specializzato, offrendo collaborazione alla soluzione di eventuali problematiche logistico-organizzative, diffondendo le informazioni specifiche all’interno della propria Facoltà.

Il Servizio Disabilità di Ateneo (SDDA), istituito dal Regolamento suddetto e già presente in moltissimi altri atenei italiani, essendo il primo riferimento, ha in primis compito di accoglienza. Funge da interfaccia, quando necessario, con le famiglie e con i servizi territoriali e accompagna lo studente, in collaborazione con il Tutor ed il Referente di Facoltà attraverso tutto l’iter formativo. Queste figure, a più livelli, non operano in sostituzione dello studente, ma, fin dove possibile, lo stimolano ad una crescente autonomia, alla partecipazione attiva al processo formativo e all’integrazione in ambito accademico, pure stabilendo programmi personalizzati a seconda degli specifici bisogni e delle esigenze formative di ciascuno.

L’affiancamento del SDDA allo studente che abbia adeguati requisiti, nasce ancor prima del momento di ingresso nell’università, attraverso la progettazione di percorsi d’orientamento in ingresso che dovrebbero rendere più fluido il passaggio.  In modo analogo, esso non termina con il conseguimento della laurea, ma è programmato per progettare, in sintonia con l’ufficio di Job Placement dell’Ateneo, tutti gli interventi possibili finalizzati alla agevolazione dell’inserimento nel mondo del lavoro.

L’attività del Servizio, inoltre, si spende in collaborazione con gli uffici tecnici di Ateneo nel censimento e nella segnalazione delle criticità ambientali per il loro superamento;  nella mappatura dell’accessibilità degli edifici universitari per l’abbattimento delle barriere architettoniche; nella facilitazione della mobilità all’interno dell’Ateneo e nei percorsi di accesso, attraverso convenzioni con gli enti di trasporto del territorio e con le cooperative di servizi ed assistenza nei casi di disabilità che limitano significativamente l’autonomia dello studente.

Particolarmente significativo in questo ambito è il contributo che tende, infine, a facilitare la strutturazione di programmi funzionali all’organizzazione di soggiorni studio all’estero, sensibilizzando gli studenti alla partecipazione a progetti che prevedono la mobilità internazionale e favorendo reti organizzative che permettano la realizzazione di tali iniziative.

Tutta questa complessa attività viene nel tempo costantemente monitorata dal Delegato di Ateneo al Nucleo di Valutazione Qualità, onde revisionare e migliorare l’erogazione e la qualità dei servizi.

I numeri sono tali da giustificare un importante impegno: per l’a.a. 2014-2015, i soggetti iscritti ai corsi di laurea di Sapienza- Università di Roma che hanno presentato certificati attestanti disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) e invalidità pari o >66% nell’a.a. 2014/2015 sono distribuiti nelle facoltà come esposto nella tabella 1.

  1. Iniziative universitarie in Italia: esperienze campione

Già da alcuni anni il mondo universitario ha progettualizzato il suo rapporto con la disabilità, in modo centrale e in singoli contesti localii. Vogliamo qui solo segnalare alcune esperienze campione che, soprattutto per la loro replicabilità, sembrano di particolare interesse formativo.

Schermata 2016-04-11 alle 12.16.35

Già nel 2009, la Fondazione CRUI ha proposto il progetto “Socializziamo la disabilità”, nel quale 45 volontari di servizio civile reclutati in Abruzzo, Campania, Lombardia, Piemonte, Puglia, Sardegna, Umbria e Veneto erano impiegati, per trenta ore settimanali, al fine di creare le condizioni materiali entro le quali gli studenti con disabilità potessero “implementare le loro capacità personali, al fine di far emergere risorse e potenzialità inespresse”. Tutte le Università sono state coinvolte nella stesura di schede per il rilevamento dati, nel loro completamento attraverso la rilevazione dei bisogni dei ragazzi disabili e la successiva riprogrammazione dei servizi sulla base delle necessità e segnalazioni emerse. La partecipazione al progetto consentiva di maturare competenze professionali spendibili in altri contesti, regolarmente certificate dalle Università partecipanti. Inoltre, la partecipazione al progetto ha consentito di cumulare un numero di CFU variabile, da sede a sede, da 5 a 9; o, in alternativa, una certificazione di tirocinio.

L’Università di Parma, con un precoce impegno sui temi della disabilità intrapreso già nel 1969, ripropone da anni il tema dell’attività di servizio volontario, sia nella forma del servizio studentesco riconosciuto, sia nella forma della Banca del tempo, che consente di acquisire e di spendere crediti-ore anche attraverso il supporto alla disabilità. In particolare, ci sembra da segnalare come esperienza replicabile in altri contesti l’organizzazione parmense di corsi base e avanzati LIS per studenti con disabilità uditive.

In altri contesti, le Università si sono consorziate in progetti di analisi e di studio; è il caso di un progetto promosso dalla FISH – Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap e co-finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Gioventù. Il progetto si è articolato attraverso focus tematici e interviste, e ha prodotto un report, consultabile on line; il report ha il merito di evidenziare l’esistenza di alcune realtà di ‘buone prassi’ in contesti diversi del Sud italianoii.

Per quanto riguarda il Lazio, una rapida indagine ha consentito di verificare che le Università regionali si sono dotate da tempo di centri di servizio per studenti con disabilità; segnaliamo come particolarmente fruibili i siti di Roma Treiii, di Unituscia e dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale – CUDARI.

  1. Conclusioni

La brevissima analisi di quanto fatto finora suggerisce esperienze di replicabilità in altre sedi: in particolare, alcune delle proposte formative dell’Università di Parma sembrano poter essere facilmente inserite nei curricula formativi almeno delle Facoltà mediche, nella forma di attività didattiche elettive. I corsi integrati di Metodologia Medico- scientifica appaiono come i più idonei ad accogliere attività di formazione elettive che ricadono nelle sfere di competenza culturale tanto della psicologia, quanto della storia concettuale della medicina, dell’etica e della bioetica.   La creazione di corsi aperti agli studenti, volti a fornire competenze tecniche diverse a seconda del livello e della tipologia di disabilità, sembra essere particolarmente consigliabile perché favorisce quelle forme di facilitazione e apprendimento ‘alla pari’ che si sono rivelate particolarmente utili a superare criticità e momenti di difficoltà formativa e comunicativa. Inoltre, la frequenza di corsi qualificanti anche dal punto di vista professionale consentirebbe il doppio vantaggio della facilitazione ai percorsi di inclusione e della creazione di competenze professionalizzanti spendibili in contesti diversi. In uno studio inglese condotto su 597 studenti della facoltà di Medicina presso il Department of Clinical Medicine – University of Bristol, in un periodo di 4 anni sono stati valutati i termini scelti dagli studenti che venivano associati con la parola “disabilità” prima e dopo un breve corso sulla disabilità. Prima del corso gli studenti selezionavano termini di depersonalizzazione o con significato negativo, come ‘Sedia a rotelle, Handicap, Svantaggio, Insufficienza, Difficoltà, Pregiudizio’. Successivamente al corso, questa associazione si modificava, ribaltandosi nettamenteiv. Emerge, quindi, l’importanza degli effetti positivi legati all’insegnamento e alla sensibilizzazione sociale su temi sulla disabilità, per una cultura di integrazione e riconoscimento della disabilità come diversità. Secondo alcuni autori, l’educazione medica nei confronti delle persone disabili dovrebbe cominciare a livello universitario già nei primi anni, the logical place to start – in particolare da quegli insegnamenti nel cui core curriculum è trattato il rapporto medico-pazientev. Il docente-tutor dovrebbe, infatti, spiegare agli studenti come il modello tradizionale di diagnosi-trattamento debba trovare uno specifico modo di coniugarsi nella relazione con le persone disabili.  La “whole person medicine” rappresenta un approccio al paziente globale che si prende cura anche dello stato emozionale e delle relazioni con il proprio ambiente e rappresenta il principale ambito in cui la disability medicine trova la sua collocazione ideale. Essa richiede, peraltro, notevoli capacità comunicative e abilità da parte dei docenti. L’importanza del posizionamento all’interno dei primi anni di corso, motivato dal tentativo di limitare il rischio che la tendenza al tecnicismo possa affievolire la disposizione ad un rapporto più empatico con il paziente, è stata evidenziata da diversi studivi.

A livello regionale, un suggerimento potrebbe riguardare l’istituzione (all’interno del CRUL) di un coordinamento degli Atenei del Lazio sul tema specifico della disabilità: modello ispirativo potrebbe essere il CALD, la rete di coordinamento degli atenei lombardi per la disabilità, operante già dal 2011, le cui numerose attività sono consultabili al sito www.cald.it.

Sforzi congiunti di questo tipo risponderanno all’esigenza di applicare anche all’ambito universitario un concetto di cultura inclusiva, che non mortifica la diversità ma la rispetta dandole un valore, uno spazio perché possa esprimersi come opportunità per tutti.

Bibliografia

1) Clapton J., Fitzgerald J., The History of Disability: A history of ‘Otherness’. Reinassance Universal, New Renaissance Magazine. http://www.ru.org/human-rights/the-history-of-disability-a-history-of-otherness.htlm. Malaguti E., Donne e uomini con disabilità. Studi di genere, disability studies e nuovi intrecci contemporanei. Ricerche di pedagogia e didattica 2011; 6,1: 1-20

2) Schianchi M., La terza nazione del mondo. Milano, Feltrinelli, 2009.

3) Marra A.D., Ripensare la disabilità attraverso i Disability Studies in Inghilterra. Intersticios 2009;3,1: 79-99 http://www.intersticios.es

4) OMS, International Classification of Functioning, Disability and Health. http://www.who.int/classifications/icf/en

5) Spataro S.E., Diversity in Context: How Organizational Culture Shapes Reactions to Workers with Disabilities and  Others Who Are Demographically Different. Behav Sci Law, 2005,23(1):21-38

6) CNB, Bioetica e disabilità, parere 17 marzo 2006, p. 11, in cui si sottolinea come questo passaggio comporti la divulgazione del concetto di inclusione, destinato a soppiantare quello di integrazione, ritenuto non più adeguato in quanto presuppone che sia il disabile a dover accogliere un panorama già precostituito, in cui i modelli non sono stati specificamente pensati in relazione alle sue esigenze, ma sono predeterminati sulla base di un assunto principio di normalità.

7) D’Alessio S., Disability Studies ed Educazione Inclusiva. Seminario Università di Bergamo ‘I Percorsi dell’Inclusione’, Maggio 2009.

8) Cfr. La formazione docente per un sistema scolastico inclusivo in tutta Europa. European Agency for Development in Special Needs Education, Odense-Brussels, disponibile al sito https://www.european-agency.org/sites/default/files/te4i-challenges-and-opportunities_TE4I-Synthesis-report-IT.pdf

9) L’Art. 24 della Convenzione ONU (Educazione) sancisce nello specifico che il sistema di istruzione deve essere pensato come inclusivo, atto a garantire “un apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita”. A tal fine, gli Stati parti sono chiamati, tra l’altro, a garantire  che le persone con disabilità non siano escluse dal sistema di istruzione generale in ragione della disabilità, che venga loro fornito un accomodamento ragionevole in base ai bisogni di ciascuno, che ricevano il sostegno necessario, all’interno del sistema educativo generale, al fie di agevolare la loro effettiva istruzione e che “siano fornite efficaci misure di sostegno personalizzato in ambienti che ottimizzino il progresso scolastico e la socializzazione, conformemente all’obiettivo della piena integrazione”.  Questo intento, come specificato dal comma 5 dello stesso articolo, riguarda anche l’educazione universitaria, la formazione professionale, l’istruzione degli adulti e l’apprendimento continuo. Cfr. AAVV (a cura di), ICF e Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. Nuove prospettive per l’inclusione. Trento, Erickson, 2009, in part. TERZI L., L’approccio delle capacità applicato alla disabilità: verso l’ingiustizia nel campo dell’istruzione.

10) L’art. 5 della Convenzione delle Nazioni Unite presuppone in questo senso l’attivazione di misure e sostegni atti a garantire ai disabili la partecipazione a tutte le attività sociali della comunità di riferimento, dalla sfera dell’accesso ai beni e ai servizi ai trattamenti socio-sanitari.

11) Modelli socio-educativi che  si richiamano al concetto di inclusività sono oramai diffusi in ogni parte del mondo: l’educazione inclusiva, fondata sulle raccomandazioni UNESCO già dal 1994 (adottate dalla Conferenza di Salamanca nello stesso anno), si riflette anche nella Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Bambini del 1989, nella Dichiarazione di Jomtien dell’anno successivo, e in tutta una serie di documenti successivi (cfr. per esempiole Standard Rules on the Equalization of opportunities for Person with Disabilities, 1993) che sottolineano  “the principle of equal…educational opportunities for youth and adults ewith disabilities in integrated settings”. MUNYI C.W., Past and Present Perception Towards Disability: A Historical perspective. Disability Studies Quarterly, 8th jan. 2014.

12) Pavone M., L’inclusione educativa. Indicazioni pedagogiche per la disabilità. Milano, Mondadori, 2014. Vaccarelli A., Studiare in Italia. Intercultura e inclusione all’Università. Milano, Franco Angeli, 2015.

13) Ball P., Monaco G., Schmeling J., Schartz H., Blanck P., Disability as diversity in Fortune 100 companies. Behav Sci Law. 2005,23(1):97-121

14) Barattella P. e Littamé E., I diritti delle persone con disabilità. Dalla Convenzione Internazionale ONU alle buone pratiche. Trento, Erickson, 2009.

15) Phillips B.N., Deiches J., Morrison B., Chan F., Bezyak J. L., Disability Diversity Training in the Workplace: Systematic Review and Future Directions.  J Occup Rehabil 2015, Published online: 30 October.

16) D’Amico M., introduzione a D’Amico M., Arconzo G., Università e persone con disabilità. Percorsi di ricerca applicati all’inclusione a vent’anni dalla legge n. 104 del 1992. Milano, Franco Angeli, 2013.

17) Alcune esperienze  sono già codificate, con risultati pubblicati: cfr. per esempio il già citato  M. D’Amico, G. Arconzo, Università e persone con disabilità. Percorsi di ricerca applicati all’inclusione a vent’anni dalla legge n. 104 del 1992. Milano, Franco Angeli 2013, che ben documenta lo stato dell’arte negli Atenei milanesi.

18) Si segnala qui il sito SINAPSI dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, a cura del quale viene pubblicata anche una newsletter. http://www.sinapsi.unina.it/

19) Cfr. anche il convegno internazionale organizzato nell’Ottobre 2015 dall’Università di Roma Roma Tre in collaborazione con la Regione Lombardia e la Fondazione Charta “L’Università Roma Tre per l’Inclusione. Formazione continua e Progetto di vita”, http://www.uniroma3.it/news2.php?news=7483&p=1

20) Byron M, Cockshott Z, Brownett H, Ramkalawan T., What does “disability” mean for medical students? An exploration of the words medical students associate with the term “disability”. Med Educ. 2005 Feb;39(2):176-83.

21) Claxon A., Teaching medical students about disability. The logical place to start. BMJ, 26 March 1994,vol;308; Fielder A.R., Teaching medical students about disability. BMJ, Birmingham B15 2TT 1994vol. 308 28mAY

22) Wilkes M., Milgrom E., Hoffman J. R., Towards more empathic medical students: a medical student hospitalisation experience. (Commentary) Med Educ 2002;36:504–5; 36:528–33;

23) Downie R. S., Towards more empathic medical students: a medical student hospitalisation experience. (Commentary.) Med Educ 2002;36:504-5.

Cita questo articolo

Cavaggioni G., Gazzaniga V., Mitterhofer A.P., Università e disabilità, Medicina e Chirurgia, 69: 3127-3132, 2016. DOI: 10.4487/medchir2016-69-3

Comments are closed.