Giovanni Danieli ricorda Claudio Marcello Caldarera84, 2019, p. 3744

Con Claudio Marcello Caldarera scompare uno dei Padri fondatori della nostra Conferenza.

Nella seconda metà degli anni ’80, in pieno fervore per il rinnovamento globale dell’Ordinamento didattico che ci accingevamo a realizzare, Claudio ed io ci incontrammo casualmente a Bologna, lui grande biochimico nell’Alma mater, io ex-bolognese in quel momento patologo medico ad Ancona, entrambi Presidenti di fresca nomina, entrambi eccitati ma anche preoccupati per l’incarico che ci era stato appena conferito. Fu allora che gli proposi, uniamoci, parliamone insieme, questo faciliterà la nostra missione.

Ci incontrammo tutti, scolaretti al primo giorno di scuola, nell’Hotel Emilia di Portonovo di Ancona; l’anno dopo e per trent’anni sarebbero stati Il for-tino Napoleonico e La fonte nella stessa località la sede rituale della Conferenza.

Costituimmo il Collegio dei Presidenti dei Corsi di laurea in Medicina che doveva poi divenire, e proprio per suggerimento di Marcello, una Conferenza permanente, lui Presidente, io Segretario.

Marcello era uomo che aveva le idee molto chiare e l’energia per realizzarle, era persona serena, equilibrata, saggia, legato all’Istituzione ed alla tradizione, gentile e nello stesso tempo determinato.

Con lui il Collegio visse un anno felice e molto redditizio; poi, al termine dei dodici mesi, considerati l’irresistibile ascesa di Luigi Frati all’epoca astro nascente della politica accademica nazionale ed il ruolo dominante che Luigi aveva raggiunto nel nostro sodalizio, fece spontaneamente un passo indietro e mise nelle mani di Luigi I destini della Conferenza. Un gesto di rara umiltà che confermava la sua gran-dezza.

Apparteneva Marcello ad una famosa scuola medica bolognese sorta intorno a Giovanni Moruzzi principe della biochimica nazionale nella seconda metà del ventesimo secolo; divenuto poi biochimico a Parma Marcello costruì egli stesso un prestigioso Gruppo di Allievi dal quale era destinato ad emergere Amos Casti suo successore nella stessa sede e futuro segretario della Conferenza.

Oggi in Amos ritroviamo intatte le qualità di passione per l’insegnamento, serietà, signorilità, discrezione, capacità organizzativa, efficacia che sono state proprie del suo Maestro. I grandi uomini lasciano il segno. E questo ci consola della loro perdita.

Ricordiamolo con ammirazione ed affetto

Giovanni Danieli

Medical Humanities: una proposta interpretativa e didattican.83, 2019, pp. 3697-3705, DOI: 10.4487/medchir2019-83-5

Abstract

In the context of the international debate on the Medical Humanities, we discuss how and why they should be inserted in the training of young physicians. The core idea is that the humanists should not teach just what they research on, but what students actually need. The proposal is within a framework where compassion replaces empathy and the narrative approach is critically considered.

Articolo

Premessa
C’è un ampio consenso sul ruolo delle Medical Humanities (da ora MH) quale approccio interdisciplinare per conciliare medicina e humanities al fine di promuovere un atteggiamento pienamente centrato sul paziente. A fronte di tale condivisione, permane tuttavia una molteplicità di posizioni in merito a come tale obiettivo si debba realizzare. È sufficiente un veloce sguardo al panorama internazionale e nazionale per rendersi immediatamente conto che tra gli studiosi che riconoscono le MH come loro ambito di indagine è possibile identificare profili disciplinari e interessi anche totalmente distanti. Può accadere che un esperto di letteratura inglese/tedesca/francese/spagnola/russa/ecc. assegni alle MH il compito di analizzare come scrittori di lingua inglese/tedesca/francese/spagnola/russa/ecc. si siano occupati del corpo o della malattia; che un esperto di storia dell’arte sostenga che le MH debbano mostrare come attraverso l’arte si possano meglio capire concetti quali malattia, salute, cura, terapia ecc.; che un esperto di pedagogia difenda l’idea che le MH siano il terreno della sua disciplina; che uno studioso di fenomenologia difenda la sua importanza nell’approccio al paziente; che uno storico sottolinei la rilevanza di Ippocrate e Galeno per un modo proprio di inten- dere le MH; che un bioeticista enfatizzi il ruolo della riflessione etica; che un grecista sostenga la necessità dell’etimo delle parole usate in clinica; e così via, in un moltiplicarsi di prospettive legate alla provenienza disciplinare e agli interessi specifici.
La varietà di approcci costituisce senza dubbio una ricchezza nella misura in cui guardiamo alle MH come terreno di ricerca ampio e aperto, entro il quale ogni studioso è libero di indirizzare i propri studi lungo i filoni tematici che preferisce, di adottare le metodologie proprie dell’approccio scelto, e di pubblicare ed esporre i risultati dove meglio crede e può. Un atteggiamento “ecumenico” sul versante della ricerca non può però essere semplicemente traslato sul versante della formazione medica, dove ciò che entra in gioco sono le conoscenze e le competenze di giovani medici, i loro percorsi di studio e, attraverso questi, le caratteristiche delle loro future attività cliniche e di ricerca.
Senza nulla togliere alla varietà di approcci e prospettive incluse nelle MH, qui vorremmo argomentare a favore di uno specifico modo di interpretarle
– qualificabile come “concettuale” – che pensiamo possa essere adottato soprattutto in ambito didattico. Si tratta di una particolare caratterizzazione dettata dal riconoscimento i) che la medicina sta cambiando;
ii) che la compassione è più rilevante dell’empatia; iii) che l’approccio narrativistico deve essere ripensato criticamente; iv) che l’agenda delle MH nella formazione del medico debba essere dettata non dagli interessi di chi si trova di volta in volta a insegnarle, bensì dalle esigenze e priorità identificate all’interno della stessa professione medica.

Che cosa sono le MH?

Per iniziare, richiamiamo alcuni dei tratti della recente riconsiderazione delle relazioni tra humanities e medicina, visto che specie negli ultimi decenni sono stati gli sviluppi stessi delle scienze biomediche a stimolare un rinnovato interesse per le scienze umane e a stimolare un ampio dibattito in merito.
Ciò che le MH promettono è di farsi promotrici di una concezione ampia della medicina, entro la quale diverse dimensioni vengano valorizzate in ambito di ricerca e di cura, nonché di formazione. Così ci si aspetta, da un lato, che esse consentano a chi pratica la medicina di integrare numerose prospettive di stampo umanistico per una comprensione migliore di ciò che la loro disciplina è e di ciò che si prefigge, dall’altro, che permettano di migliorare la qualità delle relazioni tra medici, operatori sanitari, pazienti e loro parenti.
A partire dall’introduzione della proposta culturale delle MH (negli anni Sessanta), si è sviluppato il dibattito relativo alla loro natura e al loro status disciplinare (cfr. Evans and Greaves 2002 e 2010). Se a tutt’oggi non vi è accordo sugli scopi specifici delle MH, si conviene generalmente che le MH possano i) abbracciare tutte le discipline che contribuiscono all’analisi concettuale della medicina, senza ovviamente trascurare quella relazionale (approccio concettuale) e/o ii) promuovere attraverso un qualche tipo di narrazione (storica, letteraria, artistica ecc.) una maggior empatia tra il professionista della sanità, il paziente e suoi cari (approccio narrativista). Molte delle discussioni ora in corso riguardano proprio la possibilità di trovare un equilibrio tra queste due istanze distinte (Meites et al. 2003, Ahlzén 2007, Crawford et al. 2010) e quindi pure un bilanciamento fra le discipline coinvolte (Downie 2003), sebbene appaia piuttosto difficile conciliare questi due filoni in una visione unitaria (Puustinen et al 2003; Campo 2005; Ahlzén 2007; Boniolo et al. 2012; Boniolo, Chiapperino 2014).

Oltre al dibattito fra concettualisti e narrativisti, vi è anche un’ampia discussione su quale ruolo le MN debbano avere nella formazione del medico (e.g. Grant 2002; Campaner, Coccheri, Boniolo 2019). Esse sarebbero, infatti, chiamate a svolgere un ruolo attivo nei curricula medici, garantendo che il futuro medico riceva, accanto a una formazione di tipo prettamente tecnica, anche gli strumenti necessari per raggiungere un’adeguata comprensione concettuale ed esistenziale delle condizioni del paziente. C’è chi sostiene che non si possa trattare solo di elementi trasmessi entro un certo percorso di formazione medica, ma  che il medico debba procedere a una vera e propria “assimilazione”  di  una  concezione  umanistica della malattia (e.g. Evans 2008). Quindi, non una giustapposizione additiva, avanzata da chi pensa che la pratica medica dovrebbe essere “ammorbidita” da professionisti che abbiano una qualche esposizione a temi umanistici, quanto una visione integrativa, secondo la quale lo status, gli obiettivi, i metodi e le procedure della medicina clinica dovrebbero essere orientate da una concezione comprensiva della condizione in cui si trova il paziente, ispirata alle riflessioni etico/esistenziali nonché concettuali elaborate in seno alle MH. Quest’ultima posizione parte dall’assunzione della necessità di una prospettiva umanistica sul paziente e la sua malattia che non può non passare attraverso l’apprendimento di una serie di elementi fondamentali che caratterizzano la prospettiva stessa, i suoi significati e le possibilità di applicazione.
Certo una via non facile, ma richiesta dalla professione stessa del medico. Di questo dobbiamo tenere conto, se non vogliamo che essa si depersonalizzi e si tecnologicizzi sempre di più, senza comportare un momento riflessivo. Crediamo infatti che la prospettiva integrativa sia in grado di accrescere la consapevolezza concettuale degli operatori medici e di renderli più attenti alle implicazioni teoriche ed esistenziali del loro lavoro. Riteniamo che l’educazione dei futuri professionisti in ambito medico sia lo strumento mediante il quale raggiungere l’integrazione di conoscenza umanistica e scientifica auspicata dalle MH. La visione additiva, viceversa, rischia di lasciare fondamentalmente inalterata la comprensione della malattia come fenomeno strettamente biologico, e di non promuovere, pertanto, un ripensamento dei suoi modelli descrittivi, classificatori ed esplicativi. Certo, una via additiva rischia di essere una facile scorciatoia per umanisti ansiosi di insegnare in una Scuola di Medicina. Questo obiettivo non deve essere raggiunto al prezzo di svilire il ruolo formativo delle loro discipline, ammettendo che esse siano considerate solo come accessori, come una “ciliegina umanistica” sopra un sapere interamente tecnico. È fondamentale, viceversa, non dimenticare che la medicina tratta con uomini e donne che hanno una loro visione del mondo e della vita e una loro biografia, a cui lo studente può imparare ad accedere solo attraverso un approccio integrativo delle humanities. Una mera esposizione ad alcuni dei temi e problemi delle discipline umanistiche che non sfoci in un’assimilazione del loro messaggio concettuale più profondo, avrà come unico risultato una generica contrapposizione tra approcci “umanistici” – qualunque cosa questo possa significare – alla medicina e approcci “tecnici”. L’obiettivo dovrebbe invece essere proprio quello di individuare strade per conciliare i progressi e i cambiamenti di paradigma della biomedicina con le indicazioni delle scienze umane, fornendo lenti diverse sulla malattia, dal laboratorio fino al capezzale del paziente.

La medicina sta cambiando: Biomedical Humanities?

A partire dal sequenziamento del genoma umano, ormai nel “lontano” 2001, la medicina ha iniziato a compiere un drastico cambio basato su un approccio dove tecniche fisiche, chimiche, informatiche e biologiche sono usate per descrivere strutture, processi e meccanismi molecolari, cercando di comprendere a quel livello le basi delle malattie e delle loro terapie. Sicuramente i prodromi di questo mutamento si erano visti molto prima del 2001, forse addirittura prima dei lavori con cui la vulgata data l’inizio della medicina molecolare, ossia quelli del 1949 di Linus Pauling sull’anemia falciforme vista, appunto, quale “malattia molecolare” (cfr. Boniolo, Nathan 2017). Comunque sia, da quella partenza, forse troppo piena di promesse di cure definitive, specie contro malattie complesse come il cancro, ci si è resi conto che non contano solo i geni che si hanno, ma come e quando essi sono espressi in dati tessuti. Ovvero, dall’inizio pioneristico della genomica si è passati a quella che, con un termine ombrella, è stata chiamata post-genomica e che comprende le famose ‘omics’ (epigenomica, proteomica, transcrittomica, meta- bolimica ecc.).
Questo, anche grazie alle nuove tecniche di sequenziamento, alle nuove biotecnologie specie in ambito di imaging molecolare e al sempre più rilevante uso di metodi computazionali per l’analisi di dati popolazioni e individuali, ha comportato giungere alla medicina di precisione e alla medicina personalizzata di oggi. Non ha senso, soprattutto qui, discutere se medicina personalizzata e medicina di precisione siano la stessa cosa. Si può accettare la proposta dell’US National Research Council, secondo cui la medicina di precisione è un approccio per il trattamento e la prevenzione delle malattie che tiene in conto della variabilità genetica di ogni individuo, del suo ambiente e del suo stile di vita, al fine di permettere ai ricercatori di predire più accuratamente quali strategie di prevenzione e cura possano essere efficaci per individui raggruppati su base soprattutto genomica e post-genomica. Su questa si innesta la medicina personalizzata, che è tale non perché si focalizza sulla singola persona, come dovrebbe, d’altronde, essere sempre stato per la medicina, ma sulla particolare costituzione genomica e post-genomica del singolo individuo. In definitiva, secondo questa definizione, la medicina di precisione si occupa più di classi di pazienti realizzate sulla base di dati genomici, post-genomici, ambientali elegati agli stili di vita, mentre la medicina personalizzata tenta di portare i risultati preventivi e di cura lì trovati al letto del dato paziente1.
Non ha qui importanza che tutti accettino que- sto modo convenzionale di distinguere medicina di precisione e personalizzata: l’importante è capire di cosa si sta parlando e riconoscere che chi si occupa di humanities in ambito medico non può non essere consapevole di questo fondamentale cambiamento. Il passaggio dalla medicina classica alla medicina di precisione e alla medicina personalizzata ha aperto una moltitudine di nuovi problemi e di nuovi temi che non possono essere ignorati o sottovalutati da chi si occupa di MH. Certo, non in tutti gli ospedali del mondo si pratica la medicina di precisione. È, a ben guardare, una medicina “per ricchi fatta in paesi ricchi”, in quanto necessita non solo di una cooperazione molto stretta fra chi opera in un laboratorio di ricerca e chi agisceal lettodel paziente, masoprattutto di una piattaforma biotecnologica estremamente raffinata (ed estremamente costosa), nonché di capacità computazionali sofisticate.
In ogni caso, è la medicina dei giorni nostri, e si deve tenerne conto. Questo significa che più che di Medical Humanities, forse si dovrebbe iniziare a parlare di Biomedical Humanites. Non si tratta di un mero gioco linguistico, bensì di una modifica volta a sottolineare che, per esempio dal punto di vista etico, non basta più saper affrontare le usuali tematiche (inerenti inizio e fine vita, scelte riproduttive, placebo, vaccinazione, consenso, qualità della vita, partecipazione ai trial clinici ecc.), ma si deve sapere trattare anche questioni legate agli incidental findings, al diritto di sapere e al dovere di informare in seguito ai test genetici, al tema della sovra-diagnosi e del sovratrattamento connessi con gli screening genetici, ai temi riguardanti la diversità (sia essa di sesso, di genere, culturale, socio-economica ecc.), alla problematica del right-to-try, al problema dei patients-in-waiting, alla privacy e alla discriminazione genetica, alle mutazioni rare, ai nuovi trial clinici ecc. (cfr. Boniolo, Campaner 2019; Carrieri, Peccatori, Boniolo 2018; Boniolo, Maugeri 2019).
E non basta. Essendo il sapere biomedico, sia di ricerca sia clinico, prodotto e utilizzato in ambito di medicina di precisione e personalizzata fortemente basato sulla probabilità e sulla statistica, è impensabile che chi si occupa di MH non ne affronti anche la parte fondazionale, ossia umanistica. È, infatti, assolutamente rilevante, specie a livello formativo, l’inserimento di percorsi narrativisti all’interno dei curricula formativi del medico e il raggiungimento di una migliore comprensione delle condizioni dei pazienti o delle relazioni con i loro cari.

Dall’empatia alla compassione

‘Empatia’ e ‘compassione’ sono due termini che designano atteggiamenti diversi. Compassione deriva dal latino cum-patior (soffro con) e prima dal greco sym-patheia (simpatia, ossia provare emozioni con…). È sempre stata intesa come indicante un sentimento per il quale un individuo percepisce emozionalmente la sofferenza altrui desiderando di alleviarla. Empatia, invece, deriva dal greco en-pathos ed era un termine che veniva usato per indicare il rapporto emozionale di partecipazione soggettiva che univa lo spettatore del teatro all’attore recitante, come pure quest’ultimo con il personaggio che interpretava. Solo verso la fine del 1800 e l’inizio del 1900, e grazie al filosofo tedesco Robert Vischer, il termine greco entra nel vocabolario della teoria estetica come Einfühlung, per poi essere usato per designare un atteggiamento verso gli altri caratterizzato dal “sentire dentro” il loro dolore o la loro gioia, permettendo, in tal modo, di comprenderli (cfr. Novak 2011).
Si è detto che il medico dovrebbe essere empatico e che le MH dovrebbero, specie attraverso la narrazione, contribuire alla formazione di questo atteggiamento. Noi, soprattutto sulla scorta di Khen Lampert (2003 e 2006), siamo a favore della compassione, ossia di un atteggiamento che tiene conto della sofferenza del paziente e dei suoi cari, ma considera essere un imperativo morale quello di cercare di alleviarla attraverso un’analisi razionale e pacatamente distaccata delle sue cause e delle possibilità di cura. Inoltre, non scordiamoci che è assolutamente impossibile essere totalmente empatici con l’altro da noi perché questi ha una storia e una biografia totalmente diversa dalla nostra e quindi la sua sofferenza, nella sua essenza, ci è totalmente preclusa. D’altronde il ruolo del medico non è quello di “avere dentro di sé” la sofferenza del paziente, ma di capire che sta soffrendo e tentare razionalmente di alleviare questo suo stato.
Può sembrare si cerchi di ridimensionare il ruolo dell’empatia, visto lo spazio che ha trovato nella riflessione contemporanea, a partire da filosofi morali per arrivare a primatologi come Frans de Waal (2011) e a neuroscienziati come Giacomo Rizzolati (Rizzolati, Sinigaglia 2019). Assolutamente senza negare l’importanza di questi studi, ci sembra tuttavia rilevante riconoscere che esistono anche voci critiche, come quella di Paul Bloom che nel suo lavoro del 2016, Against Empathy: The Case for Rational Compassion, sostiene che l’empatia possa essere una pessima guida morale, perché getta le basi per giudizi non adeguati e può condurre a decisioni ingiuste. Correttamente a nostro avviso, Bloom mette in luce che non si può essere empatici con tutti nello stesso modo. Questo significa che sulla base dell’empatia non possiamo garantire di prendere decisioni giuste (ossia, a situazioni simili decisioni simili ea situazioni diverse decisioni diverse), visto che si può essere più empatici con un paziente rispetto a un altro, pur in presenza di situazioni patologiche simili. Supponiamo che ci siano due persone che hanno contratto l’epatite virale, ma uno l’ha contratta perché ha inciampato su una siringa infetta, mentre l’altro l’ha contratta perché ha usato, da tossicodipendente, una siringa sporca. La situazione patologica è analoga, ma potremmo essere più empatici con la sofferenza del primo che non con la sofferenza del secondo e questo potrebbe portarci a decisioni non giuste. In aggiunta si noti che se anche il medico fosse veramente empatico con tutti e nello stesso modo (cosa impossibile), correrebbe il rischio del burnout: un problema molto sentito nelle discipline cliniche che trattano pazienti in fin di vita (cfr. Larkin 2015).
Lungo una via totalmente diversa da quella di Bloom, ma sempre a favore di un approccio compassionevole e razionale, si muove anche Dominic O. Vachon, con il suo HowDoctors Care: The Science of Compassionate and Balanced Caring in Medicine del 2019. Qui trova spazio l’idea che la compassione sia l’abilità di notare che cosa sta accadendo di patologico in un’altra persona e così di focalizzare su di essa la propria formazione e competenza medica al fine di agire nel miglior modo possibile.

Sull’utilità e l’inutilità dell’insegnamento della storia della medicina

Non vogliamo certo mettere in discussione l’importanza della storia della medicina. Quelloche interessa è chiedersi se abbia utilità culturale e formativa insegnare porzioni molto limitate di storia della medicina in quei corsi di laurea di medicina e chirurgia dove a tale insegnamento vengono dedicate sei/otto/dieci ore. È difficile immaginare che possano avere un impatto decisivo un numero esiguo di ore allocate a tale materia se occupate insegnando poche notizie, inevitabilmente frammentarie, su chi furono Ippocrate, Galeno, Morgagni ecc. Il rischio, dato il tempo limitato, è di fornire informazioni aneddotiche già facilmente rintracciabili in riassunti o siti divulgativi. Ma allora che fare?
La Storia della medicina, di una disciplina, non ha solo valore in sé, quale ricostruzione di un passato che non può e non deve essere dimenticato e che è messo a disposizione di chiunque voglia conoscerlo, ma può anche essere un modo per capire le sfaccettature della professione collegata a quella particolare storia (Gazzaniga 2018).
Pensiamo al giovane che sta seguendo il suo corso di studi in medicina e che così si prepara ad affrontare una professione che è ricca di implicazioni etiche, esistenziali, decisionali, epistemologiche, metodologiche, ecc. Ebbene, le poche ore a disposizione del docente di Storia della medicina forse non dovrebbero essere impiegate nel consegnare letture estremamente ridotte e veloci o percorsi monografici molto circoscritti, che difficilmente possono essere rilevanti per uno studente di medicina del XXI secolo.
Quelle poche ore potrebbero invece essere utilizzate per una sorta di introduzione storico-concettuale alla professione medicina, che fornisca chiavi di lettura con implicazioni chiare e facilmente riconoscibili anche dallo studente. Nello specifico, potrebbero essere usate per far leggere e/o commentare alcuni classici della medicina, o alcuni passi tratti da questi, che abbiano una valenza per la formazione del giovane medico, e, attraverso questo, portino a riconoscere l’importanza della dimensione storica per l’esercizio della professione.
Pensiamo all’Introduction à l´étude de la médecine experimental, che Claude Bernard pubblicò nel 1859. Non è solo un testo in cui compare per la prima volta una distinzione fra la medicina sperimentale e la medicina clinica, ma anche un lavoro che presenta i problemi epistemologici della scienza medica di ricerca. È un lavoro dal quale si può imparare moltissimo su che cosa sia il metodo scientifico e come questo possa essere declinato in ambito di ricerca medica. Inoltre, esso può essere facilmente utilizzato come snodo storico dal quale è semplice poi passare a considerazioni storico-critiche su come si sia sviluppato il metodo scientifico nei secoli precedenti e seguenti. E questo è un tema fondamentale per un ricercatore o per un medico contemporaneo, visto che è ripreso in modo preoccupato su grandi riviste internazionali dove molti hanno denunciato le lacune conoscitive proprio relative al metodo scientifico in ambito biomedico.
Un altro testo assai rilevante e formativo è quello di Georges Canguilhemdel 1943, Essai sur quelques problèmes concernant le normal et le pathologique. Esso permette di riflettere su che cosa siano il normale e il patologico: due concetti fondamentali che dovrebbero essere analizzati e digeriti a fondo dal giovane medico in formazione, che deve assumere consapevolezza del fatto che non è banale sancire una volta per sempre quale sia la demarcazione fra sanità e malattia. Anche questo è un testo che permette di procedere verso il passato e verso il futuro per un excursus storico-concettuale sulla nozione di malattia. Tra l’altro la lettura del lavoro di Canguilhem consente pure di meditare sul fatto che il vivere “normale” può essere qualcosa che caratterizza anche una vita segnata da una patologia.
Oppure si può far leggere Why We Get Sick? The New Science of Darwinian Medicine, pubblicato nel 1994 da Randolph Nesse e George Williams. Questo è uno dei testi classici della medicina darwiniana, che permette di fare fruttuose divagazioni storico-concettuali non solo sulle cause evolutive di molte malattie umane, ma anche su che cosa sia il darwinismo – fondamentale specie per capire da dove viene Homo sapiens.
Si può, ancora, proporre la lettura, commentata e guidata, di articoli come il già citato lavoro del 1949 di Linus Pauling sulla Sickle Cell Anemia. A Molecular Disease, da cui si può trarre un’intera serie di lezioni sullo sviluppo della medicina molecolare, sulla medicina di precisione e personalizzata dei giorni nostri. Oppure si può commentare il lavoro di Archibald Edward Garrod del 1902 su The Incidente of Alkaptonuria: A Study in Chemical individuality, che può essere un trampolino di lancio per una serie di considerazioni storiche sulle malattie genetiche.
Vorremmo concludere questa piccola lista di proposte con due testi italiani. Uno è Metodologia medica: principi di logica e pratica clinica: un lavoro di Enrico Poli del 1965 dal quale si impara che cosa sia la metodologia clinica soprattutto in ambito diagnostico e dal quale si può partire per una riflessione storico-critica sia su questo importante momento della pratica medica, sia su come la tradizione metodologica italiana sia stata pionieristica a livello internazionale, per poi quasi scomparire anche sul territorio nazionale. L’altro è un piccolo testo di Giacinto Viola del 1932, La costituzione individuale, nel quale si chiarisce il rapporto fra il paziente ideal-tipico descritto dal patologo generale e il reale paziente singolo curato dal clinico. È un saggio che, tenendo conto del periodo in cui è stato scritto, è di assoluta rilevanza internazionale e forse solo il fatto che fosse redatto in lingua italiana ha impedito che diventasse uno dei testi classici sul dibattito fra sapere nomotetico e sapere idiografico. È, infatti, un testo contente delle illuminanti considerazioni sulla natura della pratica medica come scienza dell’individuale, anche in contrasto con molto più superficiali affermazioni che si sono poi avute fra gli anni ’70 e ’80 che han visto molti sostenere che la pratica medica sia un’arte basata su un fantomatico “occhio clinico”.

Pochi esempi, quelli sopra, che però possono far riflettere sul fatto che la Storia della medicina, anche se relegata a poche ore nel curriculum di uno studente di medicina, può essere di reale impatto nella sua formazione e nella sua comprensione storico-concettuale di che cosa sia la sua professione.

A chi servono le Medical Humanities?

Come premesso già all’inizio, la varietà di approcci, interessi e metodi oggi inclusi nelle MH è senza dubbio apprezzabile dal punto di vista della ricerca teorica, dove è sempre auspicabile permanga una molteplicità di punti di vista e filoni di indagine. Come emerge da quanto sopra, la situazione sembra però richiedere un giudizio diverso se il punto di vista si sposta dalla ricerca alla pratica, intesa tanto come pratica di ricerca biomedica quanto come pratica cli- nica. Se, come moltissima letteratura sostiene da tempo, le MH non sono soltanto un esercizio teorico, ma crescono in un rapporto di interazione con la medicina stessa, chiediamoci allora: quale configurazione e quali sbocchi è auspicabile che tale interazione abbia? Se guardiamo alle MH con lo sguardo del medico – ricercatore o clinico – e non dell’umanista, quali appaiono gli aspetti di questo ambito di studio che possono impattare maggiormente sulla professione medica? A chi e a che cosa servono, in ultima analisi, le MH, e in quale accezione devono essere intese per poter soddisfare i compiti loro assegnati?
Perché il rapporto tra le due anime – quella medica e quella umanistica – si sviluppi in modo integrato, la medicina non si deve configurare solo come terreno per testare alcune delle posizioni elaborate entro una particolare disciplina umanistica, ma come ambito da cui partire e a cui ritornare, fornendo strumenti di indagine utili per il professionista delle scienze mediche. Bisogna, quindi, mettersi in un atteggiamento di ascolto nei confronti delle esigenze dei professionisti delle scienze mediche per capire quali siano gli apporti di maggiore rilievo che possono provenire dalle scienze umane affinché l’incontro tra gli ambiti sia davvero proficuo. D’altronde, a livello internazionale mai come in questo momento vi è una richiesta di humanities relativamente ai cambiamenti dettati dalla medicina precisione e personalizzata; alle possibilità prospettate dall’ingegneria genetica; alla natura delle patologie complesse e alla multi-morbilità; alle metodologie di raccolta e valutazione delle evidenze scientifiche; alla ripetibilità e riproducibilità dei risultati; al problema del conflitto di interessi; all’interpretazione dei dati statistici e alla loro rilevanza clinica (cfr. Campaner, Coccheri, Boniolo 2019). Anziché fornire contenuti preconfezionati, e/o comunque ritagliati sui particolari interessi tutti interni alle scienze umane, le MH hanno l’opportunità di fornire dei supporti reali eimmediati.
Se – parafrasando il titolo di un articolo di William Stempsey (2008) – qualcuno potrebbe dire che “le MH sono ciò che fanno i professionisti delle MH”, non tutte le discipline coinvolte avranno la stessa capacità di rispondere ai problemi che emergono dalla pratica clinica quotidiana o in laboratorio. Riteniamo che gli strumenti della filosofia e della metodologia della scienza e della bioetica, ovviamente all’interno di un quadro storico-critico, costituiscano la risposta più adeguata al tipo di problemi sopracitati. Per poter aiutare il ricercatore e il clinico a costruire un’impalcatura critica solida e rigorosa, su cui innestare la costruzione, la valutazione e l’utilizzo della conoscenza scientifica, è auspicabile che questi ambiti disciplinari occupino uno spazio crescente nei curricula medici. Lì dove sappiano configurarsi non come riflessione “da poltrona”, ma come interlocutori attenti della medicina, possono aspirare a svolgere un ruolo di rilievo
– non accessorio o ornamentale ma costitutivo- della formazione del medico. Acquisire durante il proprio percorso formativo qualche “grimaldello teorico” proveniente da una filosofia della scienza, da una bioetica e da una storia della medicina opportunamente declinate consentirà al medico di affrontare adeguatamente questioni di metodo, validità, applicabilità della conoscenza scientifica, e situazioni in cui sia chiamato a decidere su temi eticamente sensibili.
Al di là del successo delle MH come ambito di ricerca autonomo, è nell’effettiva capacità di interazione con la medicina e, soprattutto, con i professionisti della medicina che si gioca la capacità delle scienze umane di “uscire dalla quarantena” (Stempsey 1999) a cui rischia di condannarle una concezione puramente ancillare del loro ruolo. Attraverso l’integrazione di temi e strumenti filosofici in tutte le fasi della formazione medica diventerà sempre più evidente la loro rilevanza sia per il lavoro di ricerca che per le valutazioni e decisioni cliniche. Tale integrazione può avvenire solo ricordando – come suggerito da Louhiala (2003) –che la filosofia della medicina solleva domande sulle domande che solleva la medicina, che devono quindi – aggiungiamo noi – essere per questa rilevanti. E se i temi affrontati devono essere percepiti come cruciali all’interno delle stesse scienze mediche, anche i metodi di insegnamento dovranno essere commisurati al contesto formativo, privilegiando pertanto un approccio per problemi, e l’analisi critica di casi e situazioni effettivi: “qualunque sia la modalità di insegnamento, il contenuto dev’essere in qualche modo legato al mondo medico in cui gli studenti sono quotidianamente immersi” (ibid., p. 87). La costruzione di curricula medici in cui siano integrati insegnamenti di filosofia e metodologia della scienza e bioetica è senz’altro un’operazione complessa (cfr. Pellegrino 1984, parr. 4 e 5.1), ma può avere (almeno) tre effetti positivi: i) fornire ai futuri ricercatori e clinici strumenti teorici fondamentali per la loro professione; ii) migliorare i processi decisionali e di cura; iii) favorire la collaborazione anche tra figure senior di medici e filosofi nell’ambito della costruzione stessa dei curricula.

Conclusioni

Traendo spunto dall’innegabile e crescente successo delle MH, si è cercato di metterne a fuoco la declinazione più adeguata a raggiungere l’obiettivo della promozione di un atteggiamento autenticamente centrato sul paziente e di un processo di integrazione tra pratica medica e humanities realizzato attraverso una maggior consapevolezza anche teorica della prima. Abbiamo illustrato quali aree di indagine risultino a nostro avviso più funzionali a tali scopi, e perché. Senza assolutamente escludere, né sminuire, il valore disciplinare e l’interesse teorico di tutti gli ambiti di studio che si riconoscono nelle MH, abbiamo voluto sottolineare la validità di un approccio concettuale in ambito di formazione: l’inclusione dello studio della metodologia della scienza, della filosofia della scienza e dell’etica all’interno di un quadro storico-critico nei curricula medici può impattare in modo diretto sulla formazione dei futuri medici, tanto in un ambito clinico quanto di ricerca, e, quindi, indirettamente, sulle condizioni di salute del singolo e della popolazione. Si tratta di una posizione che abbiamo sostenuto lungo diverse direttrici, facendo riferimento a: i) argomentazioni teoriche di carattere concettuale; ii) riflessioni sulla storia disciplinare recente delle MH; iii) istanze che emergono all’interno delle stesse scienze biomediche. Ciò che, innegabilmente, manca per rendere cogenti le nostre considerazioni sono studi definitivi di carattere empirico che rilevino un rapporto causale tra l’insegnamento di alcune discipline, la loro assimilazione da parte di professionisti delle scienze biomediche, e un miglioramento effettivo di percorsi di ricerca o di cura. Qualche studio, in realtà, comincia ad apparire (Macnaughton 2000; Wershof et al. 2009; Macpherson, Owen 2009; Athari 2013; Lee, Lee, Shin 2019), ma per avere risultati definitivi sono necessarie altre ricerche che permettano di misurare l’efficacia dell’incontro tra medicina e MH nell’accezione qui invocata. Nel frattempo, riteniamo che le riflessioni teoriche all’intersezione della filosofia e della pratica medica sopra esposte forniscano buone ragioni per sostenere che la filosofia della scienza, la riflessione storico-concettuale e metodologica, e la bioetica possono aiutare in modo significativo la medicina a superare la sua attuale “crisi esistenziale”, come l’ha etichettata il passato Editor del British Medical Journal (Smith 2016).

L’articolo a firma di Boniolo, Campaner e Gazzaniga vuole segnare l’apertura di un dibattito sul ruolo, la posizione  e l’utilità dell’insegnamento delle Scienze Umane nei Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia. La necessità di utilizzare capacità di lettura della realtà clinica e sperimentale caratterizzate da approcci inter e transdisciplinari che attingano a diversi saperi umanistici è da tempo chiara a chi insegna Storia della medicina nelle università italiane. La possibilità di confrontare i frutti del pensiero medico e scientifico con le letture che di esso si possono fornire in senso storico, filosofico, epistemologico, antropologico e bioetico è oggi riconosciuta come essenziale per gli studenti dei corsi di laurea in medicina e delle professioni sanitarie, che necessitano di perfezionare gli strumenti a loro disposizione per comprendere l’impianto epistemologico e storico della medicina contemporanea. Per sviluppare il dialogo inter e transdisciplinare sul ruolo delle Scienze Umane in Medicina, è stata recentemente fondata presso Sapienza-Università di Roma una nuova Società Scientifica, la SISUMed: la società, i cui fondatori provengono da formazioni diverse (medici, storici, filosofi, pedagogisti, antropologi, bioeticisti), si propone di incentivare la discussione sul ruolo, la natura, l’utilità delle Scienze Umane nella formazione del medico, mettendo a punto nuove strategie che anche sul piano didattico agevolino il dibattito sulle sfide, sempre più complesse, che la medicina affronta sia sul piano sperimentale che clinico e applicativo.
Chi volesse contribuire alla costruzione di tale dibattito può inviare il suo testo, steso in accordo con le norme editoriali dei Quaderni, a
valentina.gazzaniga@uniroma1.it.

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Cita questo articolo

Boniolo, G.; Campaner, R.; Gazzaniga, V.; Medical Humanities: una proposta interpretativa e didattica, Medicina e Chirurgia, 83, 3697-3705, 2019. DOI: 10.4487/medchir2019-83-5

Affiliazione autori

Giovanni Boniolo – Dipartimento di Scienze Biomediche e Chirurgico Specialistiche, Università di Ferrara
Raffaella Campaner – Dipartimento di Filosofia e Comunicazione, Università di Bologna
Valentina Gazzaniga – Unità di Storia della Medicina e Bioetica, , Sapienza-Università di Roma.

SISUMed: una nuova sfida per le Scienze Umane in medicinan.82, 2019, pp. 3666-3667

Articolo

Sinergie ‘antiche’ per una nuova Società scientifica
Fondata a Roma il mese di febbraio 2019, per iniziativa di un gruppo di docenti che insegnano Storia della medicina, Bioetica e Scienze Umane in medicina, la Società Italiana di Scienze Umane in Medicina (SISUMed) nasce come primo frutto del lavoro della Commissione Medical Education delle tre Facoltà mediche di Sapienza (Medicina e Odontoiatria; Medicina e Psicologia; Farmacia e Medicina) e, in particolare, di un suo gruppo di lavoro sulle Scienze Umane in Medicina, da alcuni anni attivo nel definire nuove strategie di pedagogia medica aperte al contributo possibile che le scienze umane possono apportare alla complessa formazione del medico del futuro.
Il lavoro inter e transdisciplinare portato avanti in questi anni da colleghi con formazione culturale molto diversa (storici della medicina; patologi; clinici; pedagogisti medici; antropologi culturali; psichiatri e psicologi) ha progressivamente messo in luce il fatto che la letteratura internazionale, sebbene si sia da decenni occupata della definizione e del ruolo possibile da attribuire alla scienze umane nella formazione del medico, ha fornito solo di rado contributi effettivamente innovativi, che non indulgano a un mero atteggiamento compiacente o, peggio, all’idea che la competenza ‘umanistica’ sia una decorazione elegante per il medico in formazione, ma non una necessità pedagogica sostanziale nella definizione dei curricula medici.
Il recente rinnovato interesse nei confronti delle soft skills, abilità trasversali volte a migliorare le prestazioni lavorative e a ottimizzare il clima in cui esse si svolgono, sembra imprimere una nuova direzione al dibattito scientifico. Gran parte delle riflessioni che gravitano attorno alle Scienze Umane in medicina tendono a porre l’accento sulle criticità del sistema formativo biomedico, a cui viene imputato il fenomeno di depersonalizzazione e reificazione del paziente e della ‘commercializzazione’ delle professioni mediche. Molto più rare sono le riflessioni e le proposte volte a strutturare linee guida condivise che possano condurre alla costituzione di programmi formativi adeguati all’interno delle diverse scuole mediche. Molti contributi1 evidenziano, infatti, le difficoltà incontrate nella misurazione dell’impatto delle Scienze Umane in medicina nei percorsi formativi, sottolineandone la fumosità e indeterminatezza, la cui causa è attribuita in genere alla loro spiccata vocazione interdisciplinare. Diversi autori manifestano un’allarmante preoccupazione in merito e dichiarano che la mancanza di prove quantitative riguardanti l’efficacia dell’insegnamento delle Scienze Umane in medicina può comportare la svalutazione dell’utilità di un approccio inclusivo nei percorsi di studio. Gli stessi studi riconoscono la quasi impossibilità di misurare l’impatto e l’efficacia formativa delle Scienze Umane in medicina attraverso strumenti sinora adottati nell’educazione medica, individuando ostacoli metodologici probabilmente insormontabili a causa della ampia pluralità di possibili confondenti. Da ciò discende una palese criticità nella misurazione dell’impatto formativo, che tuttavia non esclude la necessità di maggiore chiarezza in merito ai fondamenti epistemologici, fini, metodi e strumenti da utilizzare nella formazione degli studenti nel campo delle Scienze umane.
Un’interessante osservazione di Clayton J. Beker et al del 2017 2 propone un approccio di valutazione complesso, che non utilizzi soltanto un metodologia empirica, numerica e tassonomica ma che possa accostare ad essa la raccolta di narrazioni sull’esperienza individuale degli studenti di medicina.
Oltre queste problematiche metodologiche, il punto in cui sembra possano confluire le diverse prospettive sulle Scienze umane in medicina è il riconoscimento della necessità di accogliere due assunti fondamentali che ne definiscono l’utilità: da un lato, il bisogno di riconoscere una visione che possa storicizzare l’arte medica eurooccidentale, cercando di capire come il mondo medico viene a comporsi quale forma distinta di realtà per chi si accinge a immergersi nello studio della medicina; dall’altro, la consapevolezza degli avanzamenti conoscitivi e operativi della biomedicina che, se hanno consentito l’espansione della Sanità Pubblica nella sfera globale determinando un notevole controllo rispetto alle patologie infettive, hanno anche favorito, insieme a processi di altro ordine e grado, il conseguente e progressivo emergere di altre patologie come quelle degenerative, verso le quali i modelli virtuosi di lavoro scientifico sembrano aver perso gran parte del loro mordente. Al contrario e contemporaneamente, cresce la necessità dello studio e dello sviluppo della compliance fra professionista e paziente.
Nel suo celebre studio, La nascita della clinica, Michel Foucault3 riconosce criticamente come il nucleo della biomedicina si fondi su un logos di “visibilità” empirica del corpo e della malattia. La medicina scientifica e la formazione medica basano, secondo questo modello, il loro sguardo sul paradigma empirista che guarda al corpo come a una cosa in un mondo di cose. Segni e sintomi, allora, vengono messi in relazione con la ripetizione della frequenza di malattia. Dunque, decriptati dal significato individuale, segni e sintomi divengono significanti: la patologia assume un significato prestabilito. È quindi evidente quanto il processo di costruzione dell’idea di paziente quale oggetto dell’attenzione medica significa sottoporre lo studente a un lavoro di plasmazione culturale. A partire dalla consapevolezza della necessità di implementare questo lavoro culturale all’interno del percorso formativo biomedico è semplice comprendere l’importanza delle Scienze Umane in Medicina per arrivare, come suggerisce A. Bleakely ,alla dereificazione e de-oggettivazione del paziente. Se dunque è chiaro quanto nei documenti ufficiali della professione medica, sia nazionali che internazionali, da tempo si invochi un’evoluzione della medicina chiamata al compito gravoso ma ineluttabile di conciliare il progresso biomolecolare e lo sviluppo tecnologico con il recupero di una visione della cura e di chi è curato orientata alla complessità, l’approccio metodologico allo sviluppo congiunto di competenze riflessive di sensibilità globale rimane tuttora problematico. Ciò non toglie però che il vasto dominio delle discipline ricomprese negli ambiti delle Scienze Umane in medicina (in letteratura anglosassone, Medical Humanities: storia della medicina, filosofia della medicina, bioetica, antropologia culturale e antropologia medica, museologia medica e della sanità, storia della sanità pubblica, sociologia della medicina, storia della biologia, storia delle neuroscienze, filosofia della biologia, neurofilosofia, pedagogia medica, paleopatologia) ) e dei rispettivi metodi di indagine sembra avere le caratteristiche necessarie a garantire gli esiti di ricerca, di formazione e di applicazione necessari alla sfida. Le scienze umane possono aiutare a focalizzare quali strumenti culturali siano effettivamente utili al medico del futuro, chiamato a fronteggiare sfide importanti: l’aumento crescente delle disuguaglianze in salute4, delle diseguaglianze in relazione al genere, l’epidemia globale delle patologie croniche e la complessità della loro gestione in un contesto di crescente disagio socio-economico, unitamente ai cambiamenti culturali, socio-demografici legati all’invecchiamento della popolazione e a movimenti di popolazione, sono tutti componenti che, ci sembra, contribuiscono a rendere necessaria una riflessione strutturale sui campi di applicazione clinica del concetto di equità in salute. Queste premesse pongono l’urgenza di incentivare e incrementare, nel percorso formativo dei medici e dei professionisti della salute, un approccio interdisciplinare e multidimensionale.
La strada intrapresa dalla Società Italiana di Scienze Umane in Medicina (SISUMed) rispetto alla promozione di un perfezionamento del percorso formativo appare dunque attuale e necessaria: essa prevede la costruzione di esperienze di sviluppo e diffusione di conoscenze avanzate di interesse multie transdisciplinare, finalizzate a ottenere standard educativi sempre più alti e a monitorare costantemente processi di apprendimento che abbiano ricadute concrete nel garantire alle prestazioni sanitarie livelli intellettuali, professionali e etici elevati, a garanzia della comunità medica e dei pazienti che ad essa si affidano.

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Cita questo articolo

Gazzaniga V., Iorio S., SISUMed: una nuova sfida per le Scienze Umane in medicina, Medicina e Chirurgia, 82, 3666-3667, 2019.

Affiliazione autori

Valentina Gazzaniga – Università Sapienza Roma

Silvia Iorio – Università Sapienza Roma

Formare i medici dal Medioevo al primo evo modernon.81, 2019, pp. 3629-3631, DOI: 10.4487/medchir2019-81-7

Articolo

La trasmissione delle conoscenze mediche e la formazione dei medici trova nel tardo Medioevo europeo, tra la fine del XII e l’inizio del XIII sec., con l’inserimento dell’insegnamento della medicina nelle università, una soluzione di straordinario successo, sia sotto il profilo della sistematizzazione, dello sviluppo e della trasmissione del sapere medico, sia sotto quello dell’organizzazione della professione. Salerno, già nel X sec. famoso centro di insegnamento medico, pur non disponendo nel Medioevo di una struttura didattica giuridicamente riconosciuta ed entrato solo nel XV secolo a far parte del sistema universitario, ha svolto tuttavia un ruolo cruciale nell’evoluzione dell’insegnamento medico in Italia e in Europa e nello stesso strutturarsi dell’insegnamento universitario, attraverso la trasmissione sia di testi e di commenti, sia di tecniche didattiche. Fra la fine del XII e l’inizio del XIII sec. un gruppo di maestri e studenti, attratti dalla possibilità di aprire libere scuole ed in seguito dai privilegi offerti dalla fondazione dell’Università, si era trasferito da Salerno a Montpellier. Più o meno contemporaneamente che a Montpellier l’insegnamento medico universitario emerge anche a Parigi, e in seguito in diverse città italiane.

Da questo periodo in poi, fra i numerosi soggetti che esercitano a vario titolo e a vari livelli attività terapeutiche, il medico dotto di formazione universitaria (physicus) occupa una posizione di preminenza culturale e sociale rispetto al praticante di successo, ma privo di dottrina (ad esempio, il chirurgo di alto livello). La medicina universitaria compie così una progressiva e sempre più vasta riconquista del patrimonio scientifico e medico dell’Antichità, attraverso la quale la comunità scientifica dei maestri delle Facoltà mediche elabora non solo un’organica e sofisticata sistemazione della cultura medica, ma mette a punto, in complessi dibattiti, la definizione del livello scientifico della medicina nei suoi due aspetti costitutivi e inscindibili di teoria e prassi – di scientia e di ars – e ne stabilisce lo statuto epistemologico.

Nel sistema universitario la formazione del medico avviene presso uno Studium generale, attraverso un corso di studi formale e graduale, che si conclude ufficialmente con il conseguimento dei gradi accademici, ottenuti attraverso gli esami di licenza e di dottorato, che lo proclamano doctus et expertus e gli consentono, oltre all’esercizio della professione medica, di insegnare presso qualsiasi Università e, eventualmente, di entrare a far parte di un Collegio dottorale. La comunità scientifica, formata dai docenti e dai medi-ci impegnati nell’esercizio della professione, costituisce con i Collegi dei medici cittadini, prima in Italia, dove più favorevoli erano le condizioni sociali, poi nel resto d’Europa, efficaci strumenti di autogoverno e di auto-conservazione. Nei centri urbani di una certa importanza, ma privi di uno Studio generale, la presenza del Collegio dei medici garantisce non solo il controllo sull’esercizio della professione medica e sulle altre attività di cura, ma spesso, grazie all’acquisizione di privilegi, gelosamente custoditi, anche la possibilità di riconoscere ufficialmente, con il conferimento dei gradi, un corso di studi svolto presso uno Studio generale.
I curricula degli studi medici delle varie università europee non differiscono in modo sostanziale, benché siano presenti varianti locali. Nella maggior parte delle università la medicina si presenta come una disciplina di grado superiore, al cui percorso formativo si accedeva dopo aver completato un corso di studi propedeutici in arti liberali e in filosofia naturale. Tuttavia, nei centri universitari dell’Italia del nord e del centro, come anche a Montpellier, la medicina riesce a conquistare, prima che altrove in Europa, una posizione eminente, sia dal punto di vista accademico, sia da quello sociale e professionale. In Italia le favorevoli condizioni economiche e sociali rendono possibile l’impiego da parte di varie istituzioni pubbliche di una folta schiera di medici e chirurghi e fanno sì che, di fronte alla domanda di formazione universitaria per le professioni giuridiche e sanitarie, numerose città di una certa importanza cerchino di ottenere uno Studio generale; molte di queste università tuttavia hanno avuto vita breve e precaria. L’omogeneità nei testi autoritativi prescritti dai curricula e nelle tecniche didattiche permettono la grande mobilità da uno Studio all’altro di maestri e di studenti. Per quanto con accentuazioni diverse, la parte teorica della medicina in quanto scientia, secondo il modello aristotelico dello scire per causas, è considerata una disciplina subalterna alla filosofia naturale; la parte pratica è scientia operativa o ars scientifica, in quanto, pur collegata intimamente alla parte teorica, è ordinata all’operazione e detta appunto le regole dell’opus vero e proprio. Alla fine del XIV sec. prima a Bologna e a Padova, poi anche in altri centri italiani, viene introdotta la separazione dei corsi di medicina teorica e di medicina pratica, con due serie di cattedre, ordinarie e straordinarie, che all’inizio riflettono nell’ordine gerarchico, confermato dalla diversità degli stipendi, il livello epistemologico superiore della medicina teorica. L’adozione come testo privilegiato del Canone di Avicenna, attorno al quale si dispongono gli altri testi autoritativi, sia per l’insegnamento di Teorica sia di Pratica, accentua il peso degli aspetti teorici e dottrinali. Uno schema adottato in diverse università prevede che la Theorica sia divisa in physiologia, sulla natura del corpo umano, aetiologia, sulle cause delle malattie, semeiotica, sui segni delle patologie, pathologia, sulle malattie propriamente dette, e therapeutica. Queste due ultime parti, fra le quali assume particolare importanza l’esame delle malattie “a capite ad calcem”, dalla testa ai piedi, sconfinavano largamente nella Practica, a sua volta divisa in diaetetica, pharmaceutica, chirurgica.
Alcuni centri come Bologna, Padova, ma anche Siena, Pavia e Perugia ed in seguito Ferrara riescono a stabilire continuità didattica e a guadagnarsi la fama, che garantiscono loro un notevole flusso di studenti provenienti da altre regioni italiane e dal resto d’Europa. Quello delle università italiane è un caso particolare e di grande successo; vi si afferma infatti un curriculum che unisce Arti e Medicina nel quale tuttavia permane chiara la distinzione fra il corso di Arti, generalmente della durata di quattro anni e quello di Medicina, della durata di quattro o cinque anni. In queste università, anche per l’assenza, fino ad un periodo tardo, della teologia, insegnata presso gli Studia dei vari Ordini religiosi, la medicina costituisce il culmine degli studi scientifici e gli studi filosofici, prevalente-mente propedeutici agli studi medici, da una parte caratterizzano fortemente l’aristotelismo in senso biologico-naturalistico, dall’altra improntano gli studi medici, favorendo sia la riflessione epistemologica e metodologica, sia l’approfondimento di problematiche di filosofia naturale.
La consapevolezza della necessità di una riforma della cultura medica giunge a matura-zione fra l’ultimo decennio del XV sec. e i primi due del XVI, quando giungono sulle cattedre di medicina delle università dell’Italia del Nord personaggi che avevano goduto, nel periodo di formazione pre-universitaria, di una aggiornata educazione secondo l’ideale umanistico. L’alleanza degli studi filosofici e scientifici con la filologia umanistica si rivela di importanza cruciale per la cultura scientifica italiana ed europea. L’attività filologica dei medici umani-sti, gli unici fra i filologi del tempo in possesso sia delle capacità linguistiche sia delle conoscenze tecniche che li ponevano in grado di comprendere a pieno le problematiche poste dai testi medici, non rimane nell’ambito pura-mente intellettuale del recupero della cultura del passato, ha bensì uno scopo pratico, quello di costituire un corpus di conoscenze mediche sicure che possano garantire una pratica efficace. Una via importante di diffusione è stata, come in passato, la mobilità dei maestri. An-che la peregrinatio studiorum degli studenti contribuisce a diffondere la nuova medicina. Le novità dell’insegnamento medico italiano attirano un gran numero di studenti stranieri. Lo studio diretto dei testi è alla base anche di altri importanti sviluppi; infatti le uniche novità che riescono a penetrare permanentemente nei curricula, vale a dire lo studio rinnovato dell’anatomia e della botanica, che gradualmente riusciranno ad imporsi come materie autonome, sono all’inizio frutto proprio di questa migliore conoscenza delle opere di Galeno e dei botanici greci.
La commistione di filosofia naturale e medicina è una caratteristica specifica e innovativa delle università italiane. L’anatomia, per quanto sia stata, non a torto, il focus della storiografia è solo uno dei casi di stretta collabo-razione fra competenze del physicus e quelle di altre professioni. L’affermarsi di nuove discipline porta, in Italia, alla creazione di luoghi e spazi diversi da quelli tradizionali per l’insegnamento universitario: tra questi l’Orto botanico e il teatro anatomico. A Padova, come in altri centri tra cui Bologna e Roma, si assiste anche alla precoce utilizzazione dell’ospedale ai fini dell’osservazione clinica e della didattica – un’innovazione forse perfino più impor-tante, ai fini dello sviluppo di una medicina clinica ‘sperimentale’, delle due precedenti. Questo irraggiarsi dell’insegnamento in luoghi delle città universitarie diversi da quelli canonici, e quindi l’allargarsi e il dinamizzar-si dei pubblici della didattica e della ricerca, non è un fenomeno solo di quest’epoca: ma nella seconda metà del Cinquecento, in Italia, esso assume una speciale importanza. Non è trascurabile il peso che le università han-no avuto nell’attivare e contribuire a istruire reti locali di curanti, o nel mettere in rapporto istituzioni della cultura accademica con le professioni e le istituzioni mediche non acca demiche (si pensi ad esempio alla centralità per gli speziali toscani dell’orto dello Studio pisano, o allo sfruttamento delle potenzialità didattiche insite nella rete ospedaliera bolognese o romana).

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J. Agrimi – C. Crisciani, Edocere medicos. Medicina scolastica nei sec. XIII-XV, Napoli 1988; Eaed., La medicina scolastica: dalla Scuola di Salerno alle Facoltà universitarie, in Le università dell’Europa. Le scuole e i maestri: il Medioevo, a cura di G.P. Brizzi, J. Verger, Cinisello Balsamo, Milano 1994, pp. 241-276;

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T. Pesenti, Arti e medicina: la formazione del curriculum medico, in Luoghi e metodi d’insegnamento nell’Italia medioevale (sec. XII-XIV), Atti del convegno internaz. di studi, Lecce-Otranto 6-8 ott. 1986, a cura di L. Gargan e O. Limone, Galatina 1989, pp. 153-177.

Cita questo articolo

Conforti M., Formare i medici dal Medioevo al primo evo moderno, Medicina e Chirurgia, 81, 3629-3631, 2019. DOI: 10.4487/medchir2019-81-?

Formare i medici nel mondo anticon.80, 2018, pp. 3588-3590, DOI: 10.4487/medchir2018-80-4

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E’ a tutti noi evidente che le modalità con cui oggi viene strutturato il curriculum degli studi medici abbia conseguenze di estrema importanza non solo per la definizione dei profili culturali dei professionisti in formazione, ma per il futuro stesso della medicina e per l’orientamento futuro degli scenari di salute e malattia con cui le gene-razioni a venire dovranno confrontarsi.

Per quanto la medicina sia stata nel mondo antico qualcosa di profondamente dissimile da ciò che essa oggi è per noi, tuttavia anche per epoche antiche il discorso conserva una sua validità: non è possibile comprendere la medicina antica, le sue connotazioni e le sue teorie, le sue pratiche prognostiche e terapeutiche prescindendo dalle modalità in cui gli aspiranti medici venivano formati, dagli strumenti che hanno a disposizione per la loro crescita culturale, dagli orientamenti teorici e pratici che ogni epoca ha immaginato come bagaglio culturale medico da assumere e sviluppare.

Anche limitandoci all’analisi sommaria della medicina razionale (la medicina di stampo ippocratico che, sulla scia delle indicazioni del ma-estro di Kos, limita l’indagine medica al mondo della physis/natura, escludendo dalla causalità di malattia la volontà divina) la questione dell’educazione medica in antico appare molto più complessa e distante da noi di quanto non immaginiamo. La medicina antica è un sapere – o meglio, un insieme di saperi – assai diversi tra loro: frutto di una stratificazione complessa e spesso sincrona di dimensione sapienziale, di sapere iniziatico e di spostamenti sul piano dell’indagine raziona-le sui fenomeni del mondo naturale e del corpo dell’uomo, la medicina si trasmette, per lo più, in modo informale, senza diplomi che attestino il conseguimento delle competenze, senza licenze di esercizio sul territorio né luoghi fisici stabili di riferimento per la trasmissione e l’addestramento; essa è insegnata con modalità itineranti, in conte-sti familiari prima e poi comunque ristretti, oscillando tra una fortissima caratterizzazione pratica iniziale e la via via crescente importanza di un quadro teorico di riferimento, in costante aggiornamento e modificazione. Le modalità di forma-zione del medico non sono state costanti e hanno subito cambiamenti significativi in archi di tempo abbastanza ristretti; molti fattori apparentemente estranei alla medicina hanno condizionato le modalità del suo strutturarsi. Tra questi, l’influenza della Sofistica ha creato figure di maestri professionali che si sono via via sostituiti alla trasmissione del sapere medico in ambito familiare.

Anche testi molto celebri, come il Giuramento di Ippocrate, con il suo dettato deontologico, suggeriscono la necessità di trovare regole di comportamento in grado di reggere un insegnamento in transizione dal piano della trasmissione iniziatica e familiare a quello pubblico, aperto a chiunque desideri apprendere l’arte. Il pubblico a cui si indirizzano gli insegnamenti è variegato: tra gli stessi libri attribuiti a Ippocrate, alcuni sembrano evidentemente essere stati concepiti per formare studenti, altri sembrano destinati a colleghi, pazienti e – cosa per noi bizzarra – anche a un va-sto pubblico ‘laico’, per cui la medicina è uno dei molti orizzonti possibili di crescita culturale.

Dunque, siamo di fronte a una medicina priva di luoghi fisici di trasmissione, culturalmente pervasiva e destinata a un pubblico eterogeneo (basti pensare a quanti riflessi delle teorie mediche ippocratiche si leggono nella descrizione della pe-ste di Atene di Tucidide, ai legami attestati e studiati tra la tragedia greca e il mondo intellettuale di Ippocrate, o allo sforzo di alcuni testi medici e filosofici di formare un ‘paziente competente’); un sapere in movimento, al seguito del maestro prescelto, da una città all’altra e spesso, per le vi-vaci dinamiche di movimento che caratterizzanole culture antiche del Mediterraneo, da un paese all’altro. Ippocrate è un viaggiatore, e così Teofrasto, Erasistrato, Galeno e molti altri, il cui training è caratterizzato da brevi o lunghe permanenze in città diverse, al seguito di uno o più maestri dalla cui abilità e fama dipende il futuro degli allievi, il loro buon nome e il successo professionale. La mobilità della formazione medica ha importanti ricadute anche sugli usi e sulle pratiche di cura: basti pensare a quanto la farmacologia antica si giova, nel tempo, dell’utilizzo di piante e sostanze che arrivano da tutto il bacino del Mediterraneo e, non di rado, anche da molto più lontano (dalla Siria, dal vicino Oriente antico, dall’India).

Per quanto riguarda la formalizzazione degli studi, non disponiamo di alcuna evidenza che attesti che venisse concessa licenza, diploma o altro tipo di riconoscimento ufficiale al termine di un periodo di formazione. Quest’ultimo, del resto, può avere estensione temporale molto variabile: da pochi mesi a molti anni, come ci ricorda Galeno – mettendo in guardia i pazienti dal rivolgersi a medici che si siamo formati in appena sei mesi. Nessun medico antico, inoltre, ha usato il Giuramento di Ippocrate per sancire la fine del percorso di studi: la riscoperta del testo e la sua lettura pubblica è pratica in uso da tempi molto più recenti, in contesti universitari consolidati.

Spesso anche altri medici colti mettono in guardia i pazienti dai pericoli dell’improvvisazione o dell’amore, molto diffuso soprattutto in epoca imperiale, per il saper strabiliare la platea di pazienti e colleghi (per esempio, con fascia-ture complicatissime, di gran moda nella Roma imperiale): l’abilità retorica, anche se può essere utilizzata per ottenere aderenza del paziente alle prescrizioni, non equivale sempre a reale competenza. La formazione non deve essere conseguita attraverso un training continuo e, anzi, può essere caratterizzata da cronologie anche molto distanziate.

Non è documentata una selezione a priori degli ‘studenti ideali’: ma alcuni prerequisiti (più morali che culturali) possono essere richiesti, come ci ricorda Celso nel tratteggiare la figura del chirurgo ideale, o Sorano di Efeso quando, nel suo Trattato sulle malattie delle donne, dipinge l’ostetrica per-fetta: giovane età, forza fisica, coraggio, resistenza agli stress emotivi e mano salda in un caso; cultura, buon temperamento, memoria, amore per la professione nell’altro.

Quanto al curriculum, anche questo è fluido e eclettico, nel mondo greco e a Roma; improntato, come si è detto, a una importante formazione re-torica per convincere il paziente a affrontare tutti i faticosi percorsi di cura – ma anche per essere in grado di pubblicizzare la propria arte, al fine di guadagnare clientela in un ‘medical marketplace’ variegato e ricco di offerte di livello differente – prevede competenza matematica, necessaria per valutare e computare i giorni fausti e infausti, sui quali si fonda la formulazione della prognosi e la preparazione delle ricette; conoscenza della geometria, per comprendere l’estensione del corpo; comprensione dell’ astrologia, per spiegare gli in-flussi della natura su salute e malattia; in logica, per impostare il ragionamento clinico; in etica e etichetta, per essere medico moralmente adeguato – quod optimus medicus sit quoque philosophus, come titola una celebre opera di Galeno. Una formazione globale, del tutto priva della percezione della distinzione tra scienze e umanesimo, tesa a leggere arte e letteratura come strumenti per affermare la superiorità della formazione medica rispetto alle altre discipline scientifiche.

In questa formazione totale, ha ruolo centrale ciò che oggi chiameremmo ‘bedside teaching’: Galeno ricorda al lettore come il vero luogo dell’insegnamento sia la stanza dell’ammalato, dove si apprende a fare, ma soprattutto a compiere delicate operazioni intellettuali che costituiscono il nucleo dell’approccio clinico- vedere, ascoltare, percepire, paragonare, prescegliere, prevedere.

Via via che la medicina diventa professione, chi la studia si dota anche di strumenti e supporti materiali di trasmissione del sapere, formalizzando modelli di insegnamento e nuclei concettuali di riferimento per la spiegazione dei fenomenidel corpo sano ed ammalato: trattati e ‘definitiones’ (cioè elenchi esplicativi di segni, malattie e concetti, dizionari allargati di facile immediato utilizzo nella pratica), lettere private tra colleghi di discussione clinica e farmacologica, testi a domande e risposte per facilitare l’apprendimento, ricettari e sintesi agili stese sul modello degli Aforismi ippocratici, vaste enciclopedie, sinossi e commenti alle opere di maestri più antichi. Attraverso questi materiali, la medicina dell’antichità classica consegna se stessa al medioevo arabo e poi occidentale e, di lì, alle università.

[Bibliografia]

Horstmanshoff M., Hippocrates and Medical Edu-cation. Selected Papers at the XIIth International Hippocrates Colloquium, Universiteit Leide, 24-26 August 2005. Brill, Leiden-Boston, 2010.

M. Vegetti, Le origini dell’insegnamento medico, in Medical Teaching: Historical, Pedagogical and Epistemological Issues «Medicina nei secoli» 16, n. 2 (2004), pp. 237-251.

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Gazzaniga V., Formare i medici nel mondo antico, Medicina e Chirurgia, 80: 3588-3590, 2018. DOI: 10.4487/medchir2018-80-4

Storia e medicina di generen.78, 2018, pp. 3503-3505, DOI: 10.4487/medchir2018-78-5

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La salute non è un campo neutrale. Il concetto di diversità, declinato sui temi del sesso e del genere, è uno degli strumenti della riflessione clinica, ma anche di quella bioetica – quando discute, in particolare, del principio di uguaglianza. Il tema ha una storia medica recente. Proviamo rapidamente, attraverso un riesame della letteratura, a verificare se, in prospettiva storica, questa affermazione di ‘contemporaneità’ sia effettivamente condivisibile.

Il concetto di genere ha fornito significativi risultati alla ricerca storica negli ultimi venti anni su temi che riguardano il rapporto tra concezione del corpo femminile, l’evoluzione del concetto di malattia e di salute, le variabili ambientali e socio-culturali che hanno storicamente prodotto o modificato comportamenti legati alle differenze di sesso, il ruolo stesso delle donne nella storia della medicina. Prospettive anche cronologiche diverse sono state affrontate per rispondere a domande su come si sia prodotta una competenza medica sul corpo delle donne, e su come essa sia stata tramandata e modificata in contesti diversi1. Ogni domanda posta per epoche storiche e contesti diversi ha dimostrato di essere strettamente connessa ad altre, in una tessitura della quale non è semplice sciogliere i nodi. Come è stato concettualizzato il corpo delle donne; come il suo funzionamento; quali competenze si sono esercitate su questo “corpo segreto”; quali sono le tappe nodali che vanno analizzate per comprendere come si sia generata l’idea di una ‘diversità’ femminile; e, infine, come e se questa idea abbia influenzato la pratica medica. Molte le difficoltà: in primis, la voce delle donne, pressoché inesistente nei documenti fino ad epoche recenti. La medicina, in particolare, è un territorio paludoso, dove le donne sono assenti o, se presenti, con ruoli marginali e non facilmente ricostruibili. Su un arco cronologico esteso più di qualsiasi altra scienza, la medicina, la biologia e la filosofia naturale hanno assunto posizioni molto diversificate, anche all’interno di epoche e culture coerenti: lavori come quelli di Joan Cadden hanno messo in luce che, anche solo nell’ ambito dell’antico, esiste una diversità molto notevole tra le posizioni assunte dagli autori di opere mediche e biologiche in tema di salute femminile, fisiologia e concettualizzazione sessuale2; e questa molteplicità di punti di vista trascina la sua eredità almeno sino alle soglie dell’epoca contemporanea.

In secondo luogo, pesa il fatto evidente che in ogni epoca storica le conoscenze anatomiche, fisiologiche e patologiche non possono essere scisse dal panorama culturale nel quale si collocano – con la conseguenza che ogni concettualizzazione del corpo è in qualche modo “gendered”, inscindibile dalla tessitura sociale e dai ruoli imposti nelle società che la produce. Può essere, pertanto, difficile ‘isolare’ e ricostruire qualcosa che, soprattutto a un pubblico medico, possa essere presentato come una ‘storia della medicina di genere’. 

Un dibattito storiografico

Il dibattito storico, già avviato negli anni ‘80 del Novecento, si fa più si fa intenso a partire dal 1990, anno di pubblicazione del libro di Thomas Laqueur, Making Sex. Body and Gender from the Greeks to Freud3. Per Laqueur, tutta la tradizione medica occidentale è stata occupata in modo pervasivo da un “one sex-model”, in cui l’anatomia femminile è la semplice inversione del maschile. Questo modello (maschile/paradigma; femminile/ devianza), sarebbe derivato da un’elaborazione della concettualizzazione aristotelica del femminile come versione dimensione diminuita, fredda ed incompleta del maschile: la donna, ferma a uno stato intermedio sin dal momento dell’embriogenesi, è un mostro – necessario alla riproduzione della specie, ma pur sempre teras4.

Questo modello sarebbe stato traghettato attraverso Galeno al Medioevo e all’Età moderna: tanto la tradizione di iconografia anatomica (cfr. le tavole anatomiche in Andrea Vesalio De Humani corporis fabrica, in cui gli organi riproduttivi femminili richiamano, introiettati, quelli del maschio), quanto un dibattito di Evo moderno sull’ esistenza di uomini ‘mestruanti’ testimonierebbero per la correttezza della tesi proposta da Laqueur. Il modello ‘one sex’ sarebbe stato soppiantato da un modello di diversità solo a partire dal 1700, quando l’Occidente medico avrebbe intrapreso un dibattito sulle differenza sessuali e, conseguentemente, avrebbe introdotto nuove modalità di relazione sociale basate sull’idea del dimorfismo biologico.

La posizione di Laqueur è stata appoggiata da L.

Schiebinger5 che, analizzando una serie di trattati anatomici pubblicati in Europa in ambiti diversi a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, sostiene che sia stato solo il secolo dei Lumi a definire il corpo nelle sue differenze sessuali.

Testi come quello di E. Th. Moreau, J. Ackermann6, o illustrazioni come quelle di G.-Ch.Thiroux d’Arconville e S. Th. von Soemmering, pubblicati tra metà e fine del Settecento, hanno in questa prospettiva lo scopo di estendere l’indagine delle differenze sessuali dagli organi riproduttivi all’intero corpo, a partire dallo scheletro, che ne costituirebbe fondamento e impalcatura. Trovare differenze nelle ossa significherebbe, per un nutrito gruppo di autori che lavorano tra il 1730 e il 1790 in Francia, Germania ed Inghilterra, postulare l’estensione di queste differenze a tutto il corpo, dagli organi alla pelle, e sancire l’idea di disuguaglianza su base ‘scientifica’, in accordo con la legge naturale che assegna alle donne il solo ruolo di madri. Insomma, questi testi, che sembrerebbero archiviare definitivamente l’idea di una ‘imperfezione’ del corpo femminile, utilizzano invece proprio il concetto di perfezione del progetto naturale per inchiodare le donne in un ambito sociale e culturale estremamente ristretto. Il dibattito settecentesco (in realtà, già la medicina seicentesca aveva intrapreso una discussione medico-legale sulla possibilità che la diversità femminile si potesse esprimere attraverso un odore differente del sangue, che ne avrebbe testimoniato differente composizione chimica) viene ripreso e armonizzato, in tal senso, nel corso dell’Ottocento, da una nuova ‘medicina evoluzionistica’: nel 1820, John Barclay, nel cercare una mediazione tra le rappresentazioni anatomiche di d’Arconville (le donne hanno crani piccoli, costole strette e pelvi allargate) e von Soemmering (minori disparità tra scheletro maschile e femminile, soprattutto in relazione alle misure del cranio, che nelle donne è più largo in proporzione e più pesante), sostiene che le proporzioni maggiori del cranio femminile non siano da ricollegare in alcun modo a una maggiore intelligenza (come sostenuto da Gall), ma semplicemente a uno stadio interrotto dell’evoluzione, in cui le donne hanno arrestato la crescita, essendo di fatto simili alla struttura anatomica dei bambini o a quella di determinate popolazioni ‘primitive’.

Alle tesi proposte da Laquer e Schiebingen ha risposto, in prima istanza, M. Stolberg, che ha sostenuto che l’origine di un dibattito anatomico e scientifico sulla diversità di costruzione e funzionamento del corpo femminile debba essere fatta risalire più indietro, al Rinascimento.

Le sue tesi hanno raccolto un grande consenso tra studiosi che, a partire da un celebre convegno a Harvard nel 20067, hanno protestato il fatto che il modello ‘one sex’ abbia semplicemente rappresentato uno solo dei modi in cui la medicina e la biologia hanno affrontato il dibattito sulla natura della diversità del femminile.

Possiamo selezionare due esempi storici per illustrare l’inadattabilità del modello laqueriano all’intera medicina occidentale: da un lato l’antico, a partire dal mito esiodeo di Pandora fino ai testi ippocratici sulle malattie delle donne, in cui il corpo femminile è rappresentato come diversità pervasiva, che non si limita a colpire gli organi della riproduzione, ma è fondata su una alterità strutturale (le carni femminili, di tessitura porosa, trattengono umido) che codifica per una diversità anatomica, fisiopatologica e temporale.

Nei testi ippocratici questa diversità innata (che non dipende da un difetto: in CH sono predicati due semi, due contribuzioni diverse e ugualmente necessarie alla generazione) produce la conseguenza che le donne non possono essere medicalmente trattate come gli uomini.

Hanno bisogno di una terapia ad hoc, fatta di sostanze mai testimoniate come componenti di farmaci destinati all’uso sugli uomini. Ora, se è vero che queste richiamano quasi sempre il mito di un femminile fecondo (Afrodite, Era) o guerriero (Artemide, le Amazzoni), è altrettanto vero che esiste una farmacopea del femminile, alla cui costruzione devono aver contribuito direttamente anche le stesse donne greche8.

A questo modello, soprattutto durante il Medievo, si affianca il modello ‘one sex’ , la cui fortuna appare in larga parte dipendente dalla tradizione scolastica aristotelica.

Dal Cinquecento, invece, la riscoperta e la pubblicazione dei testi medici antichi dedicati alle malattie delle donne apre una nuova stagione di interesse sulle modalità di funzionamento (e non funzionamento) dei corpi femminili. I titoli di queste opere rinascimentali spesso ingannano: il ricorso al classico titolo Gynaekia (parola di per se multisignificante, che copre le sfere della mestruazione, della riproduzione e del parto, dell’isteria e dei disturbi correlati, del trattamento farmacologico delle donne), cela spesso opere collettanee, raccolte di estratti da testi non ginecologici, selezionati nelle sole parti che trattano dei disturbi del femminile. Gianna Pomata9 ci ha mostrato, d’altro canto, che anche nelle Curationes e Observationes di età moderna (raccolte di casi clinici), le pazienti donne sono numerose, e che nella quasi totalità dei casi i disturbi che i medici ritengono interessanti non riguardano affatto gli organi della riproduzione. In tutti questi testi, che si ispirano all’idea di diversità ippocratica, le donne hanno manifestazioni diverse delle stesse patologie che colpiscono gli uomini: diverse manifestazioni delle affezioni polmonari, diverse manifestazioni del morbo gallico. Diversi sono, di conseguenza, i trattamenti applicati (come lo erano nella medicina ippocratica, del resto: un solo esempio, quello del salasso, quasi mai prescritto in antico alle donne, che sono purificate attraverso il ciclo mestruale).

Il medico spagnolo Luis Mercado si meraviglia di come non sia evidente che persone che hanno stili di vita e condizioni di salute diverse debbono essere trattare con la consapevolezza che le manifestazioni delle malattie saranno in loro peculiarmente connesse alle diverse condizioni che li caratterizzano.

Il dibattito avrà echi importanti ancora alla fine del Settecento: per esempio, nella questione dell’”anatomizzazione” dell’isteria, che una tradizione tardo seicentesca, ancora viva e attestata in Morgagni, interpreta non come una malattia legata all’utero in sé , ma ad alterazione degli impulsi dei nervi trasmessi in date parti anatomiche: con la conseguenza che ciò che nelle donne è l’isteria negli uomini diventa affezione ipocondriaca, alterazione del funzionamento degli ipocondri – che ha le stesse cause della malattia nelle donne, ma peculiari manifestazioni cliniche a seconda del sesso e del genere.

In conclusione

La medicina da sempre ha avuto interesse a discutere del dimorfismo sessuale, della natura delle donne, della fisiologia e patologia della diversità. Rimane da chiedersi perché in certi momenti storici lo studio scientifico delle differenze ha assunto centralità, diventando in altri momenti (fine Settecento-Ottocento) una vera priorità. Ciò è ovviamente da ascriversi al fatto che la medicina è cultura specialistica centrale in ogni epoca storica e in ogni contesto: costruisce e decostruisce immagini del corpo necessarie a prescrivere ruoli sociali diversi, talvolta subalterni, talvolta complementari. Si è sempre prestata alla costruzione di un concetto di genere; nel mondo antico, postulare la diversità strutturale e fisiopatologica serve a indicare un ruolo apparentemente fondamentale per la polis, la generazione del futuro cittadino. Nella realtà storica, è noto invece che, a parte casi eccezionali, le donne rivestono ruoli solo là dove gli uomini non entrano- nel gineceo, nella stanza dove si nasce o si muore, nelle dimensioni riservate del rito.

Nel Rinascimento, se pur attraverso la riscoperta dei testi ippocratici, le cose cambiano: la Riforma introduce un dibattito teologico e sociale sul ruolo dei generi nel matrimonio; l’opposizione alla scolastica impone alla dottrina medica di cercare modelli alternativi alla fisiopatologia della mutilazione e della minoranza di matrice aristotelica; le donne di classe sociale elevata guadagnano ruoli nelle corti come patrone degli intellettuali e degli artisti. La medicina non è indifferente a questo mutamento di prospettiva: nuovi ruoli femminili impongono maggiore attenzione a nuove pazienti e cure di efficacia per i loro malanni. La medicina dotta deve, inoltre, riguadagnare un’utenza tradizionalmente in mano alle maie-ostetriche. In questo senso, costruire una teoria del funzionamento peculiare del corpo femminile significa indicare che la necessità di particolare competenza, da parte di uomini che abbiano studiato per essere in grado di trattare condizioni fisiopatologiche peculiari con mezzi terapeutici adeguati.

L’apparente cambio di rotta nei testi anatomici e medici tra Settecento e Ottocento non deve, infine, trarre in inganno. Si tratta solo dello sforzo congiunto di filosofia, medicina e politica di tratteggiare una ‘legge naturale’ che indichi le donne come diversità irriducibile- inadeguata a funzioni socio culturali che siano altro rispetto alla maternità e alla cura dei figli.

La costruzione medica di una diversità anatomica, fisiopatologica e terapeutica continua a servire il compito antico: predicare la necessità della rinuncia alla vita attiva e confinare le donne nel recinto della naturalità, lasciando agli uomini costruzione culturale e progettazione politica del vivere sociale.

Attualmente è proprio la necessità di particolare competenza, da parte di uomini e donne che abbiano studiato, che viene richiesta al fine di riconoscere, trattare adeguatamente e prevenire nel genere femminile condizioni patologiche che, pur essendo simili, possono avere come substrato condizioni fisiopatologiche peculiari e/ o espressione sintomatologica diversa.

Bibliografia

1 M. Green, Gendering the History of Women’s Healthcare. Gender and History 2008; 20,3: 487-518. V. Andò, Ancient Greece and Gender Studies, in Greek Science in the Long Run: Essays on the Greek Scientific Tradition(4th. c. BCE-17th c. CE), Cambridge Scholars Publishing, 2012, pp. 27-52.

2 J. Cadden, Meanings of Sex Difference in the Middle Age: Medicine, Science and Culture. Cambridege University Press, 1993.

3 T. Laqueur, Making sex. Body and gender to the Greeks to Freud. Harvard University Press, 1990.

4 Aristotele, De gen. anim. 775a, 15-16 5 L. Schiebinger, Skeletons in the closet. The first illustrations of the Female Skeletons in Eighteenth-Century Anatomy. Representation 1986;14: 42-82 6 E. T. Moreau, A medical Question: Wheter Apart from genitalia There is a Difference Between the Sexes? Paris, 1750.

7 “Remaking Sex in Classical, Medieval and Early Modern Medicine,” Radcliffe Institute for Advanced Study, Harvard University , June 2006. Stolberg M., A women down to her bones. The anatomy of sexual differences in the sixteenth and early seventeenth centuries.Isis 2003; Jun 94 (2): 274-99

8 V. Andò, Terapie ginecologiche, saperi femminili e specificità di genere, in Aspetti della terapia nel Corpus hippocraticum, Olschki,Firenze 1999, pp. 255-270.

9 G. Pomata, Was there a Querelle des femmes in Early Modern medicine? Arenal 2013; 20,2: 313-341.

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Gazzaniga V., Basili S., Sciomer S., Storia e medicina di genere, Medicina e Chirurgia, 78: 3503-3505, 2018. DOI: 10.4487/medchir2018-78-5

Il Pennsylvania Hospital, un ospedale dei primati nella culla degli Stati Uniti d’American.77, 2018, pp.3470-3472, DOI: 10.4487/medchir2018-77-4

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Filadelfia non rientra probabilmente tra le prime mete nordamericane per un turista europeo, ma quando si ha l’occasione di visitarla si ha subito la consapevolezza di essere giunti nella culla degli Stati Uniti. Durante l’immancabile visita alla Independence Hall, si entra finalmente nella celebre sala – esattamente arredata come allora – dove fu discussa e firmata la Dichiarazione d’Indipendenza del 4 luglio 1776. A questo punto è probabile che il Ranger in divisa che accompagna i visitatori vi faccia notare l’unica seggiola che non sta dietro ma a fianco di uno dei tavolini che erano destinati ai delegati delle tredici Colonie americane: è la sedia di Benjamin Franklin (1706-1790) che, a causa della gotta, aveva bisogno di uno spazio maggiore per il suo piede dolorante .

Anche se tutti conosciamo, più o meno, la poliedricità di quel genio indiscusso che fu Franklin – tipografo e giornalista, imprenditore edile e politico, scienziato e inventore… – non è altrettanto noto il ruolo decisivo che egli giocò anche nella storia della medicina e della sanità americane. Nel 1751, infatti, assieme al medico Thomas Bond (1712- 1784) Franklin diede vita al primo ospedale degli Stati Uniti, una istituzione destinata ad accumulare primati nei decenni e nei secoli successivi: il Pennsylvania Hospital .

Thomas Bond si era formato come medico in Inghilterra dove era venuto a contatto con un nuovo tipo di istituzioni ospedaliere, i voluntary hospitals, che venivano fondati a quel tempo in diverse città grazie al contributo volontario di un certo numero di benefattori per garantire un’assistenza sanitaria di qualità accettabile anche ai cittadini più poveri .

Rientrato a Philadelphia, Bond cominciò ad accarezzare e a diffondere il sogno di poter dare vita a qualcosa di simile anche nella capitale della Pennsylvania .

Inizialmente Bond pensava che quel progetto fosse troppo lontano dagli interessi del suo amico Franklin, già a quel tempo uno degli uomini più influenti della città, per poterlo coinvolgere direttamente. Ma appena gliene parlò questi gli offrì il suo sostegno incondizionato e, grazie al suo prestigio e capacità oratoria, il progetto del nuovo ospedale prese ben presto concretezza. Nella sua autobiografia Franklin scriverà: “Il Dottor Thomas Bond, un mio caro amico, concepì l’idea di stabilire un ospedale a Filadelfia destinato ad accogliere e a curare le persone povere… un progetto davvero benefico, il cui merito mi è stato spesso attribuito ma che si deve realmente a lui” .

In ogni caso, Franklin non fu solo tra i promotori dell’Ospedale ma ne divenne anche il primo amministratore e “storico”, nonché ideatore del suo celebre logo dedicato alla figura del Buon Samaritano .

Un’istituzione nata dalla mente e dal cuore di un uomo geniale come Benjamin Franklin – a Filadelfia è stato da poco inaugurato un bel museo dedicato a questa figura che verrebbe quasi da definire “leonardesca” – non poteva rimanere un ospedale come tutti gli altri. E infatti il Pennsylvania Hospital, ancora oggi una istituzione sanitaria all’avanguardia in molti settori, vede la sua storia secolare costellata di numerosi e notevoli primati .

Il Pennsylvania Hospital, oltre ad ospitare la più antica biblioteca medica (1762) e il primo reparto di ostetricia (1803) degli Stati Uniti, vide al lavoro il primo farmacista ospedaliero, una certo Jonathan Roberts (1752), e formò il primo resident statunitense .

Dal 1773, infatti, il sedicenne Jacob Ehrenzeller Jr., con l’impegno di non fornicare, comprare o vendere alcunché, giocare a carte o scappare, poté vivere nell’ospedale assistendo alle lezioni di medicina e alle operazioni chirurgiche, mentre il farmacista doveva “istruirlo accuratamente nella Medicina e nella Chirurgia” .

A proposito di chirurgia, ancora oggi nell’edificio settecentesco dell’ospedale si può visitare il più antico teatro operatorio degli Stati Uniti. Il bell’anfiteatro in legno, di forma circolare e con una balconata per il pubblico, funzionò dal 1804 al 1868: la maggior parte delle operazioni chirurgiche che vi si svolsero risalgono dunque all’era pre-anestetica e la totalità di esse a quella pre-antisettica. Non ci si stupisce quindi di scoprire che quella sala fosse popolarmente chiamata, per decenni, “the dreaded circular room” (la spaventosa sala circolare) .

Uno dei principali attori che calcarono a lungo la scena di quel teatro fu Philip Syng Physick (1768- 1837), ricordato spesso come il “padre della chirurgia americana”. Fu proprio Physick, per esempio, a rimuovere nel 1805 un tumore del peso di oltre tre chilogrammi che si può ancora oggi ammirare nella collezione storica dell’ospedale .

Decisamente meno precoce e più complicato fu l’ingresso nel Pennsylvania Hospital di personale femminile qualificato. Solo nel 1869 le studentesse di medicina furono ammesse a frequentare l’ospedale assieme ai loro colleghi maschi, benché a Filadelfia ci fosse un College per donne medico fin dal 1850. Il celebre chirurgo David Hayes Agnew rimase anche allora così contrario alle donne medico da rifiutare a lungo di essere nominato chirurgo al Pennsylvania Hospital. Solo alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento, poi, iniziò una vera scuola per infermiere secondo il modello stabilito, ormai quasi vent’anni prima, da Florence Nightingale .

Invece, uno dei principali titoli d’onore del Pennsylvania Hospital è sicuramente quello di avere dato origine alla psichiatria americana grazie all’opera di un altro firmatario della Dichiarazione d’Indipendenza, il medico e riformatore Benjamin Rush (1746- 1813). L’accoglienza dei malati di mente era stata fin dall’inizio una delle priorità dei fondatori dell’ospedale e i “lunatici” ivi accolti rappresentarono fin dall’inizio una percentuale molto significativa sul totale dei ricoverati. All’inizio, però, il Pennsylvania Hospital non si distingueva molto in questo ambito dalle coeve istituzioni europee: i malati, soprattutto quelli più agitati e violenti, erano rinchiusi in vere e proprie celle e non di rado si ricorreva a metodi fisici di contenzione quali catene, ceppi e camicie di forza. Oggi rimaniamo abbastanza turbati nello scoprire che chi, nel 1763, voleva andare a “vedere i matti” doveva pagare un biglietto d’ingresso! Benjamin Rush cominciò a lavorare nell’ospedale nel 1783 e oggi viene abitualmente considerato uno dei padri della psichiatria moderna, nonché uno dei promotori di un metodo più umano di cura dei malati di mente. A dire il vero, la sua famosa “sedia tranquillante”, alla quale il malato veniva legato mentre la testa era rinchiusa in una scatola di legno allo scopo di ridurne i movimenti, il flusso sanguigno e quindi l’agitazione, non ci sembra un grande passo in avanti. Ma sicuramente i suoi tentativi in quella che oggi chiameremmo “terapia occupazionale” dimostrano perlomeno una maggior considerazione per l’umanità del malato di mente. Il suo Observations and Inquiries Upon the Diseases of the Mind (1812), primo trattato di psichiatria pubblicato negli Stati Uniti, testimonia bene le contraddizioni di quella nascente psichiatria, ancora rozza e sostanzialmente impotente, ancorché ben intenzionata e mossa da sentimenti umanitari… Curiosamente, i quattro principali protagonisti della storia del Pennsylvania Hospital – Benjamin Franklin, Thomas Bond, Philip Syng Physick e Benjamin Rush – sono tutti sepolti, a pochi metri di distanza l’uno dall’altro, nel piccolo cimitero della Christ Church, nella parte antica di Filadelfia, a poche centinaia di metri dalla Independence Hall e dal Museo dedicato a Franklin. Fare una visita al Christ Church Burial Ground non è solo un’occasione per rivivere le origini della medicina e della chirurgia americane. È anche l’occasione per scoprire il senso dell’umorismo e, al tempo stesso, la profonda spiritualità di Benjamin Franklin che, sia detto tra parentesi, è anche l’inventore delle lenti bifocali… Di fianco alla sua semplicissima tomba su cui sono incisi solo i nomi suo e della moglie, è stato trascritto su una targa d’ottone l’epitaffio che Franklin – tipografo, rilegatore e bibliofilo – scrisse per se stesso quando era ancora giovane: “Il corpo di B.Franklin, tipografo, come la copertina di un vecchio libro, il contenuto tutto strappato, titoli e dorature ormai perdute, qui giace, cibo per i vermi .

Ma l’opera non è perduta per sempre, dato che egli crede che essa apparirà di nuovo, in una nuova ed elegante edizione, riveduta e corretta dal suo Autore” .

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Bibliografia

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Kristen A. Graham, A History of the Pennsylvania Hospital, The History Press, Charleston-London 2008, pp .128.

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Cita questo articolo

Borghi L., Il Pennsylvania Hospital, un ospedale dei primati nella culla degli Stati Uniti d’America, Medicina e Chirurgia, 77: 3470-3472, 2018. DOI: 10.4487/medchir2018-77-4

La scuola medica dell’Università di Padovan.76, 2017, pp.3437-3440, DOI: 10.4487/medchir2017-76-4

Abstract

Articolo

 

Il periodo d’oro dell’Università di Padova coincide certamente con la dominazione veneziana iniziata nel 1405, che la trasformo nel principale centro culturale della Serenissima, tuttavia le sue radici vanno ricercate nell’ambiente culturale patavino sin dalle origini dello Studio nel 1222. La tradizione di ricerche sul diritto romano, che a Padova risale alla rinascita alto medievale del Comune dopo le distruzioni subite durante le invasioni barbariche, testimonia un legame con il mondo classico che rimase saldo nel tempo e che fu alla base di una cultura preumanistica fiorita già nel 15° secolo, a sua volta prerequisito fondamentale per lo straordinario sviluppo della scienza e della cultura iniziato nel Rinascimento. Tale cultura fu favoriva dalla Signoria della famiglia Carraresi fra 1318 e la conquista veneziana. I Carraresi ospitarono a Padova alcuni dei maggiori letterati e scienziati dell’epoca, come Lovato de’ Lovati (c. 1240-1309), Pietro d’Abano (1257-1316), Albertino Mussato (1261-1329), Dante Alighieri (1265-1321), Jacopo Dondi dell’Orologio (1290-1359), suo figlio Giovanni (c.1330-1388) e Francesco Petrarca (1304-1374).

La figura più importante della scienza medica in questo periodo fu senza dubbio Pietro d’Abano, i cui lavori rappresentano perfettamente l’ambiente culturale patavino. Pietro studio greco a Costantinopoli, fu professore di medicina a Parigi e Bologna e dal 1306 alla morte fu docente di medicina e filosofia naturale a Padova. Nella sua opera piu famosa, il Conciliator differentiarum philosophorum et praecipue medicorum, tento di conciliare le teorie medico-cosmologiche arabe, allora ancora dominanti sulla scena europea, e greche, dimostrando di essere uno dei primi ad aver compreso che la scienza greca dovesse essere riscoperta alla fonte, cioè studiando le opere in lingua originale. In questo trattato sviluppo un approccio medico imperniato sull’astrologia, considerata come una vera e propria scienza naturale basata su di una concezione dell’uomo e dell’intero creato come un armonioso organismo regolato dalle costellazioni. Allo stesso tempo, dedico ampio spazio all’anatomia umana e fu uno dei primi medici occidentali a considerare l’importanza del rapporto medico-paziente e, in particolare, della fiducia del malato nei confronti del medico. Significativamente, fu accusato di eresia per aver messo in dubbio i miracoli dei santi, in quanto pretendeva di spiegarli come fenomeni naturali. In sostanza, fu uno dei maggiori rappresentanti di un nuovo approccio allo studio della natura del tutto emancipato dalla teologia.

Il Quattrocento si apre a Padova con l’inizio della dominazione veneziana (1405). I reggenti della Serenissima compresero sin da subito l’importanza strategica dello Studio. L’Università di Padova diventava, in un certo modo, l’Università della Repubblica di Venezia, centro di istruzione della classe dirigente veneziana e di accoglienza dei rampolli delle famiglie aristocratiche europee. Per quanto riguarda la scuola medica, questo secolo vide una prima fioritura dell’anatomia, in stretta relazione con la riscoperta filologica della scienza greca, che avrebbe costituito il preludio essenziale per la rivoluzione vesaliana del secolo successivo. Alessandro Benedetti (1450-1512) rappresenta l’esempio più significativo in quest’ambito. Nel 1502 pubblico l’Historia corporis humani sive Anatomice che presentava delle caratteristiche del tutto nuove rispetto alla trattatistica anatomica dell’epoca. Qui, Benedetti proponeva un modello di teatro anatomico sul tipo degli anfiteatri romani di Roma e Verona, dove l’anatomista e il cadavere erano posti, insieme, al centro della scena, non più distanti e separati come nelle tipiche lezioni medievali. In secondo luogo, Benedetti tentava di rifondare l’anatomia attraverso un nuovo linguaggio ispirato alla terminologia greca, non più araba. Per far questo, utilizzo ampiamente il De medicina di Celso (c. 25 a.C. – c. 50 d.C.), riscoperto solo qualche decennio prima. Nella bibliografia finale del testo Benedetti proponeva anche una scelta di autori greci (Ippocrate, Platone, Aristotele, Galeno, Rufo di Efeso, Alessandro di Afrodisia) del tutto rivoluzionaria per quell’epoca. Egli infatti possedeva una delle migliori collezioni di manoscritti greci del suo tempo. Infine, nella lettera dedicatoria all’Imperatore Massimiliano I d’Asburgo (1459-1519), enumerando le ragioni per cui l’anatomia potesse essere una scienza degna di un imperatore, Benedetti sosteneva che, innanzitutto, era una disciplina fondamentale sia per la medicina che per la chirurgia e che, non meno importante, era una scienza che rivelava l’opera di Dio, in quanto il corpo umano costituiva un microcosmo che rifletteva l’intero macrocosmo.

Il Cinquecento vide lo Studio di Padova all’apice della sua fama. Andrea Vesalio (1514-1564), dopo aver studiato a Lovanio e Parigi, decise di venire a Padova, da lui definita sede del “Ginnasio più famoso del mondo”, non solo per l’importanza che l’anatomia rivestiva in questa scuola, ma anche per la disponibilità di testi e manoscritti di scienza greca in lingua originale. Fattori, questi, strettamente legati. A partire dalla seconda meta del Quattrocento, Padova e Venezia costituirono uno dei poli più importanti in Europa di stampa e traduzione dei classici della letteratura e scienza greca. Ciò aveva determinato, qui non meno che in tutt’Europa, una rinascita della medicina di Galeno (129 – c. 216) che, a sua volta, aveva comportato una rinnovata attenzione all’anatomia

Nel suo capolavoro, il De humani corporis fabrica, Vesalio si presentava, infatti, come il nuovo Galeno dell’anatomia, tant’e che il trattato ricalcava, in parte, il De anatomicis administrationibus, testo galenico fondamentale sull’anatomia, che era iniziato a circolare in Europa solo al principio del Cinquecento. Un’anatomia che acquisiva un ruolo preponderante non solo in medicina, ma nell’intera economia delle scienze della natura. Si puo sostenere, infatti, che la Fabrica di Vesalio costituì uno sviluppo dell’approccio iniziato con l’Anatomice di Benedetti, sebbene fosse incomparabilmente superiore a quest’ultimo per la qualità delle osservazioni scientifiche fatte sul cadavere umano.

Naturalmente, divenire il nuovo Galeno dell’anatomia significava superare del tutto le concezioni galeniche e Vesalio compi questo passaggio fondamentale nel corso del suo soggiorno patavino.

Le Tabulae anatomicae sex, sua pubblicazione al principio dell’insegnamento di anatomia a Padova, sebbene fossero innovative per il fatto di basarsi quasi esclusivamente sull’illustrazione anatomica, piuttosto che sulla descrizione letterale, riproponevano alcuni degli errori anatomici fondamentali di Galeno. Solo al termine del suo percorso patavino, con la pubblicazione della Fabrica nel 1543, Vesalio poteva dimostrare che l’anatomia galenica, in quanto basata sull’animale e non sull’uomo, era largamente scorretta.

Vesalio fu il capostipite di una generazione di anatomisti che fino ai primi anni del Seicento diede contributi fondamentali alla conoscenza della struttura del corpo umano, aprendo sempre piu la strada allo studio della funzione degli organi e dei tessuti.

Dopo di lui, per un breve periodo tenne la cattedra di anatomia il cremonese Matteo Realdo Colombo (1516-1559). Nel suo De re anatomica (1559) dimostrava e divulgava per la prima volta in occidente la circolazione polmonare, infliggendo un ulteriore colpo alla concezione galenica del corpo umano.

Dopo Colombo, Gabriele Falloppia (1523-1562) diede contributi fondamentali non solo all’anatomia (basti pensare alle tube uterine che prendono ancora oggi il suo nome), ma anche alla botanica e alla pratica clinica. Successore di Falloppia fu Girolamo Fabrici d’Acquapendente (1533-1619), eccellente medico, chirurgo e anatomista, il cui nome e legato alla costruzione del primo teatro anatomico stabile al mondo, inaugurato a Padova nel 1595 (fig. 1). Egli adotto un metodo anatomico, sviluppato in modo esplicito e coerente, che consisteva in tre momenti principali: la “dissezione” o historia dell’organo, la sua “azione” e infine la sua “funzione” o utilità. Tale approccio lo porto a svolgere ricerche pionieristiche non solo di anatomia normale, ma anche di anatomia comparata ed embriologia, discipline di cui può essere considerato fra i fondatori. E doveroso ricordare, infine, Giulio Cesare Casseri (1552-1616), assistente, poi allievo di Fabrici, che svolse importanti ricerche sugli organi di senso e in campo embriologico.

Se il Cinquecento fu il secolo d’oro dell’anatomia, il Seicento, pur continuando a produrre scoperte anatomiche fondamentali, vide straordinarie acquisizioni nel campo della fisiologia. Galileo Galilei (1564-1642) fu docente a Padova a cavallo fra Cinque e Seicento e la sua influenza si estese anche negli studi medici. Santorio Santorio (1561-1636), per esempio, che fu anche amico e collaboratore di Galileo, e universalmente noto per aver introdotto il metodo quantitativo in medicina. Invento diversi strumenti per misurare i parametri fisiologici, come il “pulsilogio” per quantificare la frequenza del “polso”.

Fu il primo, inoltre, a utilizzare il termometro in ambito clinico. Il Seicento, inoltre, fu il secolo che vide la realizzazione di una delle più importanti scoperte di tutti i tempi in ambito medico, quella, cioè, della circolazione del sangue. La teoria circolatoria fu dimostrata per la prima volta da William Harvey (1578-1657) nella sua celebre Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus (1628). Harvey si laureo a Padova nel 1602, allievo di Fabrici d’Acquapendente proprio nel periodo in cui quest’ultimo scopriva l’esistenza delle valvole nelle vene. Scoperta, questa, che, per ammissione esplicita dello stesso Harvey, fu fondamentale per indurlo a pensare alla circolazione sistemica del sangue. Determinante fu anche l’influenza dell’aristotelismo patavino e, in particolare, la suggestione avuta dall’idea aristotelica della perfezione del moto circolare, che Harvey volle individuare anche nel corpo umano. Infine, Harvey dimostro la teoria della circolazione non solo attraverso l’anatomia e la vivisezione animale, ma anche attraverso il calcolo matematico, dimostrando con ciò di seguire l’innovazione iatromatematica introdotta da Santorio sulla scia della rivoluzione metodologica galileiana.

Se il Seicento fu il secolo della fisiologia, il Settecento fu il periodo che vide una fondamentale rivoluzione nel campo della patologia. Tale rivoluzione, sebbene gradualmente preparata nel secolo precedente da una schiera di anatomisti e fisiologi in tutt’Europa, fiori definitivamente grazie al lavoro di Giovanni Battista Morgagni (1682-1771), “principe degli anatomisti europei”, docente a Padova di medicina teorica (1711-1715) e di anatomia dal 1715 alla morte. Raccogliendo storie cliniche e referti autoptici nel corso di tutta la sua attività di medico e docente universitario, pubblico in tarda età il monumentale De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis (1761), basato sistematicamente sul metodo della correlazione anatomo-clinica e considerato come atto di nascita dell’anatomia patologica.

Morgagni dimostro, attraverso la descrizione di 700 casi, che ogni malattia era caratterizzata da una precisa lesione d’organo. I sintomi clinici, dunque, venivano ricondotti al danno organico e spiegati attraverso le perturbazioni funzionali da esso causate. Sebbene la prospettiva umorale, che aveva dominato la medicina occidentale sin dalla scuola ippocratica, in Morgagni non sia del tutto superata, la sua opera spiano la strada per l’imposizione della patologia d’organo che ebbe sviluppi fondamentali, nel corso dell’Ottocento e del Novecento, nella diagnostica e nella terapeutica. Si puo sostenere che la medicina scientifica occidentale sia tutt’ora pienamente basata sull’approccio anatomo-clinico.

Giovanni Battista Morgagni può essere considerato l’ultimo rappresentante del periodo d’oro della scuola medica patavina. Tuttavia, la sua figura, e quella dei suoi eminenti predecessori, e rimasta viva anche nei secoli successivi, fornendo un esempio e un modello al quale si sono ispirati molti altri grandi medici patavini Otto e Novecenteschi. Dopo un periodo di appannamento in seguito alla caduta della Repubblica di Venezia, infatti, la scuola medica di Padova torno a costituire un punto di riferimento in Italia e all’estero. Lo testimoniano, per esempio, il primo trapianto cardiaco eseguito in Italia nel 1984 da Vicenzo Gallucci (1935-1991) e le tante eccellenze che fanno ancora di questa scuola un luogo di alta produzione scientifica, incontro e dibattito internazionale.

Figura 1: Il primo teatro anatomico stabile al mondo, inaugurato a Padova nel 1595 e tuttora preservato presso il Palazzo del Bo, storica sede centrale dello Studio patavino.

Bibliografia

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Zampieri F., La scuola medica dell’Università di Padova, Medicina e Chirurgia, 76: 3437-3440, 2017. DOI: 10.4487/medchir2017-76-4

La scuola medica alessandrina. La via dei fenomeni su base quantitativa e la loro relativitàn.75, 2017, pp.3407-09, DOI: 10.4487/medchir2017-75-6.

Articolo

Dopo la morte di Alessandro Magno, a partire dal IV secolo a.C., e con particolare forza nel corso dell’epoca tolemaica, fiorisce intorno alla corte di Alessandria d’Egitto un movimento culturale di vastissime proporzioni. È infatti grazie alla costituzione di preziose istituzioni – un Museo e una Biblioteca –, che il regno tolemaico si imporrà come ‘frontiera intellettuale’ (von Staden, 1989) di fondamentale interesse per tutti i campi della scienza antica. Nei fondi librari della Biblioteca confluirono papiri provenienti dal territorio greco e secondo alcune fonti anche opere attribuibili ad Aristotele, mentre i contenuti delle sezioni letterarie, scientifiche e filologiche del Museo furono successivamente ricordati da Plutarco, Dione Cassio, Luciano e Galeno come un tesoro di incalcolabile prestigio. L’autorevolezza di tali istituzioni richiamò l’attenzione di molti scienziati: il matematico Euclide; il fondatore della meccanica Ctesibio; l’autore della teoria eliocentrica Aristarco di Samo; Archimede, che ad Alessandria d’Egitto avrebbe avuto contatti con Eratostene, matematico, astronomo e geografo, nonché inventore del primo sistema di misurazione del meridiano terrestre; Ipparco di Nicea, autore del più attento catalogo stellare dell’antichità e fondatore dell’astrometria.

La stabilità economica e politica dell’era tolemaica (protrattasi fino al II secolo a.C.) determina così, la nascita di un nuovo crocevia culturale derivante dall’incontro e dalla conseguente prolificazione di combinazioni armoniose tra tradizione greca, egizia e mesopotamica. Ad Alessandria le ibridazioni culturali sono il risultato di un complesso di contaminazioni tra il pensiero filosofico degli intellettuali dell’epoca, soprattutto greci, e le conoscenze mediche e tecnologiche proprie della cultura egizia e mesopotamica.

Già gli autori antichi riconoscono al periodo tolemaico e alla città di Alessandria un ruolo centrale nella ridefinizione dei parametri della scienza antica; la città così diventa il centro di una vera rivoluzione epistemologica fondata sul tentativo di misurazione quantitativa dei fenomeni biologici e sulla primissima organizzazione metodologica di un’anatomia ‘osservata’, sul cadavere e sul vivente.

I fondamentali rappresentati del mutamento che in medicina determinò la creazione di un’anatomia e una fisiologia umana per molti aspetti ’moderne’, sono Erofilo di Calcedonia ed Erasistrato di Ceo, rispettivamente allievi di Parassagora di Kos e di Crisippo di Cnido. La tradizione successiva riconosce loro il merito di una ‘paternità fondativa’ di una vera e propria scuola medica, articolata attorno alla riflessione anatomo- fisiologica delle opere biologiche di Aristotele.

Erofilo ed Erasistrato, almeno a giudicare dai frammenti dei loro scritti, rispondono agli interrogativi di Aristotele riconsiderando il corpo come struttura complessa da indagare anatomicamente. Soltanto la conoscenza della composizione delle parti consente la comprensione del loro funzionamento e quindi della fisiologia permettendo, di conseguenza, lo studio della patologia, che è malfunzionamento. Sembra essere attribuibile ad Erasistrato il concetto di ‘osservabilità teorica’ dei fenomeni, per cui il medico deve essere in grado di postulare l’esistenza di organi e funzioni, anche nell’impossibilità di percepirli con i sensi; ed il concetto ‘eziopatogenetico di pletora’, secondo cui le malattie si generano per sovrabbondanza umorale in un’area determinata per dilagare poi in tutto il corpo.

La medicina alessandrina di epoca tolemaica avrebbe, poi, sfruttato una particolare licenza concessa dai Tolomei per dissezionare cadaveri: se l’affermazione di Aulo Cornelio Celso (14 a.C. – 37 d.C.) corrispondesse a verità, si comprenderebbe come Erofilo ed Erasistrato abbiano potuto gettare le fondamenta dell’anatomia antica, creando nuovi elementi metodologici e un vocabolario anatomico. Nella pratica medica che li precede, la dissezione dei cadaveri era infatti assente ed è quindi la prima volta che nella scienza greca si agisce su un corpo umano senza intenti di cura, ma con il solo proposito di approfondirne la conoscenza osservazionale e descrittiva. Sappiamo inoltre, sempre attraverso le testimonianze di Aulo Cornelio Celso (Celso, De medicina, proemio, 23-6 = test. 63a [von Staden]), della possibilità per Erofilo di usare nei suoi esperimenti in vivo condannati a morte forniti direttamente dal sovrano per poterne studiare il funzionamento. La possibilità di vivisezione, già discussa nel suo essere reale o meno dai commentatori antichi, costituirebbe il punto nodale del superamento di tabù intellettuali e religiosi, che fino al III secolo hanno condizionato l’indagine medica e la riflessione sulle strutture del corpo.

Come già detto, di questa grande rivoluzione epistemologica di cui si ha però testimonianza solo indiretta: la tradizione ha privilegiato infatti la conservazione di testi medici classici,  molto diffusi e studiati nel Medio Evo, come quelli di Ippocrate e Galeno, mentre i trattati di Erofilo ed Erasistrato sono andati perduti.

Se ne ha traccia in autori più tardi fra cui proprio Galeno e Polibio, Rufo di Efeso, Oribasio e Marcello Empirico.

Se da un lato Galeno fornisce dati importanti attraverso le dure critiche contro il pensiero anatomico di Erasistrato, dall’altro Celso ci offre una testimonianza, seppur tardiva, della portata rivoluzionaria dei due medici, la cui veridicità è suffragata dall’utilizzo della nomenclatura anatomica corrispondente, in particolar modo a quella usata da Erofilo. La libertà con cui Erofilo introduce la nomenclatura anatomica è cosa del tutto rara. In tutta la tradizione classica, come emerge da Platone e da Aristotele (Aristotele, De interpretatione), la libera scelta era concepibile solamente in relazione alla struttura fonetica delle parole, ma non per la denominazione degli oggetti individuati. Erofilo, invece, nello studio del sistema circolatorio crea concetti nuovi a cui accosta termini in uso e termini creati. Qui risiede uno dei tratti fondamentali della ‘rivoluzione alessandrina’: laddove l’utilizzo strumentale di concetti consapevolmente creati ci guida verso la sperimentalità del metodo, allontanandosi dunque dal metodo razionale (Galeno, De praesagitione ex pulsibus, II, 3 = test. 53 [von Staden]). Erofilo è infatti convinto dell’inesistenza del valore assoluto della teoria, rimarcandone al contrario l’aspetto deduttivo; medesime apparenze infatti, potranno essere spiegate con ipotesi diverse. Esemplificativa è l’attribuzione di non assolutezza che Erofilo accorda alla corrispondenza della previsione associata alla prognosi, così come della teoria associata al caso concreto (Galeno, In Hippocratis prognosticum, I, comment. I.4 = test.

264 [von Staden], 1-2).

Erofilo descrive inoltre in maniera accurata parti del sistema nervoso: il cervello, il cervelletto, le connessioni tra encefalo e midollo spinale, i nervi responsabili del movimento volontario (solidi) e dei processi sensoriali (cavi, contenenti pneuma cerebrale). Dedica parte dei suoi studi all’apparato digerente e al fegato nominandone alcuni tratti come quelli del duodeno e del digiuno, descrive gli organi della riproduzione come le ovaie, le tube e i canali spermatici (dei quali però non comprende la funzione) e si occupa della ritrattazione del modello che identifica l’utero come organo che può muoversi all’interno del corpo. Contribuisce alla fondazione dell’anatomia vascolare descrivendo i ventricoli del cuore e le valvole cardiache; di fondamentale importanza è anche il suo trattato dedicato all’occhio, dal quale deriva la prima descrizione e denominazione della retina e del nervo.

La prospettiva innovatrice di Erofilo non sembra aver interessato però la dimensione clinica, rimasta ancorata a concetti di stampo ippocratico, e la farmacologia, a cui Erofilo attribuisce ancora una derivazione divina.

Gran parte degli interessi scientifici di Erofilo sembrano condivisi da Erasistrato al quale viene attribuita la scoperta dei nervi e l’autorità di trattati sull’apparato digerente, l’idropisia, le febbri, la podagra e la paralisi.

I suoi studi anatomici sono stati dedicati ad approfondire lo studio del cuore e dei vasi (il ventricolo destro distribuisce sangue nelle vene, il sinistro pneuma nelle arterie, destinato a gonfiare i muscoli e a generare moto); la struttura e il funzionamento dello stomaco e del diaframma. Il papiro Anonimo londinese – uno dei rari testi medici autografi conosciuti, datato nel I secolo d.C., di carattere aristotelico – ci dice che avrebbe tentato di dimostrare la traspirazione insensibile (esalazioni dei corpi), attraverso la pesatura di un uccello con una bilancia.

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Ricostruzione panoramica della Biblioteca

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Il faro di Alessandria in un’illustrazione di Maarten van Heemskerck

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Vincenzo Camuccini, Tolomeo Filadelfo nella biblioteca di Alessandria

Bibliografia essenziale

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Cita questo articolo

Iorio S., La scuola medica alessandrina. La via dei fenomeni su base quantitativa e la loro relatività, Medicina e Chirurgia, 75: 3407-3409, 2017. DOI: 10.4487/medchir2017-75-6

Tutta colpa della morte!n.73, 2017, pp. 3336-3339, DOI: 10.4487/medchir2017-73-5.

Il perché di una intitolazione: il Dipartimento di Medicina dell’Università del Molise a Vincenzo Tiberio, lo scopritore del potere antibiotico delle muffe

Nel 2012 Shinya Yamanaka a 50 anni viene insignito del Premio Nobel per l’utilizzazione delle cellule staminali nella ricostruzione tissutale, ma insieme a lui riceve il medesimo premio il ‘vecchio’ sir John Gurdon, che ha dovuto aspettare a 79 anni perché fosse compresa la grandezza del suo studio “sulle cellule mature che possono diventare pluripotenti”1 laddove nel 1958, a 25 anni, aveva già pubblicato i suoi esperimenti sulle ovocellule di rana2.

Diversa sorte era toccata a Rosalind Franklin. Nel 1962 James Watson e Francis Crick ricevono il Premio Nobel per il DNA e molti dimenticano che, nella stessa occasione e per le stesse motivazioni, lo ha avuto anche Maurice Wilkins; ma praticamente tutti dimenticano Rosalind Franklin, che fu colei che pensò ed eseguì la gran parte degli studi di cristallografia ai raggi X sulla molecola del DNA che portò alle loro pubblicazioni. Ma lei era morta per cancro dell’ovaio radio-indotto nel 1958 a 38 anni ed il premio Nobel non si conferisce postumo.

Similmente, tutti ricordano il Nobel nel 1945 ad Alexander Fleming (1881-1955; nel 1945 ha 64 anni); anzi, da una classifica della medesima Accademia del Premio di Stoccolma, risulta come il secondo Nobel per la medicina per popolarità. Eppure, in quella medesima occasione, lo ricevono (e a ben giusta ragione) anche Ernst Boris Chain (1906-1979; nel 1945 ha 39 anni) e Howard Florey (1898-1968; nel 1945 ha 47 anni).

Se fosse vissuto, lo avrebbe avuto anche Vincenzo Tiberio a 76 anni? Ovviamente alla fine del Secondo Conflitto mondiale, con i britannici tra i vincitori e gli italiani tra gli sconfitti o, se non altro, tra gli arresi, è difficile da ipotizzare; ma, comunque, oggi sarebbe un discorso ozioso.

Vincenzo Tiberio muore a Napoli il 7 gennaio 1915: ha 45 anni! Nato il Primo maggio 1869 a Sepino, in Molise, da una famiglia borghese, si sposta a Napoli per gli studi di Medicina e va ad alloggiare presso una zia ad Arzano, nella provincia napoletana. Qui, come ormai narra la legenda, osserva che all’interfaccia tra aria ed acqua del pozzo del cortile si forma una melmetta verdognola che la zia periodicamente intima ai servitori di rimuovere; tutte le volte che viene rimossa, coloro i quali bevono l’acqua del pozzo hanno seri problemi intestinali, fino alla dissenteria. Il giovane Vincenzo intuisce che nella muffa verde deve esserci una proprietà che la rende protettiva nei confronti della dissenteria.

All’epoca egli si era già laureato in Medicina, con un anno di anticipo sulla durata del Corso, e collaborava come Assistente volontario nell’Istituto di Igiene della Regia Università degli Studi di Napoli e lì poté iniziare un ciclo di esperimenti che lo portarono ad isolare il principio attivo, a testarne l’efficacia antibiotica in vitro ed in vivo ed a proporne un modello di meccanismo di azione. I risultati del suo lavoro vennero pubblicati nel 1895 negli Annali di Igiene Sperimentale con il titolo “Sugli estratti di alcune muffe”3 . Si tratta di un saggio sobrio e conciso: dodici pagine, compresi gli schemi dei risultati, che rivelano un indagatore intelligente e attento.

Tiberio inizia il proprio lavoro inscrivendolo sostanzialmente nell’ambito del concetto di biocenosi, cioè della interazione tra i diversi viventi di un dato ambiente (p. 91). Dopo l’intuizione e la raccolta dei campioni, egli osserva al microscopio ed identifica tre specie di muffe prelevate nel pozzo di Arzano: Aspergillusflavescens, patogeno per l’uomo e per gli animali; Penicillium glaucum e Mucor mucedo, non patogeni. Successivamente le coltiva su terreni di coltura da lui stesso ideati (p. 92). Prepara, quindi, un estratto acquoso dei singoli miceti e ne studia l’azione su alcuni batteri, quali quelli del tifo, del carbonchio, del colera e vari ceppi di stafilococco.

I risultati della ricerca, adeguatamente ripetuti per la opportuna conferma, lo portano ad osservare che, nell’estratto cellulare delle muffe esaminate, sono contenute sostanze solubili in acqua, fornite di azione battericida (pp. 93-95).

Si tratta della prima vera attività antibiotica dimostrata in vitro, che il Tiberio conferma attraverso la sperimentazione in vivo, sia su cavie che su conigli. Le cavie furono divise in due gruppi: il primo venne infettato con iniezione intraperitoneale di specie batteriche patogene e venne trattato mediante inoculo dell’estratto acquoso di muffe; il secondo era solo infettato ma non trattato. Gli animali trattati sopravvivevano mentre gli altri morivano in breve tempo (p. 97).

“È appena il caso di sottolineare l’assoluta modernità del disegno sperimentale con l’allestimento di adeguati controlli e con l’attenta valutazione della virulenza delle culture e del peso degli animali da esperimento, che doveva essere simile da un animale all’altro per non cadere nell’errore della diversa resistenza organica. Di pari modernità l’autolimitazione critica nell’uso dei dati derivanti da condizioni sperimentali non ottimali.

Per lo studio della leucocitosi sottocutanea, il Tiberio scelse, invece, i conigli, rifacendosi per il metodo, con esplicita citazione, al lavoro di Issaeff pubblicato l’anno precedente (1894) in tedesco sulla Zeitschrift für Hygiene: Untersuchungen über die künstliche Immunität gegen Cholera (p.96)” 4.

Le conclusioni di Tiberio provano che l’unica risposta terapeutica ottenibile è quella mediante iniezione di estratto di Aspergillus flavescens, cioè, in sostanza, di una penicillina, mentre non hanno alcuna efficacia gli altri estratti (p. 98). Egli nota, ancora, come l’efficacia fosse condizionata sia dal peso dell’animale da esperimento che dall’intervallo di tempo tra l’infezione e l’inizio della antibiotico-terapia iniettiva.

Tiberio, infine, si pone anche il problema della possibilità di un’azione preventiva degli estratti di muffe sulle infezioni batteriche ed il problema della durata dell’efficacia dell’azione antibiotica, sperimentando iniezioni a tempi diversi (p. 98). Egli cerca anche di comprendere il meccanismo dell’azione antibiotica studiando le modificazioni dell’assetto leucocitario.

Come già detto e come si può chiaramente notare dalla lettura della sua pubblicazione, l’attività di ricerca scientifica di Vincenzo Tiberio completa l’intero ciclo sperimentale: dall’osservazione alla formulazione di un’ipotesi di azione, alla verifica dell’ipotesi iniziale medesima, all’estrazione della sostanza antibiotica, alla dimostrazione del suo effetto in vitro, alla documentazione della sua efficacia in vivo, alla proposta di un meccanismo di azione.

Cosa mancò, allora, per chiudere il cerchio e rendere la sua scoperta rivoluzionaria uno strumento concreto di lotta alle infezioni batteriche patogene?

Ciò che davvero mancò a Tiberio – e un paio di anni dopo ad un altro giovane entusiasta, anch’egli militare, il francese Ernest Duchesne (1874-1912)5 – fu, in effetti, quello che mancò anche allo scozzese Alexander Fleming trentaquattro anni dopo, quando, nel 1929, riscoprendo la penicillina, estraendola dal Penicillium notatum, parimenti non riuscì a produrre industrialmente il farmaco.

Mancavano consapevolezza e tecnologie, che sarebbero cresciute solo dopo un ulteriore decennio. Solo dopo che, nel 1939, Ernst Chain, biochimico tedesco riparato in Gran Bretagna per sfuggire al Nazismo, incontrò come supervisore Howard Florey ed insieme realizzarono un metodo per amplificare la quantità di penicillina prodotta dagli estratti di Fleming. E, soprattutto, solo dopo che la tecnica di laboratorio Mary Hunt provvide a utilizzare il Penicillin chysogeum, in grado di produrre principio attivo 200 volte in più rispetto quello prodotto dal Penicillium di Fleming. E, infine, solo dopo che le mutazioni mediante irradiazione con i raggi X consentirono a Florey, passato negli Stati Uniti, ed al suo nuovo team di raggiungere una produzione 1000 volte più efficace della penicillina di Fleming. Si osservi che alla fine della Seconda guerra mondiale le truppe alleate occidentali portavano con loro ogni mese 650 miliardi di unità di penicillina a fronte delle sole 400 unità prodotte tra il gennaio ed il maggio 19436.

Ci si chiedeva all’inizio: se mai Tiberio fosse vissuto, se avrebbe ricevuto il Premio Nobel. Certo, il Nobel è un riconoscimento enorme della propria ricerca. Ma i risultati ottenuti da Gurdon alla stessa età in cui Tiberio pubblicò il suo lavoro sarebbero stati meno importanti se non avesse avuto il Premio alla soglia degli ottanta anni? O è, piuttosto, importante l’acume, l’attenzione, la passione nella ricerca, il rigore sperimentale, la lungimiranza nell’interpretazione dei risultati?

Un Dipartimento universitario di Medicina non è solo un luogo in cui si fa ricerca, al pari di un ‘qualsiasi’ istituto di ricerca; non è solo un luogo in cui si fa assistenza, al pari di un ‘qualsiasi’ ospedale. Un Dipartimento universitario di Medicina è il luogo in cui ricerca e assistenza confluiscono nella missione di formare i giovani che aspirano a diventare medici prima e specialisti poi. Senza la didattica la natura stessa di un tale Dipartimento viene persa.

E didattica significa anche porre dinanzi agli studenti dei modelli virtuosi di lavoro, calati nel concreto delle esperienze di vita delle persone che li hanno preceduti sulla medesima strada.

Tiberio potrebbe anche sembrare uno sconfitto: ha lasciato l’Università per la Marina Militare del Regno7 e non ha trovato una collocazione accademica consona all’importanza, alla reale portata rivoluzionaria, del suo studio. Eppure resta, nella sua esperienza di vita militare, diplomatica, medica e familiare, un esempio di uomo sempre attento a migliorare le condizioni di vita altrui. Si pensi agli scritti sul vitto e sulle condizioni igieniche a bordo delle navi. Si pensi al devoto amore nei confronti della cugina, divenuta sua moglie, e delle tre figlie.

Non si tratta solo di una ‘gloria’ molisana; si tratta di un uomo divenuto ben presto cittadino del mondo e che ha portato dovunque la sua curiosità (era un appassionato di fotografia e documentava con attenzione i suoi spostamenti), la sua lungimiranza e la sua capacità di ricerca.

È stato naturale, quindi, per il Dipartimento di Medicina dell’Università degli Studi del Molise scegliesse di legare il proprio impegno culturale alla memoria di una tale figura di medico e di ricercatore.

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NOTE:

1 Dalla motivazione ufficiale del Premio.

2 J. B. Gurdon, T. R. Elsdale, M. Fischberg, Sexually Mature Individuals of Xenopus laevis from the Transplantation of Single Somatic Nuclei, in Nature, vol. 182, n.4627, 1958, pp. 64–65.

3 Tiberio V., Sugli estratti di alcune muffe. Annali d’igiene sperimentale, 1895; volume V: 91-103

4 Tamburello M., Villone G., Vincenzo Tiberio: la prima antibiotico terapia sperimentale in vivo, Medicina nei Secoli, 2016, vol. 3

5 Duchesne E., Contribution à l’étude de la concurrence vitale chez les micro-organismes: antagonisme entre les moisissures et les mibrobes, Lyon, 1897

6 Lloyd E., Fleming, Florey, & Chain: The Discovery and Development of Penicillin, Leigh A. Zaykoski (ed), 2009.

7 Tamburello M., Villone G., L’uso terapeutico delle muffe: dalla medicina istintiva alla dimostrazione di Vincenzo Tiberio, Atti dell’Accademia di Arte Sanitaria, Roma 2016.