L’Introduction a l’étude de la médecine expérimentalen.68, 2015, pp.3112-3116, DOI: 10.4487/medchir2015-68-6

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L’Introduction a l’étude de la médecine expérimentale è l’opera più famosa del grande fisiologo francese Claude Bernard (1813-1878) (Figura 1). E’ probabilmente anche la più importante per comprendere, senza addentrarsi nella lettura delle sue pubblicazioni scientifiche o delle sue Leçons, la straordinaria importanza che le sue idee e i suoi esperimenti hanno avuto nel plasmare la fisiologia (intesa nel senso contemporaneo di scienze della vita) e, di conseguenza, gran parte della moderna medicina.

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La fisiologia prima di Bernard e la fisiologia di Bernard

All’inizio del XIX secolo, la fisiologia si presenta come una disciplina che ha pienamente conquistato un insostituibile ruolo nella medicina, ma che appare ancora mancante di una sua definita fisionomia, dibattuta com’è tra l’influenza sempre più importante, ma non chiara, esercitata dalla chimica, dalla fisica e dal ruolo della sperimentazione, la sua ancora tangibile dipendenza dall’anatomia e la sua “galenica” preoccupazione teleologica. Ma forse il problema culturalmente più importante era rappresentato dalla sua “pregalenica” vocazione metafisica alla ricerca della causa prima. La fisiologia della prima metà del XIX secolo è quindi un complesso puzzle che aspetta di essere sistematizzato, introducendo nuovi elementi ed eliminandone numerosi altri, retaggio del passato o testimonianza della crescita tumultuosa e incontrollata a cui era andata incontro. Entrambe le operazioni richiedevano una rivoluzione. Questa rivoluzione si verifica nella seconda metà del XIX secolo e ad essa ha significativamente contribuito la visione fisiologica di Claude Bernard.

Uno dei concetti cardini della concezione bernardiana è senza dubbio quello di determinismo, che Bernard eredita dai due secoli che l’hanno preceduto e pone al centro della sua fisiologia (e della sua medicina). A proposito, Bernard scrive: “In effetti (il fisico e il fisiologo) si propongono l’obiettivo di definire la causa prossima dei fenomeni che studiano….Per noi pertanto la fisiologia è la scienza che ha per obiettivo di studiare i fenomeni degli esseri viventi e di definire le condizioni materiali che ne permettono la loro manifestazione….”. La fisiologia dunque deve stabilire ciò che determina la manifestazione di un fenomeno vitale. Il determinismo di Claude Bernard è assoluto, perchè riguarda sia gli oggetti inanimati (les corps bruts) sia gli esseri viventi e perchè un dato fenomeno deve verificarsi quando sono presenti le sue condizioni determinanti.

Teorizzando (e praticando) una fisiologia basata sul determinismo assoluto, orientata cioè a determinare le condizioni che determinano la manifestazione di un fenomeno vitale, Bernard realizza in un colpo solo il duplice scopo di determinare l’abbandono delle finalità teleologiche e della vocazione metafisica dalla fisiologia, trasformando la fisiologia da scienza che studia il perchè a scienza che studia il come. Mentre la rinuncia alle finalità teleologiche sembra in qualche modo completare un millenario processo di maturazione della fisiologia e non occupa grande spazio nelle pagine di Bernard, la rinuncia alla vocazione metafisica ha rappresentato una rottura netta con il passato e con il suo presente ed è stata certamente uno dei più importanti risultati dell’intera opera di Claude Bernard.

Uno dei pilastri della fisiologia di Bernard è il superamento della fisiologia intesa come anatomia animata di halleriana memoria e la nascita di una nuova prospettiva. Secondo Bernard, qualunque spiegazione dei fenomeni vitali basata esclusivamente sull’anatomia è necessariamente incompleta.

Un altro pilastro della fisiologia di Claude Bernard è il concetto, celeberrimo, di milieu intérieur (ambiente interno), sul quale egli scrive numerose pagine sia nell’Introduction sia nelle Leçons sur les phénomènes de la vie communs aux animaux et végétaux. Bernard per primo ha posto l’accento sul fatto che nei metazoi esistono due ambienti: l’ambiente esterno, nel quale è posto l’organismo, e l’ambiente interno, nel quale vivono gli elementi che costituiscono l’organismo, e soprattutto che l’esistenza dell’animale non avviene nell’ambiente esterno ma in quello interno. L’ambiente interno è rappresentato dal plasma (e, in senso più ampio, da tutti i liquidi extracellulari, che sono a contatto con le cellule dell’organismo) ed è il plasma che possiede caratteristiche tali da permettere l’esistenza delle condizioni fisico-chimiche necessarie per il perfetto funzionamento delle cellule e quindi degli organismi. Concettualmente, è evidente lo stretto legame esistente tra le premesse teoriche (l’applicazione del determinismo e l’abbandono delle finalità metafisiche portano alla ricerca della causa prossima) e le conseguenze pratiche (la scoperta dell’ambiente interno, dove evidentemente deve trovarsi la causa prossima, ovvero le condizioni fisico-chimiche necessarie al perfetto funzionamento delle cellule). Se il perfetto funzionamento delle cellule dipende dalle condizioni fisico-chimiche ottimali dell’ambiente interno, queste dovranno necessariamente mantenersi costanti. Bernard infatti scrive: “La costanza del mezzo interno è la condizione della vita libera, indipendente: il meccanismo che la rende possibile è infatti quello che assicura al mezzo interno il mantenimento di tutte le condizioni necessarie alla vita degli elementi”. Inevitabilmente, dovranno allora esistere meccanismi che permettano il mantenimento di quelle condizioni, sostine infatti Bernard, aprendo uno dei più affascinanti e fruttuosi campi dell’intera fisiologia, la fisiologia delle regolazioni, degli adattamenti e dei compensi.

La “nuova” fisiologia propugnata da Bernard deve dunque penetrare l’ambiente interno, capire le regolazioni e perciò farsi scienza dinamica, viva; non può più basarsi esclusivamente sulle conoscenze anatomiche, chimiche o fisiche, ma ha bisogno di studiare l’organismo vivente. Per Claude Bernard ciò significa sperimentazione animale e a questo punto dedica un capitolo nella seconda parte dell’Introduction. L’essenza delle sue idee a questo proposito è nel paragrafo III, nel quale scrive: “Come è stato possibile scoprire le leggi della materia inanimata solo penetrando nei corpi o nelle macchine inerti, così si potrà arrivare a conoscere le leggi e le proprietà della materia vivente solo introducendosi nell’ambiente interno. Dopo aver sezionato i morti, si devono quindi necessariamente sezionare gli esseri viventi, per mettere allo scoperto e veder funzionare le parti interne o nascoste dell’organismo……” (Fig. 2).

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Il nome di Claude Bernard è spesso associato al concetto di metodo sperimentale. E’ certo che egli abbia in qualche modo sublimato le esperienze dei due secoli precedenti e le abbia sistematizzate; a questo merito indubbio ne vanno aggiunti altri tre, che probabilmente caratterizzano il contributo epistemologico di Claude Bernard: l’enfasi sul concetto di ipotesi, il fallibilismo e l’applicazione del metodo sperimentale alla medicina. Schematicamente, si può dire che per Claude Bernard il metodo sperimentale si basa sulla sequenza: osservazione>ipotesi>esperimento. Osservazione ed esperimento non si distinguono per la loro natura, ma per la loro posizione nella sequenza sperimentale: l’esperimento è un’osservazione provocata allo scopo di verificare un’ipotesi e, fornendo fatti al ricercatore, diventa a sua volta osservazione, cioè punto di partenza di un’altra sequenza. La logica del ragionamento sperimentale è pertanto circolare (Fig. 3).

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Il ruolo che Claude Bernard ha avuto nello sviluppo della medicina clinica non è probabilmente inferiore a quello che ha avuto nella fisiologia. Il lavoro sperimentale di Bernard ha infatti contribuito in maniera fondamentale allo sviluppo di varie branche mediche, dall’anestesia alla chirurgia, dalla farmacologia alla medicina interna, dalla tossicologia alla neurologia. Questo è certamente molto significativo ma, al tempo stesso, secondario rispetto alle implicazioni che ha avuto il “discorso sul metodo”, discorso che plasma dalla base tutto lo spettro delle discipline biomediche, e di conseguenza ogni pagina di Claude Bernard può essere letta sia nella prospettiva biologica sia in quella clinica. Così, il determinismo vale anche per la malattie, che in alcuni casi possono riconoscere almeno in parte un’alterazione dei meccanismi omeostatici; il metodo sperimentale è valido sia per la fisiologia sia per la medicina clinica; la sperimentazione animale serve non solo a conoscere i meccanismi fisiologici ma anche quelli fisiopatologici e a mettere a punto procedimenti terapeutici; la rinuncia al legame con la filosofia vale anche per la medicina. Ancora una volta è importante sottolineare che queste considerazioni non rappresentano un’attribuzione a posteriori di meriti indiretti, ma sono tutte chiaramente presenti nelle pagine dell’Introduction.

L’Introduction a l’étude de la médecine expérimentale

L’Introduction a l’étude de la médecine expérimentale (Fig. 4) compare nella bibliografia bernardiana dopo sei anni di silenzio editoriale, favorita dai periodi di riposo che Claude Bernard era obbligato a trascorrere a Saint-Julien a causa delle sue condizioni di salute, come testimonia lo stesso Bernard:”……La maladie m’a permis de réflechir et je vais retracer ce que j’ ai conçu et commencer réellement aujourd’hui mon ère nouvelle”. Pubblicata nell’estate del 1865 e presentata da Claude Bernard all’Académie des Sciences il 21 agosto, non fu concepita originariamente come un’opera separata, ma doveva semplicemente costituire il capitolo introduttivo dei Principes de Médecine expérimentale (che comparvero postumi nel 1947).

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L’Introduction si compone di una breve introduzione e di tre parti intitolate, nell’ordine, Du raisonnement expérimentale, De l’expérimentation clzez les etres vivants e Applications de la méthode expérimentale a l’étude des phénomènes de la vie. Le prime due sono teoriche ed in esse vengono delineate le regole del “ragionamento sperimentale”, mentre la terza può essere considerata una lunga appendice contenente esempi di ricerche condotte secondo tali regole. Delle sedici scoperte scientifiche riportate, quindici si riferiscono al proprio lavoro, una ad uno studio di Magendie. Bernard giustifica questa scelta nel primo capitolo della terza parte “ …..ho riunito un certo numero di esempi che mi sono parsi i più adatti per raggiungere il mio scopo. In questi esempi mi sono, per quanto possibile, autocitato, perchè in fatto di ragionamenti e di procedimenti intellettuali sarò evidentemente assai più certo di quanto esporrò raccontando ciò che mi è accaduto che non interpretando quel che può essersi svolto nell’animo di altri. D’altronde, non è mia pretesa proporre questi esempi come modelli da seguire; li uso esclusivamente per meglio esprimere le mie idee e per far capire più esattamente il mio pensiero”.

 

Lo stile non è dei più accattivanti, a causa di una prosa abbastanza monotona, una certa teatralità nell’alternanza di momenti “magniloquenti” e di dubbie professioni di modestia, ed una tendenza alla ripetizione dei concetti. Nonostante ciò, è un libro che si legge “d’un fiato”, per l’indubbio fascino che emana e per lo stile romanzato, ma soprattutto perchè vi si trova “tutto ciò che si fa” in un laboratorio di ricerca (gli insuccessi, le esaltazioni, le discussioni, gli errori, il ragionamento pacato, la nascita di mille ipotesi che vengono immediatamante smantellate etc..) e “tutto ciò che si dovrebbe fare” in un laboratorio di ricerca, sostanzialmente non dare nulla per scontato e dubitare sempre di tutto. E’ stato suggerito, seguendo l’interpretazione di Bergson che sarà riportata più avanti, che l’Introduction possa essere letta più efficacemente in senso retrogrado, partendo dagli esempi per giungere ai princìpi.

Segnalata e recensita dalla stampa di orientamento letterario e menzionata con moderazione dalla stampa medica al suo apparire, l’Introduction venne praticamente ignorata dalle riviste scientifiche, incluse quelle di fisiologia e di biologia. Il silenzio che negli ambienti scientifici circonda la comparsa dell’Introduction sembra dipendere dall’argomento dell’opera: riflettere sul metodo in fisiologia non era infatti avvertito come parte integrante della fisiologia stessa e, agli occhi dei colleghi, Claude Bernard aveva travalicato i confini della scienza. L’ambiguità sulla natura di quest’opera è continuata negli anni successivi e giustifica i giudizi diversi espressi da filosofi e scienziati, da europei e statunitensi, da fisiologi e da medici. Le prime recensioni all’Introduction furono pubblicate da P. Janet, E.-M. Caro, F. Ravaisson e E. Vacherot, tutti filosofi di professione. Mentre Janet elogia l’opera, definendola “una specie di manuale di logica fisiologica”, Caro e Ravaisson cercano di inserirla, distorcendone il significato, nel solco dello spiritualismo cristiano o della metafisica d’ispirazione aristotelica, e Vacherot attira l’attenzione sulle “malefatte morali insite nella nozione di determinismo assoluto”. Monsignor J.J. Marchal, che diventerà arcivescovo di Bourges, scrive: “Quali che siano le convinzioni intime di Claude Bernard, di cui non sono chiamato a giudicare, egli pone la scienza su una china scivolosa e pericolosa, sulla quale nemmeno egli stesso riesce a tenersi saldo, su cui gli spiriti meno fortemente temprati scenderanno inelutta- bilmente fino alle conseguenze più estreme e più sovvertitrici dell’ordine morale e scientifico. Quest’opera rappresenta un grave pericolo per la scienza e la religione”. Così, fin dall’inizio l’Introduction, e con essa tutta la riflessione bernardiana sul metodo della ricerca scientifica, si trova ad essere “confiscata” dai filosofi. Anche quando P. Bert, allievo di Bernard, e C. Letourneau, medico, professore di storia delle civiltà alla Scuola di Antropologia di Parigi ed evoluzionista convinto, entrano nel pubblico dibattito per difendere l’Introduction, lo fanno sul terreno della filosofia. Grmek scrive a proposito: “La mala piega si era ormai formata, ed essa persiste ancora oggidì nelle didascalie scolastiche e nei commentari ad uso dei corsi di filosofia, visto che, nei licei francesi, Bernard è compreso 1ei programmi di storia della filosofia. Indubbiamente questo significa non afferrare quello che c’è di più profondo, di originale e di rivoluzionario nell’insegnamento metodologico Bernard”.

E i fisiologi? Non esiste alcun documento che dimostri che prima della morte di Claude Bernard alcun fisiologo, francese o straniero, abbia lodato o criticato (per iscritto) l’Introduction. In Germania, Ludwig e Helmholtz ignorano, o fingono di ignorare, questo libro; in Inghilterra, Foster, il più brillante ed erudito dei fisiologi della seconda metà del XIX secolo, consulterà quest’opera solo quando, dopo molti anni, dovrà compilare una biografia di Claude Bernard. Qualche attenzione verrà data dalla stampa medica inglese ed americana, sottolineando la esibita avversione di Claude Bernard per le statistiche e tralasciando il resto dell’opera. Di fatto, negli anni che seguirono immediatamente la pubblicazione dell’Introduction, un solo uomo di scienza scrisse un commento elogiativo. Quell’uomo era Louis Pasteur e quelle che seguono sono le sue parole: “L’opera che egli ha recentemente pubblicato, l’Introduction a la médecine expérimentale, esigerebbe un lungo commento per essere presentata al lettore con tutto il rispetto che questo bel lavoro merita: esso è un monumento elevato in onore del metodo che ha costituito le scienze fisiche e chimiche dopo Galileo e Newton, e che Bernard si sforza di introdurre nella Fisiologia e nella Patologia. Nulla è stato scritto di più luminoso, di più completo, di più profondo sui veri princìpi dell’arte, così difficile, dell’esperimento. Questo libro è scarsamente conosciuto, perchè esso si situa ad una altezza che poche persone riescono oggi a raggiungere. L’influenza che esso eserciterà sulle scienze mediche, sul loro insegnamento, sui loro progressi, persino sul loro linguaggio sarà immenso; non sapremmo precisarlo finora, ma la lettura di quest’opera lascia un’impressione così forte che non ci si può impedire di pensare che uno spirito nuovo animerà ben presto questi studi”’.

Cita questo articolo

Conti F., L’Introduction a l’étude de la médecine expérimentale, Medicina e Chirurgia, 68: 3112-3116, 2015. DOI:  10.4487/medchir2015-68-6

FINE

Die Cellularpathologie in ihrer Begründung auf physiologische und pathologische Gewebelehren.67, 2015, pp3072-3076, DOI: 10.4487/medchir2015-67-1

Abstract

Few books have had an impact on the history of medicine comparable to Rudolf Virchow’s Cellularpathologie (1858). It was a revolutionary book, written by a revolutionary personality in revolutionary times. Nevertheless, it owed its success less to the fact to have promoted radically new concepts, but rather to have sketched a new general medical scheme many physicians were waiting for. It placed pathology and morbid anatomy into the center of medical inquiry, and combined medical practice with cell theory, providing a scientific basis for the first and clinical significance to the latter.

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  1. Le basi del pensiero virchowiano

Fin da giovanissimo Rudolf Ludwig Karl Virchow era abituato ad impegnare tutte le sue forze per conquistarsi le sue mete. Di origini modeste, nacque il 13 ottobre 1821 a Schievelbein, un piccolo paese della Pomerania, unico figlio di Johanna Maria e Carl Christian Virchow, agricoltore e ragioniere e a lungo contrario alla carriera medica desiderata dal figlio. Nel 1839 Virchow arrivò a Berlino con una borsa di studio della Pépinière, l’Accademia prussiana per medici militari. La scuola gli impose una rigorosa disciplina di studio, ma lui saltò le tappe con grande velocità: si laureò nel 1843, diventò assistente e poi prosettore presso l’ospedale berlinese Charité e nel 1847 ottenne, appena ventiseienne, l’abilitazione con una tesi sull’ossificazione patologica. A Berlino trovò una città culturalmente, politicamente, scientificamente e socialmente in fermento. Nel 1837, poco prima del suo arrivo, la città contava poco meno di 300.000 abitanti. Nel 1902, l’anno della sua morte, la popolazione era cresciuta a quasi due milioni, rendendo necessaria una completa riorganizzazione urbanistica. Sul livello culturale e politico, la sconfitta contro le truppe napoleoniche e il periodo di occupazione avevano innescato un profondo bisogno di rinnovamento, forza e unità in ampie parti delle popolazioni degli stati tedeschi. Nacquero movimenti per l’unificazione della Germania, ma la borghesia bramava anche maggiore libertà e spinse per l’affermazione dei suoi ideali. L’intellighenzia mirava ad una profonda riforma del sistema scolastico e universitario che s’ispirasse all’ideale humboldtiano dell’unione tra ricerca e insegnamento, dedita a coinvolgere lo studente già prima della laurea direttamente nel processo dell’indagine.

La passione per la politica e la fede nel potere della scienza caratterizzava la vita e l’opera di tanti giovani come Virchow. Per lui, medicina e politica non rappresentavano due campi distinti, ma anzi erano intimamente connessi. Battagliero in campo politico come in quello scientifico, fu spinto da un’inesauribile energia e autostima. Promosse e difese le sue idee con passione e dogmatismo, spesso dimenticando di mettere in giusta luce i contributi di colleghi e assistenti.

I suoi maestri più importanti furono Johann Lukas Schönlein (1793-1864) e Johannes Müller (1801-1858). Quest’ultimo contribuì più di ogni altro ad affermare l’approccio comparativo, anatomico e sperimentale nella fisiologia tedesca della prima metà dell’Ottocento. Riduzionista nell’approccio metodologico, ma espressamente filosofico nell’intento di comprendere le basi fondamentali della vita, promosse sia le tecniche fisico-chimiche e la microscopia, entrambi considerate ancora largamente inutili dalla medicina del suo tempo, sia la capacità di formulare ipotesi scientifiche concrete e sperimentalmente indagabili. Intimamente convinto dell’importanza dell’apprendimento pratico coinvolse i suoi studenti nell’avventura della ricerca, una circostanza ancor più notevole considerando che Müller non ebbe la fortuna di dirigere un ben organizzato istituto e nemmeno un proprio laboratorio (Otis 2007). Saranno poi i suoi allievi a dirigere grandi istituti, ma al momento dovettero cercarsi gli spazi e le attrezzature come meglio potevano. Queste insidie tuttavia non ostacolarono l’entusiasmo e la consapevolezza di intraprendere ricerche innovative, e presto Müller raccolse intorno a sé studenti brillanti da tutti gli ambiti biomedici, tra loro Matthias Jacob Schleiden (1804-1881), Jakob Henle (1809-1885), Theodor Schwann (1810-1882), Karl Bogislaus Reichert (1811-1883), Robert Remak (1815-1865), Albert von Koelliker (1817-1905), Emil Du Bois-Reymond (1818-1896), Karl von Vierordt (1818-1884), Ernst Wilhelm von Brücke (1819-1892), Hermann von Helmholtz (1821-1894), Max Schultze (1825-1874), Ernst Haeckel (1834-1919) e, appunto, Rudolf Virchow.

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A Berlino Virchow compì alcune ricerche importanti, tra cui la prima descrizione della leucemia, e sviluppò le concezioni base che poi articolerà nella Cellularpathologie. Almeno a partire dal 1847 contrastava apertamente l’idea ancora molto diffusa che le malattie fossero qualcosa di estraneo al corpo o causato da organismi o agenti esterni, una concezione che più avanti lo porterà anche in ostinata opposizione contro la nascente batteriologia. Per lui, occorreva invece comprendere e trattare i morbi come una “fisiologia alterata”. Da Müller aveva inoltre imparato di pensare in modo microscopico e di concepire ogni fenomeno vitale su livello cellulare. Pochi anni prima, Matthias Schleiden e Theodor Schwann avevano pronunciato la Zellenlehre, la prima teoria cellulare sintetica, accolta e propagata con grande entusiasmo dal loro maestro. L’idea che le cellule rappresentassero gli unici elementi costitutivi dei corpi viventi, fu sostenuta già da un crescente numero di studiosi europei, ma a Berlino fu trasformata in un’ipotesi di lavoro e rapidamente verificata, applicata, ampliata e, infine, revisionata. Virchow fu uno dei protagonisti di questo processo. Considerava la cellula come “ultimo elemento attivo del corpo vivo” e si propose di trovare un modo come unire teoria cellulare e pratica medica. Per meglio propagare le sue idee, fondò nel 1847, insieme all’amico Benno Reinhardt (1919-1852), la rivista Archiv für pathologische Anatomie und Physiologie und für klinische Medicin che esiste ancora oggi.

Nell’inverno 1847-48 fu inviato dal governo in missione sanitaria in Alta Slesia, una delle zone più povere della Prussia, dove era scoppiata un’epidemia febbrile che causò la morte di oltre 16.000 persone. Nel suo rapporto la identificò come febbre maculata e sottolineò che alla base della sua diffusione epidemica stessero fattori sociali e dunque politici, insistendo sulla necessità di sviluppare democrazia, autonomia, infrastrutture ed educazione. Lo stesso anno esplose la Rivoluzione del 1848, alla quale Virchow partecipò con entusiasmo. Costruì barricate, partecipò alle riunioni politiche, presiedette vari comitati e venne perfino eletto deputato dell’assemblea costitutiva prussiana, un incarico al quale dovette tuttavia rinunciare perché troppo giovane. Il fallimento della rivoluzione lo rese talmente pessimista da pensare che nessuna riforma possa più realizzarsi. Intanto la sua condotta sovversiva era stata notata per cui venne licenziato. Riammesso dopo l’intervento della Società medica, lasciò, deluso, Berlino e si trasferì a Würzburg, dove ricoprì la neo-fondata cattedra di Anatomia patologica.

  1. La patologia cellulare prende forma

Nella città bavarese Virchow pose le sue ambizioni politiche in secondo piano e trascorse sette anni di febbrile ricerca: sezionò quasi 1000 cadaveri (prima di accettare la nomina si era assicurato la priorità sugli anatomisti e chirurghi), pubblicò lavori che, presi insieme, ammontavano a oltre 3000 pagine, tra cui importanti studi sulla trombosi venosa, e diresse varie riviste e collane. Ed è qui che elaborò la sua nuova dottrina patologica.

Virchow focalizzò la sua attenzione sulla fine anatomia del tessuto connettivo, in particolare il cartilagine e le ossa. Queste indagini lo portarono a sviluppare il concetto dei territori cellulari, un’idea simile a quella avanzata nel 1845 dal medico edinburghese John Goodsir (1814-1867) con il termine “centres of nutrition”. In una pubblicazione del 1852, Ernährungseinheit und Krankheitsherde (Unità di nutrizione e focolai di malattie), Virchow espose come questi territori si formassero intorno ad una cellula madre che, generazione dopo generazione, passò alle cellule figlie il suo principio vitale, rimanendo al centro delle attività nervose e di nutrizione. Il legame genealogico e fisiologico procurava al territorio una certa autonomia rispetto agli altri territori. Questi “focolai della vita” potevano tuttavia trasformarsi anche in “focolai della malattia” qualora i processi all’interno del territorio venissero disturbati: “Un focolaio della malattia altro non è che una semplice unità nutritiva circolatoria o vegetativa del corpo, che in condizioni anomale viene nutrito in modo divergente” (1852, p. 394). Ogni malattia era dunque per Virchow di natura fisiologica ma partì da una precisa sede anatomica. Seguendo esplicitamente le orme del forlivese Giovanni Battista Morgagni (1682-1771), avanzò ulteriormente sulla strada dell’anatomia patologica, portandola sul livello cellulare.

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Fondamentale per la dottrina della patologia cellulare era il legame tra le cellule, un legame stabilito dalla loro diretta discendenza durante lo sviluppo embriologico. Durante il suo primo periodo berlinese, Virchow, come tutti i medici e zoologi del suo tempo, sosteneva ancora la teoria di Schleiden e Schwann, secondo la quale le cellule si formassero in modo spontaneo da una sostanza amorfa, il blastema. Un’influenza considerevole sulla conversione di Virchow ebbe uno studio pubblicato nel 1852 dall’embriologo Robert Remak (1815–1865), in cui descrisse come tutti i tessuti della rana, dall’uovo fecondato fino all’adulto, derivassero da divisioni cellulari. Per la sua omissione di citare Remak, Virchow è stato accusato da alcuni storici di plagio (per es. Weindling 1981, 118). Sta di fatto che molti botanici avevano osservato la divisione cellulare fin dagli anni 1830, ed è molto probabile che anche Virchow cullava idee simili prima del 1852. Frequenti furono infatti le discussioni con il suo compagno di studio, Albert von Koelliker, chiamato nel 1847 a Würzburg sulle cattedre di Fisiologia e di Anatomia microscopica e comparata. Da alcuni anni Koelliker era impegnato in un’aspra polemica con un altro compagno berlinese, Karl Bogislaus Reichert, sulla questione se i nuclei cellulari comparissero ex novo all’interno delle due cellule figlie o se si dividessero. Koelliker aveva optato per la seconda possibilità, tuttavia non traendo la conclusione che anche le cellule si moltiplicassero sempre per divisone. Per quanto riguarda la seconda presunta omissione, l’ipotesi che i tessuti patologici non rappresentassero che casi di sviluppo anomali, bisogna sottolineare che Remak lo sollevò come congettura al termine del suo saggio, mentre per Virchow era il punto di partenza per un’elaborata dottrina. Nel 1855 infatti pubblicò il saggio Cellular-Pathologie, nel quale espose le linee principali e pronunciò il suo famoso aforisma, che originalmente diceva Omnis cellula a cellula, trasformato nel 1858 in Omnis cellula e cellula, il motto della successione diretta delle cellule.

  1. L’accoglienza della Cellularpathologie

Nel 1856 Virchow fece il suo trionfale ritorno a Berlino. L’università gli raddoppiò lo stipendio e promise la costruzione di un grande istituto. Due anni dopo uscì Die Cellularpathologie, l’opera che procurava al trentasettenne Virchow il titolo di “più grande riformatore della medicina del XIX secolo”. A dispetto di questo giudizio storico sembra che al momento della sua pubblicazione Virchow ancora non si fosse reso conto del suo possibile impatto. Altrimenti avrebbe probabilmente compilato un volume più organico ed elaborato. Così invece, riporta in venti capitoli le sue venti lezioni, tenute davanti ai medici berlinesi, stenografate dallo studente Langenhaun.

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Il libro non fu senza errori. Anzi, contiene alcuni oggi giudicati clamorosi, ma sui quali Virchow insisteva ostinatamente nonostante le controprove portate in campo. Così il suo rifiuto categorico dell’origine batterica della tubercolosi che invece considerava una forma di tumore. Riteneva inoltre che i carcinomi fossero di esclusiva origine del tessuto connettivo, una convinzione che il suo maggiore allievo italiano, Giulio Bizzozero (1846-1901), confutò in modo esemplare pochi anni dopo (Dröscher 2002).

Furono anche avanzate critiche di varia natura. Molti medici clinici facevano valere che il posto del medico dovesse essere al letto dell’ammalato e non in laboratorio. Inoltre, in molti casi l’applicazione di cure su livello cellulare rimase un ideale non realizzabile. Altri criticarono l’approccio fisicalista e materialista, altri ancora obiettarono che non si poteva ridurre un corpo in un ammasso di singole cellule. L’indirizzo anatomico e microscopico, infine, rese lo studio delle malattie statico trascurando l’aspetto dinamico. In Italia, svolgendosi durante i primi anni dopo l’unificazione del paese, gli argomenti scientifici si mischiavano spesso con ragionamenti patriottici e lotte istituzionali (Dröscher 2012).

Nonostante le omissioni, le mancanze e le resistenze la patologia cellulare fu presto ampiamente accettata. Già nel 1859 uscì la seconda edizione tedesca, nel 1862 la terza e nel 1871 la quarta. Nel 1860 fu tradotta in inglese (seconda edizione nel 1863) e in francese (seconda edizione nel 1868). La traduzione italiana avvenne nel 1863 (seconda edizione nel 1865). In buona parte questo successo è dovuto al fatto che la Patologia cellulare propose le linee guida di una nuova e da lungo aspettata sintesi tra la pratica medica e i recenti progressi delle scienze naturali. Istituì la patologia e l’anatomia patologica come discipline chiavi per lo studio delle malattie, diede un significato clinico alla teoria cellulare e creò un’unione ideale tra fisiologia, patologia ed istologia. Propose un nuovo concetto di malattia, sostituendo il bimillenario dominio della patologia umorale, che vedeva nella disarmonia degli equilibri umorali i responsabili di ogni fenomeno di malattia o benessere, con una dottrina localizzatrice, favorendo lo sviluppo della chirurgia invasiva. La dottrina della successione diretta delle cellule, benché non originale, fu autorevolmente propagata da Virchow e rappresenta un punto di svolta nella storia della biologia cellulare.

Il volume è corredato di 144 figure xilografiche, un aspetto insolito per i trattati di patologia dell’epoca che però corrisponde al peso che Virchow attribuiva alle dimostrazioni pratiche. Le aveva particolarmente apprezzato nel suo maestro Müller. A Würzburg, il corso di microscopia anatomo-patologica rappresentava la maggiore attrazione per gli studenti che accorsero anche da lontano. Ernst Haeckel, poco dopo uno dei più famosi zoologi dei suoi tempi e dal 1852 al 1856 allievo di Virchow, ne diede una viva descrizione nelle lettere ai suoi genitori: mentre Virchow teneva la sua lezione, i 30-40 studenti selezionati stavano seduti lungo due tavoli, in mezzo ai quali camminava un piccolo trenino che trasportava microscopi con i preparati che illustravano i casi clinici appena visitati in corsia. La stessa unione tra clinica, patologia, anatomia e microscopia caratterizzava anche il libro. La Cellularpathologie è infatti non soltanto una rivoluzione dottrinale ma anche metodologica. Fin dal 1845, appena ventiquattrenne, Virchow intese cambiare la tradizionale visione su come studiare e praticare l’arte medica. Voleva trasformare la medicina in una biologia antropocentrica: “La medicina non vuole essere solo una scienza, vuole essere una scienza naturale, anzi la scienza naturale più alta e più bella”. Sotto la sua direzione si formò un’intera generazione europea di patologi, tra cui quattordici futuri professori italiani. Il laboratorio, la microscopia scientifica e le scienze naturali diventarono strumenti indispensabili per ogni medico.

La fama della Cellularpathologie andò ben oltre i circoli medico-scientifici. A fine Ottocento scienziati e medici godevano di grande prestigio sociale e visibilità popolare, e la passione e l’arte retorica di Virchow impressionava il pubblico. Lui ne approfittò per divulgare anche le sue convinzioni sull’igiene pubblica e sull’ordinamento politico. In analogia con i suoi convincimenti repubblicani, Virchow concepì il corpo vivente come uno stato di cellule dove le singole unità erano autonome, ma collaboravano per formare un insieme (Mazzolini 1983).

Dopo la pubblicazione, Virchow abbandonò presto il campo delle sue ricerche giovanili. Creò la famosa collezione anatomo-patologica che nel 1899 comprese oltre 23.000 preparati e iniziò un’opera monumentale sui tumori, Die krankhaften Geschwülste (1862-1867), rimasta incompleta, ma l’epicentro dei suoi impegni si spostò sempre più verso la politica e verso altri ambiti scientifici. Fedele al suo motto che medicina è “una scienza sociale, e la politica nulla più che medicina su larga scala”, s’impegnò per l’istituzione di una sanità pubblica. Creò il sistema di canalizzazione di Berlino, fece costruire nuovi ospedali, parchi pubblici e molto altro. Diventò deputato rionale, fondò, insieme allo storico Theodor Mommsen (1817-1903), il Partito Liberal Progressista, e nel 1862 venne eletto deputato nel parlamento prussiano. Combatté e provocò il cancelliere Otto von Bismarck al punto che questo lo sfidò a duello (che non ebbe luogo). Virchow coniò anche il termine Kulturkampf per la lotta tra Stato e Chiesa e si impegnò per il diritto dei poveri alla formazione scolastica.

Negli anni settanta si interessò di antropologia, disciplina in forte ascesa dopo le opere di Darwin e il ritrovamento, nel 1856, dell’uomo di Neanderthal. Fondò la Società Tedesca di Antropologia. Nonostante si dichiarasse favorevole alle teoria della discendenza, giudicò l’uomo di Neanderthal non come prova dell’evoluzione umana, ma come un uomo contemporaneo affetto da una grave malattia. Fu amico stretto di Heinrich Schliemann (1822–1890) che in questi anni scoprì le rovine di Troia. Era ormai un personaggio così famoso che i suoi compleanni si trasformavano in feste nazionali. Rifiutò, tuttavia, il conferimento di un titolo nobiliare. Fu il medico più celebre d’Europa. Nel 1901, per il suo ottantesimo compleanno ricevette 800 telegrammi da tutto il mondo. Morì il 5 settembre dell’anno seguente.

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Cita questo articolo

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Questa mia senile fatica. Giovan Battista Morgagni e il De sedibus et causis morborum per anatomen indagatisn.66, 2015, pp.2998-3003, DOI: 10.4487/medchir2015-66-6

Abstract

Giovan Battista Morgagni’s De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis is a masterpiece in the history of medicine, as well as in human anatomy and pathology. Its immediate reception all over Europe well testify the novelty of Morgagni methodological and experimental approach to human pathological anatomy. The article shortly examines the cultural and geographical context in which De sedibus has been conceived by its author, the very rich scientific and personal relationships linking Morgagni to the medical élite of XVIII century, and finally the structure of the text and its significance in medical history studies.

Articolo

L’anatomia patologica prima dell’anatomia patologica

Il De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis, il magnum opus di Giovanni Battista Morgagni dato alle stampe a Venezia nel 1761, quando il suo autore era oramai ottantenne, rappresenta sotto molti aspetti un nuovo inizio per la medicina di fine Settecento e lo scardinamento di una clinica di matrice ippocratica (dunque qualitativa, non solidistica e olistica), che ancora costituiva un saldo riferimento intellettuale per molte delle scuole mediche europee. Dire che il libro di Morgagni rappresenta un punto da cui diventa obbligatorio ripensare il modo in cui si progetta, si fa e si scrive l’anatomia, come diceva Mirko Grmek, è certamente vero; tuttavia, affermare tout court che il libro di Morgagni spalanca le porte per la prima volta a una riflessione sistematica sulle relazioni possibili tra dimensione anatomica e prospettiva clinica sarebbe un’ingenuità contro cui ci mettono in guardia, con rinnovate argomentazioni, molti buoni studi storici recenti. Alla fine del XVIII secolo, infatti, in Francia e, seppure meno sistematicamente, in Inghilterra e in altri paesi europei, erano venute realizzandosi le condizioni per il graduale riavvicinamento della dimensione clinica con quella chirurgica: l’Italia era in questo senso un territorio di avanguardia, con alcuni avamposti in cui le ripetute e frequenti contaminazioni tra il sapere pratico, localizzante e solidistico dei chirurghi e il sapere dotto trasmesso dai contesti accademici avevano prodotto risultati di grande interesse, soprattutto in relazione alla storia di alcune sedi ospedaliere. L’ospedale moderno rappresenta, infatti, il luogo di elezione dove le storie cliniche dei pazienti possono incontrare i dati della riflessione autoptica, muovendo una ricerca che da osservazione sporadica e non sistematica di malformazioni ed esiti patologici diventa tentativo di costruire un discorso organico sulle cause di morte. La registrazione di alterazioni patologiche sul cadavere, sottratta alla casualità e alla rarità con cui i secoli precedenti l’avevano pure registrata, incontra una quantità ingente di ‘materiali di lavoro’ proprio nelle sedi ospedaliere, in cui i decessi per malattia diventano la fonte che rende possibile l’iniziale idea di correlare le storie cliniche con il dato autoptico. La relazione con le sedi universitarie, con le gilde e i collegi professionali, fa il resto, rendendo utilizzabile anche come programma didattico il dato di osservazione.

Schermata 2015-07-09 alle 11.25.54Roma è, in questo senso, insieme a Parigi, tra le città la cui storia ospedaliera più fortemente è connotata da questo nuovo atteggiamento di studio e ricerca; le vicende storiche degli ospedali romani, dalla Consolazione al Santo Spirito, sedi di lavoro congiunto di diverse tipologie di professionismi medici e chirurgici, ne forniscono un buon esempio. La grande ricchezza “di letti e di ammalati” degli ospedali italiani, già registrata come fatto straordinario da Martin Lutero durante il suo viaggio in Italia, costituisce il punto di avvio della ricerca anatomo-clinica molto prima della nascita formale del metodo e della disciplina anatomo-patologica. Ma in realtà, nella seconda metà del Settecento, molti grandi ospedali europei – primi fra tutti, evidentemente, quelli parigini, enormi per dimensione e capacità di accoglienza, ma anche, come si diceva, in Inghilterra, Germania, in Russia, nei paesi Baltici e in America – avevano reso la pratica dissettoria su chi moriva in ospedale un’attività quasi ‘normale’, accompagnandola con la dissezione di corpi lasciati per legato testamentario alla ricerca scientifica da esponenti delle classi più facoltose e colte. Questo ha condotto, in un arco di tempo relativamente breve, anche alla creazione di veri e proprie collezioni anatomo- patologiche, che consentivano insieme di attrarre un numero maggiore di studenti presso gli ospedali e le sedi universitarie e di rispondere al bisogno di classificazione strutturale e nosologica che è uno dei punti caratterizzanti il pensiero medico settecentesco (Bynum W.F., Porter R.).

La spinta a riunificare l’approccio clinico con quello chirurgico, più forte a partire dalla data in cui Giovan Battista Morgagni da alle stampe il suo opus magnum e almeno fino agli anni Novanta del secolo, consentendo il superamento dell’olismo di matrice ippocratico-galenica che di fatto rendeva ‘fluido’ e indistinto il confine tra la sfera del normale e quella del patologico, permette di spostare la malattia dal piano dell’astrazione teorica a quello della concretezza ‘materiale’; si vanno così realizzando così i sogni di intere generazioni di anatomisti europei che, da almeno due secoli, erano andati in cerca di evidenze tangibili e della possibilità di collocare in una parte specifica del corpo l’essenza dei morbi. L’aspirazione di Antonio Benivieni (1443-1502), che voleva stabilire una correlazione tra le osservazioni sul cadavere e quelle che precedentemente erano state condotte sul paziente vivo, e il suo sostenere la necessità metodologica dell’acquisizione diretta dei dati da parte del medico per mezzo di una valutazione visiva e tattile della malattia (“quos ego et vidi et tetigi”), alla fine del Settecento si è compiutamente realizzata: le straordinarie intuizioni e le descrizioni patologiche di autori come Jean François Fernel (1497-1558), Felix Platter (1536-1614), Johann Schenck (1530-1598), Nicolaus Tulp (1593-1674), François de la Boe (16141672), Thomas Bartholin (1616-1680), Gaspare Aselli (1581-1625), William Harvey (1578- 1657), tutti variamente interessati all’idea della costruzione di una ‘medica anathomia’, avevano condotto alla nascita di una ‘anatomia pratica’, ancora legata fortemente a un empirismo di matrice anatomo-clinica ma proiettata a diventare quella che nel 1713 Friedrich Hoffmann (1660-1742) per la prima volta definirà come anatomia patologica.

Lo sforzo di correlazione tra descrizione clinica e relazione autoptica, seppure ancora caratterizzato dalla ricerca del reperto straordinario e poco frequente, tipizza ampia parte della ricerca anatomica seicentesca; esso è raccolto, nella seconda metà del secolo, da Marcello Malpighi, che dichiara la necessità della creazione di quadri teorici coerenti che consentano di distinguere l’anatomia umana normale da quella patologica. Le autopsie di Malpighi, fatte “per comprendere la clinica”, sono strumenti che servono alla costruzione di una disciplina autonoma, allo stesso tempo subordinata e dialogante con la clinica: non una storia né una filosofia naturale, dunque, ma uno strumento da utilizzare per la costruzione di una nuova diagnostica e di una nuova terapia.

Schermata 2015-07-09 alle 11.26.03Insieme alle suggestioni che vengono a Morgagni da tutto questo percorso e dalla scuola romana di Giorgio Baglivi e di Giovanni Maria Lancisi, suo maestro e amico e primo autore a progettare, nel trattato De subitaneis mortibus (1706), l’incontro tra analisi epidemiologica e dimensione anatomo- patologica, la considerazione malpighiana “delle cause, delle sedi, della struttura e del moto della materia morbosa” (Bologna, Biblioteca Univ., Ms. Malpighiani, vol. XII) è più che un motivo ispiratore per il testo di Giovan Battista Morgagni: egli la sceglie a manifesto del suo progetto scientifico e ne fa titolo e principale linea guida del suo vastissimo lavoro di revisione e organizzazione dell’esperienza sua e altrui sul corpo morto per malattia (Zampieri, F., Zanatta A., Thiene G., 2014).

Padova città di anatomie

Che il De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis veda la luce all’interno dei circuiti culturali che legano la sede universitaria di Padova, città nella quale Morgagni insegnava, dopo un soggiorno bolognese, sulla cattedra di Medicina teorica dal 1711 e su quella di anatomia dal 1715 (e ininterrottamente fino al momento della sua morte) e Venezia, ancora alla fine del secolo uno dei centri editoriali di eccellenza in Italia, è ovviamente cosa che non stupisce chi conosca anche sommariamente la storia della disciplina anatomica in Italia e in Europa, la storia dell’editoria e del libro scientifico in evo moderno, la storia anche geografica del lungo magistero di Morgagni.

Padova era stata sin dal XVI secolo il centro di una ricerca anatomica organizzata e di altissimo livello, in grado di attrarre studenti e docenti da tutto il territorio europeo; dotata dal 1595 del celebre teatro anatomico, voluto da Girolamo Fabrizi di Acquapendente e da lui fatto realizzare su progetto di Paolo Sarpi per rispondere alle esigenze degli studenti della Nazione Germanica che reclamavano una struttura permanente ove potessero apprendere l’anatomia attraverso la partecipazione diretta all’apertura del cadavere, Padova aveva visto succedersi negli insegnamenti di chirurgia e di anatomia i nomi dei principali anatomisti del tempo. Alessandro Benedetti (1450ca.- 1512), Andrea Vesalio (1514-1564), Realdo Colombo (1510 ca.- 1559), Gabriele Falloppio (1523-1562), Girolamo Fabrizi da Acquapendente (1533 ca.-1619), Giulio Casserio (1552-1616), Adriaaan van den Spiegel (1578-1625), Johann Vesling (1598-1649), Domenico Marchetti (1626-1688) tennero per periodi diversi (alcuni, come Falloppio, per cinquant’anni di fila) le cattedre di anatomia e di chirurgia dell’ateneo patavino, mettendo a punto il metodo anatomo-comparativo, permettendo il compiersi del passaggio dall’anatomia descrittiva all’anatomia funzionale, strutturando innovativi sistemi di iniezione intravasale per la conservazione del materiale anatomico e collaborando in modo continuativo con il Collegio medico veneziano (G. Ongaro). A questi nomi si debbono unire quelli di altri che, pur non essendo direttamente coinvolti nella didattica anatomica formale, scelgono Padova come luogo di eccellenza in cui si rende possibile l’incontro con personalità del calibro di Galilei e l’elaborazione di una fisiologia rivoluzionaria che scardina in modo definitivo la complessa costruzione del sapere anatomico e funzionale antico, in particolare galenico; il nome di William Harvey fornisce l’esempio paradigmatico di quello che Padova costituì come centro di attrazione dell’intelligenza medica europea. Infine, la forte presenza a Padova di studenti tedeschi, ricchi e motivati alla ricerca anatomica al punto che le loro modalità di procacciamento dei cadaveri costituivano motivo di attrito con la Nazione ebrea ancora negli anni venti del Settecento, costituisce un ulteriore motivo di attrattività per chi, come Giovan Battista Morgagni, aveva fatto della ricerca anatomica il principale motivo di ispirazione della propria vita, al quale sacrificare persino la serenità familiare e la qualità dei rapporti con i numerosi figli e figlie.

Cinque Accademie, cinque lettere, cinque prefazioni

Giovan Battista Morgagni, al momento della pubblicazione del De sedibus, era un’autorità accademica indiscussa, un potente signore della medicina, rispettato e temuto da colleghi e rivali, che lamentavano che in Padova l’unico a poter liberamente disporre della sala di autopsie fosse proprio l’ottuagenario maestro. Della rete di relazioni intellettuali e personali intessute nei lunghi anni della sua vita resta traccia negli epistolari, nelle cronache degli incontri personali, nella corrispondenza con viaggiatori, nella discussione di temi politici, nelle polemiche accademiche che lo vedono protagonista fino a pochissimo tempo prima della sua morte. I nomi di Lazzaro Spallanzani, Domenico Cotugno, Antonio Scarpa, Michele Sagramoso, Scipione Maffei, Giuseppe Torelli, Leonardo Targa, Ludovico Salvi sono solo alcuni di quelli cui si può far ricorso per documentare la ricca rete di relazioni morgagnane.

Essa è testimoniata dall’interno anche dalle lettere prefatorie ai cinque libri in cui è diviso il De sedibus, ognuna dedicata a una delle accademie europee di cui Morgagni, talvolta da decenni, era membro, citate, come è detto espressamente nella Prefazione all’intera opera, secondo l’ordine “ del tempo in cui io ero stato ammesso in ciascuna Accademia” e con il fine esplicito di dimostrare in contesti diversi l’utilità delle dissezioni condotte su corpi morti per malattia. Ogni lettera è indirizzata al Direttore in carica: Cristoph Jacob Trew (1695-1769), professore a Norimberga e promotore della fondazione di un teatro medico in quella città, medico di corte e conte palatino con la passione per la botanica, amico di H. Boerhaave e corrispondente dei più celebri medici europei, dal 1743 direttore dell’Accademia Imperiale Leopoldina di Scienze, fondata in Vienna con il nome di Accademia dei Curiosi della Natura nel 1652; William Bromfield (1712-1792), chirurgo fondatore del London Lock Hospital, lettore di anatomia a Londra, autore di un Syllabus anatomicus pubblicato nel 1736 e di un Syllabus chirurgicus del 1743, inventore di tecniche innovative di chirurgia generale e ortopedica, un personaggio invero dai profili discussi (fu accusato a più riprese di imperizia e negligenza), ma cui Morgagni è legato, oltre che dal comune esser membri della Royal Society, anche dal fatto di condividere la formazione del figlio maggiore di Bromfield, studente laureato a Padova sotto la sua guida; Pierre Sénac, archiatra del re di Francia, anatomico autore di un trattato sulla struttura, fisiologia e patologia cardiaca, rappresentante di quella Academie Royale des Sciences fondata da Colbert nel 1666, di cui Morgagni era entrato a far parte prendendo il posto di F. Ruysch, morto nel 1731; Johan Friedrich Schreiber (1705-1760), lettore a Lipsia dal 1729 di Filosofia, medicina e Botanica, dal 1731 medico militare per l’esercito russo e dal 1742 professore di Anatomia e chirurgia a San Pietroburgo, direttore dell’Accademia delle Scienze, voluta da Pietro il Grande come parte del grandioso progetto di costruzione culturale suggeritogli da G.W. von Leibniz, e pensata su modello dell’Accademia delle Scienze di Parigi, di cui Morgagni era entrato a far parte già nel 1735; e, infine, Johann Friedrich Meckel (1724-1774), professore di anatomia, botanica e ostetricia a Berlino dal 1751 e dal 1773 membro dell’Accademia Reale svedese delle scienze, fondata nel 1739 da Federico I di Svezia, inizialmente come società privata (Linneo fu uno dei primi protagonisti delle sue attività culturali), ultima società ad accogliere all’unanimità Morgagni tra i suoi membri.

Oltre a testimoniare il livello alto delle relazioni scientifiche morgagnane, le dedicatorie alle cinque accademie europee rivestono il preciso ruolo di individuare gli enti cui deve essere affidata la divulgazione del solo metodo che Morgagni ritiene indispensabile alla creazione di una medicina nuova: da un lato lo studio dei corpi malati, che “mediante la lesione di una data parte congiunta con lo sconcerto di una data funzione” serve “meravigliosamente, non solo a confermare le vere funzioni delle parti, ma eziandio ad illustrarle, e talvolta a scoprirle, e a far rigettare quelle che son false” e a “scoprire le cause delle malattie affatto nuove e sconosciute che talvolta s’incontrano”. Dall’altro, una politica di educazione medica che imponga la collezione di storie cliniche corredate del dato autoptico, da trasmettere alle generazioni future in modo che “i nostri discendenti abbiano tanto numero di osservazioni quanto possa bastare” per una nuova anatomia che sappia curare.

Un nuovo metodo “clinico”

Le basi concettuali su cui poggia la progressiva e lenta creazione del De sedibus sono certamente fondate anche sul lungo sodalizio intellettuale ed amicale di Morgagni con Giovanni Maria Lancisi, l’archiatra pontificio che con i suoi trattati De subitaneis mortibus del 1706 e De motu cordis et aneurysmatibus, date alle stampe dopo la sua morte nel 1728, aveva intrapreso la strada della correlazione sistematica – elevata a metodo di indagine – tra la sintomatologia clinica e la lesione anatomica rilevata post mortem. La ricerca lancisiana di segni che rendessero possibile l’identificazione della ‘specie’ della malattia cardiaca e la loro proiezione sulla base di una epidemiologia clinica ante litteram consentono, infatti, lo strutturarsi di un metodo epicritico che si sviluppa attraverso la descrizione dei reperti autoptici e la messa in relazione della testimonianza dei reperti anatomo-patologici con tutta una serie di variabili relative agli stili di vita dei pazienti, alla loro dieta e alle loro attitudini lavorative. Giuseppe Ongaro attribuisce un ruolo determinante nello strutturarsi del piano editoriale dell’opera morgagnana anche a Ippolito Francesco Albertini (1662-1738), allievo di Malpighi e dal 1701 professore di medicina pratica all’università di Bologna, città in cui incontrò e fu maestro di Morgagni: Albertini, nella sua opera Animadversiones super quibusdam difficilis respirationis vitiis a laesa cordis et praecordium structura pendentibus, letta nel 1726 in una seduta dell’Accademia bolognese delle Scienze e data alle stampe nel 1748 ad opera di Francesco Zanotti, aveva infatti a più riprese sottolineato l’urgenza di riconoscere nei malati “quello che avevo visto nei cadaveri molte volte, disponendo di segni diagnostici sicuri e conosciuti, mediante i quali poter discernere l’alterazione anatomica”.

A questi stimoli diretti, testimoniati anche dalla fitta corrispondenza tra Morgagni e Lancisi, si debbono aggiungere gli insegnamenti del Valsalva, al cui magistero si deve l’insistenza sul ricorso all’anatomia comparata, alle dissezioni degli animali e alla pratica sperimentale, intesi come sistemi utili alla risoluzione di problemi osservati sul corpo degli uomini; nonché le occasioni fornite dalla nascente medicina sociale e della medicina del lavoro di matrice ramazziniana che, mettendo in luce l’esistenza di legami verificabili tra la professione svolta in condizioni di scarsa salubrità e l’insorgere di malattia, di fatto avevano aperto la strada a una nuova riflessione sulla causalità in medicina.

Una forte motivazione del De Sedibus è poi da rintracciare nella critica sistematica alla scarsa puntualità e alla mancanza di spirito critico che Morgagni individua come i principali difetti del Sepulchretum di Th. Bonet (1620-89), medico del duca di Longueville a Neufchatel, che aveva dato alle stampe nel 1679 quella che è forse la compilazione più dettagliata e lunga della storia dell’anatomia seicentesca in Europa. Il Sepulchretum, opera che pure aveva incontrato opinioni valutazioni e favorevoli, consiste in effetti in un lunghissimo elenco di esempi tratti quasi sempre dallo spoglio della letteratura precedente, corredati di scoli in cui Bonet registra tutto ciò che su una data malattia è stato pubblicato, sia in termini di sintomatologia che di terapia; per molti aspetti, malgrado le critiche, costituisce per Morgagni il modello da antagonizzare. Concepito ugualmente con tradizionale esposizione a capite ad calcem, il principale difetto del lavoro di Bonet è la sua destinazione al medico pratico, e l’assenza totale del tentativo di trovare collezione sistematica tra lesione sul cadavere, sintomi in vita e cause della malattia. Gli indici di Bonet, che Morgagni aveva in giovane età accolto entusiasticamente come una novità da valutare con attenzione, finiscono per diventare la sua più grande delusione e il primo difetto da emendare nel suo nuovo lavoro, che è avviato almeno dagli anni ‘40. Esperienze in ospedale, dissezioni pubbliche ‘morbose’, letteratura pregressa mettono alla luce lesioni specifiche sul cadavere che pongono a Morgagni un problema che è, innanzitutto, metodologico: è possibile intenderle ed indagarle non solo come causa dei sintomi accusati dai pazienti prima della morte, ma anche e soprattutto come causa della malattia? L’attenzione di Morgagni, motivata dall’idea che sostanzialmente il concetto di causalità di malattia vada a sovrapporsi a quello della sua predicibilità, si pone sulle modalità con cui la lesione si è generata e modificata nel tempo: la lesione è sempre in lento divenire e, come la malattia, essa non può essere intesa come fatto statico. Le storie dei pazienti servono alla costruzione di questo lento processo: senza le dissezioni dei corpi malati, nessuna ipotesi sulla natura della malattia e sulle sue cause può essere avanzata, come Morgagni stesso già sosteneva nella Nova Institutionum Medicarum Idea, la prolusione accademica pronunciata dopo la sua chiamata a Padova, nel 1712, in cui sono contenute le sue principali idee sulla riforma necessaria degli studi medici.

Settecento casi racchiusi in settanta lettere anatomiche, idealmente indirizzate a un giovane amico appassionato di studi anatomici, divise in cinque libri e racchiuse in due volumi in folio; progettata a Bologna e con un programma editoriale già abbozzato nel 1707, il De sedibus è un’opera monumentale, in cui confluiscono di fatto le esperienze di una vita interamente trascorsa tra l’ospedale e la sala settoria, le annotazioni contenute negli appunti che Morgagni quotidianamente registrava in un taccuino compilato senza soluzione di continuità dal 1699 al 1767, le cronache di dissezioni compiute da Valsalva, alcuni casi tratti dalla letteratura e ritenuti particolarmente utili, qualche resoconto delle autopsie condotte da Giandomenico Santorini (1681-1737), dimostratore di anatomia a Venezia, in cattedra nella stessa città dal 1706 al 1728, caro amico di Morgagni che aveva assistito per un paio di anni consecutivi, dal 1707 al 1709, alle sue dissezioni patologiche, nelle sedi di Bologna e Venezia.

Tutta l’opera è frutto di un rigoroso confronto con la letteratura, esaminata con spirito critico e scandagliata anche nella presentazione dei casi che sono frutto dell’esperienza dello stesso Morgagni; ogni questione è sottoposta al vaglio finale della ‘sensata esperienza’.

Le lettere, ordinate secondo lo schema classico a capite ad calcem, sono ispirate a un meccanicismo di matrice malpighiana, che delinea l’organismo come un complesso sistema di macchine minute il cui corretto funzionamento garantisce la vita; a ogni lesione, pure minima, delle macchine corrisponde un deterioramento e una diminuzione dell’efficienza di funzione. A ogni guasto organico corrisponde, dunque, un’alterazione funzionale; all’alterazione funzionale, sintomi e manifestazioni che il clinico vede, nelle corsie, generarsi e svilupparsi in modo che si scoprirà correlato alla sede e alla natura del guasto primario. Si ritrova qui l’attenzione di Lancisi per la lesione anatomica intesa come fondamento della ‘specie morbosa’ e l’eco, seppur lontano, delle teorie che A. von Haller (cui Morgagni più volte nel corso della vita si era relazionato difficilmente, barcamenandosi in una diplomazia di maniera ma non accogliendo mai la teoria emergente dell’irritabilità delle fibre, che diceva sprezzantemente essere adatta allo studio degli animali, non degli uomini) andava formulando in tema di fisiologia, pubblicandole nei suoi Elementa physiologiae corporis humani, venuti alla luce tra il 1757 e il 1766, quasi contemporaneamente all’uscita del De sedibus per i tipi della Tipografia Remondiniana.

Localizzare le malattie e individuare, attraverso un metodo statistico utile a valutare quelle “che più di frequente infieriscono”, la relazione costante e ripetuta eventualmente esistente tra la loro sede di origine e l’alterazione funzionale è lo scopo cui tendere – anche se Morgagni è ben conscio che non tutto il patologico ha una sua possibilità di essere correlato a una sede anatomica specifica, come dimostra il suo reiterato rifiuto di sottoporre a dissezione i corpi di ammalati di patologie infettive, a dispetto di una dichiarata fede per l’ ancora non tramontata eziopatogenesi miasmatica di ippocratica memoria.

Ma il vero merito del libro, oltre le scoperte che la medicina ha celebrato assegnando a sindromi e difetti il nome di Morgagni, è nel metodo e nel principio con cui il materiale di ricerca e l’enorme quantità di casi e di osservazioni sono ordinati; e il metodo, che è malpighiano e dunque galileiano, si manifesta compiutamente nell’idea geniale di creare quattro indici, che consentano di incrociare i dati dell’esperienza autoptica con le testimonianze della clinica, di modo che veramente l’anatomia patologica possa essere disciplina utile ‘a curar vivi’.

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6) G. Ongaro, ‘Quasi tradens se totum’. I manoscritti morgagnani della Biblioteca palatina di Parma. Annali dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze 1983;VIII: 101-105.

7) Grmek M.D., Morgagni e la scuola anatomo-clinica di Parigi. In: Cappelletti V., Di Trocchio F. (eds.), De sedibus, et causis: Morgagni nel centenario. Roma, Istituto dell’Enciclopedia Treccani , 1986.

8) Cappelletti V., Morgagni e Virchow. In: Cappelletti V., Di Trocchio F. (eds.), De sedibus, et causis: Morgagni nel centenario. Roma, Istituto dell’Enciclopedia Treccani , 1986.

9) Ongaro G., L’insegnamento dell’anantomia nello Studio di Padova all’inizio del Settecento nella testimonianza di Giambattista Morgagni. Atti e memorie dell’Accademia Patavina di scienze, lettere e arti 1992-93; II: 5-37.

10) Maulitz R.C., The pathological tradition. In: Bynum W.F., Porter R. (eds.), Companion Encyclopedia of the History of Medicine. Routledge Companion Encyclopedia 1993, pp. 169- 191.

11) Harley D., Political post-mortems and Morbid Anatomy in Seventeenth-century England. Soc. Hist. Med. 1994; 7,1:1-28.

12) Weber G., Areteo di Cappadocia. Interpretazioni e aspetti della formazione anatomo-patologica del Morgagni. Firenze, Olschki, 1996.

13) Gazzaniga V., De Angelis E., Giovan Battista Morgagni. Perizie medico-legali. Roma, Carocci, 2000.

14) O. Keel, La nascita della clinica moderna in Europa 1750-1815. Politiche, istituzioni e dottrine. Firenze, Polistampa 2007 (trad. it.)Cunningham A., The Anatomist Anatomis’d. An Experimental Discipline in Enlightement Europe. MPG Group, UK, 2010 (per Morgagni pp. 125- 131, Per T. Bonet p. 191 sgg.)

15) Ongaro G., sub voce Morgagni, Giovanni Battista. In: Dizionario Biografico degli Italiani vol. 76, 2012.

16) Porro A., Gazzaniga V., Creatività ed attività per tutta la vita: l’esempio di Giovanni Battista Morgagni. It. Journ Geriatric Gerontology 2013; 1(1): 5-11.

17) Paoli F., Jean-Baptiste Morgagni ou La naissance de la médecine moderne. Paris, Glyphe, 2013. Zampieri F., Zanatta A., Thiene G., An etymological “autopsy” of Morgagni’s title: de sedibus et causis morborum per anatomen indagatis (1761). Hum. Path. 2014; 45: 12-16.

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Cita questo articolo

Gazzaniga V., Questa mia senile fatica. Giovan Battista Morgagni e il De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis, Medicina e Chirurgia, 66: 2998-3003, 2015. DOI:  10.4487/medchir2015-66-6

Il Canone di medicina (al-Qanūn fī’l-ṭibb) di Avicennan.65, 2015, pp.2946-2954, DOI: 10.4487/medchir2015-65-5

Abstract

In his Canon, encyclopaedic treatise on medicine. Avicenna (Ibn Sīn, d. 1037) exhibits at the same time all the medical knowledge that existed in the world up to his time, his personal achievements and advancements, and the method he followed in the study of medicine. This work, translated for the first time into Latin at the end of the twelfth century, and adopted since the thirteenth century as a textbook in european universities, has over the centuries an immense fortune, due in part to the amplitude and to the rational character of his teaching, and also. in part, to the space granted to practice, both in medicine and pharmacology. The Canon is used in European medical schools as late as the half of 17th century; so, in the history, not only of medicine, it is perhaps the scientific text remained unsurpassed for the longest time.

Articolo

Accostarsi, nella storia della medicina, alla figura di Avicenna (Ibn Sīnā) significa da ogni punto di vista accostarsi alla figura di un genio; un genio –  non si può non aggiungere – precoce e autodidatta.  Pochi sono gli studiosi che come lui hanno influenzato la storia di una disciplina, e ancora meno quelli che, diventati leggenda già in vita, hanno visto la propria esistenza guidata, e condizionata, dalla fama.

La vita e l’opera

Schermata 2015-04-27 alle 15.04.21Come ci informa egli stesso in una sua autobiografia che copre i primi trenta anni della sua vita – i rimanenti anni sono documentati dal suo allievo, amico e segretario al-Ǧuzağānī – Avicenna nasce nel 980 presso Bukhara (odierno Uzbekistan). Figlio di un funzionario statale che si occupa attentamente della sua educazione, si accosta in primo luogo alla logica, e ancora quasi un bimbo, spiega questioni di logica al suo insegnante. All’età di 16 anni dichiara di avere ultimato – senza la guida di alcun maestro – lo studio della medicina che, scrive, è una scienza non difficile, e illustri medici già lavorano sotto la sua direzione. Guarito l’amīr  del Khorasan da una grave malattia, ottiene come ricompensa di frequentare la biblioteca dei principi samanidi: biblioteca in cui si immerge con  avidità allo scopo di perfezionare i suoi studi. A 18 anni può dire di aver conosciuto tutte le scienze coltivate ai suoi tempi; a 21 scrive il suo primo libro di filosofia.  Subito dopo, si può dire, ha inizio la sua vita travagliata e tumultuosa, divorata proprio da quella fama e da quel successo che il mondo gli accorda. A 22 anni, alla morte del padre, diviene per qualche tempo anche lui un impiegato statale; ma ben presto principi e dignitari richiedono i suoi consigli, non solo in medicina ma anche in politica, ed è più volte ministro e consigliere di uomini di potere. Spirito nato libero e allo stesso tempo indomabile, si attira inevitabilmente invidie e inimicizie: è arrestato, fugge, si sposta sotto falso nome da un luogo all’altro; si presenta talvolta in incognito al capezzale di un malato, riconosciuto solo al momento della soluzione del caso. Dotato di una memoria straordinaria, compone le sue opere ovunque si trovi, a corte e a cavallo, in viaggio e in prigione, citando a memoria gli autori che utilizza, e perseguendo un ordinamento, nella sua vita e nella sua opera, reso spesso difficile dalle circostanze.

Schermata 2015-04-27 alle 15.04.37Dopo un lungo periodo di instabilità, ripara finalmente presso la corte di Isfahan (odierno Iran), dove trascorre un lungo periodo di tranquillità; muore nel 1037 a Hamadan, durante una spedizione militare del principe suo mecenate ‛Alā al-Daula, che ha accompagnato. Gran parte dell’opera di Avicenna ci è pervenuta, ma non tutta. Ciò è dovuto sia al carattere del personaggio, che quando gli erano richieste opere o fatte domande non sempre conservava i suoi testi; sia a fatti storici che ne hanno impedito la conservazione; il testo del Kitāb al-inṣāf (Libro del giudizio imparziale), ad esempio, scompare nel sacco di Isfahan quando il suo autore è ancora vivente. Il numero di opere attribuito ad Avicenna è tra le 200 e le 300 opere, scritte in campi anche molto diversi (filosofia, letteratura e anche poesia). Tra queste, le opere di medicina, di altissimo livello, sono circa 40, non ancora tutte edite. Tre di esse, le più conosciute, in Occidente come in Oriente, hanno grande fortuna, e tradotte in latino hanno letteralmente fatto la storia della medicina: in primo luogo il Qanūn fī’l-ṭibb (Il canone di medicina), cui è dedicato questo lavoro, uno dei prodotti più significativi nella storia della medicina non solo islamica. Al Canone si aggiungono poi altre due opere: al-Adwiya al-qalbīya (Le medicine del cuore), trattato sulla cura delle malattie cardiache, tradotto in latino da Arnaldo da Villanova (fine XIII secolo); e al-Urǧūza fī’l-ṭibb (Il poema della medicina in metro rağaz), compendio di medicina in versi allo scopo di aiutare la memoria – tradotto da Armengaud Blaise di Montpellier, nipote di Arnaldo – che passa in latino con il titolo di Cantica. Nella tradizione di lingua latina, queste due opere sono spesso stampate insieme al Canone, a comporre una trilogia.

Il Canone e i suoi contenuti

Nel Canone, opera enciclopedica sulla medicina, che tiene dietro ad almeno due illustri predecessori musulmani: il Ḥāwī (lat. Continens) di Abū Bakr al-Rāzī (Rhazes, Abubacer), e il Kitāb al-kāmil o al-malakī (Liber regalis) di ‛Alī ibn al-‛Abbās al-Maǧūsī (Haly Abbas), Avicenna espone non solo la totalità delle conoscenze della medicina della sua epoca (la tradizione seguita è ovviamente la tradizione ippocratica, galenica e post-galenica, cui si sommano contributi di origine persiana e anche indiana), ma anche, ed è ciò che per lo storico della scienza ha una importanza tutta particolare, il metodo da lui seguito nello studio della medicina, ed i suoi personali risultati e avanzamenti.

Nel mondo islamico, e poco dopo nel mondo latino, il Canone, come è noto, ha grandissima fortuna. I medici musulmani lo preferiscono sia all’opera di al-Rāzī che a quella di al-Maǧūsī, e molti sono i commenti scritti su di esso o su parti di esso; tra questi, il Commento all’Anatomia del Canone scritto da Ibn al-Nafīs (m. 1288), opera in cui l’autore fa i primi cenni sulla circolazione polmonare, sconosciuta ai predecessori. Quanto al mondo latino: la traduzione delle opere di Avicenna è condotta su larga scala a Toledo nella seconda metà del XII secolo, ed è qui e in questo tempo che il Canone  per la prima volta è tradotto in latino. Il libro è ostico, la traduzione è difficile; il traduttore, illustre, Gerardo da Cremona (m. 1187), confessa esasperato di aver passato quasi cinquant’anni a studiare l’arabo, e di aver fatto molta fatica a tradurre il Canone…. Nonostante i dubbi del suo traduttore, la traduzione ha comunque fortuna: stampata per la prima volta a Milano o  a Padova nel 1472 (edizione del solo libro III), conosce prima del 1500, in un arco di soli 30 anni, ben 14 edizioni in latino e una in ebraico. Nel  1527, una buona revisione della traduzione di Gerardo, corredata da un vocabolario dei termini tecnici arabi, è realizzata da Andrea Alpago, medico veneziano che ha passato molti anni in Oriente. Altre traduzioni, non sempre di qualità eccelsa, anche se godono di una buona diffusione, si susseguono nel corso del secolo; e data la popolarità universalmente raggiunta dall’opera, alla versione latina si accompagnano, come avviene da tempo, citazioni, commenti e compendi in latino e nelle lingue vernacolari. Nel 1593, a Roma, presso la Tipografia Medicea Orientale, è realizzata la prima edizione a stampa del testo arabo, seconda opera – si noti – stampata dalla tipografia dopo la traduzione araba dei Vangeli. Grandissima, nel Medioevo e fino a epoca moderna, è la fortuna del Canone  nell’insegnamento universitario: introdotto all’università di Parigi tra il 1230 e il 1258, è utilizzato come libro di testo nelle università di Montpellier (inizio intorno al 1240) e di Lovanio fino alla metà del XVII secolo. In Italia, da ricordare in primo luogo l’università di Siena, dove il Canone è forse insegnato in una data anteriore al 1250; seguita a breve distanza da Bologna dove, nel 1260, Taddeo Alderotti introduce il Canone come testo di base per l’insegnamento della medicina, e da Padova, come risulta dalle citazioni contenute nel Tractatus de conservatione sanitatis di Zambonino da Gaza, professore dal 1262.  Fino al XV secolo il Canone costituirà da solo circa la metà dell’intero insegnamento della medicina.

Il Canone si compone di cinque libri, che rispettano, anche se non del tutto, l’ordine abitualmente seguito nella composizione delle opere enciclopediche di medicina:

* Libro I, generalità (kullīyāt), diviso in quattro funūn (trattati, pl. di fann): a. definizione della medicina e suo oggetto, elementi (fuoco, aria, acqua e terra), umori (bile gialla, sangue, flegma e bile nera, corrispondenti agli elementi), temperamenti (bilioso, sanguigno, flemmatico, melancolico), anatomia degli organi omogenei, facoltà (psichica/cervello, naturale/fegato e testicoli, animale o vitale/cuore), funzioni; b. classificazione, cause e sintomi delle malattie; c. cause della salute (fisiologia, igiene, esercizio fisico etc.) e delle malattie, cause e inevitabilità della morte; d. classificazione dei tipi di terapia, trattazione generale di regimi e diete; droghe varie; regole dell’evacuazione, clisteri, salassi, cauterizzazioni e chirurgia.

* Libro III. Malattie disposte in ordine a seconda degli organi colpiti, a partire dalla testa; organi eterogenei, la parte che riguarda ogni organo è nella maggior parte dei casi preceduta dalla sua descrizione anatomica.

* Libro IV. Malattie che non sono specifiche di determinati organi. Febbri, prognosi, giorni critici, principi importanti per diagnosi e terapia. Pustole, ascessi, ferite, ortopedia, veleni e creature velenose.  Alla fine del libro: capelli, pelle, unghie, obesità e magrezza eccessiva.

Il Libro II e il Libro  V sono dedicati alla  materia medica: droghe semplici (II) e droghe composte (V).

Nel cuore del vivente, ventricolo sinistro, una combustione, alimentata dall’aria che si respira trasformata nei polmoni, produce il calore necessario alla vita.  Grazie al calore generato nel cuore, e a due digestioni, la prima nello stomaco e la seconda nel fegato, l’organismo – a partire dagli elementi fuoco aria acqua e terra contenuti nei cibi che ingerisce –  produce gli umori, che nel corpo corrispondono ai quattro elementi: il sangue (→ aria) caldo e umido, frazione equilibrata della digestione, la bile gialla (→ fuoco) calda e secca, frazione più calda e leggera, la bile nera (→ terra) fredda e secca, frazione più densa e pesante, e il flegma (→ acqua), umido e freddo. Tali umori, in primo luogo il sangue, e in quantirà molto minori bili e flegma, a partire dal fegato, tramite la vena cava, e poi vene e capillari (la circolazione del sangue non è conosciuta) – raggiungono ogni parte del corpo e fanno crescere e conservano gli organi. Il complesso individuato dai rapporti in cui gli umori si trovano tra loro è definito come ‘temperamento’, o mescolamento (ar. mizāğ);  e l’equilibrio o lo squilibrio individuabile nel temperamento è ciò che definisce lo stato di  salute o di malattia.

Sulla base di questi dati, esposti qui necessariamente per sommi capi, si possono già notare alcuni capisaldi della medicina medievale e in particolare islamica. In primo luogo, l’uomo è letteralmente ciò che mangia e ciò che respira, e di qui l’importanza della dieta e dell’ambiente in cui vive: per il medico medievale e musulmano in particolare, la dieta e l’aria che si respira, nella normale attività e nell’esercizio fisico, sono il primo e più delicato punto portato all’attenzione del medico. Secondo punto, che completa il primo: la definizione dello stato di salute. Lungi dall’essere un qualcosa di assoluto e di generale per ogni vivente, il temperamento equilibrato – equilibrio tra gli umori e dunque tra le qualità –  che definisce lo stato di salute, è del tutto relativo e variabile. Nel primo libro e primo fann del Canone, Avicenna spiega questo punto con grande chiarezza: l’equilibrio che il medico deve considerare non è l’equilibrio del matematico e del filosofo, per i quali la condizione di equilibrio è data dal concorso di parti tutte uguali tra loro (in questo caso si tratterebbe di parti uguali di elementi e di umori): nei viventi vi è un equilibrio diverso in specie diverse (il temperamento di un cane non è quello di un serpente), e all’interno di ogni specie in classi diverse (il temperamento di uno slavo non è quello di un indiano), e all’interno di una classe in individui diversi (il temperamento di un uomo è diverso da quello di un altro della stessa classe). Per uno stesso individuo, vi è poi un equilibrio diverso a seconda delle circostanze (età, clima, stagione etc.), e all’interno di ogni individuo un equilibrio diverso nei suoi diversi organi (il temperamento del cervello non è quello del cuore), e per uno stesso organo un equilibrio diverso a seconda delle circostanze (il temperamento dello stomaco di un ragazzino non è quello dello stomaco di un vecchio). Conseguenza importante: se il temperamento equilibrato, che definisce lo stato di salute, non è qualcosa di assoluto, ma qualcosa che varia da specie a specie, da individuo a individuo, e, nello stesso individuo, tra due stati diversi e all’interno dello stesso individuo da organo a organo e da uno stato dell’organo a un altro, da ciò consegue necessariamente che lo stato di salute non è lo stesso per tutti gli uomini: ma è un equilibrio che oscilla tra due limiti entro i quali è stabilita la condizione della salute. All’interno di questi limiti, temperamenti che per i matematici e i filosofi sarebbero squilibrati sono posseduti da uomini che, finché lo squilibrio si mantiene in un certo intervallo, devono essere considerati sani: siano essi irascibili, sanguigni, flemmatici o melancolici (predominio nell’ordine di bile gialla, sangue, flegma, bile nera), tutti questi uomini, entro certi limiti. sono uomini sani. Sulla base di queste considerazioni, lo stato di salute si riduce ad essere, in modo pragmatico, lo stato, variabile da uomo a uomo, in cui tutte le funzioni degli organi sono integre. Ogni paziente è così, per il medico, una sfida e un interrogativo di cui venire a capo, e ciò porta in primo piano due componenti necessarie all’esercizio della professione medica: le caratteristiche non solo scientifiche ma anche umane che il medico deve possedere, e il rapporto medico-paziente, poiché solo tramite questo rapporto il medico può giungere a formulare la giusta diagnosi.

Il medico

Per Avicenna, come per ogni altro medico musulmano, non vi è dubbio che il medico debba essere preparato anzitutto in ciò che riguarda la sua disciplina. In epoca medievale, nel mondo islamico, molto si discute sul tipo di preparazione che per il medico è più utile (posto che entrambe sono necessarie): se la cultura dei libri – e qui si tratta della tradizione di lingua greca, di cui circolano, in traduzione araba, molti trattati, e di quanto successivamente elaborato dai grandi medici musulmani – oppure lo studio sotto la direzione di un maestro, e la pratica, effettuata ogni giorno sotto la sua guida in corsia; nell’ospedale islamico, organizzato come un vero e proprio policlinico, sono presenti infatti una biblioteca e una scuola, e giovani medici si esercitano sotto l’occhio vigile di un anziano, equivalente dell’odierno primario.

Nella preparazione del medico, tuttavia, la conoscenza della medicina non è sufficiente. Proprio allo scopo di migliorare la sua capacità nella professione, la sua cultura deve essere molto più ampia: in primo luogo per ciò che riguarda conoscenze per così dire collaterali al suo lavoro, come la farmacologia: molti medici musulmani di epoca classica preparano infatti essi stessi le medicine che prescrivono, e Avicenna è uno di questi (lo si nota ad esempio quando raccomanda, nel Canone,  di preparare le pozioni in un luogo riparato sotto una tettoia, perché non vi sia pericolo che qualcosa cada nella pozione e si debba ricominciare da capo). Importanti sono poi anche altre discipline: tra queste la filosofia, con cui il medico non deve dimostrare, cosa che spetta al filosofo naturale, i principi della sua disciplina; ma che è indispensabile perché conduce alla conoscenza dell’anima. Malattie che si generano nell’anima producono col tempo la malattia del corpo, e viceversa, producendo col tempo una sorta di circolo vizioso che non si interrompe se non si risale alla causa prima. Nel Canone, Avicenna porta diversi esempi a questo proposito: il caso della licantropia, eclatante caso di disturbo mentale, generato – egli scrive – da un gravissimo scompenso nel temperamento; o il mal d’amore, disturbo psicologico che, non curato, può condurre col tempo a una malattia fisica, la melancolia, data da produzione sovrabbondante di bile nera  ‘combusta’.

Un caso a parte e importante, nella preparazione del medico, è poi costituito dalla musica. Se  vuole comprendere fino in fondo ciò che risulta dalla tastazione del polso, il medico non può non conoscere la musica: perché, nello studio del polso, la frequenza equivale, nella musica, al ritmo, mentre la pressione del sangue sull’arteria equivale al volume.  Il medico dotato di esperienza musicale può giungere non solo ad avvertire la diastole, di difficilissima percezione, ma anche ad avvertire leggerissime variazioni nei battiti che gli fanno capire le diverse emozioni del paziente nel dialogo che intrattiene con lui, e qui torniamo ai ‘movimenti’ dell’anima.

Tra i requisiti indispensabili di chi voglia esercitare la professione, un fattore che non può essere trascurato è infine la condizione fisica del medico; che deve essere in perfetta salute, e dotato di sensi perfetti. In assenza di una strumentazione che possa essergli d’aiuto, il corpo del medico, nel Medioevo, è lo strumento che deve permettere di valutare e di decidere: la presenza di febbre, ad esempio,  scrive Avicenna, è diagnosticata se il paziente risulta al tatto più caldo del corpo del medico in buona salute. Interessante una notazione sui sensi, sempre dal Canone:  i sensi che per il medico sono importanti non sono tanto quelli che per il filosofo sono i più nobili, come la vista e l’udito (i due sensi degli angeli), ma quelli che nella filosofia e nella cultura generale sono da tutti ritenuti i più umili: il tatto ed il gusto. Molte malattie non possono essere conosciute dal medico che non tasti il paziente, e in farmacologia due polverine entrambe bianche possono celare  prodotti anche molto diversi; rimedi o veleni che solo il gusto può riconoscere.

Il rapporto medico-paziente

Altro elemento necessario al buon risultato nella professione medica è il rapporto medico-paziente, fondamento di ogni diagnosi e cura. Nel rapporto tra medico e paziente, le considerazioni sull’equilibrio del temperamento individuano in primo luogo una situazione ideale: il medico dovrebbe conoscere il suo potenziale paziente prima che si ammali; questo perché per riconoscere lo squilibrio patologico di un temperamento, gioverebbe molto conoscere il temperamento in condizioni  normali. Un paziente sanguigno, ad esempio, dunque piuttosto caldo e rosso in viso quando è sano, non sarà considerato malato dal suo medico semplicemente sulla base del suo aspetto fisico.

Ma poniamo che l’uomo che ricorre ad un medico non sia da lui conosciuto; la prima cosa che il medico deve fare è ovviamente decidere se sia sano o malato. Qui la faccenda potrebbe già diventare complessa, perché gli stati dell’uomo, che secondo Galeno erano tre – salute, malattia e stato intermedio – in Avicenna diventano cinque: salute, malattia e uno stato intermedio con tre sottogruppi (incubazione, primo inizio della malattia, e convalescenza).  Posto davanti ad un uomo che richiede il suo aiuto, il medico ben preparato saprà tuttavia cosa fare. Terrà in primo luogo il suo interrogatorio, ponendo domande mirate e sollecitando le risposte di cui ha bisogno; procederà successivamente alla visita, mettendo, come si è detto, tutti i suoi sensi al servizio del paziente; trarrà poi le sue conclusioni, tenendo conto di tutti i fattori interni ed esterni che, come prima abbiamo accennato, influenzano il temperamento. In presenza di uno stato che non può essere definito di malattia, o intermedio, primo compito del medico sarà quello di conservare la salute: e dunque ben vengano la dieta equilibrata e i massaggi, l’esercizio fisico e i bagni;  poiché primo compito della medicina, recita la tradizione galenica, e anche il Canone, non è quello di restaurare la salute perduta, ma quello di conservarla1.  Se lo stato accertato sarà invece uno stato di malattia, in  questo caso il medico dovrà produrre diagnosi, prognosi e terapia, concentrando la sua attenzione su tre cose: la malattia, il suo sintomo e la sua causa. Anche qui la faccenda è irta di difficoltà, perché non si tratta semplicemente di individuare la malattia: posto che ciò che si deve curare non è il sintomo ma la causa, un sintomo potrebbe trasformarsi in una malattia o divenire causa di una malattia, o una malattia divenire causa di un’altra malattia.

Fatta la diagnosi, la terapia seguirà necessariamente un andamento graduale: ci si appoggerà in primo luogo a prescrizioni leggere, come la dieta, per passare eventualmente in un secondo tempo alle medicine semplici, e solo in caso di insuccesso delle semplici, alle medicine composte, come la teriaca, che sono più insidiose, perché la presenza di più principi attivi, dagli effetti che si combinano in modi diversi, richiede al medico una maggior perizia. Solo in casi più estremi, si ricorrerà a rimedi più drastici, come la cauterizzazione  o il salasso, quest’ultimo controindicato in ogni caso agli anziani e ai bambini, o all’intervento chirurgico.

Schermata 2015-04-27 alle 15.05.04La descrizione delle malattie, delle loro cause e dei sintomi, l’attenzione dedicata all’indicazione delle cure e alla preparazione delle medicine, ogni aspetto anche pratico che si noti nell’esercizio della medicina, tutto questo è nel Canone curato nei minimi particolari; ma non basta:  perché il  medico ripara le eventuali disobbedienze del paziente, ad esempio un paziente goloso; consiglia afrodisiaci o rimedi volti a risolvere casi di impotenza e di infertilità, perché – scrive Avicenna – un buon rapporto di coppia può prevenire il disordine nella società; o interviene, in qualche modo, a consolare una umanità nel dolore con riflessioni sull’ineluttabilità della morte. Tutto questo, per secoli, rese il Canone  non soltanto un’opera colta ma anche e in molti casi un’opera utile, molto amata  non  solo dai medici universitari di grado elevato, ma anche da  medici praticanti la medicina a livelli molto inferiori, che utilizzavano solo compendi e notizie di seconda e terza mano: ciò che portò senza dubbio a una enorme frammentazione, ma al tempo stesso a una penetrazione profonda nelle società che raggiunse.

Testi

1. causa, malattia, sintomo  [Ibn Sīnā, al-Qānūn fī’l-ṭibb, kitāb 1, fann  2, ta‘līm 1, faṣl  1 (ed. cit. M. A. al-Ḍannāwī, I, Bairūt, Dār al-kutub al-‘ilmīya,1999, p.  103 sg.)]:

L’insegnamento sulla causa, la malattia e il sintomo

Nella malattia, la causa è ciò che viene prima di tutto; perché da essa si individua, tra le situazioni in cui può trovarsi il corpo dell’uomo, una determinata situazione, che può essere [temporanea], o duratura. La malattia è una forma non naturale nel corpo dell’uomo, da cui ha luogo, in un modo necessario e primario, un vero e proprio malfunzionamento in una funzione: e questo (la malattia) può essere  o un temperamento non naturale o una composizione2 non naturale. Il sintomo è la cosa che tiene dietro a questa forma e non è naturale; sia che sia contrario al naturale, come il dolore nella colica, sia che sia non contrario, come l’eccessivo colorito rosso della guancia nella polmonite. Un esempio: la causa è la putrefazione, la malattia è la febbre, e il sintomo sono la sete e il mal di testa. Altro esempio: la causa è un riempimento nei vasi che scendono all’occhio, la malattia è l’ostruzione all’interno dell’iride; [questa] è una malattia dell’organo e composita, e il sintomo è la perdita della vista. E anche: la causa è una infreddatura violenta, la malattia è una ulcerazione nel polmone e il sintomo è il colore rosso delle guance  e l’affezione (deformazione, alterazione del colore etc.) delle unghie.

Il sintomo è detto ‘accidente’ in considerazione della sua essenza (perché è qualcosa che accade)  o in confronto con ciò che ad esso è soggetto, ed è detto ‘segno’ in considerazione del fatto che il medico lo esamina e per suo effetto si avvia a conoscere  che cos’è  la malattia.  La malattia può divenire causa di un’altra malattia, come la colica per la sincope o per la paralisi o per la crisi epilettica; e, anche, il sintomo può divenire una causa per la malattia, come il  dolore forte diviene  una causa per la tumefazione perché le materie si riversano verso il luogo del dolore. E il sintomo può divenire esso stesso una malattia, come il mal di testa che risulta dalla febbre, perché può darsi che diventi fisso e radicato finché diviene una malattia. Confrontata con se stessa e con la cosa che la precede e la segue, una cosa può essere una malattia, un sintomo e una causa: come la febbre della consunzione (tubercolare), è un sintomo dell’ulcerazione del polmone, una malattia in se stessa, come pure una causa dell’indebolimento dello stomaco; e come il mal di testa che risulta dalla febbre, quando diviene radicato, è un sintomo della febbre, una malattia in se stesso, e a volte produce l’infiammazione della pleura o la meningite, divenendo così la causa delle due malattie menzionate.

2. l’esercizio fisico [Ibn Sīnā, al-Qānūn fī’l-ṭibb, kitāb 1, fann 3, ta‘līm 2, faṣl 2 (ed. cit., I, p. 222-4)]:

In questo capitolo, di cui qui riportiamo alcuni passi,  Avicenna espone diversi tipi di esercizi. Dato che  ogni attenzione e cura devono essere ‘personalizzate’, anche nell’esercizio fisico il medico dovrà distinguere ciò che è più adatto nei diversi casi: per ogni uomo, per ogni organo, per ogni senso, c’è infatti un esercizio, che deve essere conosciuto. Tra le molte citazioni e i molti esempi, figura qui, interessante,  una citazione del gioco del polo, gioco forse di origine persiana, molto popolare ai tempi dell’autore.

I diversi tipi di esercizio fisico

Quanto ai tipi dell’esercizio, vi è la lotta, il venire alle mani, il pugilato, il correre portando la testa alta, il camminare di buon passo, il tirare con l’arco, lo stare in piedi su una delle due gambe, il tirare di spada, l’andare a cavallo, e il battere con le mani, che consiste nello stare l’uomo sulle punte dei piedi, mentre allunga le mani avanti e indietro e le muove velocemente; e questo è l’esercizio veloce. Gli esercizi sottili e delicati sono invece il bilanciarsi nei movimenti oscillanti, il camminare a passo lento, stando eretti, facendo piegamenti e mettendosi a terra, lo stare in equilibrio su battelli e battellini; e il più veloce di quelli di questo tipo  è il cavalcare i cavalli e i cammelli, lo stare in equilibrio sulle bardature degli elefanti  e il cavalcare i vitelli.  Degli esercizi forti che si fanno in piazza (campo sportivo), vi è che l’uomo, in una piazza, acceleri la corsa fino al limite, e che poi retrocedendo torni indietro, continuando a diminuire il percorso ogni volta, finché alla fine resti fisso nel centro; sforzarsi nel continuare a compiere un’azione, colpire con i palmi delle mani, saltare, lanciare, giocare con la palla, grande e piccola, giocare con la mazza (gioco del polo), giocare  con la racchetta, giocare con la lotta, sollevare le pietre, spronare i cavalli al galoppo e al trotto veloce. Ci sono poi diversi tipi di esercizio ‘forte’ con azione reciproca: tra questi, che ognuno dei due uomini fissi la sua mano sulla vita del suo compagno tenendolo fermo, e ognuno dei due si imponga di liberarsi dal suo compagno che gli sta attaccato, e anche che si pieghi con le mani contro il suo compagno spingendo la destra verso la destra del suo compagno e la sinistra verso la sinistra, mentre il suo viso è rivolto verso di lui, e poi lo sollevi e lo metta sottosopra, specialmente mentre lui ora si piega e ora si distende […]

Ci si deve  esercitare nel compiere gli esercizi diversi, senza insistere con uno solo; per ogni organo, infatti, c’è un esercizio che gli è particolare. L’esercizio delle mani e delle gambe non è un segreto (è ben noto). Quanto agli organi della respirazione, ora ci si esercita con la voce grave e sonora ora con la voce acuta, e con una voce che mescola le due; questo è anche un esercizio per la bocca, per l’ugola, per la lingua e anche per l’occhio, migliora il colorito e purifica il petto. Ci si esercita anche soffiando mentre si trattiene il respiro, e questo è un esercizio per tutto il corpo, perché allarga le sue vie. Tenere alto il tono di voce per un tempo molto lungo è un pericolo, perché il permanere violento della necessità di attrarre molta aria è un pericolo. Si deve cominciare a leggere (recitare) dolcemente,  poi, leggendo, alzare la voce in modo graduale, poi quando la voce si è fatta più intensa, più forte e lunga, rendere quel tempo limitato, perché se il tempo si prolunga, vi è in questo un pericolo [anche] per quelli che sono equilibrati e in salute […].

Le cavalcate sui vitelli sono azioni efficaci, e sono le più violente di questo genere di azioni; cavalcare il vitello con il viso rivolto all’indietro è utile contro la debolezza del respiro, e molto utile contro la sua oppressione. Stare in equilibrio sui battelli e sulle barche è utile contro l’elefantiasi, l’idropisia, l’apoplessia, il raffreddamento dello stomaco e l’aerofagia; questo se avviene vicino alle rive, ed è utile allo stomaco, quando è sconvolto da nausea e poi si placa. Stare in equilibrio sulle barche mentre il mare è agitato, è più efficace nell’eliminare le malattie menzionate, perché si alternano nell’anima gioia e tristezza […]

La vista si esercita guardando con attenzione le cose quasi impercettibili e volgendo di quando in quando lo sguardo gradualmente e con dolcezza ai luoghi elevati. L’udito si esercita ascoltando le voci quasi non udibili e ascoltando di rado le voci forti. Ogni organo ha un esercizio suo proprio, che noi menzioniamo quando trattiamo della salute, organo per organo […]. Bisogna che quello che si esercita stia in guardia contro il giungere del riscaldamento dell’esercizio al più debole dei suoi organi, a meno che ciò non avvenga come una conseguenza [indiretta dell’esercizio]. Ad esempio: chi soffre di vene varicose ha bisogno di un esercizio  che non aumenti il movimento delle sue gambe ma lo diminuisca, e che con il suo esercizio insista sulla parte più alta del suo corpo, collo, testa e torace, in modo che l’influsso dell’esercizio sulle sue gambe venga dall’alto. Al corpo debole esercizio debole, al corpo forte esercizio forte….

3. un male antico, detto bulimia [Ibn Sīnā, al-Qānūn fī’l-ṭibb, kitāb 3, fann 13, maqāla 2, faṣl 7 (ed. cit., p.  447 sg.)]:

Lo squilibrio più grave che si verifichi nell’alimentazione dell’uomo, la bulimia, è dagli antichi attribuito ad alterazioni interne causate da fattori esterni, come ad esempio il gran freddo3. Riprendendo osservazioni presenti in fonti di lingua greca, mediche e non solo – tra queste, quasi certamente Archigene, citato in Galeno, De compositione medicamentorum secundum locos VIII.4 (ed. Kühn XIII, p. 175 sg). – ma compiendo passi ulteriori e significativi, tra i quali la distinzione chiarissima tra fame canina e bulimia, Avicenna individua una doppia componente del danno: una fisica, l’alterazione della facoltà attrattiva, che fa ricercare a ogni organo il suo nutrimento, e l’altra, l’alterazione della percezione, direttamente collegata, tramite i sensi, al cervello. Alle sollecitazioni rivolte allo stomaco del paziente, somministrazioni di bevande e di cibi leggeri e gradevoli, egli aggiunge, con unguenti odorosi, profumi e anche percosse, interventi volti a stimolare il sistema nervoso. 

La fame detta ‘bulimia’

La bulimia è [la malattia] conosciuta come ‘la fame bovina’. Nella maggior parte dei casi la precede una fame canina, dopo di che il desiderio [del cibo] si abbatte; se non si verifica dopo di essa, il desiderio [del cibo] si abbatte all’inizio. E’ la fame degli organi che si accompagna alla sazietà dello stomaco, sì che gli organi sono molto affamati e desiderosi del cibo, mentre lo stomaco gli fa ostacolo. E a volte la cosa giunge fino allo svenimento, e i vasi sanguigni diventano vuoti;  ma lo stomaco fa ostacolo al cibo, che gli ripugna. Avviene in molti casi a quelli che viaggiano al freddo, molto raffreddati, i cui stomaci sono ispessiti dal freddo intenso. Ne è causa una infermità di temperamento che giunge alla facoltà della percezione e alla facoltà attrattiva. E’ prodotta da umori che si avvolgono  alla bocca dello  stomaco, si sciolgono e si diffondono nelle sue fibre, e si muovono verso il respingere, ostacolando l’attrazione del cibo; e  puoi conoscere i segni da ciò che ti ho ripetuto più volte ed è menzionato nel Canone.

Cure: si deve curare essenzialmente la caduta del desiderio [del cibo]; bisogna insomma che [il paziente] fiuti i cibi appetitosi e speziati, i frutti odorosi e i profumi annusabili in cui vi sia un qualche effetto astringente, perché la facoltà si ricomponga e non si allenti. Gli si dia da mangiare del pane inzuppato nello šarāb4 di buon sapore  e gli si dia da bere o da inghiottire del nabīḏ5 profumato; mescolandovi, in particolare, canfora o aloe, se il temperamento è caldo, e sukk6 in caso diverso. Se la causa del male non è il calore, giova loro, contro questo male, lo šarāb di giglio; e se la sua causa non è il calore, si leghino le loro mani e le loro gambe con un laccio robusto, si impedisca loro di dormire,  e quando hanno sonno gli si provochi dolore, pungendoli, pizzicandoli, e battendoli con un bastone sottile e flessibile affinché faccia male, senza rompersi. Tra le cose che giovano loro è che si prenda un biscotto, si inzuppi nel maisūsan – o nelle nuḍūḥāt  profumate7 – e si bendi con essi lo stomaco, in particolare nello stato dello svenimento; e che con esso si applichino anche gli unguenti profumati, come l’unguento di pino e l’unguento di rose e di mirto; e giova anche che sui loro stomaci si utilizzino le bende preparate da medicine cardiache di buon odore, e che gli si facciano suffumigi con i vapori odorosi d’ambra. Si bendino le loro giunture con un bendaggio preparato con acqua di rose e di mirto, maisūsan, canfora, muschio, zafferano, aloe, sukk e rose. Ci si dia da fare nel riscaldare i loro corpi, se la causa del male è il freddo, e nel raffreddarli se la causa è il caldo; e quando li coglie uno svenimento, si faccia loro anche ciò che abbiamo menzionato sullo svenimento: si spruzzi sui loro volti l’acqua fredda, si stringano le loro mani e le loro gambe, si pungano i loro piedi, e si tirino i loro capelli e le loro orecchie. E quando si riprendono, si dia loro da mangiare pane inzuppato in uno šarāb odoroso, e se nei loro stomaci c’è un umore amaro, o dolciastro, gli si dia da bere una quantità di 2 cucchiai di sakanǧabīn con un miṯqāl  di iyāriǧ8, o meno se [il paziente] è debole; ma se [la causa] è stata un freddo eccessivo, gli si dia da bere la teriaca.

Note

1 Ibn Sīnā, al-Qānūn fī’l-ṭibb, incipit: La medicina è una scienza da cui si conoscono gli stati del corpo dell’uomo, sani e devianti dalla salute, allo scopo di conservare la salute se è presente e di ristabilirla se è perduta.

2 Accenno alla malattia ‘composita’ (v. più avanti nel passo), che si ha quando due o più malattie si uniscono a formarne una sola.

3 Hippocratis Aphorismi et Galeni in eos Commentarii, XXI, in: C.G. Kühn ed., Claudii Galeni Opera Omnia, XVII B, Hil- desheim, G. Olms, 1965, p. 501: Nam bulimus facultatis est prostratio ab externo frigore profecta, qui ab esurie quidem ortum duxit, famem vero amplius conjunctam non habet.

4 Termine da cui viene l’italiano ‘sciroppo’.

5 Bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione dei datteri, ma il termine può indicare anche il vino. In epoca classica, le bevande alcoliche, vietate nella religione islamica, sono am- messe se prescritte dal medico e inserite in un piano di cura.

6 Pasticche aromatiche macerate in acqua e olio di violette e di muschio, infilate in un filo di canapa, esposte a seccare e consumate entro un anno dalla preparazione.

7 Maisūsan e nuḍūḥāt: rispettivamente una lozione profumata usata per lavare i capelli e profumi che si diffondono per eva- porazione a calore blando (es. il calore del corpo).

8 Sakanǧabīn e iyāriǧ (termini persiani) sono rispettivamente l’ossimele, sciroppo di aceto e miele, ben noto fin dall’anti- chità, e una medicina composta (lat. hiera) di sapore amaro, che stimola l’evacuazione; il miṯqāl, unità di peso variabile nei tempi e nei luoghi, corrisponde a un peso tra i 4 e i 5 grammi.

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Cita questo articolo

Carusi P., Il Canone di medicina (al-Qanūn fī’l-ṭibb) di Avicenna, Medicina e Chirurgia, 65: 2846-2954, 2015. DOI:  10.4487/medchir2015-65-5

Le Tabulae anatomicae di Bartolomeo Eustachion.64, 2014, pp.2913-2916

1. Vita e opere

Bartolomeo Eustachio (c. 1510-74) è un grande anatomista del Cinquecento, considerato il padre dell’anatomia sottile. Nasce a San Severino intorno al 1510, e a San Severino nel 1539, dopo la laurea, riceve l’incarico della seconda condotta cittadina, che però non gli è rinnovato per l’anno successivo. Nello stesso periodo è chiamato dal duca Guidobaldo II della Rovere ad Urbino, a ricoprire il posto di medico di corte che era stato del padre Mariano prima e del fratello Fabrizio poi, scomparso prematuramente. Ad Urbino Eustachio diventa protomedico, arricchisce la sua cultura nella biblioteca fondata da Federico da Montefeltro, studiando tra l’altro le matematiche e le lingue classiche, compresi – sembra – arabo ed ebraico. Nel 1549 si trasferisce a Roma, al seguito di Giulio della Rovere, il fratello del duca nominato cardinale appena adolescente. A Roma Eustachio è presto un clinico ricercato da pazienti illustri, come Filippo Neri e Carlo Borromeo, insegna alla Sapienza, almeno nel decennio tra il 1555 e il 1565, e compie numerose dissezioni anatomiche sui cadaveri che gli sono forniti negli ospedali del Santo Spirito e della Consolazione. Il 9 agosto 1574, nonostante le precarie condizioni di salute, si mette in viaggio per portare soccorso al cardinale Giulio della Rovere, che si trova malato nella sua residenza estiva di Fossombrone. Eustachio ha difficoltà a procedere ed è costretto a rallentare e a fermarsi più volte lungo la Flaminia, anche con soste prolungate. Muore nei pressi di Fossato di Vico il 25 agosto 1574.

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Eustachio pubblica nel 1563/64 a Venezia, presso l’editore Vincenzo Luchino, gli Opuscula anatomica, una raccolta di cinque trattati di diversa dimensione o epistole, in cui espone i risultati che aveva raggiunti nelle sue ricerche anatomiche: Sui reni, Sull’orecchio (1562), Sulle ossa e il movimento del capo (1561), Sulle vene, Sui denti (1563). Il testo è accompagnato da otto tavole in quarto, che riguardano principalmente l’anatomia renale. Nel 1566 Eustachio pubblica inoltre a Venezia, presso l’editore Lucantonio Giunta, la traduzione latina con commento del Lessico di Ippocrate attribuito ad Eroziano, un oscuro grammatico greco del I sec. d.C., di cui aveva trovato un prezioso manoscritto nella Biblioteca Vaticana. Insieme pubblica un libretto intitolato De multitudine, sulla composizione del sangue.

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Ma da tempo Eustachio lavora ad un’opera più ambiziosa sull’anatomia umana, che comprenda grandi tavole anatomiche e un commento in cui siano discusse punto per punto le affermazioni di Andrea Vesalio, che nel 1543 aveva pubblicato il De humani corporis fabrica illustrato, attaccando per la prima volta l’anatomia di Galeno basata sugli animali e non sull’uomo. Eustachio è infatti un acerrimo avversario di Vesalio e un fedele sostenitore di Galeno, sebbene le sue ricerche rappresentino una revisione dell’anatomia di Galeno. Nella lettera prefatoria agli Opuscula anatomica, Eustachio annuncia la pubblicazione di quarantasei tavole, incise su rame, accompagnate da un trattato Sui dissensi e sulle controversie anatomiche, in cui sarebbero messe a confronto le opinioni dei medici antichi e moderni con le osservazioni anatomiche da lui fatte con l’aiuto dell’assistente Pietro Matteo Pini. Nella lettera introduttiva alla traduzione latina con commento del Lessico di Ippocrate di Eroziano, datata 1564, Eustachio ritorna sulle sue scoperte anatomiche e afferma che ormai da tempo aveva fatto incidere le tavole che vuole pubblicare. Nell’opera Sui reni scrive che le stesse tavole erano state incise nel 1552 (p. 68).

Eustachio tuttavia muore senza riuscire a pubblicare le quarantasei grandi tavole con il commento. Forse in questo fu impedito – come lui stesso scrive – dall’ingente impegno economico che un’opera del genere richiedeva, dall’età ormai troppo avanzata, dai dolori articolari che una malattia invalidante – sembra l’artrite reumatoide – sempre più spesso gli procurava, o dall’attesa di obiezioni da parte di altri anatomisti rivali che gli avrebbero fatto organizzare al meglio il testo, ma che non arrivarono, anche per la morte improvvisa di Andrea Vesalio nel 1564.

2. Le tavole anatomiche da Pini a Lancisi

Bartolomeo Eustachio aveva un figlio Ferrante (m. 1594) che studiò medicina e poi la insegnò a Macerata e a Roma, ma, secondo le sue disposizioni testamentarie, il fedele assistente Pietro Matteo Pini è il beneficiario del suo lascito scientifico: libri, manoscritti, disegni, rami e strumenti. Dopo la morte di Eustachio, Pini cade in una profonda depressione, “dimenticandosi di se stesso e trascurando ogni studio”, come lui stesso racconta nella prefazione all’Indice delle opere di Ippocrate, che aveva preparato per ordine del suo maestro e che ora pubblica per onorarne la memoria presso l’editore Roberto Meietti di Venezia, nel 1597, quando è ormai a casa, ad Urbino, già da qualche tempo e si sente ristabilito. Nello stesso passo, Pini scrive che vorrebbe pubblicare le famose tavole anatomiche, incise su rame, che Eustachio gli aveva lasciato, se Dio l’assiste, ma muore senza riuscire a realizzare il proposito.

In seguito, nel Seicento, medici e anatomisti ricercano le tavole anatomiche di Eustachio a Roma e a San Severino, nella convinzione che queste contengano importanti informazioni scientifiche. Per esempio lo fa, ma senza successo, il medico Marcello Malpighi (1628-94), che è il primo ad introdurre in Italia il microscopio nell’osservazione anatomica, e che ha una grande ammirazione per Eustachio, il quale – afferma Malpighi – avrebbe scoperto tutto quanto c’era da scoprire, se solo avesse avuto strumenti di osservazione più efficaci, il microscopio per l’appunto.

Nel 1712 i rami delle tavole anatomiche di Eustachio sono ritrovate da Giovanni Maria Lancisi, che si rivela un investigatore straordinario. Conoscendo gli scritti di Eustachio e di Pini, Lancisi si convince che bisogna cercare le tavole ad Urbino, dove l’assistente di Eustachio che le possedeva aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita. Con l’aiuto del papa Clemente XI, al secolo Gianfrancesco Albani (1649-1721), discendente di un’importante famiglia di Urbino, di cui Lancisi è amico, medico personale e archiatra, l’erede di Pietro Matteo Pini è presto identificato con il canonico Paolo Andrea de’ Rossi, suo pronipote per parte di madre. A casa di costui è in effetti conservata una cassa che era appartenuta a Pini, nella quale sono contenuti i rami delle tavole di Eustachio, ma non l’opera Sui dissensi e sulle controversie anatomiche che le avrebbe dovute accompagnare. Il Papa Clemente XI compra quindi i rami per 600 scudi e li mette a disposizione di Lancisi, che subito informa dell’entusiasmante ritrovamento i colleghi Antonio Vallisnieri (1661-1730), Giovanni Fantoni e Morgagni. Quest’ultimo è molto impressionato dalle tavole di Eustachio e scrive un lungo saggio sulle scoperte anatomiche, soprattutto riguardanti cervello e nervi, che sarebbero da attribuire ad Eustachio piuttosto che ad anatomisti successivi, come era avvenuto.

Il 21 maggio 1714, in occasione dell’inaugurazione della biblioteca dell’ospedale del Santo Spirito – oggi nota come Biblioteca Lancisiana – a cui partecipano il papa Clemente XI, cardinali, prelati e nobili romani, nel momento culminante della cerimonia, è presentata l’edizione in folio delle tavole anatomiche di Bartolomeo Eustachio, con il commento che Giovanni Maria Lancisi aveva compilato giovandosi dell’aiuto dell’anatomista Antonio Pacchioni (1665-1730) e del giovane allievo Francesco Soldati, e anche con il citato saggio di Morgagni. Nel frontespizio è stampata un’acquaforte di Pietro Leone Ghezzi (1674-1755) che rappresenta Eustachio mentre dissezione un cadavere umano nel teatro anatomico; sopra, in caratteri cubitali, si legge il nome di Clemente XI, che aveva patrocinato sia il recupero dei rami sia la loro pubblicazione, e che è il dedicatario dell’edizione.

Le tavole anatomiche di Eustachio pubblicate da Lancisi sono quarantasette. In una nota contenuta nella lettera a Giovanni Fantoni (p. viii), Lancisi afferma che c’è una tavola in più rispetto alle quarantasei citate da Eustachio, perché un ramo è inciso sui due lati. Tuttavia, le prime otto tavole pubblicate da Lancisi sono quelle sull’anatomia renale, in quarto, già apparse negli Opuscula anatomica. La serie delle grandi tavole non è quindi completa: sono trentanove, e ne mancano sette rispetto alle quarantasei di cui parlava Eustachio, che dovevano essere andate già perdute. Inoltre Francesco Soldati, rivolgendosi al lettore (p. xxxv), segnala che la numerazione delle grandi tavole, che segue quella delle piccole, è inconsueta e ci si aspetterebbe che la tavola IX sulle tre cavità fosse posta all’inizio, davanti a tutte le altre; ma questa numerazione – spiega Soldati – è quella che risale a Pini. Tuttavia è certo che i numeri delle grandi tavole furono aggiunti nel Settecento, subito dopo il loro ritrovamento. Non sappiamo se Lancisi fosse consapevole di tutte le difficoltà o inesattezze che la sua edizione contiene. Il suo intento era forse quello di presentare le tavole anatomiche di Eustachio quanto più possibile complete, originali e autorevoli, perché su queste poggiasse una grande tradizione anatomica romana, capace di competere con quella di qualsiasi altra università, Padova innanzi tutto, che da Eustachio giungesse fino allo stesso Lancisi, passando per il chirurgo Marco Aurelio Severino (1580-1656). Forse in nome di questo progetto Lancisi accettò che nell’edizione si tacesse su quanto – omissioni o interventi – lo avrebbero indebolito.

3. Le tavole anatomiche dopo il 1714

Dopo la prima edizione, i rami delle tavole anatomiche di Bartolomeo Eustachio furono conservati alla Biblioteca Lancisiana. Ma in seguito, per intervento del cardinale Pietro Luigi Carafa, furono messi a disposizione del medico romano Gaetano Petrioli per la sua edizione del 1740. Nel 1750 Gaetano Petrioli afferma di aver letto sul retro del ramo XVII il nome del pittore Giulio Romano (1499-1546), allievo di Raffaello, e di Marcantonio Raimondi (1487-1534), famoso incisore del Cinquecento. Ma queste indicazioni pongono difficoltà cronologiche, perché le grandi tavole furono incise nel 1552, secondo quanto dice lo stesso Eustachio, molti anni dopo la scomparsa di entrambi gli artisti citati dal Petrioli. Quindi la testimonianza del Petrioli è da considerarsi falsa; si sono rivelate infondate anche le altre proposte che sono state fatte nel tempo per identificare pittore o incisore delle grandi tavole, Tiziano compreso. Sembra piuttosto ragionevole pensare che per queste lo stesso Eustachio avesse preparato i disegni o lo avessero fatto dei pittori che lavoravano con lui, in stretta collaborazione; quanto all’incisione bisogna distinguere almeno due o tre mani diverse, tutte coeve: la tavola XXX non può essere stata incisa dalla stessa mano della tavola XXXV!

La storia dei rami di Eustachio successiva a Petrioli ci è nota soltanto in piccola parte. Sappiamo infatti che in seguito i rami furono acquistati da Andrea Massimini (1727-92), chirurgo all’ospedale romano della Consolazione, per la sua elegante edizione pubblicata nel 1783, con un nuovo commento, che però segue da vicino quello del Lancisi della prima edizione. Dei rami di Eustachio si perdono poi le tracce e attualmente non sembrano conservati, almeno in nessuna istituzione pubblica.

Qual è la sorte dei disegni e dei manoscritti che Eustachio aveva lasciato in eredità a Pini, soprattutto l’opera Sui dissensi e sulle controversie anatomiche che avrebbe dovuto accompagnare le tavole ? Com’è possibile che nella cassa di Pini conservata ad Urbino, a casa del pronipote, non ci fosse altro materiale di Eustachio, oltre ai rami pubblicati dal Lancisi ? Nessuno si rassegna alla perdita. Lo stesso Lancisi, scrivendo a Fantoni, si augura che il commento di Eustachio possa essere ritrovato, con l’impegno del papa Clemente XI (p. xiv). Morgagni, scrivendo a Lancisi, chiede ardentemente, “oro te obtestorque”, che la ricerca non sia interrotta, perché il commento di Eustachio dovrebbe contenere molto di più di quanto le tavole mostrano (pp. xxix-xxxi), e suggerisce di continuarla proprio ad Urbino, presso gli eredi di Pini che custodivano le tavole.

In qualche modo la ricerca non si ferma neppure nei secoli successivi e coinvolge l’altra sponda dell’Atlantico. Il 14 novembre 1928 l’editore e antiquario fiorentino Leo Olschki scrive una lettera ad Harvey Cushing, padre della neurochirurgia e grande collezionista, che allora era a Boston, alla Harvard University, proponendogli l’acquisto di un “meraviglioso” manoscritto, al prezzo di 1.000 dollari: sarebbe stato trovato nella casa degli eredi di Pini nel 1715, e conterrebbe 307 disegni anatomici con il commento autografo di Eustachio. Cushing non si lascia sfuggire l’occasione e compra il manoscritto, ma si accorge subito che non è l’autografo di Eustachio. In tre pagine dattiloscritte compila un lucido resoconto, datato 25 dicembre 1928, segnalando che i disegni sono copiati dalle opere anatomiche di Vesalio e di Giovan Battista Canani (1515-79), e che di entrambe rappresentano una semplificazione. Cushing nega che il manoscritto abbia lo stretto legame con Eustachio che Olschki gli aveva vantato, ma non evita di metterlo in qualche modo in relazione con lui, ritenendolo appunti raccolti da uno studente diligente, probabilmente Pini. Tuttavia la scrittura di Pini, che Cushing non conosceva, è diversa da quella che aveva vergato il manoscritto da lui acquistato, oggi conservato a New Haven, alla Medical Historical Library, Harvey Cushing Collection, n. 9, insieme con le note dello stesso Cushing (Iter Italicum V 293a).

Nel 1972 Luigi Belloni, storico della medicina di Milano, identifica nel manoscritto conservato a Siena, alla Biblioteca Comunale degli Intronati, C IX 17, l’opera tanto ricercata di Eustachio Sui dissensi e sulle controversie anatomiche, a partire da una segnalazione dell’Iter Italicum II 151. Il testo presenta due scritture, che sono certamente quelle di Eustachio e di Pini, come accade anche altrove. Eustachio era afflitto dall’artrite che gli causava forti attacchi, come “un migliajo di tratti di corda”; non riusciva neppure a scrivere e ricorreva quindi spesso all’aiuto di Pini. Il 7 gennaio 1971 Eustachio scrive al duca Guidobaldo II della Rovere: “o scritto questa letera con molta difficoltà, e non potrej scriverne un’altra”. Il testo inoltre tratta l’anatomia umana nel suo complesso, ossa, muscoli, nervi, vene, arterie, addome, torace e cranio, ed è organizzato per syngrammata e antigrammata, cioè citazioni di Vesalio, principalmente del De humani corporis fabrica, e successive obiezioni o confutazioni di Eustachio. Questa struttura appartiene anche al trattato Sulle vene, pubblicato negli Opuscula anatomica, che lo stesso Eustachio presenta come una sorta di estratto di quello più ampio, in preparazione, Sui dissensi e sulle controversie anatomiche (p. 262).

Belloni pubblica subito la prefazione, interamente scritta da Eustachio, che contiene un elogio di Galeno contro gli anatomisti che negli ultimi tempi lo avevano ingiustamente attaccato, Vesalio prima di altri, e promette l’edizione di tutto il resto, che tuttavia continua ad essere un desideratum. Negli anni successivi, quasi per un decennio, Belloni pubblica diversi articoli su Eustachio, e nel 1981 l’indice dettagliato del manoscritto di Siena. Come avverte Belloni fin dal primo articolo, molti sono i fogli bianchi in questo manoscritto e il testo è largamente incompleto e provvisorio. Le citazioni di Vesalio, i syngrammata, sono state scritte, ma spesso mancano gli antigrammata di Eustachio, e anche quelli compilati, per esempio sulle vene, non sono definitivi, ma soltanto appunti da rielaborare, come si evince da un confronto tra questi e il trattato Sulle vene pubblicato negli Opuscula anatomica. Si può ora aggiungere che mancano soprattutto le parti sul cervello e i nervi, da cui ci sia aspettava molto o di più, almeno stando alle tavole anatomiche, come già aveva dichiarato Morgagni. Difficile dire se ci sia un’altra versione del trattato Sui dissensi e sulle controversie anatomiche scritta da Eustachio, ma non sembra probabile.

Quanto alla storia del manoscritto di Siena, è davvero molto oscura. Non ci sono note di possesso né indicazioni di provenienza. Neppure l’ingresso nell’attuale biblioteca si lascia in qualche modo datare sulla base dei cataloghi antichi, perché può essere avvenuto in qualsiasi momento, dalla metà dell’Ottocento fino a quella del secolo successivo. Molte domande quindi, per il momento, non hanno risposta. Si trovava il manoscritto di Siena nella cassa appartenuta a Pini, ad Urbino, fino al 1712 ? Ebbe una sua sorte diversa da quella delle tavole anatomiche anche prima del 1712 ? Fu mai nelle mani di Lancisi o di Clemente XI ? La sua esistenza fu allora tenuta nascosta da Lancisi e dai suoi collaboratori perché imbarazzante per l’eccessiva incompletezza ? In ogni caso, la storia della tradizione delle tavole anatomiche di Eustachio non sembra sia stata ancora completamente scritta.