Materiali per lo studio del Sistema Sanitario Nazionale

cop_frontcover-500x500In un momento di grande crisi dello Stato sociale, ove la tutela della salute rappresenta il settore che maggiormente incide sulla spesa dei bilanci pubblici, sempre più soggetti a tagli a piani di rientro, è indispensabile per lo studente conoscere e capire i meccanismi su cui si basa l’organizzazione sanitaria della quale aspira in futuro a far parte, allo scopo di poterne analizzare i molteplici processi decisionali che lo riguarderanno.

Il testo che ho il piacere di presentare risponde pienamente a tale esigenza, ed ha in più il pregio di essere stato pensato e redatto precipuamente per soggetti che non hanno una formazione giuridica. La prima parte, sui principi di diritto sanitario, è infatti trattata in modo lineare e basilare, permettendo un migliore apprendimento dei concetti giuridici implicati, grazie anche all’ausilio di un apparato didattico di rinforzo costituito da finestre che spiegano i termini giuridici fondamentali. Si vuole, in tal modo, dotare lo studente di strumenti cognitivi volti all’obiettivo della conoscenza e della capacità di comprensione knowledge and understanding nella terminologia corrente. Gli approfondimenti sul federalismo e i controlli consentono, invece, di analizzare subito problematiche attuali che un sistema sanitario deve fronteggiare. Gli studenti sono così posti, sin dal loro esordio universitario, in condizione di misurarsi con la complessità del reale e di educarsi al pensiero critico (capacità di applicare conoscenza e comprensione – applying knowledge and understanding – nonché autonomia di giudizio – making judgements). Un apposito capitolo è dedicato all’organizzazione della sanità nella Regione Marche. Lo scopo è stato quello di instaurare un’ importante osmosi costruttiva con il tessuto territoriale del quale i discenti andranno a far parte dopo la laurea, prevenendo così lo scollamento con la realtà ed il territorio, spesso oggetto di critiche da parte di osservatori extra-universitari. Un’altra sezione, parimenti stimolante, è dedicata alla giurisprudenza che, grazie allo studio casistico, consente agli studenti di apprendere in modo immediato e sul campo le problematiche giuridiche riguardanti settori delicati come quelli della procreazione medicalmente assistita o della responsabilità amministrativa.

Tali temi permettono di verificare molte delle conoscenze acquisite, osservando come i principi di diritto pubblico e sanitario operino in modo sinergico e forniscano anche, visti i temi coinvolti, le solide basi per una visione etica delle professioni sanitarie.

Infine, il testo è corredato da un apparato di verifica nel quale è inserito il fac-simile della prova finale prevista per i discenti. Questo è particolarmente valido per la scienza giuridica, che non potrà mai privarsi di verificare anche le abilità comunicative (communication skills) degli studenti, elemento sconosciuto per le verifiche nelle scienze esatte.

Il volume si prefigge pertanto l’obiettivo finale di conferire ai discenti capacità di apprendimento (learning skills) tali da renderli in grado , dopo il corso universitario, di poter proseguire in maniera sufficientemente autonoma lo studio delle materie giuridiche.

Concludendo, il testo è ricco di contenuti scientifici, presenta metodologie didattiche molteplici, innovative e d’avanguardia (deduttive, inferenziali, case law, problem solving) ed è stato pensato per i futuri professionisti sanitari che non hanno oggi un bagaglio giuridico alle spalle.

Il personale universitario, docente e non docente, che svolge attività assistenziale. Inquadramento giuridico e questioni applicative

cop.aspx-2Il volume realizzato dal Paolo De Angelis ripercorre e analizza le principali problematiche normative ed interpretative in tema di personale universitario che svolge attività assistenziale. L’autore offre un’analisi cronologica giungendo ad individuare le caratteristiche dell’attuale integrazione tra le diverse funzioni assistenziali ed universitarie.

La trattazione si suddivide in tre parti.

La prima offre allo studioso le basi per la comprensione della casistica e delle tematiche affrontate, disegnando il contesto di riferimento. In tale parte introduttiva, l’autore si sofferma sull’evoluzione dei rapporti tra Istituzioni universitarie e sanitarie, che accompagna l’evoluzione dei soggetti pubblici coinvolti. Viene, così, dedicato spazio al modello gestionale di Azienda ospedaliero-universitaria e agli strumenti di raccordo con le parti del servizio offerto, nella scoperta convinzione che le AOU debbano avere una finalità specifica, ulteriore e distinta dalle Aziende ospedaliere “ordinarie”.

Nella seconda parte l’autore si sofferma sulle peculiarità del rapporto di lavoro dei docenti di materie cliniche che svolgono attività assistenziale, sulle modalità di conferimento di incarichi, sulle possibilità di svolgere attività libero professionale e sui profili di incompatibilità tra le funzioni. L’aspetto più complesso, al riguardo, è certamente quello inerente l’inquadramento giuridico del personale e l’individuazione delle prestazioni lavorative riconducibili alle diverse qualifiche. La gestione del personale necessariamente deve tener conto dell’impegno assistenziale nel definire gli obiettivi didattici e di ricerca, senza che il primo renda impossibile la cura di questi ultimi. Nella terza parte, l’autore analizza gli strumenti di intesa e di accordo tra Università e ospedali, illustrando l’impianto precedente, commentando la disciplina attuale e proponendo soluzioni future.

Il volume realizzato da Paolo De Angelis offre un’analisi complessa, frutto dell’esperienza quotidiana di chi progressivamente è stato chiamato a risolvere problematiche e a fornire chiarimenti su fattispecie spesso di incerta soluzione, per difficoltà attuative in concreto o opacità legislative. Dalla lettura del volume emerge il desiderio dell’autore di proporre terapie e soluzioni, frutto dell’esperienza applicativa e che trovano espressione nelle sue riflessioni conclusive; emerge, in sostanza, una visione ottimistica e propositiva, non solo nell’auspicio di una maggiore chiarezza della normativa futura ma, soprattutto, nella consapevolezza che rilevanti passi in avanti potrebbero anche essere compiuti, a normazione invariata, grazie alla possibile volontà collaborativa delle parti.

In definitiva, il volume rappresenta una rara e felice occasione di riflessione e approfondimento del funzionamento della prestazione sanitaria offerta da personale universitario, frutto dell’esperienza concreta e del confronto con problematiche reali. E gli operatori del settore sanitario, come anche gli studiosi delle aree ad esso trasversali, troveranno nel lavoro di De Angelis un concreto e valido strumento per comprendere le tensioni e le criticità interne ai servizi offerti nelle strutture sanitarie ove insistano attività universitarie.

Perché la pseudoscienza trova ascolton.65, 2015, pp.2922-2924, DOI: 10.4487/medchir2015-65-1

Abstract

Some episodes recently occurred in Italy which show that prevail in the country, on important topics such as stem cell treatments or vaccinations, scientifically unfounded beliefs that are nevertheless discussed and used as if they were proved and controlled. These pseudoscientific ideas are rooted in human psychology and must be countered with an effective science education, in order to preserve the benefits that medicine brought to mankind.

Articolo

Schermata 2015-04-27 alle 12.48.44La letteratura sperimentale prodotta nell’ambito degli studi di psicologia sociale ha confermato l’esistenza, nella cosiddetta mente umana, di una sorta di sistema immunitario che protegge da credenze e opinioni diverse da quello maturate con l’educazione o l’esperienza, in quanto le nuove credenze o opinioni sono percepite come potenzialmente destabilizzanti per un’identità psicologico-sociale individuale fin lì faticosamente costruita e mantenuta. Si tratta di un’immunità che riguarda ogni ambito delle decisioni umane che possono associarsi a qualche percezione, vera o falsa, di minacce, e che può riguardare persino le resistenze che scienziati e medici possono maturare contro spiegazioni dei fatti diverse da quelle preferite. Quella che potrebbe essere definita una sorta di “legge” dell’immunità ideologica, dice che le persone con forti credenze sbagliate e fondate su false percezioni di alcuni fatti, reagiscono ai tentativi altrui di correggere tali inganni, accentuando quelle false credenze. Quello che sta accadendo di interessante nello studio dei bias cognitivi umani, che sono poi delle varianti degli idola di Francis Bacon solo meglio dettagliate a livello sperimentale, è che si comincia a constatare come tali fraintendimenti influenzano la  comunicazione medico-sanitaria.

Pediatrics, la più autorevole rivista mondiale di pediatria, ha pubblicato l’anno scorso (nel mese di marzo) uno studio, ideato principalmente da Brendan Nyhan che insegna scienze politiche alla Michigan University, in cui si dimostra che la comunicazione pubblica sui vaccini è in larga parte sbagliata, perché non tiene conto dei bias cognitivi ed emotivi attraverso cui le persone filtrano i fatti e le informazioni. Insomma, si è visto che raramente le false percezioni, anche di fatti scientificamente acclarati, si possono correggere somministrando, semplicemente, la “verità”.

Lo studio ha arruolato 1759 genitori statunitensi coinvolgendoli in un esperimento in cui essi erano casualmente suddivisi in quattro gruppi, ognuno oggetto di specifiche e differenziate forme di comunicazione volte a far capire l’utilità della vaccinazione MMR (quella ritenuta dai fanatici responsabile dell’autismo), o a un gruppo di controllo. Il risultato è stato che nessuno degli interventi di comunicazione rivolti ai genitori che non intendevano vaccinare il figlio li ha smossi da quell’atteggiamento. Tra l’altro, quando i genitori che avevano l’atteggiamento meno favorevole verso il vaccino capivano la falsità delle tesi che associano la vaccinazione MMR all’autismo, essi correggevano le loro false percezioni, ma riducevano anche ulteriormente l’intenzione di vaccinare i figli. Inoltre, l’uso di immagini o racconti che mettevano in evidenza i rischi di non vaccinare, inducevano nei genitori un aumento della credenza in un legame tra vaccino e autismo, o un’aumentata percezione dei rischi di effetti collaterali dovuti alla vaccinazione. Anche se l’esperimento può essere criticato, perché i partecipanti in qualche modo sapevano di esser parte di una situazione costruita, in realtà risultati analoghi sono stati ottenuti per altre vie. E confermano, tra l’altro, una scoperta costante sulle figure e i contesti che portano le persone a fidarsi delle informazioni sanitarie dissonanti rispetto a quello in cui credono.

Le pseudoscienze e le credenze non scientifiche sono largamente diffuse e fioriscono anche nelle società il cui funzionamento dipende sempre più, se non quasi del tutto, da conoscenze scientifiche, di base e applicate. E’ ormai piuttosto facile, anche per chi di mestiere fa lo storico, capire e spiegare quali processi e meccanismi comportamentali hanno fatto sì che così a lungo l’uomo si sia lasciato ingannare dai venditori di illusioni. Esiste una letteratura monumentale da cui risulta che veniamo al mondo con un cervello e delle predisposizioni cognitive ed emotive che nella sostanza non sono diverse da quelle evolute dai nostri antenati per sopravvivere nel Paleolitico, e che se non educhiamo opportunamente i cuccioli umani e non facciamo una costante manutenzione degli strumenti critici che ci può fornire l’istruzione scientifica, è del tutto normale cadere nelle trappole delle credenze intuitive, che ci mettono alla mercé di diverse categorie di impostori.

Le credenze pseudoscientifiche e le loro origini possono essere ricondotte a spiegazioni che emergono da studi soprattutto neurocognitivi, ovvero anche psicologici ed epistemologici, dai quali risulta appunto che se non si interviene correggendo una serie di bias e fraintendimenti che strutturano il modo comune o più spontaneo di ragionare, non si riesce a distinguere tra spiegazioni scientifiche e argomenti o credenze pseudoscientifiche. Senza contare che i fattori che condizionano la comunicazione interpersonale in contesti sbilanciati e che determinano l’efficacia persuasiva degli impostori, agganciano predisposizioni emotive, anch’esse ancestrali e molto resistenti ad argomenti che siano solo… razionali.

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E’ importante che studiosi dei bias cognitivi che sono all’opera nelle mistificazioni politiche dei fatti, collaborino con i medici per entrare nel merito di come funziona la mente umana e quali sono le strategie più efficaci per combattere false credenze che possono danneggiare persone e comunità. Come è stato per il caso Stamina, o l’idea che i vaccini siano pericolosi. Perché i fenomeni sono più o meno della stessa natura. E studi come quello pubblicato da Pediatrics  dimostrano che le idee di democrazia deliberativa o partecipativa rispetto a questioni mediche percepite come controverse sono parzialmente illusorie se non si interviene direttamente ai livelli decisionali istituzionali per assicurarsi che le scelte siano effettuate sulla base di fatti accertati e non falsamente interpretati.

Se i meccanismi e processi che inducono o fanno preferire agli esemplari della specie umana di “credere” senza “controllare”, sono ben descritti, meno chiaro è come riuscire a modificarli per renderli adeguati ai contesti della modernità. Intanto ci si dovrebbe domandare chi e in quanti riconoscono l’esistenza del problema, in quali termini, etc. Probabilmente la questione della dissonanza tra le nostre dotazioni cognitive più naturali e le esigenze di efficienza poste da società fondate sull’uso di conoscenze controllate, è avvertita da una minoranza, e diventa di interesse generale quando esplodono casi eclatanti o abusi. Come il caso Stamina. Senza che ci si accorga che i casi esplodono perché esistono condizioni specifiche che lo consentono.

Si può sostenere che più cultura scientifica risolverebbe il problema? Forse. Ma non c’è da scommetterci. L’espressione “cultura scientifica”, nonché la sorella “comunicazione scientifica” rimangono troppo vaghe, ed esistono indizi per cui si può ipotizzare che non sia tanto la cultura scientifica quanto piuttosto la comprensione critica di come funziona la scienza, che può essere acquisita solo attraverso specifici processi di istruzione, che può riprogrammare l’immunità ideologica per indirizzarla contro le imposture della pseudoscienza e la loro contagiosa diffusione sociale. Ma questo significa usare nelle scelte politiche, in ambito scolastico e universitario, soprattutto per quanto riguarda la formazione delle élite professionali, le migliori prove su come sia possibile o più probabile ottenere come risultati dei percorsi di apprendimento capacità di critica razionale, rispetto per i fatti controllati e autonomia di giudizio. E su questo punto, purtroppo, i politici sono i primi a resistere perché sarebbero decisioni che non producono consenso.

Bibliografia

Cita questo articolo

Corbellini G, Perché la pseudoscienza trova ascolto, Medicina e Chirurgia, 65: 2922-2924, 2015. DOI:  10.4487/medchir2015-65-1

Medicina narrativa e counselling. Strumenti di educazione alla medicina partecipativa per il miglioramento della relazione tra medico e pazienten.64, 2014, pp.2874-2880, DOI: 10.4487/medchir2014-64-1

Abstract

The changes in medicine have challenged the empathic relationship between doctor and patient. To improve its quality it is necessary to educate physicians to the “participatory medicine”, which may use in particular two instruments: narrative medicine and counselling; the first one is not opposed, but on the contrary must be in harmony with the evidence based medicine; the second uses the word as an instrument of care in therapeutic patient education and in healthy citizen education; both narrative medicine and counselling facilitate the alliance to cure, which asks the patient to provide his experience of suffering, becoming active collaborator and responsible together his doctor of the care process, at the same time growing the overall medical knowledges.

Now it is necessary that these truths rightfully become contents of future physicians education.

Articolo

Una medicina che cambia

Si può affermare che la medicina moderna ha subito una metamorfosi significativa a partire dagli anni ‘50, perché solo da allora l’intervento dei medici non si è più limitato a osservare, descrivere e riconoscere i fenomeni, ma è diventato capace di cambiare in modo non sporadico la storia naturale delle malattie e quindi la sorte dei malati.

Prima dell’era della chimica e quindi della farmacologia industriale, mancando le “pillole” – almeno quelle efficaci – il medico poteva agire quasi soltanto con la parola; il suo ruolo sociale universalmente riconosciuto era quello del consigliere e del consolatore.

Negli anni ’50 sono iniziati i veri progressi della medicina scientifica e la medicina cambiava nel bene, ma – purtroppo – anche nel male:

– alla medicina della persona (quella impersonata dal “caso clinico”) si andava affiancando con forza la medicina delle popolazioni (per esempio quella fondata sui risultati dei trials clinici controllati);

– alla medicina delle ipotesi e delle teorie si è andata sostituendo la medicina delle evidenze scientifiche che richiede dimostrazioni sperimentali delle proprie affermazioni;

– alla relazione empatica capace di confortare si è troppo spesso sovrapposto l’ assordante silenzio delle tecnologie, o il linguaggio contorto delle burocrazie, ai quali sembra legarsi fatalmente una medicina diventata strumento pubblico, complesso, collettivo e molto costoso, e perciò bisognevole anche di una organizzazione efficiente.

La crisi della relazione medico-paziente, conflitto tra due culture

In particolare, accanto al cambiamento indubbiamente positivo dell’efficacia terapeutica si sono purtroppo palesati di pari passo i regressi nella comunicazione tra curante e curato, che derivano dall’accrescersi dell’asimmetria tra i due soggetti: si tratta di un’asimmetria naturalmente costitutiva del rapporto medico-paziente, ma che negli ultimi decenni è stata accentuata dallo sviluppo tecnologico e biologico-riduzionistico della medicina scientifica; ciò si è manifestato con alcuni fenomeni abbastanza emblematici, anche se in parte presenti già in tempi più lontani: l’atteggiamento paternalistico dei medici nelle relazioni con i loro pazienti; l’uso di un linguaggio tecnico senza grande attenzione per i livelli di comprensione degli interlocutori; l’uso dell’anamnesi quasi soltanto per l’acquisizione delle informazioni sullo stato di organi e apparati, e non anche per la comprensione dei vissuti soggettivi; l’unilateralità nelle decisioni mediche, che confinano il consenso informato ai soli aspetti formali, tanto da trasformarlo molto spesso in una mera incombenza burocratica.

Ancora, la tutela del diritto sacrosanto a essere ben curati viene spesso perseguita usando approcci rivendicativi più che di corresponsabilità gestionale, come sono spesso quelli dei Tribunali dei diritti del malato, luoghi dove opportunamente si denunciano pratiche di malasanità, ma talora si vantano anche diritti presunti più che reali; e soprattutto vengono dimenticati i doveri personali che rendono compatibili i fini individuali con quelli collettivi; cioè si dimentica che il concorrere al processo decisionale circa la salute non può riguardare egoisticamente soltanto la propria salute, senza tenere in considerazione anche i riflessi sulla salute degli altri: le parole chiave per realizzare un equilibrio in tutto ciò sono per l’appunto inscindibilmente tre: diritti, doveri e responsabilità.

Infine, alla criticità della relazione medico-paziente purtroppo contribuisce anche una formazione medica orientata prevalentemente alla performance diagnostico-terapeutica limitata al curare, mentre fatica a farsi strada l’attenzione al prendersi cura.

Questo – sia pure in prima approssimazione – è lo scenario sconfortante nel quale correntemente oggi si gioca la relazione tra medico e paziente, relazione che si dibatte tra conflittualità e complicità nella ricerca improbabile di una effettiva negoziazione tra un medico che consigli sapientemente (cioè secondo scienza e coscienza) e un cittadino che sappia effettivamente essere giudice e vero responsabile della qualità della propria vita.

Insomma, come conseguenza dei mutamenti ai quali è andata incontro nell’ultimo mezzo secolo la medicina come scienza e come professione, si è sviluppato un conflitto  apparentemente insanabile tra curanti e curati, che di fatto può essere letto come un conflitto tra due culture: il medico è il detentore della “cultura” scientifica e professionale, sulla quale fonda le proprie decisioni diagnostiche e terapeutiche; ma anche il paziente ha una sua “cultura”, che non è scientifica ma esistenziale, perché nessuno può conoscere meglio di lui il vissuto della sofferenza “sperimentata” di persona. La distanza tra di esse può venire ridotta solo facendole comunicare tra loro con il riconoscimento delle potenzialità intrinseche. Ma come si può cercare di raggiungere questo obiettivo? E come si possono educare gli studenti futuri medici a una relazione empatica tra medico e paziente?

Come sanare il conflitto?

Come prima cosa è necessario educare i professionisti della salute non solo al senso critico, alla problematicità, al confronto dialettico delle idee e delle scelte, ma anche e in pari misura ai valori della comprensione, della tolleranza, del rispetto, cioè a valori squisitamente etico-umanistici, cioè all’etica del dubbio e della responsabilità.

Affinché il medico sia fedele a questi valori non basta nutrirlo di competenze scientifiche, fargli conoscere la psicologia, renderlo esperto nelle tecniche della comunicazione, ma si deve anche aiutarlo a conoscere se stesso affinché impari a rendere fertili le proprie emozioni; insomma bisogna renderlo “esperto in umanità”.

Per questo, oltre a fornirgli i contenuti e gli strumenti professionali appropriati per agire è necessario aiutarlo a maturare le attitudini e le motivazioni che si riflettono in prima istanza sulle qualità della relazione interpersonale: affinché una comunicazione diventi relazione non basta parlarsi; è indispensabile essere disposti a farsi raccontare, imparare ad ascoltare, chiedere per capire, aiutare a capire, partecipare e condividere; questi sono infatti i connotati di quella che si definisce come relazione empatica, e che molto si nutre – come vedremo più avanti – di componenti narrative depurate dai tecnicismi del linguaggio medico-scientifico.

Strumenti necessari ad acquisire queste capacità sono sicuramente le tecniche della comunicazione che oggi si insegnano nelle nostre Scuole di Medicina, ma non sono sufficienti; infatti è pur vero che l’empatia probabilmente non si può insegnare né apprendere a scuola, perché non è un’abilità ma un’attitudine, cioè è il frutto di una ricchezza personale: ma allora per far crescere l’attitudine empatica bisogna far crescere le doti della persona. A questo potrebbero contribuire le Medical Humanities, pure recentemente introdotte nelle Scuole mediche italiane e tra queste in particolare la così detta “medicina narrativa”.

La “Medicina narrativa”

Con questo termine s’intende una tendenza che si va sempre più sviluppando e che considera utili gli aspetti narrativi presenti nelle relazioni di cura.

Il benessere e soprattutto i malesseri sono potenti stimoli alla narrazione delle circostanze e dei tempi in cui essi si realizzano e si costatano, delle loro cause presunte o vere, delle paure e delle speranze che essi suscitano, degli eventi che li peggiorano o li migliorano, dei rimedi che si presumono o si sono constatati come efficaci.

Nella relazione comunicativa tra medico e paziente, che in gran parte si sostanzia nell’anamnesi, la narrazione può prendere differenti connotati formali: può arricchirsi di colore e calore, o al contrario cristallizzarsi in una sequenza di “fatti” o di “eventi”, raccolti con la presunzione di una descrizione oggettiva e quindi veritiera, ma anche rappresentati e trascritti con tratti sicuri e definiti, senza incertezze o sfumature.

Sono questi i due connotati opposti della raccolta anamnestica: da una parte il punto di vista del paziente, che possiede come unico strumento comunicativo la possibilità di raccontare i propri vissuti e di colorarli e riscaldarli (ma talvolta anche di sbiadirli e raffreddarli) in relazione con le proprie esperienze e le proprie emozioni; le quali – trattando di cose importanti come la salute e la malattia, cioè in fondo la vita o la morte, e comunque la sofferenza – spesso deformano i contorni della realtà rispetto alla sua rappresentazione definita secondo i crismi della razionalità; dall’altra il punto di vista del medico, che vorrebbe conoscere la realtà nei suoi contorni oggettivi e che ritiene per (de)formazione professionale che la verità sia figlia unica dell’obiettività e della razionalità.

D’altra parte il medico è stato formato soprattutto a scrivere una cronaca; il paziente è interessato a raccontare una storia; il punto è che il medico produce una cronaca di fatti che riguardano la vita di un’altra persona, mentre il paziente racconta la storia che sta vivendo, la storia della sua vita.

Grazie alla “medicina narrativa” si sta prendendo coscienza che la ricerca ad oltranza della razionalità e della obiettività di per sé auspicabile, nella realtà è un’illusione; che lo sfrondare i fatti dalle opinioni alla fine ne distorce la veridicità perché li impoverisce irrimediabilmente di elementi che – lungi dall’essere solo “depistanti” – ne facilitano l’interpretazione. Il fine essenziale della “medicina narrativa” è proprio quello di restituire al mondo della medicina una visione complessiva e unitaria, cercando di fare sintesi tra le due visioni che separatamente da sempre rappresentano le due metà di un’entità unica: la visione scientifica e quindi razionale del medico e quella esistenziale del paziente, fatta di esperienze e di emozioni.

Si deve nella realtà constatare che l’apertura del medico alla medicina narrativa migliora le sue capacità di cura: tra il paziente che narra e il medico che partecipa attivamente anche ai risvolti della narrazione apparentemente estranei alla medicina, nasce una sorta di complicità, che aiuta entrambi nella gestione della sofferenza e talvolta anche nell’ intervento efficace sulla malattia.

“Medicina narrativa” versus “Medicina delle evidenze”

Questa constatazione contrasta la presunta antinomia tra “medicina narrativa”, più appropriatamente denominata medicina basata sulla narrazione (NBM) e “medicina scientifica” oggi uniformemente definita come medicina basata sulle evidenze (EBM), o – più correttamente – come medicina basata sulle prove di efficacia.

L’EBM ha meriti indubitabili: sicuramente i “trials” clinici controllati sono quanto di meglio la ricerca clinica può oggi produrre; tuttavia, essendo di derivazione “riduzionistica” in parte tradiscono la complessità dei fenomeni biologici; inoltre si fondano su criteri epidemiologico-statistici, e quindi non possono tener conto delle condizioni fisiopatologiche dei singoli individui. Tra parentesi, non si può nemmeno dimenticare che gli studi clinici controllati costano e quindi si realizzano solo quelli finanziati (per lo più dall’industria farmaceutica), che poi sono quelli che producono prove utili a chi li finanzia.

Ma i limiti principali della EBM  stanno nel fatto che essa si rivolge soprattutto alla terapia delle malattie piuttosto che al trattamento globale della persona.

Tuttavia, bisogna anche dire che la metodologia attuale della ricerca clinica è come la democrazia: ancorché imperfetta, è quanto di meglio oggi disponibile. Inoltre la EBM è un formidabile strumento di formazione, perché insegna a individuare e ad analizzare i problemi, a tradurre l’incertezza in quesiti ai quali rispondere con le conoscenze disponibili, a cercare, individuare e valutare criticamente le evidenze, a verificare la significatività clinica di queste e ad applicarle alla situazione clinica specifica: in altri termini, insegna a porre le domande pertinenti, a trovare le risposte corrette e utili, ad applicarle alle situazioni specifiche e a valutare criticamente i risultati; cioè è uno strumento importante per affrontare la soluzione dei problemi.

Tuttavia i problemi clinici sono concreti e immanenti, e anche problemi apparentemente simili sono tra loro differenti; solo l’esperienza e l’intuito del medico sanno trasformare la teoria in prassi utile: perciò, proprio se temperate dall’esperienza, le evidenze scientifiche possono trasformare l’educazione continua in medicina in sviluppo professionale continuo.

Se non si considerano con onestà intellettuale sia i pregi, ma anche i limiti dell’EBM, in una sorta di delirio di onnipotenza si rischia di dimenticare che la medicina – come il sabato evangelico – è fatta per l’uomo e non viceversa.

Allora non si tratta di contrapporre o addirittura di sostituire la “narrative based medicine” alla “evidence based medicine”, in una visione manichea che fa alternativamente vincere la creatività o la razionalità; si tratta piuttosto di cercare tra le due un mix equilibrato, finalizzato comunque al benessere (come diceva Aristotele, alla felicità ?) degli esseri umani, che sono fatti di meccanismi biologici e di pensieri ed emozioni, ammalano per colpa degli uni e delle altre e con la forza di entrambi sperano e desiderano di essere risanati.

Per aiutare queste persone c’è bisogno di Professionisti della salute che abbiano una consapevolezza equilibrata, si potrebbe dire “sapienziale”, di quanto la realtà sia complessa e composita, e che sappiano quindi riflettere per prendere decisioni sagge: allora la “medicina narrativa” troverà la sua ragione fondamentale soprattutto nell’aiutare la formazione di “professionisti riflessivi”, capaci di entrare in relazione empatica con le persone, e per questo utili alla loro salute fisica e psichica.

Così, il significato tradizionale dell’EBM come “Medicina basata sulle evidenze” (abitualmente tradotta come “Medicina basata sulle prove di efficacia”, prove raccolte e valutate con gli strumenti rigorosi della ricerca scientifica) potrebbe venire ampliato e arricchito da una diversa lettura dell’acronimo EBM come “Medicina basata sull’esperienza”: non solo l’esperienza del curante che adatta alla situazione specifica i risultati della ricerca, ma anche l’esperienza diretta del paziente che aumenta di per sé le conoscenze scientifiche del ricercatore.

La parola e la cura: il counselling

Tuttavia sarebbe a mio avviso riduttivo rivolgere l’attività educativa solo ai malati e in particolare ai pazienti di malattie croniche; soprattutto in relazione alla prevenzione dovrebbero essere soggetti di educazione anche le persone sane, che preferirei chiamare in un contesto democratico “cittadini” piuttosto che “utenti” (parola di sapore burocratico), o peggio “pazienti (perché il sano non patisce, né deve avere pazienza), o peggio ancora “clienti” (vocabolo che porta con sé uno sgradevole sapore mercantile): si tratta di educare i cittadini soprattutto al cambiamento dei propri stili di vita, così da diventare cittadini maturi e responsabili anche nei confronti della propria salute.

Come sempre, anche in questo caso l’educazione porta a trasformazione, nella quale il professionista della salute gioca pienamente il ruolo di educatore. E pure in quest’ottica l’educazione è fatta non solo di informazione, ma anche di formazione, che si giova di una comunicazione empatica, cioè capace di condividere valori e convinzioni tra educatore ed educando nel rispetto della libertà individuale; tale modalità, che si fonda sulla condivisione, deve peraltro svolgersi in maniera trasparente, cioè in modo ben diverso dalla così detta persuasione occulta, tipica ad esempio della comunicazione pubblicitaria. La comunicazione empatica si basa su una relazione interpersonale nella quale gioca un ruolo importante la considerazione e la stima reciproca, elementi che si sviluppano attraverso la negoziazione di scelte responsabili e personalizzate, in quanto attente e adattate alle situazioni individuali.

Tutto ciò richiede e si giova fortemente dello strumento del dialogo; in altri termini la parola diventa mezzo essenziale di cura e si dimostra veicolo efficace di ogni tipo di intervento medico, sia esso di natura preventiva, diagnostica, prognostica, terapeutica o riabilitativa. Vale la pena al proposito d’insistere sul fatto che la sola informazione non basta: ne è un esempio eclatante la scarsa efficacia sul miglioramento dello stato di salute dei singoli e della collettività, conseguito dalle trasmissioni televisive e radiofoniche o dai giornali; probabilmente buona parte del loro insuccesso educativo è dovuta al fatto che queste comunicazioni riguardano molto spesso l’informazione sulle malattie e non l’informazione sulla salute, e quindi inducono bisogni sanitari impropri (prescrizione di farmaci o di indagini diagnostiche con indicazioni generali che non tengono conto della peculiarità delle situazioni individuali), anziché facilitare cambiamenti reali e positivi degli stili di vita.

A ciò deve aggiungersi che spesso all’informazione non si accompagna la relazione interpersonale capace di individualizzare l’intervento; così non vengono mobilitate le risorse personali e la capacità di assumere in proprio decisioni completamente consapevoli e perciò mature e responsabili; infine, informazioni veritiere debbono esser trasmesse con il linguaggio più adatto alle capacità di comprensione del singolo soggetto.

L’approccio complessivo appena descritto sostanzia la tecnica del così detto counselling  ed è finalizzato a conseguire la condivisione informata delle scelte, che comporta il riconoscimento della reciproca necessità nel costruire e poi declinare in corsi di azioni uno scenario di cura “su misura”; tale risultato è più valido e significativo del così detto consenso informato; infatti l’obbligo deontologico al consenso informato, oramai consueto in ogni decisione medica, è di per sé uno strumento necessario ma non sufficiente, in quanto troppo spesso si è trasformato in una incombenza burocratica, finalizzata più a proteggere i sanitari da persecuzioni giudiziarie che non a rendere effettivamente partecipe il paziente di decisioni importanti per la sua vita e per il suo benessere.

Al contrario l’arte del counselling è fatta di domande più che di risposte, che trasformano il consenso informato da adesione passiva a una prescrizione in condivisione responsabile delle scelte; in altri termini è – attraverso la parola che spesso diventa narrazione – uno strumento di responsabilizzazione, mai un mezzo di plagio comunicativo.

Purtroppo il counselling finalizzato a modificare gli stili di vita è scarsamente praticato in Italia soprattutto perché ad esso non vengono formati i Professionisti della salute.

Appare allora indispensabile soprattutto per questo tipo di “educazione del cittadino sano” una loro educazione specifica.

Sia l’educazione degli operatori sanitari che quella dei cittadini dovrebbe diventare un impegno permanente e continuo, tanto che si potrebbe suggerire una variante dell’acronimo ECM in ECS: Educazione Continua alla Salute accanto e oltre a Educazione Continua in Medicina.

Anche questo – che oserei chiamare un obiettivo “etico” – è sicuramente un obiettivo ambizioso e difficile, perché il suo conseguimento richiede un profondo cambiamento comportamentale in molti professionisti della salute.

“Medicina partecipativa” e “paziente esperto”

Ebbene, la familiarità con gli strumenti della medicina narrativa può forse diventare una freccia all’arco, un possibile strumento operativo di coloro che sperano e investono nella medicina partecipativa, in una medicina moderna nella quale Professionisti della salute e pazienti facciano ciascuno la propria parte non da sponde contrapposte, bensì in un’ alleanza che ha come fine comune la cura efficace, finalmente nutrita di un vera relazione empatica; quest’ultima infatti si nutre validamente della condivisione reciproca dei racconti informali ma “veri” dei medici, ma anche di tutti gli altri operatori sanitari, e dei loro pazienti. Questa disponibilità all’ascolto da una parte e alla narrazione dall’altra sono le condizioni necessaria alla partecipazione responsabile del paziente alla “gestione” della propria salute, partecipazione che si fonda sul fatto incontestabile che nessuno più di lui può avere esperienza diretta delle proprie sensazioni, cioè del suo vissuto.

In questo contesto si parla oggi di “paziente esperto”: con tale espressione si sottolinea il ruolo rinnovato del paziente che mette a disposizione la propria esperienza di malattia, che solo lui può conoscere fino in fondo, per aiutare e personalizzare il processo di cura.

Ma per diventare effettivamente “esperto” anche il paziente ha bisogno di essere educato: questa attività formativa si concretizza oggi in quella che viene comunemente denominata “educazione terapeutica del paziente”, che si rivolge soprattutto a pazienti cronici. Inoltre, come tutti i processi educativi, anche questo ha uno sviluppo bidirezionale: infatti, se per aderire con responsabilità personale alla cura il paziente dev’essere istruito ed educato, le conoscenze che nascono dalla sua personale esperienza aiutano i curanti nell’esercizio della cura stessa, e fanno crescere anche le conoscenze utili su caratteristiche “nascoste” della malattia; potremmo dire che anche lo sviluppo delle conoscenze scientifiche può essere aiutato dall’esperienza diretta dei pazienti.  In questa prospettiva la co-produzione di conoscenza è un elemento essenziale della medicina partecipativa: quanta distanza dal paternalismo tradizionale dei medici …

Fortunatamente anche i settori più avanzati della ricerca biomedica stanno aprendo prospettive a breve-medio termine per una personalizzazione dei risultati di tali ricerche: mi riferisco alla genetica – soprattutto le farmaco-genomica – come strumento di conoscenza scientifica delle caratteristiche biologiche peculiari al singolo individuo-persona e di conseguenza come elemento decisionale nelle scelte degli approcci diagnostici e terapeutici individuali. Questo approccio sta aprendo orizzonti affascinanti, che  fanno ben sperare in una evoluzione dei protocolli terapeutici standardizzati verso una terapia personalizzata basata sulle evidenze, cioè in un futuro non troppo lontano nella personalizzazione sia della relazione che della cura.

Credo che sia venuto il tempo che pure il nostro impegno educativo attuale nei confronti dei futuri medici si confronti con le prospettive di personalizzazione della medicina in ambito biologico, ma anche in quello della relazione tra medico e paziente, alla quale ho dedicato la parte maggiore di questo contributo.

Bibliografia

1) Albano MG Educazione terapeutica del paziente. Riflessioni, modelli e ricerca. 2010 Centro Scientifico Editore – Edi-Ermes  Milano

2) Balint M Medico, paziente e malattia. 1977 Feltrinelli  Milano

3) Bert G, Quadrino S  Il medico e il counselling, 1989 Il Pensiero Scientifico Editore Roma

4) Bert G, Quadrino S  Parole di medici, parole di pazienti. Counselling e narrativa in Medicina.  2002 Il Pensiero Scientifico Editore  Roma

5) Charon R  Narrative Medicine: Form, Function, and Ethics, Ann Intern Med 2001 134:83

9 Cosmacini G Il mestiere di medico. Storia di una professione  2000 Ed. Cortina  Milano

7) Dyson E  Why partecipatory medicine? Journal of Partecipatory Medicine 2009 1:1  (http://www.jopm.org/opinion/editorials/2009/10/21/why-participatory-medicine/)

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9) Delvecchio G, Vettore L Decidere in Terapia – Dialogo sul metodo nella cura. 2013 Liberodiscrivere Genova

10) Liberati A (a cura di) Etica, conoscenza e Sanità 2005 Il Pensiero Scientifico Editore Roma

11) Masini V Medicina narrativa. Comunicazione empatica ed interazione dinamica nella relazione medico-paziente 2005 Ed. Franco Angeli Milano

12) Rogers C La terapia centrata sul cliente 1970 Martinelli Firenze

13) Shaw J, Baker M “Expert patient” – dream or nightmare?  BMJ. 2004 328:723-4. Editorial  BMJ 2004;328:723

14) Zannini L Salute, malattia e cura. Teorie e percorsi di clinica della formazione per operatori sociosanitari 2001 Ed. Franco Angeli  Milano

Cita questo articolo

Vettore, L., Medicina narrativa e counselling. Strumenti di educazione alla medicina partecipativa per il miglioramento  della relazione tra medico e paziente, Medicina e Chirurgia, 64: 2874-2880, 2014. DOI:  10.4487/medchir2014-64-1

Formazione per competenze. Quadri nazionali ed internazionali di riferimenton.63, 2014, pp.2826-2829, DOI: 10.4487/medchir2014-63-1

Abstract

Competency based education is widely diffusing as a model of educational design, because it makes more explicit and clear the final outcome of a curriculum. This responds to the call for social liability of medical education and makes different curricula more easily comparable. Competency may be defined as the ability to use a structured set of knowledge, skill and attitudes in a professional context, so a competency based curriculum should clearly address not only the “contents” of the competencies but also their use in a professionally significant context. Some models of competency for medical education were developed: the European Union set a framework to describe the outcome of education (Dublin descriptors), which was used in Tuning Medicine project to define 12 competency domains. The CanMEDS model was developed in Canada, and it describes medical competency as the overlap of 7 roles. The next version of the CanMEDS framework will contain also “milestones” as expected competencies to be achieved at defined time intervals of the continuum of medical education. In Italy recent acts moved the focus of education design clearly toward a competency based education and the Conference of Presidents of medical curricula is in the way to developing a comprehensive framework of medical competencies.

Articolo

Cos’è la competenza e perché ce ne dobbiamo occupare

Negli ultimi 10 anni c’è stata un’accelerazione della tendenza a progettare la formazione dei professionisti orientandola alle competenze, invece che ai soli obiettivi formativi o ai contenuti di programma. Da un lato ciò è conseguenza di una evoluzione interna dei modelli pedagogici, che interessa tutti i livelli e settori della formazione, dall’altro questa tendenza risponde a due esigenze originate dal peso sempre più forte che i processi di committenza sociale e di internazionalizzazione hanno nell’indirizzare modalità e scopi della formazione dei professionisti. La società in quanto tale e le istituzioni che la rappresentano richiedono, in qualità di committenti dei processi formativi, di sapere con chiarezza quali siano le capacità dei professionisti sanitari al termine dei percorsi educativi. La globalizzazione e la crescente mobilità studentesca, interna ad ogni nazione e tra nazioni europee e non, richiedono inoltre una comparabilità fra i piani di studio e i percorsi formativi offerti dai diversi atenei, per profili professionali che in linea di principio dovrebbero essere analoghi, almeno nei loro elementi di base. In altri termini: cosa sanno effettivamente fare gli studenti che escono dai corsi di laurea medici italiani, in termini di agire professionale complesso e non solo di conoscenze o singole abilità pratiche? Come possiamo certificare che un medico formato in Italia ha le capacità di base necessarie a lavorare in uno dei paesi dell’Unione Europea? Le istituzioni politiche hanno individuato nell’orientamento alle competenze la risposta a queste domande. In questo testo riassumerò brevemente ed in modo operativo la definizione di competenza e presenterò alcuni dei quadri di riferimento più diffusi nell’esperienza internazionale circa le competenze di un medico alla laurea.

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La definizione di competenza ha suscitato e mantiene ancora vivo un dibattito intenso fra i pedagogisti, ma possiamo sinteticamente considerarla come la capacità di usare un insieme strutturato di conoscenze, abilità pratiche e attitudini in un contesto professionale specifico. Consorti 63_2014_2Gli elementi della competenza sono dunque tre: la sua essenza è la “capacità di usare”, che si applica a contenuti di competenza (conoscenze, abilità pratiche, attitudini) e non è mai astratta ma sempre riferita ad un contesto professionale specifico. La SIPeM, nel suo manifesto ha adottato una definizione storica di competenza clinica, intesa come: “L’abitudine all’uso fondato su giudizio di conoscenze, ragionamento clinico, abilità tecniche, capacità comunicative, emozioni e valori da ripensare continuamente nella pratica quotidiana per il beneficio dell’individuo e della comunità di cui ci si prende cura”1. Non sfugga che anche in questa definizione sono presenti i concetti di “uso”, una serie di “contenuti”, presi in un “contesto”, inteso come pratica quotidiana a beneficio dei singoli e delle comunità. Questa definizione allarga il contesto oltre la specifica interazione medico-paziente, abbracciando anche il dominio della prevenzione e della sanità pubblica. La definizione di Epstein include anche elementi fondamentali del professionalism come la capacità di giudizio e il pensiero riflessivo2.

Iniziative internazionali di progettazione per competenze

Il Processo di Bologna è l’iniziativa europea tesa a creare uno “spazio comune delle conoscenza”, mirando tra l’altro a  rendere comparabili fra di loro i titoli di studio conseguiti nell’Unione Europea. Un elemento fondamentale del processo è la definizione di una tassonomia degli obiettivi formativi (descrittori di Dublino), suddivisi nelle cinque classi delle conoscenze teoriche, conoscenze e abilità applicative, capacità di giudizio, abilità di comunicazione, capacità di auto-formazione3. Anche se si tratta di una classificazione generica degli esiti dell’apprendimento, il sistema dei descrittori di Dublino si presta bene a fornire una cornice di riferimento per la definizione di competenze. In quest’ottica, il progetto europeo TUNING Medicine4 ha prodotto una proposta di visione comune delle competenze per l’area medica, creando uno schema di 12 domini di competenza, ognuno dei quali raggruppa un secondo livello di esiti formativi specifici. La Tab. 1 elenca i domini, riportando qualche esempio di competenza di 2° livello.

In Canada nel 2005 è stato concluso un grande sforzo cooperativo mirato a definire le competenze di base di un medico5. Il modello – denominato CanMEDS – ha avuto ampia diffusione in molti altri paesi e prevede 7 domini di competenza denominati “ruoli”. La figura 1 rappresenta il modello, che come si vede ha il ruolo di Medical Expert al centro, come elemento unificante di altri 6 ruoli. Infatti la prima delle sei competenze contenute nel ruolo di Medical Expert è definita come “Agire efficacemente come clinico, integrando tutti ruoli CanMEDS per fornire assistenza medica eccellente, eticamente fondata e centrata sul paziente”. Gli altri ruoli sono di Comunicatore (col paziente e il suo contesto sociale), Collaboratore (come membro di un team), Manager (capace di gestire risorse e aumentare l’efficienza delle organizzazioni), Difensore della salute (di individui, popolazioni e gruppi sociali), Studioso (impegnato nell’apprendimento continuo e riflessivo) e Professionista (inteso nel senso del già ricordato professionalism). Ogni ruolo contiene da tre a sei competenze principali, ulteriormente precisate con livelli di dettaglio inferiore. Una evoluzione molto importante del modello CanMEDS è l’aggiunta delle “pietre miliari” (milestones), intese come competenze minime fondamentali attese e valutate a tappe stabilite del percorso formativo, considerato nella sua completezza, dal primo anno pre-laurea fino alla formazione professionale continua. Il quadro, denominato continuum delle competenze e atteso alla presentazione in versione definitiva per il 2015, unifica così sia gli aspetti descrittivi che quelli certificativi di una formazione per competenze. Ad esempio, la competenza “Manage emotionally charged conversations and conflicts” del ruolo di Comunicatore, a fine corso di laurea è prevista come ottenuta a livello di “Critically reflect upon emozional encounters and identify how different approaches may have affected the interaction”, nel percorso di specializzazione a livello di “Recognize when strong emotions (e.g., anger, fear, anxiety, and sadness) are interfering with an interaction and respond appropriately; establish boundaries as needed in emotional situations” mentre nello sviluppo professionale continuo ci si aspetta che il professionista giunga a “Teach others to anticipate, recognize, and manage emotions in routine clinical encounters”. La sottolineatura dei verbi evidenzia come il continuum progredisca da un livello cognitivo applicativo (riflettere, identificare) ad un livello comportamentale (riconoscere e reagire, confinare), per approdare da ultimo alla capacità di favorire con l’insegnamento lo sviluppo della competenza in altri.

La situazione in Italia

In Italia la legge 240/2010, istituendo il sistema di Auto-valutazione, Valutazione e Accreditamento (AVA), ha reso di fatto operativa l’adozione dei descrittori di Dublino per la descrizione dei piani formativi, obbligo in realtà già disposto dal Decreto Ministeriale 16 marzo 2007 (art. 3, comma 7: “Nel definire gli ordinamenti didattici dei corsi di laurea magistrale, le università specificano gli obiettivi formativi in termini di risultati di apprendimento attesi, con riferimento al sistema di descrittori adottato in sede europea”).

Inoltre il d.l. 13/2013 si è spinto oltre, superando gli obiettivi formativi, creando il  sistema nazionale di certificazione delle competenze e accentuando la spinta politica verso un indirizzo per competenze dell’intero sistema formativo nazionale, non solo universitario. In questa legge la competenza è definita come: “comprovata capacità di utilizzare, in situazioni di lavoro, di studio o nello sviluppo professionale e personale, un insieme strutturato di conoscenze e di abilità acquisite nei contesti di apprendimento formale, non formale o informale” (art. 2 , comma 1e d.l. 13 del 16-1-13). Anche in questa definizione è evidente la tripartizione: capacità di “utilizzare” dei “contenuti” in un “contesto”. Il sistema di certificazione delle competenze si propone perciò la “individuazione e validazione e certificazione [del]le competenze acquisite dalla persona in contesti formali, non formali o informali, il cui possesso risulti comprovabile attraverso riscontri e prove” (art.3). Naturalmente una laurea in medicina ha già un livello autonomo di certificazione, ma la promulgazione di questo atto qualifica in modo netto la scelta di indirizzo pedagogico.

La Conferenza ha recentemente prodotto un documento consultivo, in cui propone una possibile declinazione delle competenze e degli obiettivi formativi di un corso di laurea. La descrizione generale delle competenze di un medico è suddivisa in tre punti principali:

– una visione multidisciplinare, interprofessionale ed integrata dei problemi più comuni della salute e della malattia;

– una educazione orientata alla prevenzione della malattia ed alla promozione della salute nell’ambito della comunità e del territorio;

– una profonda conoscenza delle nuove esigenze di cura e di salute, incentrate non soltanto sulla malattia, ma, soprattutto, sull’uomo ammalato, considerato nella sua globalità di soma e psiche e inserito in uno specifico contesto sociale;

Queste tre grandi aree vengono quindi analiticamente sviluppate  in modo coerente con i descrittori di Dublino. Il documento ha una sua robusta logica interna ma è stato sviluppato sotto l’urgenza degli adempimenti richiesti dalla prima applicazione delle regole del sistema AVA e meriterebbe una attenta rilettura, specie se considerato in sintonia con la revisione in corso del core curriculum.

Considerando l’idea di milestone proposta nel modello CanMEDS, la revisione di quella bozza di competenze potrebbe anche dare origine a una prima ipotesi di competenze minime da certificare, a intervalli stabiliti durante il corso di laurea nonché in ottica di esame finale abilitante.

Bibliografia

1) Epstein RM., Assessment in medical education, N Engl J Med 2007;356(4):387-396

2) Consorti F. Il professionalism, teoria e attualità. MedChir 2014; 62:2811-2813

3) http://www.quadrodeititoli.it/descrittori.aspx?descr=172&IDL=1

4) http://www.tuning-medicine.com/index.asp

5) http://www.royalcollege.ca/portal/page/portal/rc/canmeds

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Consorti F., Formazione per competenze. Quadri nazionali ed internazionali di riferimento, Medicina e Chirurgia, 63: 2826-2829, 2014. DOI:  10.4487/medchir2014-63-1

Il De motu cordis di William Harvery: scienza, medicina, politican.62, 2014, pp.2814-2818

Il 15 luglio 1652 il medico inglese George Ent scriveva da Londra al suo amico Cassiano del Pozzo, romano, grande collezionista di arte e di oggetti di scienza, vicino all’accademia dei Lincei, e gli raccontava di aver eseguito una dimostrazione scientifica in presenza di William Harvey e di altri membri del College of Physicians di Londra. Utilizzando il cadavere di un uomo morto per strangolamento, di cui aveva legato i vasi e nel cui cuore, polmoni e fegato aveva iniettato acqua calda, aveva dimostrato la correttezza della teoria di Harvey della circolazione del sangue, divulgata circa un quarto di secolo prima, e che dalla sua pubblicazione non aveva mai cessato di provocare aspre critiche e discussioni. L’esperimento di Ent e la sua sede (il College of Physicians era la massima autorità professionale inglese in campo medico) dimostrano che la scoperta era tutt’altro che pacificamente accettata.  Informarne Cassiano a Roma era un modo per rinsaldare i legami tra due mondi molto diversi, ma nei quali la ricerca naturalistica era praticata ad altissimo livello.

In questo breve articolo presenteremo la vita di Harvey, studente a Padova, medico di due re d’Inghilterra, sperimentatore in un’età turbolenta e piena di elementi di novità, dal punto di vista politico come da quello scientifico. Passeremo poi a un esame il più dettagliato possibile, dato il breve spazio a disposizione, del De motu cordis (1628) e della sua struttura. Una terza parte finale sarà dedicata a una breve disamina della storiografia recente su Harvey e sulla sua scoperta.

1. La vita inquieta di un uomo tranquillo

Per indole e per formazione intellettuale Harvey non era un rivoluzionario. Nato e cresciuto in un’era di violenti rivolgimenti politici, appartenente all’alta società del suo paese, era piuttosto, come spesso accade, un uomo delle istituzioni e dell’ordine. Intellettualmente indipendente, descritto come vivace, franco, spiritoso e informale, era fornito di una vasta cultura che si estendeva anche alla letteratura e all’arte, in medicina “mantenne un senso di identità comune con i suoi predecessori, anche dopo averne rifiutato alcune delle più fondamentali teorie”. Nonostante alcune interpretazioni, come si vedrà, ne abbiano messo in discussione la fedeltà alla corona, e abbiano piuttosto insistito sulla sua accettazione dell’ideale repubblicano, la sua vita si svolse per la maggior parte in un contesto ‘protetto’, di borghesia attiva e intraprendente ma che mirava alla stabilità dello stato e alla creazione di un ordine politico che, pur rispettoso di alcune prerogative delle corporazioni e degli individui, prevedeva comunque l’esistenza di un potere centrale forte. Harvey credeva nello sviluppo di istituzioni scientifiche; collaborò a lungo con il College of Physicians, insistendo non solo sul suo ruolo istituzionale di controllo sull’esercizio della professione, ma anche sulle sue potenzialità come centro di ricerca scientifica: aveva progettato di fornire il College di una biblioteca e provvide per testamento a un sostanzioso lascito. Si interessò allo sviluppo delle istituzioni universitarie inglesi, che nel suo tempo erano ancora meno sviluppate, per ciò che riguarda la medicina, di quelle continentali, e soprattutto italiane e francesi. Anche la sua posizione nei confronti dei chirurghi, con cui i conflitti professionali erano frequenti, era meno distante di quella di molti suoi colleghi.

Nato a Folkestone, una città di mare nel sud-est dell’Inghilterra, nella contea del Kent, Harvey era figlio di un proprietario terriero, poi divenuto un mercante, intraprendente e agiato; i suoi cinque fratelli furono mercanti di successo. Grazie alla sua condizione sociale, il padre gli permise di studiare, prima a Canterbury e poi dal 1593 a Cambridge, al Gonville and Caius College, dove ebbe modo di assistere ad anatomie. Per gli studi medici si recò nel continente, viaggiando in Francia e in Italia; nel 1599 era a Padova, dove si addottorava il 25 aprile 1602. Il periodo padovano fu il più importante nella sua formazione; assistette alle lezioni di Girolamo Fabrici d’Acquapendente, uno dei massimi anatomisti della sua epoca. Ma Padova era anche uno dei centri riconosciuti dell’aristotelismo, della filosofia naturale, cioè, che si era più interessata alle radici biologiche della medicina, istituendo una stretta connessione fra ricerca filosofico-scientifica e teoria medica. Maestro di Harvey fu anche Cesare Cremonini. Se quello dell’incontro a Padova tra Galilei e Harvey è un aneddoto privo di appoggi documentari, è però vero che il pisano insegnava a in quella università negli anni in cui Harvey vi risiedette.

Tornato in Inghilterra, si inserì nel livello ‘alto’ della sua professione, anche grazie al matrimonio con Elizabeth Browne, la figlia di Lancelot, un celebre medico londinese. La coppia non ebbe figli. Entrato nel College of Physicians, vi fu accettato come Fellow il 5 giugno 1607. Il 14 ottobre 1609 divenne medico al St. Bartholomew Hospital, uno dei principali e più antichi di Londra, tra i quattro amministrati direttamente dalla città. Si tratta di un posto che mantenne per il resto della sua vita. Come si vede, Harvey era tutt’altro che un anatomista o filosofo naturale ‘puro’: la sua esperienza di medico pratico era ricca e varia, e questo si riflette anche nei suoi lavori. Ugualmente importante fu il suo ruolo nel College: nell’agosto del 1615, e fino al 1656, a Harvey fu affidato l’incarico di tenere le prestigiose Lumleian lectures, istituite nel 1583. Si trattava di lezioni di anatomia, inizialmente rivolte ai chirurghi, ma divenute nel tempo uno dei più noti luoghi di diffusione del sapere medico tout court. In quella del 1616 Harvey annunciò appunto al sua nuova teoria sulla circolazione del sangue. Le note prese per queste lezioni, oggi alla British Library, sono tra i suoi primi lavori conosciuti, e mostrano una buona conoscenza della letteratura medica e anatomica del suo tempo.

Nel 1618 Harvey iniziò la sua lunga carriera di medico di corte, divenendo physicus  straordinario del re, Giacomo I Stuart. Nel 1625, quando al trono salì Carlo I Stuart, mantenne e anzi rafforzò la sua posizione, ‘scalando’ le diverse posizioni gerarchiche fino a diventare, nel 1639, ‘physician in ordinary’ del re. I suoi rapporti con il monarca non erano di semplice subordinazione, ma di amicizia, come spesso accadeva tra curanti e pazienti illustri. Molto si è discusso dell’adesione di Harvey alle teorie monarchiche; quel che è certo è che la sua lealtà a Carlo rimase anche dopo gli eventi rivoluzionari degli anni Quaranta e la sconfitta e la decapitazione del re. La vita della corte fu del resto preziosa per lo sviluppo delle teorie di Harvey: le cacce frequenti e il facile accesso al gran numero di cervi e altri animali dei parchi reali gli consentirono osservazioni anatomiche poi confluite nei suoi lavori, in particolare nell’opera sulla generazione. La partecipazione di Harvey alla vita dell’alta aristocrazia gli consentì anche di viaggiare: nei primi anni ‘30, al seguito del Duca di Lennox, fu in Italia e in Spagna; nel 1636, al seguito di Thomas Howard, Earl of Arundel, a Regensburg e di nuovo in Italia. Harvey era in contatto con l’aristocrazia inglese e con molti intellettuali del suo tempo, tra i quali Francis Bacon, Thomas Hobbes, Robert Fludd, John Selden, John Aubrey, Anne Conway. Le sue frequentazioni non erano limitate ai circoli più influenti dell’alta società. Il poeta John Donne era suo amico e accennò nel 1621, prima della pubblicazione del De motu, alla possibilità di misurare la portata delle cavità del cuore. Ma Harvey aveva ottimi rapporti anche con il chirurgo paracelsiano John Woodall, a capo della corporazione dei barbieri-chirurghi e suo collega in ospedale.

Nel 1628, a Francoforte, era uscito il De motu cordis. Il ritardo nella sua pubblicazione sembra essere stato dettato da ragioni di prudenza, così come la dedica al re (che, va ricordato, non era libera, ma implicava la precedente accettazione da parte del dedicatario). Le polemiche che ne accolsero la pubblicazione furono molto aspre, e possono aver contribuito ad allontanare, entro certi limiti, la ricca clientela di Harvey, che però continuò a lavorare al servzio dell’aristocrazia. Alla fine degli anni ‘30, accompagnò il re nelle sue spedizioni contro gli scozzesi; nel 1642, allo scoppio della guerra civile, restò con lui a Oxford dal 1642 al 1646, continuando le sue ricerche a dispetto dei tempi difficili; dopo la resa della città restò col re, seguendolo anche nella prigionia a Newcastle nel 1647. Nelle prime fasi della guerra, Harvey aveva perso, nel saccheggio del palazzo di Whitehall a Londra, la residenza reale, dove anch’egli alloggiava, una una serie di lavori già iniziati e rimasti manoscritti: appunti, rapporti di dissezioni, e in particolare un importante lavoro sugli insetti. Dopo la cattura, il processo e l’esecuzione di Carlo I Harvey restò a Londra, proseguendo indisturbato la sua vita intellettuale, e morendo poi a Roehampton, a casa di un fratello, il 3 giugno 1657, senza assistere alla fine della dittatura repubblicana di Oliver Cromwell e alla Restaurazione della monarchia.

Nel 1649 furono pubblicate le Exercitationes… de circulatione, due epistole rivolte a Jean Riolan il giovane, celebre anatomista parigino, che era fermamente opposto a Harvey, e che propugnava una versione aggiornata delle teorie galeniche sulla circolazione. Nel 1651, per intervento degli amici e in particolare di George Ent, fu finalmente pubblicato il lavoro sulla generazione, le Exercitationes de generatione animalium, alla preparazione del quale Harvey aveva lavorato per molti anni, approfondendo una linea di ricerca che probabilmente era quella a cui teneva di più, che più aveva sofferto delle turbolenze della guerra civile, e che contribuì non poco a modificare la visione della circolazione come espressa nelle Exercitationes del 1649. Il testo è incentrato su una discussione approfondita ma critica delle teorie di Aristotele, che era ancora il più influente autore in materia biologica. Lavorando su embrioni di differenti specie animali, e in primis sulle uova di gallina, Harvey raggiunse risultati fondamentali: negò la possibilità della generazione spontanea, affermò il principio secondo cui ‘ex ovo omnia’, per il quale un uovo femminile fecondato dal seme maschile è all’origine di ogni processo riproduttivo (un’affermazione che sarebbe stata ulteriormente corroborata dalle scoperte anatomiche sull’apparato riproduttivo femminile), e sviluppò una teoria epigenetica dell’accrescimento dell’embrione. Tra i titoli di merito di Harvey vi è quello di essersi servito per le sue osservazioni di un numero impressionante di animali diversi, tra i quali anfibi e pesci, contribuendo così a fondare l’anatomia comparata.

Nel 1651, scrivendo a sua nuora, la dotta Anne Conway, Edward, Viscount Conway, la avvertiva di non fidarsi troppo di Harvey, che era stato contattato per tentare di risolvere le ricorrenti, violente crisi di emicrania della donna. Il suocero la avvertiva che il medico, eccellente anatomista, noto per il suo grande contributo scientifico, aveva però il difetto di essere governato dalla sua immaginazione (Phantasy) anche nella medicina pratica; che, come Descartes e Campanella, grandi innovatori, era la stessa forza del suo intelletto a indurlo alle sue scoperte, e allo sforzo di presentarle al mondo; ma che un medico curante con troppa phantasy può essere molto pericoloso per i suoi pazienti. La scarsa cosiderazione dell’importanza della scoperta di Harvey per la concreta pratica medica era condivisa da molti in Europa, anche da personaggi meno comprensivi di quanto fosse Edward Conway nei confronti della sua statura intellettuale, e più interessati al mantenimento dello statu quo accademico e professionale.

2.  Il De motu cordis

Il De motu cordis si presenta in modo diverso da quello che ci aspetteremmo da un medico di corte del primo Seicento – non si tratta di un ponderoso trattato, ma di un libro rivoluzionario anche nel formato, in 4°, piuttosto breve, scritto in uno stile secco e preciso: un altro segno della sua modernità. Nonostante la concisione, tuttavia, il testo ha due dediche, al re Carlo I e a John Argent, presidente del College of Physicians. Il De motu ha quindi appena un totale di 72 pagine a stampa per 17 capitoletti, preceduti da un Proemio; contiene anche due tavole ‘doppie’ che illustrano l’esperienza che Harvey riteneva fondamentale per dimostrare la direzione del flusso del sangue arterioso e venoso, quella delle legature degli arti. Il libro fu pubblicato per la prima volta nel 1628, a Francoforte sul Meno, da William Fitzer, un inglese, ma fu presto ristampato un po’ in tutta Europa, a segnalare, anche più che la diffusione delle tesi di Harvey, le controversie che esse provocarono. La decisione di non pubblicare in patria potrebbe essere stata dettata da prudenza, o dal desiderio di mettere il libro su un mercato, quello tedesco, che era il più vivace d’Europa per le fiere librarie che si tenevano appunto a Francoforte. La prima edizione è dunque relativamente rara, e contiene anche parecchi errori – forse dovuti alla difficoltà di decifrare la scrittura dell’autore – ma quelle che si susseguirono nel corso del secolo si trovano in molte biblioteche.

Il libro si apre con la dedica al re, nella quale Harvey utilizza la celebre analogia tra il cuore, ‘sole’ del microcosmo e responsabile della vita e del vigore del corpo, e il re, inteso come ‘cuore’ dello stato. In quella ai colleghi anatomisti del College Harvey dice di sperare nella sospensione, nelle questioni scientifiche, di passioni come la collera e l’invidia; spiega di scrivere per la verità e dopo lunghe e accurate osservazioni; dichiara il proprio rispetto per gli autori antichi e la propria decisione di omettere ogni riferimento agli anatomisti moderni, per non provocare dispute — una decisione che sarà rispettata solo in parte. In effetti la storiografia ha ben chiarito che anche prima di Harvey una serie di medici e anatomisti, tra i quali Andrea Cesalpino e Miguel Servet, avevano avanzato ipotesi che andavano nella stessa direzione che poi Harvey avrebbe percorso con molta più lucidità e dopo una serie impressionante di osservazioni sistematiche, portando a compimento e chiudendo la lunga storia delle dispite sul ruolo del cuore, del sangue, e della circolazione. Se Harvey decide di non citare i suoi predecessori moderni, tuttavia, non è per obliterarne il ruolo, ma per evitare di disperdersi in una serie pressoché infinita di controversie di dettaglio.

Come si è visto, tanta prudenza non sarebbe bastata a evitare le opposizioni, talora violentissime, che accolsero l’opera. Nel Proemio Harvey mette in luce lo stato estremamente incerto delle spiegazioni e nozioni contemporanee riguardanti la circolazione, il ruolo di arterie e vene, quello del cuore e dei polmoni. Il testo di Harvey, è bene sottolinearlo, concerne tanto il moto del cuore che la questione della funzione della respirazione; Harvey dichiara di avere in preparazione uno studio sui polmoni. La circolazione polmonare era stata descritta da Ibn-al Nafis e da Realdo Colombo; tuttavia è solo dopo la scoperta di Harvey che il ruolo della respirazione potrà essere chiarito, soprattutto per opera del gruppo dei cosiddetti “fisiologi di Oxford”,che si sono rifatti alle sue teorie. Una delle poche citazioni di Harvey è da Fabrici d’Acquapendente; ma è Galeno il vero bersaglio delle sue critiche, sia per ciò che riguarda il ruolo e il moto delle arterie che la funzione delle vene. La critica più distruttiva rivolta a Galeno è anatomica: per l’anatomista e medico di Pergamo il setto interventricolare dovrebbe essere pervio, consentendo il passaggio del sangue. Già Vesalio aveva dimostrato che questo passaggio è inesistente, o almeno nonosservabile.

La prima parte del testo, i capitoli da 1 a 7, è strettamente osservativa: Harvey afferma di essersi basato su numerose vivisezioni di animali diversi per osservarne da vicino il moto del cuore, traendone le seguenti conclusioni: il cuore ha sistole e diastole; il battito che noi avvertiamo non dipende dalla diastole, come si è sempre creduto, ma dalla sistole, cioè dalla contrazione muscolare che consente al cuore di spingere con forza il sangue nelle arterie. Il movimento delle arterie è contrario a quello del cuore, nel senso che le arterie si dilatano quando il cuore si contrae; dal ventricolo sinistro il sangue va alle arterie, mentre da quello destro va all’arteria polmonare. Le orecchiette hanno un moto quasi simultaneo a quello dei ventricoli, e sono anch’esse piene di sangue, rappresentando come un deposito o un luogo di ‘stoccaggio’ per il sangue, dove la vita comincia e finisce. L’ uso del cuore è dunque solo quello di far passare il sangue alle arterie. Tuttavia non si comprende bene la sua funzione se non si affronta quella del rapporto tra cuore e polmoni: il sangue passa dal ventricolo destro ai polmoni e da lì torna al ventricolo sinistro. Harvey conclude affermando che lo stesso Galeno ha visto, in un certo senso, i dettagli di questo passaggio, interpretando però i dati in modo non corretto.

Il cuore dell’argomentazione di Harvey, e la parte più celebre del libro, è nei capitoli dall’8 al  13. Qui Harvey fa un uso parziale, e nella forma di esperimenti mentali, di argomentazioni di tipo quantitativo (quanto sangue, quanti battiti/contrazioni, quanto tempo per un circolo completo). Poiché è impossibile che il fegato produca tutto il sangue che è nel corpo, e che secondo la fisiologia tradizionale sarebbe utilizzato per nutrirne le membra, Harvey confessa di essersi chiesto se sia possibile attribuirgli un movimento circolare anziché di dispersione alle estremità. In questo modello le vene riportano il sangue al cuore, e come le arterie sono piene di sangue, che va considerato come un’unica massa. La circolazione può essere descritta in tre passaggi: spinto dalla sistole, il sangue va nelle arterie; penetra poi nel corpo; le vene lo riportano al cuore. Alle estremità del corpo il sangue passa dalle arterie alle vene per anastomosi o attraverso porosità. Le legature degli arti, tratte dalla pratica della flebotomia, consentono di osservare sia il moto delle arterie (centrifugo) che quello delle vene (centripeto). Il sangue passa sempre tutto per il cuore che lo spinge poi nei vasi; si tratta di quantità calcolabili e questo dimostra che il fegato non ne potrebbe produrre abbastanza nel tempo dato. Infine, le valvole scoperte da Fabrici hanno l’importante funzione di impedire il riflusso del sangue verso le estremità.

La parte finale, i capitoli dal 14 al 17, è di sintesi: il ruolo del cuore è di spingere il sangue nel circolo arterioso/venoso, e ciò si dimostra sia con ragioni ‘verisimili’ che confermano il modello circolatorio (ad es., il movimento conserva la vitalità del sangue, che coagula se fermo), sia con le conseguenze che si possono trarre dal modello, come la rapida azione dei farmaci su tutto il corpo, sia con la conferma attraverso l’anatomia: anche comparata, e embriologica.

Le reazioni alla scoperta di Harvey furono molte e diverse, e la storia della sua diffusione a livello europeo è troppo lunga e troppo complessa per ricordarla qui – essa coincide, in effetti, con tutta la storia posteriore della fisiologia e della medicina. Qui possiamo però ricordare che la scoperta fu in genere accettata più facilmente in ambiente chirurgico che tra i medici accademici. I chirurghi avevano una familiarità così forte con i processi e i pericoli relativi alla flebotomia che si dimostrarono, in molti casi, assai più aperti dei loro colleghi medici. La storia della diffusione italiana delle scoperte di Harvey, in un arco cronologico che va dal napoletano Marco Aurelio Severino, chirurgo colto e di livello universitario, a Bernardino Genga, chirurgo ospedaliero al romano ospedale del S. Spirito, ne è una piccola ma interessante dimostrazione.

3. Quale immagine di Harvey?

Il testo di Harvey è stato spesso letto come il più notevole esempio, in età moderna, di ‘riduzionismo’ fisico in ambito scientifico: utilizzando una metodologia incentrata sull’idea che la natura sia scritta in caratteri matematico-geometrici, secondo ciò che aveva proclamato l’italiano Galileo Galilei, il medico inglese avrebbe elegantemente e chiaramente dimostrato che il sistema fisiologico di Galeno non reggeva a un esame attento. Nonostante gli avanzamenti in anatomia, e le critiche di Vesalio e di altri, l’auctoritas del medico di Pergamo, peraltro lui stesso grande anatomista, era ancora lontana dall’essere messa in discussione. Harvey osò compiere il passo che pochi prima di lui avevano osato, e disse chiaramente che la fisiologia antica non era sbagliata in alcuni punti di dettaglio, emendabili, ma che era da riscrivere in toto, contribuendo così a creare un’immagine profondamente diversa dall’antica del funzionamento del corpo umano e animale. I suoi oppositori, che furono molti, si sarebbero opposti di fatto al progresso, e avrebbero rifiutato ottusamente di vedere una verità che era invece chiara anche ai più umili barbieri-chirurghi e macellai.

Come accade per tutte le immagini semplici, e che corrispondono più all’idea contemporanea di metodo scientifico e sperimentale che alla realtà storica, anche questa contiene molti elementi falsi e qualche verità. Tuttavia William Harvey era pienamente immerso nel suo tempo, e le sue opere stanno a dimostrarlo; applicare anacronisticamente alla sua interpretazione nozioni e concetti derivati dagli imponenti sviluppi successivi della biomedicina è insensato, e non serve ad esaltarne la grandezza, ma, al contrario, a farne un pallido precursore, anziché un grande protagonista, la cui scoperta, pur legata al suo tempo, merita ancor oggi la nostra attenta considerazione.

Di fatto, la storiografia recente e più avvertita ha molto contribuito a superare questa interpretazione agiografica, riportando Harvey sulla terra e mostrando quanto fosse interessato ai dibattiti contemporanei, e non solo a quelli scientifici. Negli anni ‘60 del Novecento è iniziato un profondo processo di revisione di questa  figura centrale della scienza europea del Seicento. Alcune letture eccessivamente o troppo crudamente politiche del De motu e delle successive Exercitationes sono state rifiutate — Christopher Hill, autore di importanti studi sulla rivoluzione inglese, aveva infatti sostenuto che l’adesione di Harvey alla causa realista nel corso della guerra civile era di pura facciata, e che egli sarebbe stato molto più vicino alle idee repubblicane dei parlamentaristi. Le sue opere mostrerebbero un’evoluzione dall’insistenza sul cuore come centro dell’organismo alla maggiore importanza assegnata alla circolazione del sangue, che sarebbe andata di pari passo con la fine della monarchia e con la possibilità di manifestare apertamente la propria adesione alle teorie ‘alla Hobbes’ che vedeva nel corpo politico la presenza essenziale dei cittadini. L’articolo di Hill scatenò una polemica che contribuì però, insieme ad altri interventi, alla ridefinizione del ruolo delle credenze religiose e politiche nella nascita della scienza moderna — una problematica che senz’altro riguarda anche la figura di Harvey. Ma in quegli anni la vera novità su Harvey venne, oltre che dalla documentata e affascinante biografia di Keynes che è stata citata, soprattutto dai molti interventi e poi dal libro di uno storico della medicina di origini tedesche, Walter Pagel. Pagel ha dimostrato molto persuasivamente, con l’appoggio di un arco ampio di testi e con un’accurata contestualizzazione, che con ogni probabilità la radice profonda della ‘rivoluzione’ harveiana va cercata nella sua adesione profonda all’aristotelismo, appreso a Padova alla scuola di maestri che erano filosofi e anatomisti, e che fece sentire il suo effetto nel momento in cui si doveva trovare un modello per la circolazione che ne facesse risultare l’eccellenza per la vita (il cerchio è una figura perfetta).

Pur con la consapevolezza della complessità della teoria e della scoperta della circolazione, delle sue stratificazioni nel tempo, e della questione irrisolta delle convinzioni profonde del suo autore in tema di religione e politica, l’opera di Harvey risulta ancora oggi straordinaria, soprattutto se messa a confronto con i testi di molti suoi contemporanei.  Leggendo il De motu cordis si è in effetti colpiti dalla stringatezza e dalla precisione del ragionamento, dall’efficacia della dimostrazione, dall’incalzare dell’argomentazione e dagli elementi osservativi allineati more geometrico, secondo una collaudata tradizione anche retorica di filosofia naturale, ma pur sempre incentrati sull’osservazione diretta e su ragionamenti di tipo quantitativo, che l’autore fa giocare con abilità e precisione contro i suoi avversari. Si tratta di una lettura che, superato l’ostacolo della prosa latina e le complessità di alcuni riferimenti, risulta interessante per gli studenti e può tranquillamente essere consigliata a chi desideri farsi un’idea diretta del testo, oggi disponibile in un’ottima edizione italiana, e online, in diverse versioni, anche accompagnate da altro materiale documentario.

Il professionalism, teoria e attualitàn.62, 2014, pp.2811-2813, DOI: 10.4487/medchir2014-62-6

Abstract

Professionalism is often defined as a set of personal traits, and there is a general consensus about a set of elements that are components of professionalism, even if their exact determination remains elusive. Professionalism can also be conceived as the expression of the social contract between society at large and the profession.

This paper briefly summarizes some basic assumptions about the nature of professionalism as a complex construct, highlights the main features of the development of professional image of medical doctors in Italy from the years of Risorgimento up to present time, to show how the cultural and political environment influenced this process. On these premises, the structure of a possible longitudinal curriculum for the development of professionalism in medical student is presented. The foundation of this proposal is that professionalism is the context of medical expertise, as a combination of rules, conditions, and meanings in which the act of health care occurs. It encompasses the ability of critical reflection on technical expertise and it is expressed through the ability to act and make decisions when dilemmas or elements of complexity are present. So, starting from the use of validates scales to measure theoretical knowledge and attitudes, a set of methods as reflective writings, critical cases analysis and simulated patients are incrementally added to the curriculum to challenge the ability of students to face professional dilemmas.

Articolo

Parlare del concetto di professionalità o professionalismo (professionalism nella letteratura internazionale) è ancora molto attuale, forse ancora più attuale ora di quanto non lo fosse 20 o 30 anni fa. Affrontare questa tema è infatti il modo corrente per riflettere sul modello di medicina, sulla sua immagine, sul ruolo dei medici e sulle loro prassi di cura. Tutto ciò ha ovvie, rilevanti ricadute sui modelli e contenuti della formazione, nonché sull’azione dei Corsi di Laurea.

Nel continuum delle diverse prospettive presenti in letteratura internazionale, possono essere rilevate alcuni nuclei di discussione. Una prima controversia è relativa alla definizione della natura intrinseca del professionalism, inteso come un insieme di valori e norme indicati da organismi di regolamentazione medici1 o come espressione del contratto tra medici e la società.

Arnold2 nella sua review relativa alle definizioni di professionalism, pur nella varietà delle espressioni, ha identificato tre poli ordinatori:

– umanesimo (humanism) inteso come insieme di doti umane (rispetto, compassione, integrità)

– auto-valutazione/regolazione/riflessione (self assessment, regulation and reflection)

– competenze specifiche come il ragionamento etico e la comunicazione (ethical reasoning, communication skills).

Un seminario internazionale dal titolo Contratto Sociale di Medicina con la società – Una prospettiva internazionale3, ha concluso che sono state notate solo piccole differenze nel ruolo del medico in diversi contesti culturali e paesi, differenze che tuttavia riflettevano le specificità nazionali del contratto sociale nella sanità. Per piccole che possano essere, queste differenze devono tuttavia essere rispettate nell’insegnamento del professionalism. Anche il recente report di Ho dopo una conferenza internazionale tenutasi in Arabia Saudita, ha sottolineato l’importanza di un approccio culturalmente sensibile alla professionalità4.

Un altro argomento di discussione è se la professionalità sia un insieme di tratti stabili di un medico o se essa debba essere intesa come un insieme di comportamenti e relativi processi decisionali5, in una prospettiva che sia sensibile anche al contesto sociale e culturale2.

La ricerca dalle scienze sociali ha dedicato molti sforzi alla definizione di professionalità. Una delle prime definizioni di “professione” risale a circa 50 anni fa, basata sui pilastri di competenza, autonoma e ideali di servizio6. Una recente review ha esaminato la gamma degli approcci utilizzati nella sociologia delle professioni7. La conclusione è che i fattori che costituiscono la professionalità non sono statici. Queste conclusioni sono coerenti con le posizioni introdotte in precedenza sulla professionalità come contratto sociale e processo dinamico e hanno una diretta conseguenza sulla modo con cui il professionalism viene insegnato e valutato8,9,10.

La sociologa Giovanna Vicarelli ha dedicato molta attenzione allo sviluppo della professione del medico, dagli anni post-risorgimentali fino ai giorni nostri. Essa identifica alcune grandi fasi di sviluppo.11

Nell’Italia post-unitaria e liberale, i medici fanno parte dell’elité modernizzante del paese. Il modello di cura è fortemente orientato ad una clinica ad personam e paternalistica, ma si osservano già i germi di una clinica ad societatem di natura preventiva e sociale. Nel 1910 nasce l’Ordine dei Medici e la medicina diventa così a tutti gli effetti una professione.

Nel ventennio fascista si avviano intensi processi di medicalizzazione del mondo del lavoro, della famiglia e dello sport e tempo libero, con l’avvio di istituti di protezione e prevenzione. I medici così, indipendentemente dalla loro appartenenza politica, appaiono come garanti della salute nel nuovo ordine sociale imposto dal regime. Nel 1943, in piena 2° Guerra Mondiale, a testimonianza che la vita sociale e politica continuava nonostante tutto, nasce l’INAM.

Nel dopoguerra si sviluppa un’idea di clinica ad organum, sulla base del progresso tecnologico e scientifico. Il sistema mutualistico viene superato e si sviluppa un sistema di welfare democratico che conduce nel 1978 alla nascita del Servizio Sanitario Nazionale. L’ultima fase, quella attuale, è caratterizzata come quella della “perdita di dominanza”. Nel 1992 la l. 502 avvia l’aziendalizzazione del SSN e con essa esplode il conflitto con la “cultura manageriale”. Nel contempo aumentano la domanda di salute e le aspettative del pubblico nei confronti della medicina, con attese al limite del miracolistico. Compaiono fenomeni prima ignoti come la conflittualità medico-legale e il  burn out12,13.

Questa breve disamina ha lo scopo di rafforzare l’affermazione che il professionalism non è esclusivamente l’insieme di caratteri e valori che – oltre alla competenza tecnico-professionale – fanno di un medico un “buon medico”. La professione non è completamente libera nel definire autonomamente competenze e modi operativi dei medici, in realtà non lo è mai stata, neanche quando l’immagine sociale del medico era associata a grande autorevolezza ed autonomia. Da sempre la professione ha dovuto fare i conti con le attese sociali e col potere politico e ancora di più adesso, che la sua autonomia è fortemente messa in discussione.

Se la professionalità è un costrutto complesso, derivante dalla interazione tra competenze e atteggiamenti personali, principi professionali e interpretazioni socialmente costruite, allora essa deve essere valutata in modo multimodale e multidimensionale14 e il suo sviluppo negli studenti di medicina deve essere osservato secondo una prospettiva longitudinale di “valutazione per l’apprendimento”15. Ciò richiede l’esecuzione di numerose prove di valutazione formativa, di complessità crescente, integrate trasversalmente in diversi corsi integrati, preferibilmente in quelli ad orientamento più metodologico. Si trascorre così dalla dimensione inter-personale del rapporto medico-paziente, alle considerazioni di ordine socio-culturale, al quelle di natura organizzativa ed economica, fino a quelle deontologiche e legali. Un esempio di possibile organizzazione di un percorso formativo per il professionalism è mostrato in Fig. 1 e Fig. 2.

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Il prezzo del non presidiare in maniera esplicita questo processo di formazione è quello di lasciare spazio libero al “curriculum nascosto” (hidden curriculum), che è comunque in azione nel formare l’immagine di medico negli studenti, a partire dagli esempi osservati, non sempre positivi o positivamente criticati e assimilati. Uno studio condotto a Milano dimostra come vengano spesso assimilati modelli di tipo paternalistico e proni a norme di condotta che ufficialmente non sono incoraggiate20.

Uno studio condotto su studenti romani21 dimostra la presenza di caratteri di altruismo e moralità personale, focalizzazione sui rapporti interpersonali ma anche sul preminente valore della competenza tecnica e su un’idea – oggi irrealistica – di dominanza professionale. Mancano completamente l’idea di responsabilità sociale e di attenzione agli aspetti organizzativi ed economici. Questo quadro è riconducibile ai modelli di professionalism che Hafferty22 ha definito come “nostalgic” e “unreflective”.

In sintesi possiamo considerare il professionalism come il contesto della competenza medica, cioè l’insieme di regole, di condizioni e di significati in cui si esplica l’opera del medico, nonché la capacità di riflessione critica sulla competenza tecnica, per operare scelte professionalmente competenti quando sono in gioco elementi dilemmatici o di complessità. La formazione di un professionalism  maturo è basata su  percorsi longitudinali e trans-disciplinari, iterativi secondo il criterio dello spiral learning, in cui attività formative e di valutazione multimodale ripetuta siano integrate tra loro e appoggiate dall’esercizio della riflessione esplicita.

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Cita questo articolo

Consorti F., Il professionalism, teoria e attualità, Medicina e Chirurgia, 62: 2811-2813, 2014. DOI:  10.4487/medchir2014-62-6

Il libro per chi fa a meno dei (degli altri) libri di Abū’l-Qāsim Khalaf ibn ‘Abbās al-Zahrāwīn.61, 2014, pp.2753-2759, DOI: 10.4487/medchir2014-61-8

Abstract

For several centuries in the Latin Middle Ages and until the modern era, the name of the Spanish Muslim al-Zahrāwī (d. 1013?) is well known: the thirtieth book of his treatise on medicine al-Taṣrīf li-man ‘ajiza ‘an al-ta’ālif, dedicated to surgery, was studied and taught by the most famous physicians, from Rogerius Salernitanus (12th century) to Fabricius ab Aquapendente (d. 1619), and his techniques, many of which completely original, were applied and imitated by many. This work provides hints on what is known about his life and his work, and presents some significant passages on surgeries performed by him, and surgical instruments which he described.

Articolo

A seconda del campo in cui si svolge per la maggior parte del tempo la loro attività, nel mondo islamico medievale i medici possono essere divisi approssimativamente in tre grandi gruppi: l’internista, l’oculista, il chirurgo. Il medico più tenuto in considerazione è sempre e dovunque l’internista, considerato anche il maggior teorico della disciplina; solo dopo di lui, abbastanza dopo, vengono l’oculista e il chirurgo, entrambi considerati dei tecnici, sia pure di livello elevato1:  l’oculista – importante, data la grande diffusione di malattie degli occhi, dallo pterigio al tracoma – e il chirurgo, necessario, come ben si comprende, non solo in pace ma anche in guerra, sul campo di battaglia.

Il ruolo subalterno della chirurgia, ruolo che vede il chirurgo costretto ad attività limitate e per così dire di ultima sponda, dipende da motivi pratici e anche teorici:

pratici. Nell’antichità e nel Medioevo non esistono, o esistono solo in una forma molto rudimentale, due grandi e indispensabili collaboratrici del chirurgo:

l’anestesia, necessaria per effettuare interventi di una certa importanza (si utilizzano oppiacei e stupefacenti di tipi diversi, che però non sono risolutivi);

l’antisepsi, che deve garantire il felice esito nel periodo post-operatorio.

Da ciò consegue il fatto che le operazioni che il chirurgo riesce a compiere sono di solito piccoli interventi: salassi, scarificazioni, cauterizzazioni, riduzioni di fratture etc., e tutto questo solo raramente lo porta a chiara fama;

teorici. Da Galeno e da tutta la medicina antica:

il corpo umano è considerato come una sorta di paradigma della bellezza, e lo studio dell’anatomia umana come la porta che conduce dalla medicina alla filosofia e alla riflessione sulla divinità;

l’organismo è considerato come un tutto, come una bilancia il cui equilibrio deve essere mantenuto o restaurato.

Sulla base di queste considerazioni – la medicina è la scienza, scrive Galeno, che si preoccupa di mantenere la salute se c’è, o di ristabilirla se è perduta – compito del medico è occuparsi dell’intero organismo e di cercare di mantenere o di ristabilire la condizione equilibrata naturale che gli è propria. Né l’una né l’altra cosa sono curate dalla chirurgia, scienza che necessariamente si occupa di parti, e che non è conservativa, ma compie sul corpo interventi che sono duri e invasivi.

Nonostante le difficoltà e gli impedimenti, il chirurgo, sia egli d’urgenza, come il medico di guerra, o il risolutore di parti difficili, si rivela tuttavia in molti casi indispensabile; della sua attività sono testimoni non solo i testi, in qualche caso generosamente illustrati con tavole anatomiche e immagini della strumentazione chirurgica (mannaie e coltelli di diverse misure, cateteri e siringhe per irrigazioni, apparecchi per flebotomia, aghi cavi per la rimozione della cataratta, cucchiai affilati per tonsillectomia e operazioni di diverso tipo)2, ma anche un certo numero di reperti archeologici e di strumenti ricostruiti a partire dalle descrizioni dei testi, conservati nei musei di tutto il mondo.

Una molto ampia documentazione – testo e immagini – sulla chirurgia praticata nel mondo islamico tra X e XI secolo si può trovare nella figura e nell’opera di un chirurgo musulmano di Spagna, Abū’l-Qāsim Khalaf ibn ‘Abbās al-Zahrāwī3, cui molto devono in seguito la chirurgia del Medioevo latino e  la chirurgia e medicina italiana e francese della prima epoca moderna.

Abū’l-Qāsim Khalaf ibn ‘Abbās al-Zahrāwī

Noto nel mondo latino come Abulcasis / Albucasis, Alsaharavius e diversi altri nomi4, al-Zahrāwī nasce (come si vede dalla sua isba ((Nome di attribuzione, o relativo, che indica l’origine, la provenienza o l’appartenenza.))) ad al-Zahrā’ presso Cordova, intorno al 936 (Anno della fondazione di al-Zahrā’, la Versailles di Spagna, da parte del Califfo ‘Abd al-Raḥmān III (m. 961).)), e muore nella stessa città, secondo alcuni intorno al 1036, secondo altri (Leone Africano) nel 10135; altre date tuttavia sono state proposte, e la questione è tuttora incerta. Molto poco si sa della sua vita: forse i suoi antenati vengono dall’Arabia (epoca della conquista), e appartengono all’aristocrazia di origine medinese (al-anṣār) vicina al Profeta; certo è che vive in un periodo di grande splendore per la storia della Spagna musulmana. Secondo alcuni, diviene medico personale del califfo omayyade ‘Abd al-Raḥmān III, o di Ḥakam II suo successore, o di al-Manṣūr, il suo famoso ministro; la circostanza è tuttavia poco probabile, perché, anche ammettendo che egli stesso taccia la cosa per modestia, nessuno dei suoi biografi6 ne  fa menzione.

Una indagine sulla personalità scientifica e anche umana di al-Zahrāwī rivela, in primo luogo, tratti di grande umanità e  dedizione alla professione: ammirevoli sono, ad esempio, la cura e l’amorevolezza che dimostra verso i malati e il disinteresse con cui prodiga le sue cure.  Scrive di lui il copista del ms. Istanbul, Süleymaniye ‘Umūmī Kütüphanesi, Veliüddin 2491, f. 228b:

Mi è stato detto che al-Zahrāwī – Dio abbia misericordia di lui – era estremamente ascetico; che metà del suo lavoro ogni giorno la faceva gratuitamente, come carità, e che scrisse questo compendio per i suoi figli in un periodo di quarant’anni. 

I suoi figli, qui menzionati, dovrebbero essere i suoi allievi, o comunque i medici della generazione che lo segue; nel Medioevo islamico, come è noto, una parte rilevante dell’insegnamento, in particolare nelle scienze ‘operative’, si realizza in un rapporto di apprendistato presso il maestro (si veda, ad esempio, in medicina, la presenza degli allievi nei padiglioni, nelle aule e nella biblioteca dell’ospedale7), e può accadere anche che l’allievo vada ad abitare per un certo tempo nella casa del suo maestro.

Nato e morto nella stessa regione e nello stesso luogo, al-Zahrāwī, a differenza di altri studiosi e medici come ad esempio Avicenna, non è uomo che fa grandi viaggi. Si occupa di medicina per cinquant’anni, scrive una sola opera, capitale: Taṣrīf li-man ‘ağiza ‘an al-ta’ālif  [Il libro per chi fa a meno dei (degli altri) libri]8, enciclopedia medica in trenta libri, completandola intorno all’anno 1000. Discute, in questa opera, non solo di chirurgia (trentesimo libro del Taṣrīf,  primo trattato razionale e completo sul tema), ma anche di farmacologia, di preparazioni cosmetiche, di cucina e dietetica, pesi e misure, terminologia tecnica della medicina, chimica medica, terapeutica e psicoterapia.

Il Taṣrīf

Nel trentesimo trattato del Taṣrīf, dedicato alla chirurgia, al-Zahrāwī dichiara di voler seguire gli antichi (auctoritates), da Ippocrate a Paolo di Egina. Uomo dotto e di solida erudizione, non si comporta, tuttavia, come un pedissequo lettore di libri: dando prova di essere un chirurgo lungamente formato ‘sul campo’, le operazioni che egli descrive sono spesso resoconti di vita vissuta; elaborazioni sue proprie, o comunque appartenenti alla pratica araba contemporanea.

In chirurgia, oltre a interventi relativamente semplici e collaudati, come la tonsillectomia, e l’estrazione della safena nel caso di vene varicose, pratica la litotomia e descrive l’estrazione di calcoli per via vaginale; risolve dislocazioni e riduce fratture, intervenendo con successo, in particolare, sulla frattura della rotula; consolida con fili d’oro i denti che si muovono, e accenna al riposizionamento e alla legatura di denti caduti e all’utilizzazione di denti artificiali di osso di bue; lega le arterie e raccomanda diversi tipi di budelli e fili per sutura; applica gessi e bende alle fratture; introduce, in ostetricia, la posizione più tardi detta ‘di Walcher’9; inventa diversi tipi di forcipi e di strumenti chirurgici. Nella descrizione di operazioni chirurgiche, presenta, a parole e con illustrazioni, gli strumenti utilizzati, fornisce in dettaglio i modi della loro utilizzazione, e i tempi e i modi degli interventi dei collaboratori (si noti che anche nel Medioevo islamico la chirurgia si presenta regolarmente come un lavoro di équipe, in cui all’abilità del chirurgo deve aggiungersi quella dei suoi assistenti).

Come abbiamo in precedenza accennato, l’attività di al-Zahrāwī non si limita alla chirurgia. In medicina, descrive diverse malattie, tra cui l’idrocefalo10 e, forse, l’emofilia11; in un rapporto diretto e continuo con il paziente, prescrive misure igieniche, diete per salute e malattia, medicine di buona qualità (nel Medioevo molto spesso il medico prepara egli stesso le medicine). Estende le sue considerazioni all’educazione dei bambini, al buon comportamento, anche a tavola; compie utilissime valutazioni sull’istruzione scolastica e sulla preparazione accademica, ed è in questo contesto, mentre si muove nel campo che gli è più caro, che espone con grande chiarezza l’alto concetto che ha della sua scienza: a suo parere, sarebbe bene iniziare gli studi di medicina dopo avere ricevuto una educazione in lingua, grammatica, religione, poesia, matematica, astronomia, logica e filosofia12.

I suoi interessi, già come si vede molto ampi, vanno anche oltre la medicina: è esperto di scienza naturale e chimico applicato; descrive flora e fauna spagnole, fornendo dati utilissimi per la storia della botanica; cita medicine semplici di origine minerale, vegetale e animale, come si trovano, come si conservano etc. Discute metodi tecnici per purificare sostanze chimiche come il litargirio (ossido di piombo II), la cerussa (o biacca, carbonato di piombo), la pirite (un solfuro di ferro), i vetrioli (in genere sono solfati), il verderame; raccomanda l’uso di minerali, di elementi e anche di pietre preziose a scopo terapeutico.

In psichiatria fa uso di droghe, e non è il solo. Tra queste, un preparato a base di oppio, che rilassa, toglie le preoccupazioni, modera i temperamenti e agisce contro la melancolia.

Come chirurgo al-Zahrāwī è certamente insuperato almeno fino al XIII secolo. Nel Medioevo islamico non ha molto seguito, anche se di lui si moltiplicano le citazioni, ma nell’Occidente latino diviene presto ben noto. Il suo trattato sulla chirurgia, tradotto da Gerardo da Cremona – Toledo, XII secolo – con il titolo di Liber Alsaharavi de cirurgia, diviene famosissimo, ed esercita poi una grande influenza su chirurghi italiani e francesi. Tra i molti medici che lo utilizzano e su di esso fondano le loro conoscenze, dal Medioevo all’età moderna: Rogerio Frugardi (Rogerius Salernitanus, XII secolo)13 e il suo allievo Rolando Capelluti (Rolandus Parmensis, m. dopo il 1279)14, Guglielmo da Saliceto (m. 1277), e forse Arnaldo da Villanova (m. 1311)15. Nel XIV secolo, Guy de Chauliac (m. 1368)16 accosta Albucasis a Ippocrate e Galeno; e ancora nel XVII secolo, Girolamo Fabrici17 (Fabricius ab Aquapendente, m. 1619) lo menziona tra i tre autori a cui deve di più: il romano Celso, il greco Paolo di Egina e, appunto,  l’arabo Albucasis.

Testi

Presentiamo qui di seguito alcuni capitoli del trattato del Taṣrīf  sulla chirurgia: questo perché una corretta comprensione della mentalità e del contesto in cui il chirurgo musulmano del Medioevo si trova a operare si può ottenere soltanto con una diretta meditazione sui testi. Ai primi quattro capitoli che riguardano la pratica chirurgica, direttamente eseguita dal medico, abbiamo aggiunto una sezione dedicata al trattamento dei parti difficili: qui, come è noto, dato il fatto che nella tradizione islamica il medico, uomo, non può intervenire direttamente sulla paziente, le indicazioni fornite dal medico hanno la funzione di  istruzioni per le levatrici. La necessità di ricorrere a terze persone nella diagnosi e nella cura delle pazienti è deplorata con forza dai medici, e dallo stesso Zahrāwī, ed è forse per questo che nella Spagna del XII secolo è segnalata l’esistenza di  dottoresse18, appartenenti alla famiglia del grande medico Avenzoar,  delegate alla cura delle  donne dell’harem del califfo.

1 – Il trattamento della tumescenza delle tonsille e di altre tumescenze che si formano nella gola (Taṣrīf  30.2.36, op. cit.3, pp. 300-305;  v. infra figura alla fine dell’articolo).

A volte si producono nella gola dei bubboni chiamati ‘tonsille’, che somigliano ai bubboni che si producono all’esterno del corpo. Quando hai usato i rimedi descritti nel loro luogo (nella sezione ad essi dedicata), senza effetto, esamina, e se la tumescenza è dura, scura, e priva di sensazione non toccarla con uno strumento. Se è rossa, con una radice grossa, non toccarla ugualmente con uno strumento, per paura di una emorragia, ma lasciala maturare; a questo punto puoi perforarla o lasciarla scoppiare per conto suo. Ma se è di colore pallido, rotonda, con un peduncolo sottile, questo è il tipo che si dovrebbe tagliare.

Prima di operare bisogna vedere se la sua (del paziente) tumescenza infiammata è già completamente esaurita o in qualche misura diminuita. Allora fa sedere il paziente alla piena luce del sole con la sua testa sul tuo grembo. Apri la sua bocca, ed abbi un assistente davanti a te che gli spinga in basso la lingua con uno strumento come questo. Dovrebbe essere fatto di bronzo o d’argento, e sottile come un coltello. E quando la lingua è abbassata con il suo aiuto, la tumescenza ti sarà  manifesta e il tuo sguardo diretto vi cadrà sopra. Allora prendi un uncino e fissalo in una tonsilla e tirala in avanti quanto più puoi, ma sta attento a non tirare via con essa qualche parte di mucosa. Poi tagliala con uno strumento di questa forma. E’ come una forbice, eccetto che le sue estremità sono curve, con il becco di ognuna che incontra l’altro, e molto affilato. Dovrebbe essere fatto di ferro indiano o di acciaio di Damasco. Se non hai questo tipo di strumento, tagliala con uno scalpello di questa forma, da una parte affilato, dall’altra completamente smussato. E quando una tonsilla è stata tagliata, rimuovi l’altra esattamente allo stesso modo. Poi, dopo l’operazione, fa fare al paziente dei gargarismi con acqua fredda o aceto e acqua. Ma se si verifica una emorragia, fagli fare gargarismi con acqua in cui sia stata bollita scorza di melograno o foglie di mirto o simili astringenti finché cessa l’emorragia: poi curalo finché sarà ristabilito…

2. Sul modo di irrigare la vescica con una siringa e le forme degli strumenti che servono a questo (Ibidem, 30.2. 59, pp. 406-409).

61_10_1Quando si produce un’ulcera nella vescica, o vi è dentro un grumo di sangue o un deposito di pus, e tu vuoi instillarvi dentro lozioni e medicamenti, questo si fa con l’aiuto di uno strumento chiamato siringa. E’ fatto di argento o di avorio, cavo, con un lungo tubo fine, come una sonda, interamente cavo, eccetto per la fine che è solida con tre buchi, due da un lato e uno dall’altro come vedi. La parte cava che contiene lo stantuffo è di una misura tale da poter essere esattamente chiusa da esso, in modo che ogni liquido sia aspirato quando lo tiri su; e quando lo spingi giù è spinto in un getto, come è fatto dal proiettore quando si spruzza la nafta nelle battaglie navali. Dunque, quando vuoi iniettare un fluido nella vescica, immergi la punta della siringa nel fluido e tira su il pistone, perché il fluido sia aspirato nella cavità della siringa. Poi introducila nell’uretra come abbiamo descritto per la cateterizzazione; poi espelli il fluido per mezzo del pistone; il fluido scorrerà immediatamente nella vescica e il paziente avvertirà il suo ingresso…

3. L’escissione delle varici (Ibidem, 30.2. 90, pp.  594-597).

Le varici sono vene contorte e ingrossate, piene di superfluità melancoliche. Si verificano in molte parti del corpo, ma generalmente nelle gambe, in particolare nelle gambe dei corrieri, dei contadini e dei facchini. Per prima cosa devi purgare il corpo dalla bile nera, più volte, con forza; poi devi fare un salasso nella vena basilica19. Il trattamento chirurgico (lett.: con il coltello) è di due tipi: uno è che si incide e si porta fuori tutto il sangue nero, l’altro è che si tira fuori la vena e si estrae.

L’incisione si fa in questo modo: prima di tutto tampona (fai un impacco) per bene la gamba con l’acqua calda finché (in modo che) il sangue denso e torbido si sciolga. Poi lega con una benda la gamba del paziente, da sopra alla (dalla parte alta della) coscia a sotto il ginocchio. Poi incidi la vena, con una incisione ampia, in un solo punto, o in due o tre punti. Poi estrai il sangue nero [premendo] con la mano dalla parte bassa della gamba verso l’alto e dall’alto verso il basso, finché viene fuori, del sangue, la quantità che ti sembra sufficiente, o quella che è in grado di sopportare la forza del paziente. Poi fasciala, e ordinagli (al paziente) di astenersi dai cibi che generano la bile nera. L’evacuazione e il salasso si ripetono quando le vene si riempiono di nuovo e ciò reca danno al paziente.

L’estrazione si fa in questo modo: radi la gamba del paziente se è molto pelosa, poi fallo entrare nel bagno e fa’ impacchi alla gamba con l’acqua calda finché diventa rossa e le vene si riempiono. Oppure, se non c’è bagno a disposizione, fagli fare esercizi violenti finché l’arto diviene caldo. Poi pratica una incisione longitudinale nella pelle sopra la vena, o in corrispondenza dell’estremità superiore di essa vicino al ginocchio o nella parte bassa vicino alla caviglia. Poi con gli uncini apri la pelle e distacca la vena da ogni parte finche essa è tutta aperta alla vista. Quando è visibile, la vedrai di color rosso porpora (rosso scuro), e quando è liberata dalla pelle la vedrai come se fosse una corda. Allora introduci sotto di essa un bastoncino, finché, quando si è sollevata ed è uscita dalla pelle, la agganci con un uncino spuntato e levigato. Poi, vicino a quella incisione, fai un’altra incisione ad una distanza di tre dita, e distacca la pelle dalla vena finché diviene visibile. Poi sollevala con il bastoncino come hai fatto in precedenza, e agganciala con un altro uncino come hai fatto prima. Poi fai un’altra incisione o diverse altre, se ne hai bisogno.  61_10_2Poi estrai la vena e tagliala all’altezza dell’incisione più bassa, presso la caviglia, poi tirala ed estraila (tirala fuori) finché emerge dalla seconda incisione. Poi tirala verso l’incisione che è sopra di essa. Fa’ questo finché la tiri dalla terza incisione, che è al di sopra di tutte le altre, finché è uscita tutta: allora taglia. Se non risponde ai tuoi tentativi di tirare e di estrarre, infila in un ago un filo forte e doppio, legala e tirala; introduci sotto di essa il bastoncino e gira con esso la tua mano in ogni direzione finché viene fuori; ma sta attento che non si rompa, perché se si rompe, l’estrazione totale ti sarà molto difficile e da ciò verrà un danno al paziente. Quando hai finito (l’hai estratta tutta), applica alle incisioni lana imbevuta in uno šarāb (it. => sciroppo) e in olio di rose, o in olio [di oliva], e curalo (il paziente) finché si sarà ristabilito…

4. Il trattamento della dislocazione del ginocchio (Ibidem  30.3. 32, p. 828-9).

La dislocazione del ginocchio può essere di tre tipi: verso l’interno, verso l’esterno e verso il basso, cioè posteriore. Non c’è mai dislocazione anteriore. Per sapere se vi è dislocazione, ordina [lett.: il segno della dislocazione è che tu ordini] al paziente di flettere la gamba verso la coscia: se non raggiunge (riesce a raggiungere) la coscia, sappi che il ginocchio è dislocato. Il modo di mettere a posto tutti i tipi di dislocazione del ginocchio è far sedere il paziente con entrambe le gambe distese, se può, con un assistente che siede dietro di lui per tenerlo per la vita e lo tenga un po’ inclinato all’indietro. Poi tu devi sederti sulle sue cosce con la tua schiena rivolta verso la sua fronte e mettere la sua gamba tra le tue; poi devi applicare le palme delle tue mani al suo ginocchio, e unirle insieme allacciando le dita; poi, con le palme, devi esercitare una forte pressione su entrambi i lati del suo ginocchio, mentre un altro assistente gli tira la gamba, finché il ginocchio torna al suo posto. Il segno che il ginocchio è tornato al suo posto è che la gamba può essere flessa indietro facilmente e senza impedimento. Poi applica ad esso (ginocchio) una benda; piega la gamba sulla coscia e fasciali insieme per tre o quattro giorni; poi scioglili. Dovrebbe camminare poco per alcuni giorni finché riguadagna le forze. Ma se non puoi effettuare la riduzione con questo metodo, applica una potente estensione  con le bende come descritto sopra per il trattamento dell’anca, finché torna a posto.

5. Addestramento delle levatrici su come trattare feti viventi quando non escono nel modo naturale (Ibidem, 30.2. 75, pp.  468-471).

Per cominciare, la levatrice deve sapere come avviene un travaglio normale. Tra i segni di questo, eccone alcuni. Se vedi che la donna sforza il suo addome e desidera respirare più aria e le doglie le vengono facilmente ed essa si affretta a spingere fuori il bambino, da questo tu sai che il travaglio seguirà un corso normale e che si presenterà la testa con la placenta o insieme con il bambino oppure attaccata al cordone ombelicale. E quando osservi questi segni sarà necessario spingere sull’addome per fare uscire rapidamente il bambino. Perché quando si presenta di testa la placenta viene giù con essa ed essa (la partoriente) è subito liberata da queste superfluità.

Ma un parto che è contrario a questo è innaturale e sbagliato. A volte il bambino è partorito dai piedi, o dalle mani, prima che dalla testa o dai piedi, o una singola mano o piede, oppure la testa viene insieme con un piede. Oppure viene fuori tutto contorto,  mostrando per primo la nuca del collo, o in altre posizioni sbagliate. Così la levatrice deve avere sapienza e destrezza ed essere accorta in tutti questi casi e guardarsi da insuccessi ed errori. Io spiegherò la tecnica da seguire in questi tipi di parto  in modo che essa possa essere istruita e informata di tutti.

Quando il feto viene fuori dalla testa nel modo normale e tuttavia vedi che il parto è di grande difficoltà per la donna, e vedi che le sue forze stanno venendo meno, allora falla sedere su una sedia, tienila saldamente  e fomenta il suo grembo in un decotto di fienogreco e olii blandi. Poi la levatrice dovrebbe tenere tra due dita un piccolo scalpello e praticare una incisione nella membrana fetale, o aprirla con l’unghia del dito per permettere alle acque contenute di scorrere via; ed esercitare una pressione sull’addome della donna finché il feto viene fuori. Ma se non uscirà allora la donna dovebbe ricevere un clistere di mucillagine di fienogreco con olio di sesamo. Poi dopo il clistere, ordinale di premere e con ptarmica stimolala a starnutire; chiudile la bocca ed il naso per un attimo e il feto verrà fuori alla svelta.

Se si presentano le mani del feto, dovresti lentamente e gentilmente spingerle indietro, e se non vanno indietro, allora metti la donna su di una sedia con i piedi alzati, e intanto muovi la sedia; ma la donna dovrebbe essere tenuta durante il movimento perché non cada. Ma se le mani non vanno indietro e il feto è morto, tagliale (le mani) e tira fuori quel che rimane. Oppure lega dei nastri alle mani e tirale fuori con calma, e verrà fuori.

Presentazione podalica: quanto il feto si presenta con  i piedi, per prima cosa tu dovresti alzarli entrambi, poi dovresti molto gentilmente girare il feto in modo da raddrizzarlo. Poi prendi uno dei piedi e tiralo gentilmente. Quando vengono fuori fino alle anche, ordinale di premere, falla starnutire con ptarmica,  e verrà fuori. Ma se non verrà fuori con questi mezzi che abbiamo descritto, dovresti rigirare gentilmente il feto finché lo avrai posto nella posizione naturale; allora verrà fuori facilmente.

Ma se sfida tutto ciò che abbiamo descritto, prendi mucillagine di altea, fienogreco, olio di sesamo e gomma disciolta,  pestali bene insieme nel mortaio e ungi i genitali della donna e la parte bassa del suo addome, poi falla sedere in acqua calda fino alle costole. E quando vedi che le parti basse sono ammorbidite, fa una supposta di mirra e fagliela mettere, e quando ha preso la supposta, in un attimo falla starnutire, chiudendole il naso e la bocca, e premi gentilmente sull’addome; allora il feto emergerà immediatamente… 

Nonostante il ruolo di primo piano che gli è riconosciuto nella storia della medicina, il Taṣrīf  è forse ancora troppo poco indagato; ciò può dipendere anche dal fatto che dei suoi manoscritti molti non contengono l’intera opera, ma solo, come spesso avveniva in questi casi, singole parti copiate dagli interessati, e non sempre in bella scrittura. Dopo la prima traduzione in un lingua moderna europea, pubblicata da Leclerc nel 186120, alcuni studi rilevanti sono stati tuttavia effettuati sia nell’ambito di storie generali della medicina e della chirurgia che in ricerche dedicate specificamente a Zahrāwī21.  Altri studi condotti su trattati del Taṣrīf che precedono il trentesimo22, e in particolare su sezioni dedicate alla farmacologia23, costituiscono recenti e interessanti aperture volte a riconoscere il valore di al-Zahrāwī oltre che come chirurgo e come internista, come membro di spicco della comunità scientifica e della società musulmana di Spagna degli inizi dell’XI  secolo.

61_10_3

Cyrurgia Albucasis 30.2.36, in: Guy de Chauliac, Cyrurgia parva…, Venetiis 1500, ff. 6r – 42v, f. 17r: a destra gli strumenti utilizzati nella tonsillectomia, a sinistra la legatura  dei denti instabili.

 

Bibliografia

1) Albucasis, On surgery and instruments. A definitive edition of the arabic text with english translation and commentary, M.S. Spink G.L. Lewis edd., Berkeley Los Angeles, University of California Press, 1973.

2) Champier S., Arnaldi Vita, in: Arnaldi de Villanova medici acutissimi opera nuperrime revisa…, Lyon, G. Huyon, 1520.

3) Chavoushi S.H., Surgery for gynecomastia in the Islamic Golden Age: al-Taṣrīf of al-Zahrawi (936-1013 AD), ISRN Surgery 2012 (2012), Article ID 934965, 5 pages (http://dx.doi.org/10.5402/2012/934965).

4) Donaldson I.M.L., The Cyrurgia of Albucasis and others works, 1500, J Roy Coll Phys Edimbugh 41.1 (2011), pp. 85-89.

5) Hamarneh S.K., al-Zahrāwī, in: Dictionary of Scientific Biography, C.C. Gillispie ed., XIV, New York, C. Scribner’s Sons, 1976, pp. 584-5.

6) Hamarneh S.K. G. Sonnedecker, A pharmaceutical view of Abulcasis al-Zahrāwī in Moorish Spain, Leiden, Brill, 1963.

7) Ibn Abī Uṣaibi‘a, ‘Uyūn al-anbā fī abaqāt al-aibbā, vv 2., al-Qāhira, al-maṭba‘at al-wahhabīya,1882.

8) Ibn al-῾Awwām al-Išbīlī, Le livre de l’agriculture, trad. fr. J.J. Clement Mullet, vv. 3, Tunis, Bouslama, 1983 (I ed. Paris, Librairie A. Frank, 1864-1866).

9) Ibn al-Baiṭār, al-Ğāmi‘ li-mufradāt al-adwiya wa al-aghdhiya, vv. 4 in tt. 2, [al-Qāhira], Dār al-Madīna, [1874].

10) Ibn Futūḥ al-Ḥumaidī, Ğadhwat al-muqtabis, ed. M. b. T. al-Tanjī, al-Qāhira, Maktab nashr al-thaqāfat al-islāmīya, [1953].

11) Issa Bey A., Histoire des bimaristans (hôpitaux) à l’epoque islamique, Le Caire, Imprimerie Paul Barbey, 1928.

12) Kaadan A.N. M. Angrini, Who discovered hemophilia?, J Int Soc History Islamic Med 8-9 / 15-16-17-18 (2009-2010), pp. 46-50.

13) Leclerc L., Histoire de la médecine arabe, vv. 2, Paris, E. Leroux, 1876, I, pp. 437-457 (rist. anast. Rabat, Ministère des habous et des affaires islamiques Royaume du Maroc, 1980).

14) Leclerc L., La Chirurgie d’Abulcasis, Paris, J.-B. Baillière,1861.

15) Leo Africanus (attribuito a), De viris quibusdam illustribus apud Arabes, in: J.H. Hottinger, Bibliothecarius quadripartitus, Tiguri, M. Stauffacher, 1664.

16) Maqqarī al-, Analectes sur l’histoire et la littérature des arabes d’Espagne, R. Dozy et al. edd., tt. 2, Amsterdam, Oriental Press, 1967.

17) Rogerius Salernitanus. Chirurgia  Magistri Rogerii, in: Collectio Salernitana II, Napoli, Sebezio, 1853 (rist. anast. Napoli, D’Auria, 2001).

18) Savage-Smith E., al-Zahrāwī, in The Encyclopaedia of Islam. New Edition, XI, Leiden, Brill, 2002, pp. 398-399.

19) Savage-Smith E., Médecine, in: Histoire des sciences arabes, sous la direction de R. Rashed, III. Technologie, alchimie et sciences de la vie, Paris, Seuil, 1997.

20) Turgut M., Surgical scalpel used in the tratment of “infantile hydrocephalus” by Al Zahrawi (936-1013 A.D.), Child Nerv Syst, 25.9 (2009), pp. 1043-1044.

21) Zahrāwī al-, Un tratado de estética y cosmética en Abulcasis, tr. L. M. Arvide Cambra, [Granada], Grupo editorial universitario, 2010.

22) Zahrāwī al-, Tratado de pastillas medicinales según Abulcasis, tr. L. M. Arvide Cambra, Almeria, Universidad de Almeria, 1996.

23) Zahrāwī al-, Un tratado de odontoestomatología en Abulcasis, tr. L. M. Arvide Cambra, Almeria, Universidad de Almeria, 2003.

24) Zahrāwī al-, Un Tratado de oftalmología en Abulcasis, tr. L. M. Arvide Cambra, Almeria, Universidad de Almeria, 2000.

25) Zahrāwī al-, Un tratado de polvos medicinales en al-Zahrāwī, tr. L. M. Arvide Cambra, Almeria, Universidad de Almeria, 1994.

26) Zanobio B., Fabrici, Girolamo, in: Dictionary of Scientific Biography, C.C. Gillispie ed., IV, New York, C. Scribner’s Sons, 1971, pp. 507-512.

Cita questo articolo

Carusi P., Il libro per chi fa a meno dei (degli altri) libri di Abū’l-Qāsim Khalaf ibn ‘Abbās al-Zahrāwī, Medicina e Chirurgia, 61: 2753-2759, 2014. DOI:  10.4487/medchir2014-61-8

  1. E. Savage-Smith, Médecine, in Histoire des sciences arabes, sous la direction de R. Rashed, III. Technologie, alchimie et sciences de la vie, Paris, Seuil, 1997, pp. 155-212, in particolare pp. 197-203. Si noti tuttavia che nel Medioevo, data la più o meno totale assenza di ogni idea di specializzazione, è praticamente impossibile incontrare medici che siano esclusivamente oculisti o chirurghi; si tratta, in genere, di esperti di medicina generale che dedicano una parte importante del loro lavoro all’oculistica o alla chirurgia []
  2. Illustrazioni che mostrano diversi tipi di interventi (emorroidi, dislocazioni, odontoiatria), e tavole anatomiche tratte da manoscritti sono mostrate in S.H. Nasr, Islamic Science. An Illustrated Study, [London], World of Islam Festival Publishing Company Ltd, 1976, Chapter VIII. Medicine and Pharmacology, pp. 153-192. In al-Jazarī, The book of knowledge of ingenious mechanical devices, transl.  D.R. Hill, Dordrecht, Reidel, 1974, tra i diversi congegni rappresentati in figura e di cui è spiegato il funzionamento, c’è anche (p. 77) un apparecchio per flebotomia, utilizzato per misurare la quantità di sangue che si preleva. []
  3. Su al-Zahrāwī, la sua biografia e la sua opera la nostra prima fonte è Albucasis, On surgery and instruments. A definitive edition of the arabic text with english translation and commentary, M.S. Spink G.L. Lewis edd., Berkeley Los Angeles, University of California Press, 1973.  Si vedano anche: L. Leclerc, Histoire de la médecine arabe, vv. 2, Paris, E. Leroux, 1876, I, pp. 437-457 (rist. anast. Rabat, Ministère des habous et des affaires islamiques Royaume du Maroc, 1980); S.K. Hamarneh G. Sonnedecker, A pharmaceutical view of Abulcasis al-Zahrāwī in Moorish Spain, Leiden, Brill, 1963; S. Hamarneh, al-Zahrāwī, in Dictionary of Scientific Biography, C.C. Gillispie ed., XIV, New York, C. Scribner’s Sons, 1976, pp. 584-5 ; E. Savage-Smith, al-Zahrāwī,  in The Encyclopaedia of Islam. New Edition, XI, Leiden, Brill, 2002, pp. 398-399. []
  4. Cfr. Hamarneh Sonnedecker, op. cit.3, p. 17. []
  5. Questa data è ritenuta probabile anche da Spink e Lewis, op.cit.3, p. VII; v. anche Hamarneh Sonnedecker, op. cit.3, pp. 18-22, 22. Leo Africanus (attribuito a), De viris quibusdam illustribus apud Arabes (completato nel 1527), in  J.H. Hottinger, Bibliothecarius quadripartitus, Tiguri, M. Stauffacher, 1664, p. 256. []
  6. Scrivono di lui, tra gli altri, ma solo in brevi citazioni, Ibn Ḥazm (m. 1064), Ibn Futūḥ al-Ḥumaidī (m. 1095), che di lui cita ciò che ha scritto Ibn Ḥazm, e Ibn Abī Uṣaibi‘a (m. 1270). Ibn Ḥazm, Risāla  fī faḍā’il ahl al-andalus, riportata per intero in al-Maqqarī, Analectes sur l’histoire et la littérature des arabes d’Espagne, R. Dozy et al. edd., tt. 2, Amsterdam, Oriental Press, 1967, II, p. 109 sgg. (la citazione di al-Zahrāwī si trova a p. 119; a p. 125, in ciò che Ibn Sa‘īd al-Maghribī aggiunge alla Risāla  di Ibn Ḥazm, e che al-Maqqarī puntualmente riporta, al-Zahrāwī è citato come fonte del grande farmacologo Ibn al-Baiṭār); Ibn Futūḥ al-Ḥumaidī, Ğadhwat al-muqtabis, ed. M. b. T. al-Tanğī, al-Qāhira, Maktab nashr al-thaqāfat al-islāmīya, [1953], p. 195, n. 421; Ibn Abī Uṣaibi‘a, ‘Uyūn al-anbā’ fī ṭabaqāt al-aṭibbā’,  vv 2., al-Qāhira, al-maṭba‘at al-wahhabīya,1882, II, p. 52. []
  7. Sugli ospedali islamici e il loro funzionamento è ancora utile: A. Issa Bey, Histoire des bimaristans (hôpitaux) à l’epoque islamique, Le Caire,  Imprimerie Paul Barbey, 1928. []
  8. Albucasis, On surgery…, op. cit.3.  Questo titolo ha creato molte difficoltà ai traduttori, ma nell’introduzione al Taṣrīf  lo stesso al-Zahrāwī ne spiega chiaramente il significato: si tratta di un libro che può essere utile al medico in molti modi, al punto che chi lo conosce può fare a meno degli altri libri (Hamarneh Sonnedecker, op. cit.3, pp. 36-7). []
  9. Posizione in cui la partoriente è distesa sulla schiena con le gambe che pendono dal letto. []
  10. M. Turgut, Surgical scalpel used in the tratment of “infantile hydrocephalus” by Al Zahrawi (936-1013 A.D.), Child’s Nervous System, 25.9 (2009), pp. 1043-1044. []
  11. Cfr. A.N. Kaadan M. Angrini, Who discovered hemophilia?, Journal of the International Society for the History of Islamic Medicine 8-9 / 15-16-17-18 (2009-2010), pp. 46-50. []
  12. Possiamo qui ricordare un altro grande medico, Avicenna, che tra le conoscenze necessarie del medico include anche la musica, indispensabile, scrive nel Canone, per il medico che voglia comprendere la pulsazione: dove la frequenza della pulsazione corrisponde, nella musica, al ritmo, e la durezza della vena al volume del suono. []
  13. Rogerio Frugardi (Rogerius Salernitanus) scrive intorno al 1170 un importante trattato dal titolo Practica Chirurgiae, noto anche come Chirurgia  Magistri RogeriiChirurgia  Magistri Rogerii, in Collectio Salernitana  II, Napoli, Sebezio, 1853 (rist. anast. Napoli, D’Auria, 2001). []
  14. La sua Chirurgia, che può essere considerata quasi come un commento di quella del suo maestro,  anche se non sempre del tutto concorde, è ristampata più volte, a partire dal 1498 (edizioni successive: 1499, 1516, 1519, 1541); le prime volte con Guy de Chauliac, la quinta volta, nel 1541, con Albucasis. []
  15. Nella sua Vita di Arnaldo, premessa all’edizione dell’Opera omnia pubblicata a Lione nel 1520 (Arnaldi de Villanova medici acutissimi opera nuperrime revisa…, Lyon, G. Huyon, 1520), S. Champier ricorda la conoscenza che Arnaldo ebbe della lingua araba e le traduzioni da lui effettuate da questa lingua (cita in particolare il De viribus cordis di Avicenna). []
  16. Chirurgo francese (c. 1300-1368), medico, ad Avignone, del Papa Clemente VI e di due suoi successori. Nella sua Cyrurgia magna (1363), opera usata come manuale di medicina per circa 300 anni, al-Zahrāwī è da lui indicato tra le sue fonti, e citato, anche letteralmente, più di 200 volte. In tre edizioni a stampa realizzate a Venezia negli anni 1497, 1499 e 1500, il suo trattato Cyrurgia parva  viaggia insieme alla Cyrurgia di al-Zahrāwī (traduzione latina di Gerardo da Cremona). []
  17. B. Zanobio, Fabrici, Girolamo, in Dictionary of Scientific Biography,  C.C. Gillispie ed., IV,  New York, C. Scribner’s Sons, 1971, pp. 507-512. []
  18. Leclerc, Histoire…, op. cit.3, II, p. 94. []
  19. La vena ancor oggi detta ‘basilica’ è la vena principale del braccio che corre verso l’ascella. Si noti qui l’utilizzazione del termine greco: basilik» = reale, è il nome di questa vena già nella medicina antica. []
  20. L. Leclerc, La Chirurgie d’Abulcasis, Paris, J.-B. Baillière,1861. []
  21. Segnaliamo qui due articoli apparsi recentemente su riviste pubblicate in rete in ambienti scientifici:  I.M.L. Donaldson, The Cyrurgia of Albucasis and others works, 1500, Journal of the Royal College of Physicians of Edinburgh 41.1 (2011), pp. 85-89.  S.H. Chavoushi, Surgery for gynecomastia in the Islamic Golden Age: al-Taṣrīf of al-Zahrawi (936-1013 AD), ISRN Surgery 2012 (2012), Article ID 934965, 5 pages (http://dx.doi.org/10.5402/2012/934965). []
  22. al-Zahrāwī,  Un tratado de estética y cosmética en Abulcasis, tr. L. M. Arvide Cambra, [Granada], Grupo editorial universitario, 2010. Della stessa studiosa: al-Zahrāwī, Un tratado de polvos medicinales en al-Zahrāwī,  Almeria, Universidad de Almeria, 1994; Tratado de pastillas medicinales según Abulcasis, Almeria, Universidad de Almeria, 1996; Un Tratado de oftalmología en Abulcasis, Almeria, Universidad de Almeria, 2000; Un tratado de odontoestomatología en Abulcasis, Almeria, Universidad de Almeria, 2003. []
  23. Cfr. in particolare Hamarneh Sonnedecker, op. cit.3.  Nel Taṣrīf , tra i libri e le sezioni dedicati alla farmacologia – le indicazioni farmacologiche sono disseminate in libri diversi – il libro 28, sulla preparazione dei semplici, è tradotto in latino, alla fine del XIII secolo, dall’ebreo Abraham Judaeus da Tortosa e da Simone da Genova, con il titolo Liber servitoris,  e più tardi  è stampato più volte, a partire dal 1471. Citazioni di preparazioni farmacologiche tratte dal Taṣrīf  si trovano, nei testi arabi, in due importanti trattati dedicati il primo a botanica e agricoltura, e il secondo alla farmacologia: Ibn al-‘Awwām e Ibn al-Baiṭār. Ibn al-῾Awwām al-Išbīlī, Le livre de l’agriculture, trad. fr. J.J. Clement Mullet, vv. 3, Tunis, Bouslama, 1983 (I ed. Paris, Librairie A. Frank, 1864-1866), Article 4, p. 797 sgg. (acqua di rose); Ibn al-Baiṭār, al-Ğāmi‘  li-mufradāt al-adwiya wa al-aghdhiya, vv. 4 in tt. 2, [al-Qāhira], Dār al-Madīna, [1874], I, pt. 2, p. 109 sg. (olio di mattoni). []

De humani corporis fabrica di Andrea Vesalion.60, 2013, pp.2705-2709, DOI: 10.4487/medchir2013-60-5

Abstract

Andreas Vesalius published his De humani corporis fabrica in Basle in 1543. This treatise substituted Galen’s anatomy based on animals, and founded modern human anatomy. It was revolutionary because for the first time it criticized Galen, the Greek physician who had dominated the history of medicine until then. Vesalius gave an important contribution to the development of scientific method: he affirmed that the anatomist should trust his own observations and refuse every authority. The 300 illustrations of this treatise, which are precise and beautiful, were reprinted and plagiarized for many years.

Articolo

Andrea Vesalio (1514-64) pubblicò nel 1543, a Basilea, presso l’editore Giovanni Oporino, il De humani corporis fabrica, un’opera rivoluzionaria che avrebbe segnato una svolta nella storia della medicina, fondando l’anatomia umana moderna e superando, almeno in parte, il galenismo ancora dominante. Vesalio aveva allora soltanto 28 anni, ma non era un giovane qualunque né per origini familiari né per formazione né per esperienze di ricerca. Era nato a Bruxelles il 31 dicembre 1514 da una famiglia benestante di solide tradizioni mediche. Suo padre, Andrea come il figlio, era un farmacista apprezzato alla corte imperiale di Carlo V.

Dopo la formazione primaria a Bruxelles e alcuni anni all’università di Lovanio, a cui si era iscritto nel 1530, Vesalio si trasferì a Parigi nel 1533 per studiare medicina, e qui divenne allievo di professori come Jacques Dubois (1478-1555), conosciuto con il nome di Sylvius, e di Guinther d’Andernach (1505-74): entrambi erano impegnati in studi anatomici come interpreti e seguaci fedeli del nuovo Galeno greco che l’edizione Aldina, pubblicata a Venezia nel 1525, aveva reso più facilmente accessibile. A Parigi, durante le lezioni anatomiche di Sylvius, Vesalio si prestò ad eseguire le dissezioni dei cadaveri che in genere erano affidate a barbieri o chirurghi, insomma a persone con abilità manuali ma senza nessuna cultura, che avevano il compito di isolare le diverse parti anatomiche, descritte dal professore agli studenti ex cathedra, secondo le parole di Galeno.

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Nel 1536 Vesalio fu costretto a lasciare Parigi per il nuovo conflitto franco-spagnolo, e dopo un breve soggiorno a Lovanio, in cui si laureò in medicina nel 1537, si trasferì a Padova, una sede universitaria di grande prestigio che richiamava molti giovani d’Oltralpe. Qui ottenne il titolo di dottore in medicina il 5 dicembre 1537 magna cum laude, e il giorno dopo ricevette l’incarico di insegnare anatomia e chirurgia nello stesso ateneo. Diversamente dalla pratica consueta, Vesalio eseguì sempre, in prima persona, le dissezioni dei cadaveri per gli studenti, senza affidarle ad altri. E per avere a disposizione immagini del corpo umano da mostrare agli studenti, in assenza del cadavere, pubblicò nel 1538 sei tavole anatomiche incise da un artista olandese allievo di Tiziano, Stephen von Calcar (1499-1546). Nello stesso anno, nel 1538, pubblicò per gli studenti anche una revisione delle Institutiones anatomicae del suo professore Guinther d’Andernach, un manuale di anatomia uscito nel 1536 e basato su Galeno.

L’ambiente padovano fu favorevole a Vesalio e alle sue ricerche anatomiche. Non era mai stato facile per lui – e neppure per gli altri – avere cadaveri umani da dissezionare, ma a partire dal 1539 Marcantonio Cantarini, un giudice del tribunale di Padova interessato all’anatomia, gli fornì quelli dei condannati a morte in buon numero. Le sue esperienze di dissezione furono quindi più frequenti, e sempre più evidenti gli apparirono le differenze tra il corpo umano che osservava sul tavolo settorio e quello descritto da Galeno, che pure gli era ben presente. Negli stessi anni, infatti, Vesalio si trovò a rivedere le traduzioni delle opere anatomiche di Galeno – compresa quella dei primi nove libri dei Procedimenti anatomici, pubblicata dal suo professore Guinther d’Andernach a Parigi nel 1531 – per l’edizione curata da Agostino Gadaldini (1515-75) e stampata dai Giunta a Venezia nel 1541-42. Maturò la convinzione che il corpo umano non dovesse essere studiato sui libri di Galeno, ma attraverso la dissezione e l’osservazione diretta. Per sua stessa ammissione, del resto, Galeno aveva dissezionato e vivisezionato soltanto animali – scimmie, buoi, maiali, capre, pecore, cani – e aveva attribuito all’uomo le strutture che aveva osservato in questi, sulla base del metodo analogico che aveva ereditato da Aristotele.

Dopo le lezioni tenute a Bologna nel gennaio 1540, in cui diede dimostrazione che Galeno aveva descritto le ossa della scimmia piuttosto che quelle dell’uomo, Vesalio intraprese a Padova la stesura di un trattato completo di anatomia che superasse Galeno. A questo lavorò per i due anni successivi, e nell’estate del 1542 si trasferì a Basilea per curarne la pubblicazione presso l’editore Giovanni Oporino. Il De humani corporis fabrica uscì nell’agosto 1543 piuttosto che in giugno, come si legge nel colofone.

Si tratta di un’opera innovativa, bella e monumentale di oltre 700 pagine in folio. È divisa in sette libri che trattano delle ossa (libro I), dei muscoli (libro II), dei vasi sanguigni (libro III), dei nervi (libro IV), degli organi addominali (libro V), di quelli toracici (libro VI), del cervello (VII). La corredano circa trecento immagini, incise su legno, numerose a tutta pagina, di grande impatto estetico – soprattutto quelle delle ossa e dei muscoli – ma anche di straordinaria funzione didattica ed esplicativa. Il testo contiene infatti continui rimandi alle immagini, in cui le diverse parti sono sempre contraddistinte da lettere alfabetiche, maiuscole e minuscole, che trovano corrispondenza e spiegazione nella legenda allegata. Il De humani corporis fabrica non è la prima opera anatomica illustrata, ma le sue immagini superano tutte le precedenti per ricchezza, precisione e bellezza: furono in seguito ristampate e plagiate numerose volte e nel complesso dominarono l’illustrazione anatomica fino al Settecento.

Quanto al contenuto del De humani corporis fabrica, i primi due libri sono i più innovativi. Esemplari sono le descrizioni di Vesalio della mascella, dello sterno, dell’omero, del femore, della tibia, del perone, come pure le sue dimostrazioni che Galeno aveva descritto le stesse ossa, ma non quelle dell’uomo, piuttosto della scimmia. Gli altri libri, che trattano organi con una fisiologia più complessa, dipendono ancora massicciamente da Galeno. Ma anche in questi Vesalio fa importanti osservazioni, tra cui: la vena cava non parte direttamente dal fegato, come pensava Galeno, che le attribuiva la funzione di trasportare al cuore il sangue che sarebbe stato prodotto dal fegato (libro V); il setto interventricolare del cuore non contiene pori invisibili – come sosteneva Galeno – attraverso i quali il sangue sarebbe passato dal ventricolo destro a quello sinistro (libro VI); alla base del cervello non c’è la cosiddetta rete mirabile, un’area fittamente vascolarizzata – come pensava Galeno che l’aveva osservata negli ungulati – che avrebbe avuto il compito di filtrare il sangue e produrre il pneuma psichico, responsabile delle facoltà mentali, delle sensazioni e dei movimenti (libo VII); il nervo ottico non è cavo, come pensava Galeno, secondo cui tutti i nervi sarebbero stati percorsi dal pneuma psichico (libro IV). Queste osservazioni, che Vesalio talvolta condivise con anatomisti a lui precedenti – come nel caso della rete mirabile già negata da Jacopo Berengario da Carpi (1466-1530), il più importante anatomista pre-vesaliano attivo a Bologna – avrebbero avuto conseguenze devastanti per la fisiologia galenica, che tuttavia per il momento non fu attaccata: Vesalio espresse su questa diverse perplessità, ma non andò oltre. La prima scoperta fisiologica che supera Galeno riguarda la circolazione del sangue, e fu fatta nel secolo successivo da William Harvey (1578-1657), un medico inglese che non a caso la mise a punto a Padova, dove soggiornò tra il 1600 e il 1602.

Gli errori anatomici di Vesalio contenuti nel De humani corporis fabrica furono in seguito corretti, ma la sua lezione di metodo rimase fondamentale e insuperata nella storia della medicina e della scienza: priorità dell’osservazione e rifiuto di ogni autorità, compreso Galeno che era stato per secoli dominante. Vesalio ripete questa sua lezione in tutto il De humani corporis fabrica, ma la esplicita soprattutto nella prefazione dell’opera che indirizza a Carlo V, l’uomo politico allora più potente, presso il quale suo padre prestava servizio. Qui Vesalio critica la medicina del tempo che ha perso la sua unità, si è frantumata in molteplici specialità e ha abbandonato con disprezzo la manualità. Ne è conseguita una profonda decadenza della chirurgia, praticata da persone incolte, come pure dell’anatomia. La medicina, secondo Vesalio, può rinascere soltanto se pone al centro l’anatomia, intesa come pratica settoria che il medico deve fare in prima persona, senza affidare ad altri il coltello, fidandosi dei suoi occhi e ripetendo le osservazioni. Galeno non è autorevole tanto da sostituire l’esperienza. Vesalio quindi attacca Galeno perché non ha mai aperto cadaveri umani, ma quelli di animali, e con una certa arroganza afferma che Galeno avrebbe commesso addirittura duecento errori in una sola dissezione.

Tutto questo è rappresentato efficacemente nel frontespizio del De humani corporis fabrica. Al centro della scena c’è il cadavere di una donna, a cui è stata appena aperta la cavità addominale dal medico – Vesalio stesso, come dimostra il facile confronto con il suo ritratto contenuto nel foglio seguente – con i coltelli posti sul tavolo. Vesalio non è in cattedra – come avveniva di consueto – ma fa la sua lezione accanto al cadavere, descrivendo gli organi addominali che tiene in vista con la sua mano destra. Tra gli spettatori ci sono diversi animali, provocatoriamente vivi, tra i quali una scimmia tanto utilizzata da Galeno, poco realistica, ma ampiamente simbolica.

Il De humani corporis fabrica è l’opera più importante di Vesalio e in qualche modo anche la sua unica opera. Poco dopo la pubblicazione, Vesalio abbandonò l’insegnamento universitario e la ricerca a Padova a favore dell’attività clinica, diventando medico dell’imperatore Carlo V. Fu evidentemente per lui un’occasione troppo allettante, da non perdere: ritornava a casa, a Bruxelles, e per giunta per ricoprire un posto prestigioso e ben remunerato. Per il resto della sua vita Vesalio fu medico della famiglia imperiale, alla corte di Carlo V e poi del figlio Filippo II, a Bruxelles prima e dal 1559 in Spagna.

Continuò ad essere interessato all’anatomia, ad aggiornarsi sulle ricerche dei colleghi e sulle critiche che gli venivano via via rivolte, ma le occasioni di eseguire dissezioni diventarono molto sporadiche. Si occupò a più riprese del De humani corporis fabrica. Pubblicò nel 1543 un’epitome per gli studenti, nel 1555 la seconda edizione che contiene qualche novità anatomica, poi lavorò ad una terza edizione che non fu mai pubblicata, ma di cui rimangono le sue note, forse scritte prima del 1559, in una copia conservata presso la biblioteca dell’università di Toronto (Thomas Fischer Rare Book Library). Il progetto editoriale fu forse interrotto dalla morte, che avvenne il 14 ottobre 1564 a Zacinto, sull’Adriatico, nel viaggio di ritorno da un pellegrinaggio in Terrasanta. Non sono noti i motivi che lo avevano indotto a compiere il pellegrinaggio, ma sono privi di fondamento i racconti di errori – diventati presto colpe da espiare – che Vesalio avrebbe commesso sul tavolo anatomico, sezionando corpi di persone ancora vive. Piuttosto Vesalio doveva essere stanco della vita di corte in Spagna, e sembra che fosse molto concreto il suo progetto di ritornare ad insegnare all’università di Padova dopo Gerusalemme.

Il De humani corporis fabrica ebbe subito dopo la pubblicazione un grande impatto nella comunità scientifica, che si misura anche dal numero di quanti gli si opposero in nome di Galeno, e dalla violenza dei loro attacchi. Tra tutti basta citare Sylvius, il vecchio professore di Vesalio a Parigi, fervente galenista, che contro Vesalio scrisse in più occasioni – addirittura un’operetta nel 1551 – e lo ritenne responsabile di una terribile epidemia antigalenica che si stava diffondendo in Europa. Tuttavia il metodo di ricerca di Vesalio si fece strada ovunque, anche tra i suoi oppositori. Bartolomeo Eustachio (1510-74), attivo a Roma, progettò un trattato anatomico che punto per punto confutasse Vesalio e difendesse Galeno. Questa opera non fu mai completata, mentre Eustachio pubblicò nel 1563-4 gli Opuscula anatomica che riguardano la descrizione di parti sottili, come l’orecchio, i denti, le ossa del capo, i reni, il sistema vascolare, in qualche modo approfondendo le ricerche di Vesalio, non certo negandole. Inoltre, più che alla scrittura, Eustachio affidò alcune sue scoperte anatomiche, soprattutto sui nervi e sul cervello, alle immagini che Vesalio aveva tanto utilizzato e sviluppato e che invece Galeno difficilmente avrebbe approvato: le opere di Galeno, comprese quelle anatomiche, non sono illustrate. Nel 1552 Eustachio fece incidere su rame una serie di grandi tavole che furono pubblicate soltanto nel 1714 dal medico Giovanni Maria Lancisi (1654-1720): più accurate e precise di quelle di Vesalio, seppure meno belle, le tavole anatomiche di Eustachio finirono per sostituirle.

Critica di Andrea Vesalio a Galeno

Praefatio del De humani corporis fabrica indirizzata all’imperatore Carlo V, c. 3v

Tutti prestarono fede a Galeno a tal punto che non si trovava nessun medico che pensasse che un errore, seppure minimo, fosse stato mai rilevato nei suoi volumi di anatomia, e ancor meno che lo potesse essere in seguito. Invece – a parte il fatto che Galeno spesso si corregge, segnala non una sola volta una propria negligenza commessa in qualche opera, quando in seguito diventa più esperto, e frequentemente fa affermazioni contraddittorie – sulla base della rinata arte della dissezione, della lettura attenta dei suoi libri e della correzione sicura degli stessi in numerosi passi, è per noi evidente che Galeno non dissezionò mai un corpo umano. Piuttosto, preso dalle sue scimmie, sebbene abbia avuto due cadaveri di uomini senza sangue, spesso accusa a torto i medici precedenti che si erano esercitati nella dissezione di uomini.

Troverai per giunta in Galeno numerose affermazioni che non sono per niente corrette neppure per le scimmie, per non dire – cosa che suscita grandissima meraviglia – che Galeno non si è accorto di nessuna delle molteplici e infinite differenze tra gli organi del corpo umano e della scimmia, se non di quella che riguarda le dita e la flessione del ginocchio: senza dubbio avrebbe mancato anche questa insieme con le altre, se non gli fosse saltata agli occhi senza dissezione dell’uomo.

Ma fino ad oggi non mi sono mai impegnato ad esporre i falsi dogmi della dissezione di Galeno, facilmente il primo dei maestri, e ancor meno vorrei proprio ora essere considerato irriverente nei confronti di chi è maestro di tutti i maestri e poco rispettoso verso la sua autorità. Non ignoro, infatti, quanto i medici – non diversamente dai seguaci di Aristotele – si turbino quando osservano che Galeno, nel corso di una sola dimostrazione anatomica, errò più di duecento volte nella descrizione corretta dell’armonia umana delle parti, della loro utilità e funzione, e nello stesso tempo controllino le parti dissezionate con occhio severo e con lo scopo principale di difenderlo. Tuttavia anche questi in seguito, spinti dall’amore della verità, a poco a poco si calmano e attribuiscono maggiore fiducia ai loro occhi e ai loro ragionamenti, non inefficaci, piuttosto che agli scritti di Galeno.

Cita questo articolo

Fortuna S., De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio, Medicina e Chirurgia, 60: 2705-2709, 2013. DOI:  10.4487/medchir2013-60-5

Decidere in Terapian.60, 2013, pp.2714

-Cop Misoginia

Decidere in terapia – Dialogo sul Metodo nella Cura di Giacomo Delvecchio e Luciano Vettore Edito da “Liberodiscrivere” della Libreria Internazionale Medico Scientifica Frasconi di Genova, 2013, p. 296 e 24,00

Il libro non ha la forma e lo stile del trattato; al contrario è costruito come un dialogo, un confronto dialettico tra i due autori, che scambiano, condividono e confrontano le loro opinioni su una serie di temi che riguardano il metodo nella cura; si propone di colmare una carenza nella letteratura medico-scientifica, dove sono numerose le trattazioni del metodo nella diagnosi (Poli, Scandellari, Federspil …), ma ha finora trascurato la metodologia della terapia, o meglio la metodologia nella cura, che la comprende, essendo quest’ultima significativamente più ampia del solo ambito delle prescrizioni terapeutiche.

Nei dodici capitoli del libro vengono discussi i connotati di questa metodologia, declinati in molti temi e corroborati da una vasta bibliografia: viene così trattata l’evoluzione storica del concetto e della pratica della cura; vengono considerate le molteplici e differenti tipologie di terapia; è oggetto di discussione ampia e argomentata il quesito se, attualmente, nel processo clinico debba essere prioritario il momento diagnostico o quello terapeutico; un intero capitolo è dedicato alla logica nelle decisioni terapeutiche e un altro alla epistemologia della terapia; il “cuore “ del libro probabilmente si trova nel capitolo più breve, quello dedicato al giudizio clinico, inteso come sintesi tra il momento della diagnosi complessiva dello stato di salute del paziente (spesso con polipatologia) e l’armonizzazione delle conseguenti decisioni terapeutiche, pure molteplici.

I rimanenti capitoli riguardano: la libertà di cura nell’ottica del paziente e in quella del medico; l’educazione terapeutica del paziente e l’educazione alla salute del soggetto sano con fini essenzialmente preventivi; la gestione dell’incertezza nelle scelte terapeutiche; gli errori di terapia; l’etica della cura.

All’interno dei vari capitoli gli autori discutono problemi concettualmente rilevanti come, per esempio, le medicine alternative, il rapporto tra medicina delle evidenze e medicina narrativa, il problema del consenso informato e quello dell’accanimento e dell’abbandono terapeutico; nonché concetti fondamentali come il concetto di salute, di malattia, di guarigione, di cronicità, la prospettiva della “medicina partecipativa” e del “paziente esperto”,  e molti altri. Sarebbe tuttavia troppo lungo scriverne esaurientemente in questa sede, senza contare che ciò toglierebbe al lettore il piacere della scoperta.

Ciò che si può dire è che problemi e concetti non sono trattati in modo sistematico, bensì riconsiderati in capitoli diversi perché con ottiche differenti, ma sempre con un atteggiamento problematico e dialettico; questa apparente ridondanza è giustificata – come dichiarano gli stessi autori – dal fatto che questo libro non ha lo scopo di trasferire conoscenze, bensì quelli di maturare competenze stimolando l’impegno del lettore alla riflessione personale e al pensiero critico, anche grazie al confronto della propria esperienza con ciò che sta leggendo: infatti il suo fine esplicito non è quello di insegnare la terapia delle varie malattie, bensì quello di quello di aiutare l’acquisizione di una “forma mentis” nell’approccio di cura, e quindi di una strategia mentale: cioè di “fornire al lettore – potenziale curante – una guida al ragionamento terapeutico metodologicamente corretto, antropologicamente ed eticamente fondato”.

Nel rispetto di questa scelta, solo nell’ultimo capitolo gli autori si sono concessi una “digressione pratica”, fornendo brevi ma sostanziosi consigli sulla condotta prescrittiva, che sono resi pregnanti grazie proprio alla precedente “educazione metodologica”.

Il testo nella sua complessità è dedicato ai medici in formazione, siano essi studenti in medicina o specializzandi, ma anche ai medici già formati e desiderosi di migliorare la loro performance professionale, e – perché no – pure agli altri professionisti della salute che hanno ruolo nel processo di cura. Per questo auspico l’adozione di questo prezioso volumetto nei corsi di laurea e di specializzazione, come insostituibile strumento di apprendimento attivo e partecipato.