Questa mia senile fatica. Giovan Battista Morgagni e il De sedibus et causis morborum per anatomen indagatisn.66, 2015, pp.2998-3003, DOI: 10.4487/medchir2015-66-6

Abstract

Giovan Battista Morgagni’s De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis is a masterpiece in the history of medicine, as well as in human anatomy and pathology. Its immediate reception all over Europe well testify the novelty of Morgagni methodological and experimental approach to human pathological anatomy. The article shortly examines the cultural and geographical context in which De sedibus has been conceived by its author, the very rich scientific and personal relationships linking Morgagni to the medical élite of XVIII century, and finally the structure of the text and its significance in medical history studies.

Articolo

L’anatomia patologica prima dell’anatomia patologica

Il De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis, il magnum opus di Giovanni Battista Morgagni dato alle stampe a Venezia nel 1761, quando il suo autore era oramai ottantenne, rappresenta sotto molti aspetti un nuovo inizio per la medicina di fine Settecento e lo scardinamento di una clinica di matrice ippocratica (dunque qualitativa, non solidistica e olistica), che ancora costituiva un saldo riferimento intellettuale per molte delle scuole mediche europee. Dire che il libro di Morgagni rappresenta un punto da cui diventa obbligatorio ripensare il modo in cui si progetta, si fa e si scrive l’anatomia, come diceva Mirko Grmek, è certamente vero; tuttavia, affermare tout court che il libro di Morgagni spalanca le porte per la prima volta a una riflessione sistematica sulle relazioni possibili tra dimensione anatomica e prospettiva clinica sarebbe un’ingenuità contro cui ci mettono in guardia, con rinnovate argomentazioni, molti buoni studi storici recenti. Alla fine del XVIII secolo, infatti, in Francia e, seppure meno sistematicamente, in Inghilterra e in altri paesi europei, erano venute realizzandosi le condizioni per il graduale riavvicinamento della dimensione clinica con quella chirurgica: l’Italia era in questo senso un territorio di avanguardia, con alcuni avamposti in cui le ripetute e frequenti contaminazioni tra il sapere pratico, localizzante e solidistico dei chirurghi e il sapere dotto trasmesso dai contesti accademici avevano prodotto risultati di grande interesse, soprattutto in relazione alla storia di alcune sedi ospedaliere. L’ospedale moderno rappresenta, infatti, il luogo di elezione dove le storie cliniche dei pazienti possono incontrare i dati della riflessione autoptica, muovendo una ricerca che da osservazione sporadica e non sistematica di malformazioni ed esiti patologici diventa tentativo di costruire un discorso organico sulle cause di morte. La registrazione di alterazioni patologiche sul cadavere, sottratta alla casualità e alla rarità con cui i secoli precedenti l’avevano pure registrata, incontra una quantità ingente di ‘materiali di lavoro’ proprio nelle sedi ospedaliere, in cui i decessi per malattia diventano la fonte che rende possibile l’iniziale idea di correlare le storie cliniche con il dato autoptico. La relazione con le sedi universitarie, con le gilde e i collegi professionali, fa il resto, rendendo utilizzabile anche come programma didattico il dato di osservazione.

Schermata 2015-07-09 alle 11.25.54Roma è, in questo senso, insieme a Parigi, tra le città la cui storia ospedaliera più fortemente è connotata da questo nuovo atteggiamento di studio e ricerca; le vicende storiche degli ospedali romani, dalla Consolazione al Santo Spirito, sedi di lavoro congiunto di diverse tipologie di professionismi medici e chirurgici, ne forniscono un buon esempio. La grande ricchezza “di letti e di ammalati” degli ospedali italiani, già registrata come fatto straordinario da Martin Lutero durante il suo viaggio in Italia, costituisce il punto di avvio della ricerca anatomo-clinica molto prima della nascita formale del metodo e della disciplina anatomo-patologica. Ma in realtà, nella seconda metà del Settecento, molti grandi ospedali europei – primi fra tutti, evidentemente, quelli parigini, enormi per dimensione e capacità di accoglienza, ma anche, come si diceva, in Inghilterra, Germania, in Russia, nei paesi Baltici e in America – avevano reso la pratica dissettoria su chi moriva in ospedale un’attività quasi ‘normale’, accompagnandola con la dissezione di corpi lasciati per legato testamentario alla ricerca scientifica da esponenti delle classi più facoltose e colte. Questo ha condotto, in un arco di tempo relativamente breve, anche alla creazione di veri e proprie collezioni anatomo- patologiche, che consentivano insieme di attrarre un numero maggiore di studenti presso gli ospedali e le sedi universitarie e di rispondere al bisogno di classificazione strutturale e nosologica che è uno dei punti caratterizzanti il pensiero medico settecentesco (Bynum W.F., Porter R.).

La spinta a riunificare l’approccio clinico con quello chirurgico, più forte a partire dalla data in cui Giovan Battista Morgagni da alle stampe il suo opus magnum e almeno fino agli anni Novanta del secolo, consentendo il superamento dell’olismo di matrice ippocratico-galenica che di fatto rendeva ‘fluido’ e indistinto il confine tra la sfera del normale e quella del patologico, permette di spostare la malattia dal piano dell’astrazione teorica a quello della concretezza ‘materiale’; si vanno così realizzando così i sogni di intere generazioni di anatomisti europei che, da almeno due secoli, erano andati in cerca di evidenze tangibili e della possibilità di collocare in una parte specifica del corpo l’essenza dei morbi. L’aspirazione di Antonio Benivieni (1443-1502), che voleva stabilire una correlazione tra le osservazioni sul cadavere e quelle che precedentemente erano state condotte sul paziente vivo, e il suo sostenere la necessità metodologica dell’acquisizione diretta dei dati da parte del medico per mezzo di una valutazione visiva e tattile della malattia (“quos ego et vidi et tetigi”), alla fine del Settecento si è compiutamente realizzata: le straordinarie intuizioni e le descrizioni patologiche di autori come Jean François Fernel (1497-1558), Felix Platter (1536-1614), Johann Schenck (1530-1598), Nicolaus Tulp (1593-1674), François de la Boe (16141672), Thomas Bartholin (1616-1680), Gaspare Aselli (1581-1625), William Harvey (1578- 1657), tutti variamente interessati all’idea della costruzione di una ‘medica anathomia’, avevano condotto alla nascita di una ‘anatomia pratica’, ancora legata fortemente a un empirismo di matrice anatomo-clinica ma proiettata a diventare quella che nel 1713 Friedrich Hoffmann (1660-1742) per la prima volta definirà come anatomia patologica.

Lo sforzo di correlazione tra descrizione clinica e relazione autoptica, seppure ancora caratterizzato dalla ricerca del reperto straordinario e poco frequente, tipizza ampia parte della ricerca anatomica seicentesca; esso è raccolto, nella seconda metà del secolo, da Marcello Malpighi, che dichiara la necessità della creazione di quadri teorici coerenti che consentano di distinguere l’anatomia umana normale da quella patologica. Le autopsie di Malpighi, fatte “per comprendere la clinica”, sono strumenti che servono alla costruzione di una disciplina autonoma, allo stesso tempo subordinata e dialogante con la clinica: non una storia né una filosofia naturale, dunque, ma uno strumento da utilizzare per la costruzione di una nuova diagnostica e di una nuova terapia.

Schermata 2015-07-09 alle 11.26.03Insieme alle suggestioni che vengono a Morgagni da tutto questo percorso e dalla scuola romana di Giorgio Baglivi e di Giovanni Maria Lancisi, suo maestro e amico e primo autore a progettare, nel trattato De subitaneis mortibus (1706), l’incontro tra analisi epidemiologica e dimensione anatomo- patologica, la considerazione malpighiana “delle cause, delle sedi, della struttura e del moto della materia morbosa” (Bologna, Biblioteca Univ., Ms. Malpighiani, vol. XII) è più che un motivo ispiratore per il testo di Giovan Battista Morgagni: egli la sceglie a manifesto del suo progetto scientifico e ne fa titolo e principale linea guida del suo vastissimo lavoro di revisione e organizzazione dell’esperienza sua e altrui sul corpo morto per malattia (Zampieri, F., Zanatta A., Thiene G., 2014).

Padova città di anatomie

Che il De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis veda la luce all’interno dei circuiti culturali che legano la sede universitaria di Padova, città nella quale Morgagni insegnava, dopo un soggiorno bolognese, sulla cattedra di Medicina teorica dal 1711 e su quella di anatomia dal 1715 (e ininterrottamente fino al momento della sua morte) e Venezia, ancora alla fine del secolo uno dei centri editoriali di eccellenza in Italia, è ovviamente cosa che non stupisce chi conosca anche sommariamente la storia della disciplina anatomica in Italia e in Europa, la storia dell’editoria e del libro scientifico in evo moderno, la storia anche geografica del lungo magistero di Morgagni.

Padova era stata sin dal XVI secolo il centro di una ricerca anatomica organizzata e di altissimo livello, in grado di attrarre studenti e docenti da tutto il territorio europeo; dotata dal 1595 del celebre teatro anatomico, voluto da Girolamo Fabrizi di Acquapendente e da lui fatto realizzare su progetto di Paolo Sarpi per rispondere alle esigenze degli studenti della Nazione Germanica che reclamavano una struttura permanente ove potessero apprendere l’anatomia attraverso la partecipazione diretta all’apertura del cadavere, Padova aveva visto succedersi negli insegnamenti di chirurgia e di anatomia i nomi dei principali anatomisti del tempo. Alessandro Benedetti (1450ca.- 1512), Andrea Vesalio (1514-1564), Realdo Colombo (1510 ca.- 1559), Gabriele Falloppio (1523-1562), Girolamo Fabrizi da Acquapendente (1533 ca.-1619), Giulio Casserio (1552-1616), Adriaaan van den Spiegel (1578-1625), Johann Vesling (1598-1649), Domenico Marchetti (1626-1688) tennero per periodi diversi (alcuni, come Falloppio, per cinquant’anni di fila) le cattedre di anatomia e di chirurgia dell’ateneo patavino, mettendo a punto il metodo anatomo-comparativo, permettendo il compiersi del passaggio dall’anatomia descrittiva all’anatomia funzionale, strutturando innovativi sistemi di iniezione intravasale per la conservazione del materiale anatomico e collaborando in modo continuativo con il Collegio medico veneziano (G. Ongaro). A questi nomi si debbono unire quelli di altri che, pur non essendo direttamente coinvolti nella didattica anatomica formale, scelgono Padova come luogo di eccellenza in cui si rende possibile l’incontro con personalità del calibro di Galilei e l’elaborazione di una fisiologia rivoluzionaria che scardina in modo definitivo la complessa costruzione del sapere anatomico e funzionale antico, in particolare galenico; il nome di William Harvey fornisce l’esempio paradigmatico di quello che Padova costituì come centro di attrazione dell’intelligenza medica europea. Infine, la forte presenza a Padova di studenti tedeschi, ricchi e motivati alla ricerca anatomica al punto che le loro modalità di procacciamento dei cadaveri costituivano motivo di attrito con la Nazione ebrea ancora negli anni venti del Settecento, costituisce un ulteriore motivo di attrattività per chi, come Giovan Battista Morgagni, aveva fatto della ricerca anatomica il principale motivo di ispirazione della propria vita, al quale sacrificare persino la serenità familiare e la qualità dei rapporti con i numerosi figli e figlie.

Cinque Accademie, cinque lettere, cinque prefazioni

Giovan Battista Morgagni, al momento della pubblicazione del De sedibus, era un’autorità accademica indiscussa, un potente signore della medicina, rispettato e temuto da colleghi e rivali, che lamentavano che in Padova l’unico a poter liberamente disporre della sala di autopsie fosse proprio l’ottuagenario maestro. Della rete di relazioni intellettuali e personali intessute nei lunghi anni della sua vita resta traccia negli epistolari, nelle cronache degli incontri personali, nella corrispondenza con viaggiatori, nella discussione di temi politici, nelle polemiche accademiche che lo vedono protagonista fino a pochissimo tempo prima della sua morte. I nomi di Lazzaro Spallanzani, Domenico Cotugno, Antonio Scarpa, Michele Sagramoso, Scipione Maffei, Giuseppe Torelli, Leonardo Targa, Ludovico Salvi sono solo alcuni di quelli cui si può far ricorso per documentare la ricca rete di relazioni morgagnane.

Essa è testimoniata dall’interno anche dalle lettere prefatorie ai cinque libri in cui è diviso il De sedibus, ognuna dedicata a una delle accademie europee di cui Morgagni, talvolta da decenni, era membro, citate, come è detto espressamente nella Prefazione all’intera opera, secondo l’ordine “ del tempo in cui io ero stato ammesso in ciascuna Accademia” e con il fine esplicito di dimostrare in contesti diversi l’utilità delle dissezioni condotte su corpi morti per malattia. Ogni lettera è indirizzata al Direttore in carica: Cristoph Jacob Trew (1695-1769), professore a Norimberga e promotore della fondazione di un teatro medico in quella città, medico di corte e conte palatino con la passione per la botanica, amico di H. Boerhaave e corrispondente dei più celebri medici europei, dal 1743 direttore dell’Accademia Imperiale Leopoldina di Scienze, fondata in Vienna con il nome di Accademia dei Curiosi della Natura nel 1652; William Bromfield (1712-1792), chirurgo fondatore del London Lock Hospital, lettore di anatomia a Londra, autore di un Syllabus anatomicus pubblicato nel 1736 e di un Syllabus chirurgicus del 1743, inventore di tecniche innovative di chirurgia generale e ortopedica, un personaggio invero dai profili discussi (fu accusato a più riprese di imperizia e negligenza), ma cui Morgagni è legato, oltre che dal comune esser membri della Royal Society, anche dal fatto di condividere la formazione del figlio maggiore di Bromfield, studente laureato a Padova sotto la sua guida; Pierre Sénac, archiatra del re di Francia, anatomico autore di un trattato sulla struttura, fisiologia e patologia cardiaca, rappresentante di quella Academie Royale des Sciences fondata da Colbert nel 1666, di cui Morgagni era entrato a far parte prendendo il posto di F. Ruysch, morto nel 1731; Johan Friedrich Schreiber (1705-1760), lettore a Lipsia dal 1729 di Filosofia, medicina e Botanica, dal 1731 medico militare per l’esercito russo e dal 1742 professore di Anatomia e chirurgia a San Pietroburgo, direttore dell’Accademia delle Scienze, voluta da Pietro il Grande come parte del grandioso progetto di costruzione culturale suggeritogli da G.W. von Leibniz, e pensata su modello dell’Accademia delle Scienze di Parigi, di cui Morgagni era entrato a far parte già nel 1735; e, infine, Johann Friedrich Meckel (1724-1774), professore di anatomia, botanica e ostetricia a Berlino dal 1751 e dal 1773 membro dell’Accademia Reale svedese delle scienze, fondata nel 1739 da Federico I di Svezia, inizialmente come società privata (Linneo fu uno dei primi protagonisti delle sue attività culturali), ultima società ad accogliere all’unanimità Morgagni tra i suoi membri.

Oltre a testimoniare il livello alto delle relazioni scientifiche morgagnane, le dedicatorie alle cinque accademie europee rivestono il preciso ruolo di individuare gli enti cui deve essere affidata la divulgazione del solo metodo che Morgagni ritiene indispensabile alla creazione di una medicina nuova: da un lato lo studio dei corpi malati, che “mediante la lesione di una data parte congiunta con lo sconcerto di una data funzione” serve “meravigliosamente, non solo a confermare le vere funzioni delle parti, ma eziandio ad illustrarle, e talvolta a scoprirle, e a far rigettare quelle che son false” e a “scoprire le cause delle malattie affatto nuove e sconosciute che talvolta s’incontrano”. Dall’altro, una politica di educazione medica che imponga la collezione di storie cliniche corredate del dato autoptico, da trasmettere alle generazioni future in modo che “i nostri discendenti abbiano tanto numero di osservazioni quanto possa bastare” per una nuova anatomia che sappia curare.

Un nuovo metodo “clinico”

Le basi concettuali su cui poggia la progressiva e lenta creazione del De sedibus sono certamente fondate anche sul lungo sodalizio intellettuale ed amicale di Morgagni con Giovanni Maria Lancisi, l’archiatra pontificio che con i suoi trattati De subitaneis mortibus del 1706 e De motu cordis et aneurysmatibus, date alle stampe dopo la sua morte nel 1728, aveva intrapreso la strada della correlazione sistematica – elevata a metodo di indagine – tra la sintomatologia clinica e la lesione anatomica rilevata post mortem. La ricerca lancisiana di segni che rendessero possibile l’identificazione della ‘specie’ della malattia cardiaca e la loro proiezione sulla base di una epidemiologia clinica ante litteram consentono, infatti, lo strutturarsi di un metodo epicritico che si sviluppa attraverso la descrizione dei reperti autoptici e la messa in relazione della testimonianza dei reperti anatomo-patologici con tutta una serie di variabili relative agli stili di vita dei pazienti, alla loro dieta e alle loro attitudini lavorative. Giuseppe Ongaro attribuisce un ruolo determinante nello strutturarsi del piano editoriale dell’opera morgagnana anche a Ippolito Francesco Albertini (1662-1738), allievo di Malpighi e dal 1701 professore di medicina pratica all’università di Bologna, città in cui incontrò e fu maestro di Morgagni: Albertini, nella sua opera Animadversiones super quibusdam difficilis respirationis vitiis a laesa cordis et praecordium structura pendentibus, letta nel 1726 in una seduta dell’Accademia bolognese delle Scienze e data alle stampe nel 1748 ad opera di Francesco Zanotti, aveva infatti a più riprese sottolineato l’urgenza di riconoscere nei malati “quello che avevo visto nei cadaveri molte volte, disponendo di segni diagnostici sicuri e conosciuti, mediante i quali poter discernere l’alterazione anatomica”.

A questi stimoli diretti, testimoniati anche dalla fitta corrispondenza tra Morgagni e Lancisi, si debbono aggiungere gli insegnamenti del Valsalva, al cui magistero si deve l’insistenza sul ricorso all’anatomia comparata, alle dissezioni degli animali e alla pratica sperimentale, intesi come sistemi utili alla risoluzione di problemi osservati sul corpo degli uomini; nonché le occasioni fornite dalla nascente medicina sociale e della medicina del lavoro di matrice ramazziniana che, mettendo in luce l’esistenza di legami verificabili tra la professione svolta in condizioni di scarsa salubrità e l’insorgere di malattia, di fatto avevano aperto la strada a una nuova riflessione sulla causalità in medicina.

Una forte motivazione del De Sedibus è poi da rintracciare nella critica sistematica alla scarsa puntualità e alla mancanza di spirito critico che Morgagni individua come i principali difetti del Sepulchretum di Th. Bonet (1620-89), medico del duca di Longueville a Neufchatel, che aveva dato alle stampe nel 1679 quella che è forse la compilazione più dettagliata e lunga della storia dell’anatomia seicentesca in Europa. Il Sepulchretum, opera che pure aveva incontrato opinioni valutazioni e favorevoli, consiste in effetti in un lunghissimo elenco di esempi tratti quasi sempre dallo spoglio della letteratura precedente, corredati di scoli in cui Bonet registra tutto ciò che su una data malattia è stato pubblicato, sia in termini di sintomatologia che di terapia; per molti aspetti, malgrado le critiche, costituisce per Morgagni il modello da antagonizzare. Concepito ugualmente con tradizionale esposizione a capite ad calcem, il principale difetto del lavoro di Bonet è la sua destinazione al medico pratico, e l’assenza totale del tentativo di trovare collezione sistematica tra lesione sul cadavere, sintomi in vita e cause della malattia. Gli indici di Bonet, che Morgagni aveva in giovane età accolto entusiasticamente come una novità da valutare con attenzione, finiscono per diventare la sua più grande delusione e il primo difetto da emendare nel suo nuovo lavoro, che è avviato almeno dagli anni ‘40. Esperienze in ospedale, dissezioni pubbliche ‘morbose’, letteratura pregressa mettono alla luce lesioni specifiche sul cadavere che pongono a Morgagni un problema che è, innanzitutto, metodologico: è possibile intenderle ed indagarle non solo come causa dei sintomi accusati dai pazienti prima della morte, ma anche e soprattutto come causa della malattia? L’attenzione di Morgagni, motivata dall’idea che sostanzialmente il concetto di causalità di malattia vada a sovrapporsi a quello della sua predicibilità, si pone sulle modalità con cui la lesione si è generata e modificata nel tempo: la lesione è sempre in lento divenire e, come la malattia, essa non può essere intesa come fatto statico. Le storie dei pazienti servono alla costruzione di questo lento processo: senza le dissezioni dei corpi malati, nessuna ipotesi sulla natura della malattia e sulle sue cause può essere avanzata, come Morgagni stesso già sosteneva nella Nova Institutionum Medicarum Idea, la prolusione accademica pronunciata dopo la sua chiamata a Padova, nel 1712, in cui sono contenute le sue principali idee sulla riforma necessaria degli studi medici.

Settecento casi racchiusi in settanta lettere anatomiche, idealmente indirizzate a un giovane amico appassionato di studi anatomici, divise in cinque libri e racchiuse in due volumi in folio; progettata a Bologna e con un programma editoriale già abbozzato nel 1707, il De sedibus è un’opera monumentale, in cui confluiscono di fatto le esperienze di una vita interamente trascorsa tra l’ospedale e la sala settoria, le annotazioni contenute negli appunti che Morgagni quotidianamente registrava in un taccuino compilato senza soluzione di continuità dal 1699 al 1767, le cronache di dissezioni compiute da Valsalva, alcuni casi tratti dalla letteratura e ritenuti particolarmente utili, qualche resoconto delle autopsie condotte da Giandomenico Santorini (1681-1737), dimostratore di anatomia a Venezia, in cattedra nella stessa città dal 1706 al 1728, caro amico di Morgagni che aveva assistito per un paio di anni consecutivi, dal 1707 al 1709, alle sue dissezioni patologiche, nelle sedi di Bologna e Venezia.

Tutta l’opera è frutto di un rigoroso confronto con la letteratura, esaminata con spirito critico e scandagliata anche nella presentazione dei casi che sono frutto dell’esperienza dello stesso Morgagni; ogni questione è sottoposta al vaglio finale della ‘sensata esperienza’.

Le lettere, ordinate secondo lo schema classico a capite ad calcem, sono ispirate a un meccanicismo di matrice malpighiana, che delinea l’organismo come un complesso sistema di macchine minute il cui corretto funzionamento garantisce la vita; a ogni lesione, pure minima, delle macchine corrisponde un deterioramento e una diminuzione dell’efficienza di funzione. A ogni guasto organico corrisponde, dunque, un’alterazione funzionale; all’alterazione funzionale, sintomi e manifestazioni che il clinico vede, nelle corsie, generarsi e svilupparsi in modo che si scoprirà correlato alla sede e alla natura del guasto primario. Si ritrova qui l’attenzione di Lancisi per la lesione anatomica intesa come fondamento della ‘specie morbosa’ e l’eco, seppur lontano, delle teorie che A. von Haller (cui Morgagni più volte nel corso della vita si era relazionato difficilmente, barcamenandosi in una diplomazia di maniera ma non accogliendo mai la teoria emergente dell’irritabilità delle fibre, che diceva sprezzantemente essere adatta allo studio degli animali, non degli uomini) andava formulando in tema di fisiologia, pubblicandole nei suoi Elementa physiologiae corporis humani, venuti alla luce tra il 1757 e il 1766, quasi contemporaneamente all’uscita del De sedibus per i tipi della Tipografia Remondiniana.

Localizzare le malattie e individuare, attraverso un metodo statistico utile a valutare quelle “che più di frequente infieriscono”, la relazione costante e ripetuta eventualmente esistente tra la loro sede di origine e l’alterazione funzionale è lo scopo cui tendere – anche se Morgagni è ben conscio che non tutto il patologico ha una sua possibilità di essere correlato a una sede anatomica specifica, come dimostra il suo reiterato rifiuto di sottoporre a dissezione i corpi di ammalati di patologie infettive, a dispetto di una dichiarata fede per l’ ancora non tramontata eziopatogenesi miasmatica di ippocratica memoria.

Ma il vero merito del libro, oltre le scoperte che la medicina ha celebrato assegnando a sindromi e difetti il nome di Morgagni, è nel metodo e nel principio con cui il materiale di ricerca e l’enorme quantità di casi e di osservazioni sono ordinati; e il metodo, che è malpighiano e dunque galileiano, si manifesta compiutamente nell’idea geniale di creare quattro indici, che consentano di incrociare i dati dell’esperienza autoptica con le testimonianze della clinica, di modo che veramente l’anatomia patologica possa essere disciplina utile ‘a curar vivi’.

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