Perché un progetto “Medicina e Shoah”?n.72, 2016, pp. 3299-3301, DOI: 10.4487/medchir2016-72-6

Abstract

In 2011, a group of professors from the Faculties of Pharmacy and Medicine and Medicine and Dentistry of the “Sapienza” University in Rome started a seminar for students from the medical department entitled “From Nuremberg to the Belmont Report: the origins of Bioethics”, which explained the decisive role that the trial of the Nazi doctors had in the definition of medical ethics, bioethics, and standards of good practice. In 2013, these scholars inaugurated a monographic study structured over four meetings, which included study credits for students and ECM for healthcare professionals, under the title “Medicine and the Holocaust”, in order to study these issues in-depth and show the evolution of doctrine and ethics from Eugenics to today. The initiative’s success resulted in the course being repeated and offered every year with a great response from the public, leading to a cross-disciplinary project, funded in 2015, on this subject. In 2016, the exhibit “Medicine and the Shoah.  From Nazi experiments to bioethics” was opened, financed and supported with funding from the 8×1000 UCEI and hosted by several Italian universities.

Parole chiave: Medicina nazista; storia della bioetica; insegnamento dell’etica medica; Insegnamento professionale

Key words: Nazi Medicine; History of Bioethics; Teaching in Medical Ethics; Professional learning

Articolo

I presupposti del progetto: dall’eugenica nazista all’etica medica

Oggi si è abituati a parametri etici che stabiliscono la liceità o meno della ricerca biomedica, dei protocolli sperimentali e della pratica clinica. Il vero punto di svolta per formalizzare principi etici della medicina si è avuto solo in seguito alle atrocità commesse da medici e scienziati nazisti, che dell’eugenica e delle teorie razziali fecero una sorta di religione e fede politica.

Sul finire del XIX secolo gli sviluppi dell’eugenica lasciano infatti spazio all’idea che possa esistere il pericolo di contaminazione e inquinamento di un popolo per unioni tra individui di “ceppi” razziali diversi, che ne minacciano la ‘purezza del sangue’ e l’identità. Si delinea così una distinzione biologica e razziale, che trova il suo fondamento nelle dottrine eugeniche, secondo cui il progresso della razza umana dipendeva dal miglioramento della trasmissione selettiva delle caratteristiche ereditarie della popolazione alle generazioni future. Si incentivano campagne di eugenica positiva fondate sulla propaganda di un modello estetico che risponda ad un prototipo biologico sano e salutare su cui basare la scelta del partner, ma dal primo Novecento trova sempre più spazio un’eugenica ‘negativa’, volta a costruire popoli sani impedendo la riproduzione di individui ritenuti patologici e contaminanti per impurità o inferiorità biologica e morale, adottando la sterilizzazione forzata di disabili e di portatori di malattie e menomazioni ereditarie.

Il progetto eugenico si rinvigorisce nella Germania del III Reich all’indomani dell’insediamento di Hitler al governo. Promosso dalla Gemeinnützige Stiftung für Heil- und Anstaltspflege, l’ente pubblico per la salute e l’assistenza sociale, con le leggi di Norimberga  del 1933 viene promulgato il progetto di tutela della razza tedesca per la prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie, che prevede la sterilizzazione di persone ritenute affette di patologie ereditarie; nel 1935 le leggi sulla purezza del sangue tedesco vietano i matrimoni tra tedeschi e ebrei e dal 1941 si deportano ebrei,  sinti e rom nei campi di concentramento. Le leggi di Norimberga fanno parte di un sistema globale in cui la difesa della razza ariana assurge al ruolo di misura di pubblica igiene e la prevenzione medica e sanitaria arriva a coincidere con l’idea di prevenzione e igiene razziale per la tutela della razza tedesca.

Le sperimentazioni mediche selvagge sui detenuti nei campi di concentramento (Figura 1) costituiscono il fulcro del dibattito della comunità medica a partire dal processo ai dottori a Norimberga: le riflessioni sul comportamento criminale dei medici nazisti hanno fatto sentire tutta l’urgenza di riaffermare i principi deontologici e etici della medicina, e di formalizzare parametri obbligatori per stabilire la liceità o meno di una ricerca sperimentale. Il Codice di Norimberga, redatto nel corso dei Processo ai medici, rappresenta infatti il primo documento ufficiale e “universale” che pone limiti etici agli studi sperimentali, delineando linee guida di legittimazione alla ricerca biomedica. Centrale diventa l’idea dell’obbligatorietà del consenso informato del paziente e/o del soggetto sottoposto a sperimentazione; si ribadisce la necessità di un senso di responsabilità dello sperimentatore, e ogni ricerca è legittima e lecita se  i risultati sono utili alla società e deve esser preceduta da sperimentazioni su animali. I limiti forse troppo vincolanti del Codice portano nel tempo a cercare una normazione univoca  che permetta studi e protocolli sperimentali nel rispetto dei principi di liceità espressi a Norimberga, e che trova la sua espressione nella Dichiarazione di Helsinky del 1964, riconosciuta ancora oggi come parametro di riferimento nella sperimentazione medica e nel rapporto medico-paziente. Il perpetuarsi di alcune ricerche sperimentali condotte su esseri umani inconsapevoli porta alla redazione del Belmont Report e all’individuazione di linee guida e principi etici su cui impostare la ricerca bio-medica, che esprimono i principi fondamentali della bioetica contemporanea.

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Un progetto didattico innovativo

Quello dei rapporti tra medicina e nazismo è un tema poco dibattuto dalla storiografia classica; solo negli ultimi anni si sono avuti importanti contributi scientifici sul tema, fondamentale, invece, per ricostruire i rapporti tra scienza e società, tra ricerca medica e cultura. Il concetto della centralità del paziente nell’azione medica e nelle ricerche sperimentali è infatti il risultato del processo di umanizzazione della medicina nato come antagonizzazione al modello nazista, che applicava l’etica medica solo nei riguardi di individui idonei a rinvigorire la razza, che rispondono a determinate stigmate di popolo, e cercando di eliminare quanti erano visti come elementi infestanti della nazione. Con Norimberga il paradigma si inverte: l’individuo acquista una centralità assoluta in tutte le sue peculiarità, e il concetto di individualità si traspone ai popoli stessi, nella totale accettazione della diversità, fondando così il diritto umanitario. Si è pertanto sentita l’esigenza di inaugurare un’attività didattica su queste tematiche, per professionalizzare chi opera nel campo della sanità e dare una formazione più completa della storia della medicina e dell’etica medica agli studenti delle facoltà mediche.

Su tali presupposti, nell’anno accademico 2010/2011 si è tenuto il primo seminario intitolato “Dal processo di Norimberga al Belmont Report: le origini della bioetica” per gli studenti di Odontoiatria e Protesi Dentaria e quelli di Igiene Dentale della Facoltà di Medicina e Odontoiatria della “Sapienza” Università di Roma. L’efficacia dell’iniziativa ha portato i docenti a reiterare l’attività didattica elettiva nei seguenti due anni, con lezioni tenute da professori universitari e da storici della Fondazione Museo della Shoah. Nel 2013 si è svolto un master per gli operatori sanitari intitolato “Medicina e Shoah” e dal 2014 le due iniziative si sono fuse, attivando il corso monografico “Medicina e Shoah” che riconosce crediti formativi agli studenti dei corsi di laurea delle facoltà mediche della “Sapienza” di Roma e crediti E.C.M. per i professionisti sanitari.

Il corso si articola in quattro incontri, con due relatori per ogni lezione.

Le tematiche trattate sono di grande attualità, in una prospettiva diacronica che permette di approfondire le origini e le lunghe durate dell’etica medica sino alla bioetica.

I temi salienti delle prime due lezioni sono la storia dell’eugenica e la sua valenza sociale e culturale nei paesi occidentali; la costruzione dell’apparato burocratico e organizzativo per la realizzazione del programma di sterilizzazione; l’Aktion T4, ovvero il progetto eutanasico di disabili e pazienti psichiatrici ricoverati in istituti, dotati di locali in cui immettere il gas e forni crematori; le sperimentazioni mediche condotte sui prigionieri richiusi nei campi di concentramento; lo sviluppo del progressivo internamento nei campi di concentramento di ebrei, sinti e rom.

Le ultime due lezioni si incentrano sull’importanza che il Processo di Norimberga ai medici nazisti ha avuto nella normazione dell’attuale etica medica e della bioetica applicata. Le riflessioni sul comportamento criminale dei medici tedeschi durante il III Reich hanno infatti fatto sentire tutta l’urgenza di riaffermare i principi deontologici ed etici della medicina, e di formalizzare parametri obbligatori per stabilire la liceità o meno di una ricerca sperimentale

Si illustra infatti come il perpetuarsi di alcune ricerche sperimentali condotte su esseri umani inconsapevoli abbia portato nel 1978 alla redazione del Belmont Report, ossia all’individuazione di linee guida e principi etici su cui impostare la ricerca bio-medica, che esprimono i principi fondamentali della bioetica contemporanea.

Il corso si chiude con una riflessione sul pregiudizio tra ieri e oggi, e, in un’ottica diacronica, sulla lunga durata di stereotipi “razzisti” che fanno riemergere oggi toni xenofobi e nazionalistici nei confronti dei migranti e delle minoranze in generale.

Prospettive di sviluppo

Nel 2015 è stato presentato un progetto di ricerca scientifica interdisciplinare con la partecipazione di docenti delle tre facoltà mediche della “Sapienza”, volto a analizzare i pregiudizi diffusi nei confronti di minoranze tra ieri e oggi e la percezione dell’influenza del pensiero medico nelle politiche razziali naziste. Si sono per questo preparati e somministrati ai partecipanti del corso Medicina e Shoah due questionari a risposta multipla: uno per analizzare le conoscenze storiche pregresse degli studenti sulla storia dell’eugenica, delle teorie razziali, della medicina nazista e degli sviluppi dell’etica medica e della bioetica; l’altro per indagare sull’eventuale persistenza di luoghi comuni, intesi come reminiscenza di un pregiudizio secolare nei confronti di rom, sinti e ebrei e sulla riproposizione di atteggiamenti pregiudizievoli nei confronti dei migranti di oggi e di fasce di popolazione marginali. I risultati dei test serviranno a sviluppare nuovi settori di indagine, in una prospettiva interdisciplinare di working progress, per integrare attività didattiche in base alle esigenze di formazione professionale che se ne deducono.

Il successo del corso monografico ha spinto i docenti ad organizzare e allestire la mostra itinerante “Medicina e Shoah. Dalle sperimentazioni naziste alla bioetica”, finanziata con l’8×1000 dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. L’inaugurazione è avvenuta il 20 maggio 2016 presso il Museo di Storia della Medicina dell’Università “Sapienza” di Roma, con l’intento di comunicare i contenuti del corso e di esortare le facoltà mediche di altri atenei italiani, in cui è attivato l’insegnamento delle scienze umane, a programmare percorsi formativi analoghi. E’ stata infatti ospitata dall’Università di Milano e di Siena e altri atenei sono interessati a partecipare.

Si intende proseguire in queste iniziative a livello nazionale e internazionale con progetti di ricerca e didattici futuri.

Bibliografia

1) Annas G. J., Grodin M. A.. The Nazi Doctors and the Nuremberg Code: Human Rights in Human Experimentation. Oxford, Oxford University Press, 1992.

2) Corbellini G. (a cura di), Dal Giuramento ippocratico alla Bioetica. Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2012.

3) Durand Y., Il nuovo ordine europeo. La collaborazione nell’Europa tedesca (1938-1945). Bologna, Il Mulino, 2002.

4) Freyhofer, Horst H. The Nuremberg Medical Trial: The Holocaust and the Origin of the Nuremberg Medical Code, New York, P. Lang, 2004.

5) Friedlander H., The Origins of Nazi Genocide: From Euthanasia to the Final Solution. Chappel Hill and London, University of North Carolina Press, 1995.

6) Müller-Hill B., Murderous Science: Elimination by Scientific Selection of Jews, Gypsies, and Others in Germany, 1933-1945. New York, Oxford University Press, 1998.

7) Pasetti M., Storia dei fascismi in Europa. Bologna, Archetipolibri, [2009].

Cita questo articolo

Marinozzi S., Gaj F., Perché un progetto “Medicina e Shoah”?,  Medicina e Chirurgia, 72: 3299-3301, 2016. DOI:  10.4487/medchir2016-72-6

Ippocrate e la Scuola di Kosn.72, 2016, pp. 3295-3298, DOI: 10.4487/medchir2016-72-5

Abstract

Was Hippocrates the founder of the medical school having his name? Was he its principal exponent and interpreter? We cannot answer ‘yes’ or ‘no’ to these questions. The article briefly analyzes the paths throw which history constructed the image of the Hippocratic School. The School of Kos, more than being a precise reality, seems to be a cultural construction, fixed as a sort of revealed truth during the XIXth century.

Parole chiave: Ippocrate – Scuola di Kos – Scuola di Cnido

Keywords: Hippocrates – School of Kos – Cnidian School

Articolo

Beneficiò Ippocrate dell’insegnamento della Scuola di Kos? Ne fu il fondatore? Ne fu il caposcuola? Come vedremo, dobbiamo rassegnarci a non rispondere né sì né no. In effetti, Ippocrate nacque a Kos, come suo padre che gli insegnò la medicina e come suo nonno, che si chiamava già Ippocrate ed era anch’egli medico. Non vi erano allora in questa isola del Dodecanneso né scuole di insegnamento, né naturalmente diplomi, né tempio di Asclepio e nemmeno platani sotto la cui ombra raccogliere gli allievi (Fig. 1).

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Il tirocinio dei giovani si faceva in famiglia, al letto del malato – ed il termine “clinico” ne fa ancor oggi fede -, ma probabilmente anche presso la casa del medico, dopo le visite, sempre sotto la guida del padre e sempre oralmente. Tale trasmissione da padre a figlio si verifica nel caso del “padre della medicina”, che formò due figli medici, Tessalo (che avrebbe officiato in Sicilia ed in Macedonia) e Dracone; entrambi ebbero un figlio cui diedero il nome del loro nonno.  Ma la famiglia si allargò, nel senso che il maestro diede fiducia a suo genero, Polibo, e gli affidò le proprie responsabilità mediche quando partì per la Tessaglia (Fig. 2). In altre parole, due categorie di medici si distinguono allora a Kos: quelli che come il grande Ippocrate pretendono di discendere realmente da Asclepio per il tramite di suo figlio Podalirio e quelli che si avvicinano al maestro e si aggregano ai suoi seguaci, come ad esempio Siennesi di Cipro; si può poi immaginarne probabilmente una terza, quella di coloro che non hanno nulla a che vedere con Ippocrate.

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I primi, in quanto ritenuti di origine divina, beneficiano di privilegi religiosi a Delfi, informazione di cui disponiamo grazie alla pubblicazione relativamente recente (1956) di  un decreto datante ai primi anni del IV secolo a.C., scoperto nel fatale 1939, che regolava  la condotta della loro associazione o koinon nel santuario di Delfi; essi sono degli “Asclepiadi”, discendenti “biologici” di Asclepio (pur se tutti gli Asclepiadi biologici non sono necessariamente dei medici), e questo aggettivo glorioso non tarderà ad essere sviato dal suo senso reale, de facto a causa di una certa confusione innocente, oppure volontariamente per una autoglorificazione più o meno pubblicitaria : dei medici di altra ascendenza definiranno se stessi “Asclepiadi” come rendenti omaggio al dio Asclepio mediante l‘esercizio della loro arte. Ma i veri Asclepiadi non sono tutti di Kos: ve ne sono anche altri a Cnido, sul continente asiatico, che sono citati nel decreto, e nel caso di questi luoghi di sapere si è autorizzati a pensare che una nobile rivalità sia stata esacerbata dal fatto della loro prossimità geografica, di circa una trentina di chilometri. Ve ne furono anche a Rodi, dove la famiglia si è estinta. La rivalità non implicava necessariamente il voler la morte del vicino oppure l’anatema, come è provato da questo koinon. Secondo anche la testimonianza di Galeno (De methodo medendi) “…i due gruppi di Asclepiadi in Asia, a anche i medici che abitavano in Italia (Filistione, Empedocle, Pausania ed i loro discepoli) partecipavano a (una) competizione salutare. Vi era una rivalità tra tre scuole mediche famose, i medici della scuola di Kos contavano tra loro il più alto numero di colleghi eccezionali, seguiti da quelli di Cnido ed infine dagli Italiani”, già segnalati da Erodoto in particolare a Crotone.

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La “desertificazione” medica suggerita dalla scomparsa dei Rodiani e dal declino di quelli di Cirene, colonia greca in Libia la cui gloria è egualmente attestata da Erodoto, aggiungendosi ad un aggravamento della situazione sanitaria dovuta probabilmente alla prima invasione della malaria, ebbe numerosi effetti cruciali nella storia della medicina occidentale: il culto di Asclepio conobbe uno sviluppo folgorante (Fig.3). Ippocrate viaggiò (era un medico periodeuta) per rendersi conto della situazione al di fuori del suo ambito insulare: si recò, come s’è detto, nel nord della Grecia, nell’isola di Taso, l’isola rotonda a qualche chilometro dalla Tracia (Fig.4), peregrinazioni queste che ci valsero quel tesoro che sono i sette libri delle Epidemie, una delle opere più celebri della letteratura medica mondiale. In effetti, da allora si presentò la necessità di scrivere dei libri di medicina, più tardi riuniti in seno a quello che avrebbe preso il nome di Corpus hippocraticum, perché bisognava allargare il vivaio dei futuri medici al di fuori della famiglia, in circuiti sempre maggiori, non essendo più possibile che ciascuno di questi allievi venisse totalmente preso per mano. Galeno, nel De anatomicis administrationibus, spiega che “col passare del tempo parve opportuno trasmettere l’arte non soltanto agli appartenenti alla famiglia, ma anche al di fuori di essa. Così dunque l’arte medica uscì dalla famiglia degli Asclepiadi”. Sono questi apprendisti, tanto per cambiare esterni, che debbono vincolarsi, verso la loro arte e verso il loro maestro, a non rivelare l’insegnamento dispensato, onde preservare la dimensione aristocratica del cerchio degli Asclepiadi, mediante quello che noi chiamiamo il Giuramento di Ippocrate, che l’intera tradizione attribuisce effettivamente ad Ippocrate e che è di fatto allo stesso tempo un contratto ed un giuramento; la nostra tradizione moderna si è focalizzata molto meno sugli aspetti contrattuali, maggiormente ancorati ad una quotidianità concreta che non c’è più, che agli aspetti deontologici e morali, i quali possono essere generalizzati e continuano a risuonare nelle coscienze.

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Un eccezionale papiro greco d’ Egitto conosciuto sotto il nome di Anonimo di Londra, città dov’ è oggi conservato, scritto nel primo secolo della nostra era, compila delle liste nelle quali è sottolineata l’origine dei medici nella Grecia delle piccole città. Per Ippocrate, niente, come se la cosa fosse ovvia; ma tra i suoi contemporanei: la Grecia propriamente detta, Egimio d’Elide e Petronio di Egina; Kos, Polibo già citato, Dessippo; Cnido, Euryphon ed il suo discepolo Alcamene d’Abydos, Erodico; l’Italia, Filistione di Locri, Filolao di Crotone, più filosofo che medico, Ippone di Crotone, Timoteo di  Metaponto.

Ma guai a questi nuovi venuti, che potevano divenire pericolosi; Galeno stesso, secondo una leggenda medievale, doveva essere un giorno assassinato da Ippocrate nel suo giardino dei semplici perché ne sapeva più di lui, almeno in botanica medicinale! (Fig. 5). Galeno ne sapeva ovviamente di più in parecchi campi; mi piace in particolare segnalare certe lussazioni della spalla non viste da Ippocrate, come egli dice nel suo De humero iis modis prolapso quos Hippocrates non vidit, di fatto un estratto del suo Hippocrates de articulis liber et Galeni in eum commentarii quatuor, I 3 (K XVIII A 307), problema che potrebbe essere stato ben inquadrato prima di lui a Cirene.

Ma dobbiamo noi allora affermare che la scuola di Kos non è una realtà? Che la scuola di Kos è un mito? In effetti essa non è né un mito né una realtà, ma in gran parte una costruzione storica che si spiega da un lato con il fondamento ideologico che è il triangolo ippocratico formato dal malato, dal suo medico e dalla malattia, senza considerare gli dei (la cui esistenza non è negata, al contrario). E che si spiega d’altro lato anche con ciò che accadde nel tempo, in diverse tappe, alla medicina occidentale, antica e moderna.

Soffermiamoci sulla tappa alessandrina: ad Alessandria, a partire dal terzo secolo, si apre un “museo”, si lancia il concetto di corsi di studi stabilendo in quale ordine debbano venire letti gli scritti ippocratici; la creazione di una biblioteca richiede il raggruppamento dei manoscritti esistenti tanto di medicina che degli altri ambiti del sapere, e così si verrà ad accentuare la preminenza di Ippocrate e di Kos. I medici vi si riuniscono e discutono, e lo stesso Galeno vi trascorrerà anni di studio. Una nuova forma di condivisione medica prende corpo, senza tuttavia escludere segretezze e gelosie. Dopo la città di Alessandria altre imboccheranno anch’esse questa strada: Efeso si doterà ad esempio di un museo ove i medici si potessero riunire in corporazione, con una certa gerarchia professionale e dei concorsi i cui vincitori vedevano affluire la clientela, sempre in un quadro di organizzazione senza diploma; essa assocerà Asclepio ed i medici organizzando grandi Asclepieia.

Dai tempi di Galeno altri due fenomeni contribuiscono a rafforzare la nozione di scuola medica: è l’epoca delle “sette”, gruppi di medici che sceglievano un maestro, aderivano ad un corpo di dottrine e si vantavano di questa appartenenza; Galeno combatte particolarmente la setta metodica, che disprezza e tenta di ridicolizzare. Ed il maestro di Pergamo concepisce ed attua il concetto di progresso educativo, scrivendo trattati per i principianti, come appunto De sectis ad eos qui introducuntur, e ad tirones De musculorum dissectione, De ossibus, De pulsibus.

Ma, tralasciando parecchie tappe, soffermiamoci sul XIX secolo, che fissa la scuola di Kos come una sorta di verità sacrosanta. Scegliamo tre responsabili: Salvatore de Renzi, studioso napoletano, con i suoi lavori sulla scuola di Salerno; Charles Daremberg, che si è occupato di Galeno; Emile Littré, studioso di Parigi che ha lavorato su Ippocrate. Nato nel 1801, intraprende anch’egli gli studi di medicina, ma non prosegue fino alla fine del corso, rifiuta di fare una tesi e si identifica in qualche sorta con Ippocrate: un Ippocrate rivisitato, illuminato da ciò che accade nelle scuole del suo tempo ed in particolare a Montpellier, città dove si insegnava la medicina ippocratica e dove il patriota greco in esilio Adamantios Korais (nato a Smirne e non nella Grecia propriamente detta) ha fatto i suoi studi tardivi, pubblicando nel 1800 a Parigi, da perfetto francofono e da fedele lettore di Montesquieu, il De aere, aquis et locis di Ippocrate, che conoscerà un grandissimo successo, ben oltre il mondo dei filologi e delle accademie (Fig. 6).

Schermata 2017-01-31 alle 16.26.16Littré dà del Giuramento una interpretazione idealizzata, non prestando forse sufficiente attenzione alla differenza tra il giuramento (orale) ed il contratto (scritto), ma dando del termine la traduzione di “impegno”, interpretazione moralizzante che pesa ancor oggi sui nostri medici.

La scuola di Kos, più che una realtà precisa, è dunque una costruzione dello spirito allo stesso tempo progressiva e retrospettiva, grazie a riesami successivi condotti secondo il metro della situazione contemporanea dell’insegnamento medico, basata essa stessa sulla storia generale e sulla storia politica.

 

Bibliografia

1) Fioranelli, P. Zullino, Io, Ippocrate di Kos, Laterza, Roma-Bari, 2008 (presentazione di Giorgio Cosmacini)

2) D. Gourevitch, «Daremberg, his friend Littré and positivist medical history», in Frank Huisman e John Harley Warner ed. Locating Medical History: The Stories and Their Meanings, Baltimore – London, the Johns Hopkins Press, 2004, chapter three, p. 53-73

3) Yves Grandjean, François Salviat, Guide de Thasos, EFA, Athènes, 2000

4) Jacques Jouanna, Hippocrate. Pour une archéologie de l’école de Cnide, Les Belles Lettres, Paris, 20042

5) Jacques Jouanna, Hippocrate, Fayard, Paris, 19952 Ippocrate, trad. it. della prima ed., Torino, SEI, 1994

6) Jacques Jouanna, “Place et rôle de Coray dans l’édition du traité hippocratique des Airs, Eaux, Lieux”, in D. Gourevitch (éd.), Médecins érudits de Coray à Sigerist, De Boccard, Paris, 1995, 7-24.

Cita questo articolo

Gourevitch D., Ippocrate e la Scuola di Kos, Medicina e Chirurgia, 72: 3295-3298, 2016. DOI:  10.4487/medchir2016-72-5

Le scuole mediche di Crotone ed Elea. Il filo rosso del Pitagorismon.71, 2016, pp. 3254-3256, DOI: 10.4487/medchir2016-71-8

Abstract

Southern Italy between the VI and the V century b. C. was an extraordinary lively cultural enviroment. The presence of Pythagoreanism stimulated the philosophers’ thought in every field of knowledge, including the art of healing. The Greek colonies of Croton and Elea were the seat of two important schools of medicine which had been influenced by the Pythagorean intellectual model. By using the literary and epigraphic sources, this article aims at showing how deep this influence was and how it created an interesting web of wisdom in the pre-hippocratic tradition.

Parole chiave: pitagorismo – Crotone ed Elea – tradizione pre-ippocratica

Key Words: pythagoreanism – Croton and Elea – pre-hippocratic tradition

Articolo

La presenza di scuole mediche nelle colonie greche di Crotone ed Elea e dei loro rapporti con la filosofia pitagorica, che dopo l’arrivo di Pitagora da Samo avrebbe trovato proprio a Crotone la sua roccaforte e il suo centro di diffusione, rappresenta uno dei problemi più affascinanti e complessi della storia della medicina. La complessità risiede nella frammentarietà delle fonti, letterarie, epigrafiche e archeologiche, e nell’individuazione di un terreno comune tra pitagorismo e medicina su cui è forse possibile ipotizzare un vero e proprio dialogo scientifico tra i sapienti della grecità d’Occidente.

L’estrema vivacità culturale che caratterizza la Magna Grecia a partire dall’ultimo trentennio del VI sec. a. C. coincide in larga misura con la significativa e pervasiva influenza del pitagorismo. L’arrivo di Pitagora a Crotone (520 a. C. ca) innesca quell’ascesa politica che nel 510 permetterà alla polis di affrancarsi dal dominio di Sibari e di instaurare un vero e proprio dominio indiretto (cfr. Giangiulio 2015, 98) su un’area piuttosto vasta compresa tra lo Ionio, il Tirreno e la Lucania, almeno fino alla metà del V sec. a. C. La sintonia tra il sapiente, considerato quasi divino, e la comunità crotoniate (cfr. Poroh. VPyth. XVIII) consente alla scuola pitagorica non solo di radicarsi nel tessuto sociale della città, ma anche di imporre modelli culturali con cui tutti gli intellettuali, tanto delle colonie quanto della madrepatria, saranno costretti a confrontarsi (cfr. Musti 2005, 103-104). Nel caso di Crotone, il sodalizio con il governo di orientamento aristocratico e conservatore si accompagna a un’integrazione intellettuale che si esprime in uno scambio particolarmente virtuoso con la preesistente scuola medica (cfr. Iambl. VPyth. XXIX 163 sull’interesse pitagorico per musica, medicina e arte divinitoria). Qualche anno fa, G. Marasco, ragionando proprio sui rapporti tra la scuola medica di Crotone e il dilagante successo del pitagorismo, ha tracciato un magistrale quadro di sintesi che individua due ragioni per lo sviluppo così precoce dell’arte medica nella città: l’atletismo (cfr. Capparelli 1944, 213-214; Punzo 2004, 148; 150-151 per le vittorie riportate nei giochi panellenici dagli atleti di Crotone) e la vocazione bellicistica (cfr. Marasco 2008, 12-13). Il caso di Democede, in questo senso, risulta emblematico. Medico alla corte persiana di Dario, ebbe modo di esprimere la doppia abilità acquisita alla scuola di Crotone, l’una relativa alla medicina sportiva, l’altra alla chirurgia di guerra, curando in un caso la slogatura dell’astragalo che il Gran Re si era procurato in una battuta di caccia (cfr. Hdt. III 129), nell’altro il tumore al seno della moglie, la regina Atossa (cfr. Hdt. III 133). Il lessico tecnico utilizzato da Erodoto nel racconto dei successi terapeutici di Democede sembra confortare l’attendibilità della testimonianza (cfr. Squillace 2008, 31-32). Il brillante medico crotoniate, che assurge a fama internazionale, deve probabilmente la sua formazione al padre Callifonte. Questi, stando alla testimonianza del lessico bizantino Suda (cfr. 19 A 2 D-K), sarebbe stato sacerdote di Asclepio a Cnido dove i discendenti di Podalirio avrebbero dato vita a un ramo della famiglia degli Asclepiadi. Callifonte, dunque, istruito nella medicina templare e finito per oscure vicissitudini a Crotone, avrebbe trasmesso al figlio la professione secondo le consuetudini proprie della stirpe degli Asclepiadi (cfr. Marasco 2008, 14-15).

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Ora, al di là delle circostanze storico-aneddotiche che legano i medici di Crotone alla scuola pitagorica (cfr. Hdt. III 137; Iambl. VPyth. XXXV 257-258), particolare rilievo sembrano assumere proprio la matrice sapienziale dell’apprendistato di Callifonte nonché la cooptazione del figlio nell’arte, che tanto ricorda l’associazionismo culturale pitagorico. I pitagorici erano infatti vincolati tra loro e con il maestro da un giuramento che ne faceva una sorta di comunità votata al culto della sapienza. Proprio per questo L. Edelstein, nella sua brillante lettura del Giuramento di Ippocrate, ha individuato uno stretto legame tra le confraternite pitagoriche e i giovani accolti nella famiglia degli Asclepiadi per intraprendere la loro formazione medica (cfr. Edelstein 1987, 4-63). Su questa linea di contiguità intellettuale con i pitagorici si muove Alcmeone che “fiorì quando Pitagora era vecchio” (cfr. 24 A 3 D-K). Le testimonianze e i frammenti che lo riguardano, mescolano considerazioni riconducibili all’esercizio della medicina empirica a più ampie riflessioni di carattere sapienziale. Tuttavia, anche quando Alcmeone “osa” (cfr. 24 A 10 D-K) intraprendere l’esame autoptico del bulbo oculare, con quella perizia chirurgica propria dell’ambiente crotoniate, perché già riconoscibile nell’operato di Democede su Atossa, l’individuazione dei canali che dagli organi di senso conducono al cervello, offre il destro per la costruzione di una sorprendente fisiologia del pensiero. Non basta. La consonanza tra la salute dell’uomo intesa come isonomia (“equilibrio”) delle forze corporee (cfr. 24 B 4 D-K) e la salute dello stato intesa come uguaglianza davanti alla legge dei membri della aristocrazia, per preservare l’eynomia (“buon governo”: cfr. Musti 2005, 201-202), sembra associare Alcmeone a quella visione pitagorica unificante della realtà che sposta lo statuto dell’arte medica da un approccio sostanzialmente esperienziale a una più vasta meditazione filosofico-sapienziale. Di qui ad accogliere il sistema delle coppie oppositive il passo è breve, e lo è rispetto a un tema essenziale per la sopravvivenza delle poleis: l’embriologia. Dai pitagorici Alcmeone attinge la teoria encefalo-mielogena del seme, alla coppia pitagorica destra-sinistra Parmenide associa la determinazione del sesso del nascituro (cfr. 28 B 17 D-K, su cui vd. Lesky 1951, 1265).

I frammenti embriologici del filosofo di Elea contribuiscono a rafforzare due considerazioni:

  1. Gli interessi dei presocratici vanno ben oltre gli incasellamenti a cui li sottopone la manualistica tradizionale;
  2. L’esistenza nella colonia focese di una vivace scuola medica.

Nel 1965, infatti, Ebner (cfr. Ebner 1962, 4-6) pubblica quattro epigrafi rinvenute nello scavo di un Asclepieion. La quarta, databile su base paleografica alla metà del I sec. d. C., recita:

“Parmenide, figlio di Pirete, medico (physikos nel testo dell’epigrafe: cfr. Calogero 1968, 69-71 per una più prudente proposta di traduzione) degli Uliadai”.

L’epiteto Uliades chiama in causa Apollo Ulios in quella funzione di sanatore che lo accomuna al culto di Asclepio. Ora, se è vero che il termine physikos (cfr. Pugliese Carratelli 1965, 306) è genericamente riferito a tutti i presocratici da Aristotele in poi (Cfr. D-K III, 463 s. v.), il fatto che anche i tre iatroi pholarchoi (“medici folarchi”) delle precedenti iscrizioni siano definiti Ulis lascia intendere l’appartenza di Parmenide a un’associazione cultuale di carattere medico (cfr. Pugliese Carratelli 1990, 269-270; sull’appartenenza di Parmenide a una scuola medica, secondo la testimonianza della tradizione araba, cfr. Musitelli 1985; Pugliese Carratelli 1990, 272-276). E a riprova della presenza di una scuola medica a Elea, Pugliese Carratelli (cfr. Pugliese Carratelli 1963, 386) ricorda l’invio da Cos di θεωροί nel 242 a. C. (cfr. Herzog-Klaffenbach 1952, nr. 1, 21; 29). Che questa scuola fosse poi legata agli ambienti pitagorici, lo si evince proprio dall’etimo di pholarchos: infatti, sulla base delle glosse di Polluce (cfr. Iul. Poll. VI 8) e di Esichio (cfr. Hesych. s. v. pholeon), esso potrebbe indicare un culto collocato in un antro o in un edificio costruito come un antro a imitazione delle grotte “che a Samo e a Crotone offrivano a Pitagora un mistico ritiro” (cfr. Pugliese Carratelli 1963, 386). Dunque, le riflessioni embriologiche di Parmenide di Elea, basate sulla coppia oppositiva destra-sinistra, o meglio, sull’opposizione delle coppie destra-maschio, sinistra-femmina, che si tratti della provenienza del seme o del suo posizionamento nell’utero (cfr. Lloyd 1962; 1972; Kember 1971), e l’adesione di Alcmeone di Crotone alla medesima logica degli opposti (cfr. 24 A 3 D-K) testimoniano l’incidenza del modello ermeneutico pitagorico negli ambienti medici italici di VI-V sec. a. C., che sembrano dialogare tra di loro proprio in virtù di questa pervasiva presenza culturale. Del resto, il legame tra Parmenide e il pitagorismo trova riscontro in tutta una serie di testimonianze: Diogene Laerzio (cfr. Diog. Laert. IX 21) racconta di un certo Aminia, pitagorico e maestro di Parmenide, Strabone (cfr. Strabo VI 1, 1) definisce pitagorico il filosofo di Elea, Giamblico (cfr. Iambl. VPyth. 267) lo annovera tra i seguaci di Pitagora, come pure fa Nicomaco di Gerasa (cfr. 28 A 4 D-K).

Bibliografia

1) Calogero 1968 = G. Calogero, Filosofia e Medicina in Parmenide, in Filosofia e Scienza in Magna Grecia, Atti del V Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto, 10-14 ottobre 1965, Napoli, L’arte tipografica, 1968, 69-71.

2) Capparelli 1944 = V. Capparelli, La sapienza di Pitagora, I, Padova, CEDAM,1944.

3) D-K = H. Diels-W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, I-III, Dublin-Zürich, Weidmann, 1971.

4) Ebner 1962 = P. Ebner, L’errore di Alalia e la colonizzazione di Velia nel responso delfico, «Rassegna Storica Salernitana»1962; XXIII: 3-44.

5) Edelstein 1987 = L. Edelstein, Ancient medicine, Baltimore and London, Johns Hopkins University Press, 1987.

6) Giangiulio 2015 = M. Giangiulio, Democrazie greche. Atene, Sicilia, Magna Grecia, Roma, Carocci, 2015.

7) Herzog-Klaffenbach 1952 = R. Herzog-G. Klaffenbach, Asylieurkunden aus Kos, «Abh. d. Deutschen Akad.», Berlin, Akademie Verlag, 1952.

8) Kember 1971 = O. Kember, Right and Left in the sexual theories of Parmenides, «JHS» 1971; 91: 70-79.

9) Lesky 1951 = E. Lesky, Zeugungs- und Vererbungslehren der Antike und ihr Nachwirken, Mainz, Akademie der Wissenschaften und der Literatur, 1951.

10) Lloyd1962 = G. E. R. Lloyd, Right and Left in Greek philosophy, «JHS» 1962; 82:56-66.

11) Lloyd 1972 = G. E. R. Lloyd, Parmenides’ sexual Theories. A reply to Mr. Kember, «JHS» 1972; 92: 178-179.

12) Marasco 2008 = G. Marasco, La società crotoniate, i Pitagorici e lo sviluppo delle scienze mediche, in G. De Sensi Sestito (a c. di), L’arte di Asclepio. Medici e malattie in età antica. Atti della giornata di Studio sulla medicina antica, Università della Calabria 26 ottobre 2005, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008, 7-28.

13) Musitelli 1980 = S. Musitelli, Ancora sui ΦΩΛΑΡΧΟΙ di Velia, «PP» 1980; XXXV: 241-255.

14) Musitelli 1985 = S. Musitelli, Da Parmenide a Galeno. Tradizioni classiche e interpretazioni medievalinelle biografie dei grandi medici antichi, «Memorie dell’Accademia dei Lincei» 1985; serie VIII, vol. XXVIII 4: 217-276.

15) Musti 2005 = D. Musti, Magna Grecia. Il quadro storico, Bari, Laterza, 2005.

16) Pugliese Carratelli 1963 = G. Pugliese Carratelli, ΦΩΛΑΡΧΟΣ, «PP» 1963; XVIII: 385-386.

17) Pugliese Carratelli 1965 = G. Pugliese Carratelli, ΠΑΡΜΕΝΕΙΔΗΣ ΦΥΣΙΚΟΣ, «PP» 1965; XX: 306.

18) Pugliese Carratelli 1990 = G. Pugliese Carratelli, La scuola medica di Parmenide a Velia, in G. Pugliese Carratelli, Tra Cadmo e Orfeo. Contributi alla storia civile e religiosa dei Greci d’Occidente, Bologna, il Mulino, 1990, 269-280.

19) Punzo 2004 = G. Punzo, Le città della Magna Grecia e i loro campioni, in G. Punzo-A. Teja (a c. di), Agonistica in Magna Grecia. La scuola atletica di Crotone, Calopezzati, Edizioni del Convento, 2004, 137-213.

20) Squillace 2008 = G. Squillace, I mali di Dario e Atossa. Modalità d’intervento, tecniche terapeutiche, modelli di riferimento di Democede di Crotone (nota ad Erodoto III 129-134, 1), in G. De Sensi Sestito (a c. di), L’arte di Asclepio. Medici e malattie in età antica. Atti della giornata di Studio sulla medicina antica, Università della Calabria 26 ottobre 2005, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008, 29-62.

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Cilione M., Le scuole mediche di Crotone ed Elea. Il filo rosso del Pitagorismo, Medicina e Chirurgia, 71: 3254-3256, 2016. DOI:  10.4487/medchir2016-71-8

Risvegli. La neurologia letteraria di Oliver Sacksn.71, 2016, pp. 3251-3253, DOI: 10.4487/medchir2016-71-7

Abstract

At the end of World War I a strange disease appeared first in Europe and then all over the world: the encephalitis lethargica. Patients that survived infection developed, sometimes immediately, sometimes after many years, a post-encephalitic syndrome, characterized primarily from an atypical form of Parkinsonism. In the Thirties these patients were treated with a vinous decoction of nightshade, introduced by the popular Bulgarian healer Ivan Raev. But over the years, no therapy was effective in relieving symptoms of these patients, “frozen” in a long sleep, who populated the hospices and hospitals for the chronically ill. When, in the Sixties, the treatment with L-dopa was introduced for Parkinson’s disease, the British neurologist Oliver Sacks had the opportunity to investigate the effects of this drug on post-encephalitic patients, an experience that shook his scientific and literary life. The passionate book Awakenings, written by Sacks, is an inspiring exploration of the transformations that these patients underwent after the administration of L-dopa. A masterpiece of medical narrative, it addresses fundamental questions of human life: suffering, illness, health, cognitive empathy with the sick.

Parole chiave: Sindrome post encefalitica – Morbo di Parkinson – L-dopa

Key Words: Post-encephalitic syndrome – Parkinson’s disease – L-dopa

Articolo

Da ragazzino voleva fare il chimico. Era affascinato dalla tavola periodica degli elementi di Mendeleev – quel modo scoperto dallo scienziato russo di disporre razionalmente i mattoni fondamentali allora conosciuti della materia, sulla base delle loro proprietà – che lasciava immaginare la possibilità di imbrigliare in uno schema razionale l’ordine elementare della natura. Così Oliver Sacks trascorse i suoi anni giovanile quasi in un dialogo serrato con le sostanze elementari, che parlavano attraverso le proprietà, l’odore, il colore, la lucentezza delle loro superfici, i riflessi cromatici che emettevano alla fiamma. Un ricordo intenso che lo accompagnò tutta la vita fu la visione della grande tavola periodica esposta nel Museo della Scienza di South Kensington a Londra alla sua riapertura nel 1945, appena terminata la guerra. In realtà si trattava di una gigantesca vetrina di legno con tanti scomparti, ognuno dei quali etichettato dal nome di un elemento, il suo simbolo chimico e l’indicazione del peso atomico. Tutti distribuiti in una precisa posizione, dipendente dalle loro proprietà. Colpiva soprattutto, nello scomparto della vetrinetta corrispondente, la presenza di un campione di ogni singolo elemento, quando ottenuto in forma pura ed esponibile in condizioni di sicurezza. Oliver Sacks li osservava affascinato, percorrendo con lo sguardo quella sorta di “regno geografico” popolato da tanti enti chimici diversi disposti in gruppi, che definivano come dei territori, separati da precisi confini. Tornò più volte ad osservarla e fu una delle esperienze emotivamente memorabili della sua vita. Una passione, quella per la chimica, propiziata da Dave, “zio Tungsteno”, lo zio che fabbricava lampadine con filamenti di tungsteno1. Negli anni dell’infanzia e della prima adolescenza la chimica diventò un porto sicuro per Sacks, fatto di certezze e fenomeni affascinanti. Era un ragazzino timido e insicuro, che nella danza delle sostanze – e nella regolarità dei fenomeni che da loro sprigionava – trovava il modo per combattere l’introversione che ingabbiava la sua vita. Così usciva dalla grande casa edoardiana di Londra della famiglia – dove la musica era dappertutto – e si rifugiava nello stabilimento di zio Tungsteno a sentire racconti chimici affascinanti sui diversi metalli che componevano i filamenti delle lampadine, su come erano stati scoperti, le procedure per purificarli, quali fossero più adatti, luminosi e resistenti.

La chimica fu un passaggio del suo innamoramento per il mondo. Una passione precoce destinata però a mutare nel tragitto burrascoso e disordinato all’età adulta. Seguendo la tradizione familiare Oliver si iscrisse a medicina affrontando lo studio del corpo con una mentalità naturalistica. Poi si trasferì negli Stati Uniti e diventò neurologo al Mount Zion Hospital di San Francisco e all’Università della California a Los Angeles iniziando a pubblicare lavori scientifici e un libro dedicato all’emicrania. Aveva passione per lo studio degli stati del cervello e della mente, anche quando indotti dal consumo delle sostanze psicotrope. Sentiva che avvicinarsi ai fenomeni neurologici portava direttamente al cuore degli aspetti conoscitivi ed emozionali dell’esperienza umana.

Due incontri scientifico-culturali gli cambiarono la vita. Il primo con le opere di Aleksandr Romanovicˇ  Lurija, un famoso psicologo russo noto per i suoi studi sulla memoria e sulle funzioni corticali dell’uomo. Oliver Sacks lesse con ammirazione la sua descrizione dei pazienti con lesioni dei lobi frontali. Due anni dopo si imbatté in un piccolo libro scritto da Lurija dal titolo Una memoria prodigiosa e iniziò a leggerne le prime trenta pagine “pensando che fosse un romanzo”, poi capì che “in realtà era la descrizione di un caso clinico”, la più “dettagliata e profonda” che avesse mai letto “con la potenza drammatica, il sentimento e la struttura di un romanzo”2. Era quella particolare combinazione “del classico e del romantico, della scienza e della narrazione di storie” che lo colpì come una specie di rivelazione. Presto la fece totalmente sua e quel piccolo libro di Lurija riorientò la sua vita. Ma nel frattempo si verificò un altro incontro memorabile. Trasferitosi al Mount Carmel Hospital di New York, un ospedale per malati cronici, Sacks venne a contatto con un cospicuo gruppo di pazienti – circa duecento soggetti – affetti dai postumi di una singolare malattia, l’encefalite letargica, esplosa alla fine della prima guerra mondiale e durata qualche anno con diffusione mondiale. All’esordio la malattia colpiva tutte le fasce d’età, ma con preferenza individui nel momento più fiorente dell’esistenza, fra i dieci e i quarant’anni. Ne furono colpiti, tra gli altri, il famoso pediatra Scipione Riva Rocci, – inventore dello sfigmomanometro – e il poeta Emanuel Carnevali. La mortalità era elevata, a seconda delle casistiche fra il 30 e il 50 % dei soggetti colpiti. Chi sopravviveva poteva seguire nell’immediato un duplice destino: l’apparente guarigione clinica oppure lo scivolamento in una forma di parkinsonismo – parkinsonismo post-encefalitico – caratterizzato da grande ipocinesia, tremori e da un comportamento psicopatico e sociopatico. Il gruppo di pazienti che apparentemente guarivano, tornavano alla normalità per mesi e anni, ma poi sviluppavano anche loro, a scoppio ritardato, la grave affezione extrapiramidale. Negli anni Trenta questi ammalati erano stati curati con una strana terapia erboristica – un decotto vinoso di belladonna – inventata dal guaritore popolare bulgaro Ivan Raev3. La pozione veniva somministrata più volte al giorno e aveva l’abilità di ridurre drasticamente il tremore e di migliorare il movimento. Il trattamento era stato accolto con entusiasmo dalla Regina Elena di Montenegro – moglie di Vittorio Emanuele III – grande appassionata di medicina e ostetricia, la cui figlia Giovanna era la moglie dello zar di Bulgaria, Boris III. Proprio attraverso i suoi legami familiari con la dinastia regnante nello stato balcanico, la sovrana italiana aveva saputo delle qualità curative dell’intruglio inventato da Raev. Su suo impulso la  strana terapia venne sperimentata a Roma dal neurologo Giuseppe Panegrossi in una sezione clinica speciale dell’Ospedale  Umberto I e poi si diffuse in tutto il mondo venendo utilizzata per anni. Naturalmente all’intruglio originale si sostituirono poi formulazioni farmaceutiche più maneggevoli, come le compresse prodotte dall’Istituto Sieroterapico Milanese. Tuttavia, con il passare dei decenni, i sintomi della malattia si sclerotizzavano in una esasperante immobilità, una prigione dei movimenti che impoveriva la vitalità dei colpiti, irrigiditi in posture fisse, come statue di cera solidificata. Purtroppo anche la terapia con la belladonna perdeva allora di efficacia. In questa situazione Oliver Sacks trovò i pazienti nel 1966 quando assunse il ruolo di medico neurologo nel Mount Carmel Hospital di New York, un ricovero dove gli eccezionali encefalitici che avevano contratto la malattia acuta decenni prima trascinavano nell’acinesia la loro esistenza, accuditi pazientemente dal personale infermieristico. Corrispondevano esattamente alla definizione di “vulcani spenti” introdotta dal neuropsichiatra austriaco Constantin von Economo, il medico che per primo aveva identificato la malattia verso la fine della Prima Guerra Mondiale. Privi di qualsiasi prospettiva terapeutica popolavano le corsie dell’ospedale dando quasi la sensazione che nell’insieme costituissero un singolare museo delle cere viventi. Nel frattempo, tuttavia, una novità terapeutica era apparsa improvvisamente sulla scena neurologica mondiale. Lo studio del morbo di Parkinson aveva permesso di identificare nel depauperamento in dopamina del sistema nigro-striatale una delle cause patogenetiche della malattia. Da queste osservazioni sperimentali era nata l’idea di tentare il trattamento di questi pazienti con un precursore di questo neurotrasmettitore, la levo-diidrossifenilalanina o L-dopa, in grado di attraversare la barriera emato-encefalica e raggiungere così il cervello e i sistemi neuronali compromessi nella malattia. All’inizio del 1967 il medico greco-americano George Constantin Cotzias e i suoi collaboratori poterono annunciare l’efficacia del trattamento con L-dopa dei pazienti affetti da morbo di Parkinson. La notizia si diffuse in un baleno a livello mondiale, ma le applicazioni erano limitate dal costo elevato del farmaco, oltre 2000 sterline per una libbra, 454 grammi. Questo fatto limitò subito la possibilità del trattamento con L-dopa dei pazienti post-encefalitici del Mount Carmel Hospital “che era un istituto di carità, povero, sconosciuto, senza collegamenti con alcuna università o fondazione, ignorato dall’industria farmaceutica e privo di sponsor nel mondo economico o presso le autorità”4. I pazienti affetti da parkinsonismo post-encefalitico, non popolavano le corsie ospedaliere dove si faceva ricerca clinica, ma si trovavano prevalentemente confinati negli ospizi per cronici ”dove la Medicina odierna non si prende cura di scendere”. Pochi erano i medici, come Sacks, “entrati nelle sale e nelle corsie più appartate degli ospedali e dei ricoveri per cronici, e pochi avevano la pazienza di ascoltare e di osservare, di scandagliare la fisiologia e il dramma umano di questi pazienti sempre più inaccessibili”.

Le condizioni mutarono decisamente verso la fine del 1968 quando il prezzo del farmaco si abbassò drasticamente rendendo possibile il trattamento anche degli ammalati del Mount Carmel Hospital. Sacks non perse l’occasione che la vita gli stava riservando, si trovava in una situazione favorevole e ottimale per provare la L-dopa nei post-encefalitici così numerosi del ricovero. Se il farmaco aveva dimostrato una sua efficacia nel morbo di Parkinson, niente vietava di pensare che potesse possedere un’efficacia anche nelle simili forme dovute all’encefalite letargica. Come Sacks ricordò molti anni dopo: “Fui eccezionalmente fortunato nell’incontrare quei pazienti in quel determinato momento e in quelle condizioni di lavoro”5. Iniziò così un’esperienza scientifica e umana straordinaria. Perché gli effetti del farmaco si rivelarono subito sconvolgenti. Un grande fuoco covava sotto la cenere. I vulcani spenti si risvegliarono. Con sorpresa, entusiasmo e costernazione, Sacks assistette al ritorno alla vita, purtroppo soltanto transitorio e in situazioni spesso drammatiche, dei suoi pazienti trattati con L-dopa, che si risvegliavano dal carcere fisico e mentale in cui la malattia li aveva progressivamente relegati. “Davanti a tutti i nostri pazienti” – ricordò Sacks – si riapriva, almeno nell’immaginazione, la vita; per la prima volta da quarant’anni potevano credere in un avvenire migliore”6. L’atmosfera che si diffuse fra i pazienti era di un’esaltazione “quasi elettrica”. Leonard L., uno dei ricoverati “batté sulle lettere della tastiera di legno con cui comunicava, in un misto di entusiasmo e di ironia: «La Dopamina   è Resurrectamina. Cotzias è il Messia Chimico»”. Sacks era particolarmente entusiasta per quanto si svolgeva sotto il suo sguardo, ad appassionarlo era una malattia “diversa per ciascun paziente, una malattia che poteva assumere ogni forma possibile, ben a ragione chiamata «fantasmagoria» da coloro che per primi l’avevano studiata”. Finalmente aveva la possibilità di applicare l’insegnamento scientifico e letterario di Lurija, giungere alla scienza attraverso la biografia e la narrazione letteraria dei casi che con meraviglia mostravano tutta la ricchezza di drammi umani inimmaginabili. Il racconto di pazienti che improvvisamente avevano la possibilità di mostrare tutta la gioia di una rinascita ma anche la terribile frustrazione dell’ingiustizia che avevano patito, sentendosi defraudati da un’esistenza mancata. Per alcuni era come se il risveglio corrispondesse a una contrazione del tempo, come se fosse avvenuto nel giorno seguente il momento in cui la malattia aveva colpito. La sensazione di aver viaggiato in avanti lungo gli anni ritrovandosi proiettati nel futuro. Ma chi poteva ripagarli di quanto avevano perso, di tutto quel tempo in cui il mondo era cambiato mentre la loro esistenza si era fermata? Il risveglio dal “sonno” mentale era parallelo a quello fisico, impoveriti da decenni sul piano motorio, sotto l’effetto della L-dopa potevano ora effettuare movimenti sopiti tanti anni prima. E Sacks li osservava, registrando gli effetti del farmaco, interrogandoli, entrando in profonda identificazione empatica con loro. Se dapprima si sentiva come un naturalista che osserva e descrive, ben presto diventò qualcosa di più. Attraverso i pazienti Sacks poteva indagare “ciò che significa essere umani, e rimanere umani, di fronte ad avversità e minacce inimmaginabili”7. Oggetto dei suoi studi diventò “la loro identità e la loro lotta per mantenere un’identità”. Un’impresa che stava nel punto di intersezione “fra Biologia e Biografia” secondo la migliore lezione di Lurija. Da questa straordinaria – e per tanti versi sconvolgente – esperienza umana, scientifica e professionale nacque Risvegli, un capolavoro di scienza narrata, un libro colmo di empatia e di umana comprensione delle tragiche condizioni che talvolta riserva la vita.

Bibliografia

1Sacks O., Zio Tungsteno. Milano, Adelphi, 2002.

2Sacks O., In movimento. Milano, Adelphi, 2015, p. 187.

3Mazzarello P., L’erba della regina. Storia di un decotto miracoloso. Torino, Bollati Boringhieri, 2013.

4Sacks O., Risvegli. Milano, Adelphi, 1987, p. 72.

5Ibid., p. 20.

6Ibid., p. 23.

7Ibid., p. 25.

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Mazzarello P., Risvegli. La neurologia letteraria di Oliver Sacks, Medicina e Chirurgia, 71: 3251-3253, 2016. DOI:  10.4487/medchir2016-71-7

La nascita del concetto di “clinica” negli Scritti medici e in altre opere di Augusto Murrin.70, 2016, pp. 3200-3207, DOI: 10.4487/medchir2016-70-8

Abstract

Anche se il termine clinica è iniziato ad essere usato correntemente tra il XVI e il XVII secolo (secondo quanto registrato dallo Zingarelli) la clinica, intesa come la medicina volta a risolvere i problemi di salute del singolo malato, per lungo tempo non venne considerata una disciplina distinta dal sapere medico generale, così come la figura del medico è stata a lungo considerata unica, sia che questi si limitasse a curare i pazienti nell’attività clinica propriamente detta, sia che si dedicasse anche alla sperimentazione sugli animali e/o alle indagini morfologiche.

Il percorso culturale che portò a ritenere la prassi medica alletto del malato come una disciplina autonoma, sostanzialmente diversa e distinta dalla patologia speciale medica ed ancor più dalla patologia generale, è iniziato nel XVII secolo, venendo a conclusione nella prima metà degli anni ‘90 con gli insegnamenti di Augusto Murri. Questo lungo cammino ideale ha finito per coinvolgere molte figure celebrate dalla Storia della medicina ed è quindi arduo indicare tutti gli attori di questa innovazione del concetto di Clinica. Appare comunque possibile riconoscere tra i suoi protagonisti almeno tre figure chiave: l’olandese Hermannus Boerhaave, principale oppositore delle fantasiose teorie della cosiddetta medicina dei sistemi, il cesenate Maurizio Bufalini, primo avversario in Italia della didattica accademica facente riferimento ai medesimi principi e il marchigiano, Augusto Murri, Clinico Medico all’Università di Bologna ed indiscusso Maestro di Metodologia medica.

Il presente scritto si propone di illustrare- mediante alcuni cenni concernenti le opere di questi AA. – il significato culturale rappresentato dalla precisazione del concetto di clinica per la gnoseologia medica.

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Per presentare la figura scientifica di Augusto Murri si è soliti  utilizzare l’appellativo di “grande clinico” ma – verosimilmente – non tutti coloro che adoperano questo appellativo  sono pienamente consapevoli del preciso significato di questo termine. Si dice che Murri fu un grande clinico perché ebbe successo come medico?  O grande clinico perché seppe formare egregiamente, con il suo efficace insegnamento, un’intera generazione di  giovani medici? O per aver approfondito alcune problematiche relative a particolari malattie come le emoglobinurie o la fisiopatologia della febbre? Certamente Augusto Murri fu anche tutte queste cose e tuttavia il termine “clinico” allude ad un significato distinto da tutte queste accezioni e fa riferimentto ad una ben precisa fase  – e alquanto travagliata vicenda storica della medicina, quella del riconoscimento del concetto stesso di clinica e della sua autonomia come disciplina scientifica. Di questo riconoscimento Augusto Murri deve essere considerato  il principale artefice: pertanto il presente scritto  si propone di presentarne la figura non tanto – o non solo – come medico di successo o come magistrale docente accademico, bensì  come promotore di un modo di svolgere la professione fondato sul ragionamento logico e sulla critica che- come egli stesso precisò –  “non è altro che la logica esercitata sul pensiero”. (Scritti Medici, p. 530).

Appare quindi appropriato iniziare quest’esposizione con alcune considerazioni relative alla pratica medica.

Anche se il termine clinica ha cominciato ad essere usato correntemente tra il XVI e il XVII secolo (secondo quanto registrato dallo Zingarelli) la clinica, intesa come la medicina volta a risolvere i problemi di salute del singolo malato, per lungo tempo non venne considerata una disciplina distinta dal sapere medico generale, così come la figura del medico è stata a lungo considerata unica, sia che questi  si limitasse a curare i pazienti nell’attività clinica propriamente detta, sia che si dedicasse anche alla sperimentazione sugli animali e/o alle indagini morfologiche. Anche più tardi, quando per  il progressivo viluppo degli studi  di fisiologia, di medicina sperimentale, di patologia generale e di anatomia patologica, l’attività dei ricercatori divenne particolarmente caratterizzata distinguendosi sempre più da quella del curante così da far sorgere l’esigenza dell’istituzione di specifiche cattedre relative a queste discipline inducendo i ricercatori ad occuparsi specificatamente di questi settori del sapere medico e ad occuparsi sempre meno della diagnosi e della cura dei malati dedicandosi esclusivamente dello studio teorico-sperimentale dei fenomeni fisiologici e patologici.

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Specchio di tali orientamenti  può  essere considerata l’organizzazione delle Scuole mediche e delle Facoltà mediche ottocentesche i cui corsi erano denominati  “Istituzioni Mediche” a contenuto prevalentemente nosologico. Anche se in alcune università potevano essere impartite lezioni  al letto del malato, che potrebbero essere viste come i primi abbozzi delle più recenti cattedre di Clinica Medica (può essere citata a questo proposito il celebre insegnamento tenuto a Padova da Giovanni Battista dal Monte (1489-1551), ritenuto – anche se non del tutto provato – il primo esempio di autentica Scuola a carattere clinico nella Storia della Medicina (Gasbarrini). Tuttavia, anche questo tipo di didattica veniva svolta più al servizio della nosografia che della clinica medica quale viene attualmente considerata,  dato che l’osservazione dei malati serviva come esempio di quadri morbosi già codificati anziché costituire essa stessa occasione di studio e di ricerca. Ed anche dopo che Claude Bernard ebbe inidicato un fondamento concettuale rigoroso alla metodologia della ricerca biomedica, restava ancora da mettere in chiaro quale fosse la natura della pratica esercitata al letto del malato rimanendo assorbita nell’appellativo  generico di medicina.

Fu ancora  Padova – come ricorda Antonio Gasbarrini – la sede (o una della prime sedi) in cui  il termine di “Cattedra di Medicina Clinica”  trovò la sua denominazione ufficiale.

L’avvenimento si realizzò alla morte di Andrea Comparetti, che fu insegnante dal 1782 al 1801 di Medicina Sperimentale  e, contemporaneamente,  titolare della Schola Institutionum Medicarum o Scuola dei trattati teorico-pratici. Alla sua scomparsa, i due insegamenti vennero scissi: il primo, venne affidato a un suo allievo, Domenico Marani, assumendo la denominazione  di Schola Medicinae Praticae in Nosocomio mentre l’altro insegnamento fu assegnato a Francesco Luigi Fanzago.

Quattro anni più tardi, nel 1806,  le denominazioni di entrambe le cattedre vennero ulteriormente cambiate: la prima, quella affidata a Marani divenne la Cattedra di  Clinica e terapia speciale per medicina interna, la seconda assegnata al Fanzago, Cattedra di Patologia Speciale.

La denominazione di Cattedra di Clinica Medica comparve pressappoco negli stessi anni anche in altre sedi  universitarie:  ad esempio a Bologna ad opera di Antonio Testa, nel  1802.

Questi avvenimenti avrebbero potuto chiarire definitivamente il problema della natura epistemologica della prassi medica come disciplina autonoma, meritevole di un insegnamento distinto dalla nosografia; non tutti gli studiosi del tempo ritennero giustificata la divisione tra medicina teorica e medicina praticata, ritenendo, quest’ultima nient’altro che l’applicazione dei principi propri della prima. Ed ancora negli anni seguenti, fino al XX° secolo, fra i clinici di diversi paesi europei – Polonia e Italia soprattutto – continuarono a confrontarsi due differenti orientamenti epistemologici. Da un lato veniva ritenuto che la medicina dovesse comunque mantenere un assetto unitario e che l’attività clinica, sia che fosse dedicata alla diagnosi e alla terapia, sia che fosse rivolta alla costruzione di teorie patologiche, costituisse comunque un unicum nel quale non era possibile distinguere parti diverse. Così, per esempio, il più deciso difensore di questo punto di vista – il clinico padovano Achille De Giovanni (1838-1916) – ha sostenuto l’idea che la medicina clinica sia una disciplina biologica, simile a tutte le altre e che l’attività professionale dei medici  debba essere considerata una scienza unica, a un tempo teorica e pratica. L’altra prospettiva epistemologica, invece, vedeva nella prassi medica una disciplina sostanzialmente diversa e distinta dalla patologia speciale, e ancor più dalla patologia generale. Era considerata una scienza rivolta non a chiarire i fenomeni biomedici generali, ma gli eventi patologici riscontrabili nei singoli pazienti. (Filosofia della Medicina a cura di G. Federspil, P.D. Giaretta, C. Rugarli, C Scandellari e P. Serra; Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008, pp. 177 e segg)

Va del resto rilevato come negli stessi ambienti accademici la distinzione tra i due tipi di attività non sia stata correttamente compresa, a tal punto che (ancora nella seconda metà del secolo scorso) molti Docenti di Clinica Medica svolgevano il loro corso replicando i contenuti propri della Patologia Speciale Medica.

La dicotomia tra medicina teorica e pratica medica  non è questione solo semantica o circoscritta ad eventi di politica accademica. In realtà la questione è  sostanziale. Infatti, come ha fatto notare anche Giovanni Federspil, mentre nelle discipline mediche teoriche, dalla fisiologia alle patologie speciali, le osservazioni riguardano sempre classi di oggetti, in clinica non esistono più affermazioni generali, ma soltanto casi clinici singoli e «spiegazioni» di questi casi. Il clinico, in quanto tale, non si interessa più della legge. Con una felice immagine, Giacinto Viola espresse questo medesimo concetto: “Riferendoci alla curva degli errori, mentre la patologia speciale medica si occupa, per cosi dire, dei centri della curva di seriazione, la clinica si occupa invece di tutti gli sbandamenti da quel centro, della loro posizione rispetto a quel centro e della speciale e sempre nuova combinazione loro nel sistema patologico individuale che viene a formarsi. Impossibile quindi in clinica prestabilire e sistematizzare. In clinica tutto è improvvisazione, caso per caso, e gli ammalati cosi diversi sempre, anche quando hanno la stessa malattia, sono poi così mobili nei loro sintomi e fatti obiettivi, che spesso ciò che di essi si dice alla sera non è più vero al mattino. Invece in patologia medica i quadri morbosi sono statici, sono la codificazione dell’esperienza secolare della medicina, sono espressioni medie e solo lentamente e insensibilmente si evolvono con il progresso delle conoscenze. Insomma la clinica descrive, diagnostica, prognostica e cura l’«ammalato», la patologia speciale descrive, diagnostica, prognostica, cura le «malattie». La prima si occupa sempre di un avvenimento concreto, la seconda sempre di avvenimenti ideali (in: Grande Dizionario Enciclopedico UTET, 14-15).

Pertanto se ci limitasse a considerare il riconoscimento  formale dell’espressione “clinica medica”, come una questione solo semantica, non si  renderebbe giustizia né del lungo travaglio con cui si è giunti a questo risultato né allo svolgimento del lungo lavorio intellettuale che ne sta alla base né infine, ai dibattiti  – e ai loro protagonisti – che hanno portato il mondo medico a riconoscere il giusto significato epistemologico della loro professione. E a questo proposito, anticipando in parte un pensiero assai noto di Augusto Murri secondo cui.” il segreto per riuscire nell’esercizio della medicina non sta tutto nell’acquisto di un gran sapere, né nell’aver veduto un gran numero di malati. Queste son due condizioni certamente utilissime, ma il più essenziale sta nel loro intermedio, ossia nella facoltà di applicare le nozioni acquisite a ogni caso singolo (37, I0). Questo insegnamento  – correttamente inteso – intende affermare che la pratica medica si perfeziona mediante lo sviluppo di metodi nuovi più di quanto non si ottenga mediante l’accumulo di conoscenze.

Non è possibile – se non altro per ragioni di spazio – esporre dettagliatamente le vicende che hanno caratterizzato il percorso tracciato dagli studiosi che si sono impegnati in questa impresa.  Ma procedendo lungo questa linea di pensiero che – di fatto –  pone una sorta di equivalenza tra pratica medica e metodologia, sarà sufficiente qui ricordare – sia pure succintamente – il contributo dato  alla questione da tre grandi protagonisti: Hermannus Boerhaave, Murizio Bufalini e principalmente, Augusto Murri.

Hermannus Boerhaave nacque a Leiden  in Olanda.  Studiò nella sua città natale e nel 1701 ebbe la cattedra di medicina teorica. Insegnò inoltre botanica e chimica aderendo a concezioni meccanicistiche  e materialiste. Come medico e consulente,  riscosse uno straordinario successo divenendo famoso in tutta l’Europa; venne consultato dalle più celebri personalità della cultura e della politica del tempo. Il grande Albert von Haller che fu anche suo allievo e  che scrisse i Commentarii alle Istituzioni di Boerhaave, lo definì communis totius Europae preceptor . Alla sua morte, Boerhhaave lasciò un’ingente fortuna, frutto della sua attività di grande successo come medico e di consulente.

Per comprendere appieno l’importanza del pensiero sostenuto da Boerhaave è necessario ricordare l’influsso che i cosiddetti sistemi medici  avevano esercitato e continuavano ad esercitare sulla prtica medica, nei secoli XVIII e XIX

A quei tempi , in contrasto con il principio dominante in medicina che affermava la necessità di una spiegazione chimica e fisica di tutti i fenomeni della vita (Castiglioni p. 516) sorge con Giorgio Ernesto Stahl  autore della sua opera principale, nella quale asserisce essere principio supremo della vita, l’anima, la quale provoca nell’organismo una serie di movimenti dai quali dipende la vita sana, normale e la cui eventuale  alterazione  determina la malattia. Il carattere esclusivamente speculativo delle affermazioni di Stahl si prestarono a far nascere, ad opera di vari Autori , di dottrine più o meno disparate essenzialmente basate all’assunzione dell’esistenza di diversi principi primordiali origine di tutta una serie di fenomeni osservabili nell’organismo sano e in quello malato.

Ognuno di questi autori, si ritenne autorizzato, pur in assenza di elementi di prova oggettivi, a farsi assertore e sostenitore di un sistema  teorico che pretendeva di spiegare tutti i fenomeni degli organismi viventi: al sistema animistico di Stahl si sostituirono via via  dottrine  che finirono per caratterizzare un’epoca della storia della Medicina, nota attualmente come Medicina dei, sistemi: appellativo derivato o, per lo meno riecheggiante – dal titolo  di un’opera  la Medicina Rationalis Systematica scritta da uno di questi Autori, Federico Hoffmann (1660-1742). Così nei secoli seguenti – dal XVII al XIX – si susseguirono nella pratica medica vere e proprie concezioni filosofiche, dalla  concezione animistica dello Stahl, al vitalismo di William Cullen(1712-1790) e  di Alberto von Haller (1708-1777) ,al brownianismo di John Brown  (1735-1788) fino al mesmerismo  fondato di Francesco Mesmer (1734-1815) che può essere ritrovato sia pure con accezioni molto modificate, anche in attuali tecniche terapeutiche (magnetoterapia, pranoterpia.

La comparsa  sulla scena medica europea dell’olandese Hermannus Boerhaaven segna una fondamentale svolta che modifica  profondamente il pensiero e la pratica medica del tempo

Boerhaavesi oppose con autorevolezza alle astrazioni degli aderenti ad ogni tipo di sistema medico e affermando con forza la necessità di fondare il pensiero medico non tanto sul solo studio dei classici, svincolandolo da discussioni filosofiche e metafisiche e rivolgendosi piuttosto all’esame del malato secondo il concetto essenzialmente ippocratico. Nel suo insegnamento afferma il principio secondo cui bisogna considerare l’organismo sano o malato indipendentemente da ogni dogmatismo:  al letto del paziente deve  cessare ogni discussione teorica, poiché scopo della medicina non è quello di interpretare le origini del male quanto piuttosto quello di perseguire la guarigione del paziente, in un contesto genuinamente ippocratico. In sostanza, Boerhaave capovolge il principio sostenuto, fino all’estremo, dai sistemisti dottrina consisteva nel “costruire dapprima le teorie sulle quali adattati  gli esperimenti ed adagiato il malato” (Castiglioni, p.540).

A quel tempo tuttavia l’invito di esaminare accuratamente il malato  risultava praticamente sterile anche per la mancanza di standardizzati procedimenti d’esame dei malati. Se ne rese conto lo stesso Boerhaave  il quale, nel 1751 si pose questo problema e tentò di risolverlo pubblicando egli stesso il De Methodo Studii Medici Prolegomena, in due volumi, vero e proprio trattato (Fig. 2) su tutte le materie ritenute al tempo utili all’insegnamento della medicina, ivi comprese nozioni di geometria, di meccanica fisica, di botanica, oltre – naturalmente – a nozioni specifiche di anatomia, di chimica, di patologia e di materia medica. Ma la caratteristica estremamente innovativa e che più interessa l’analisi che si sta facendo, è costituita da un corposo capitolo (Fig. 3) – la pars X – dedicata alla Semeiotica.

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La fama acquisita da Boerhaave in tutta Europa per le sue doti di medico, di diagnosta e di terapeuta si mantiene anche attualmente; il suo pensiero trova ampia descrizione sui testi di Storia della Medicina soprattutto per aver saputo riportare la medicina nell’ambito delle concezioni tipicamente ippocratiche; non minor merito sembra a chi scrive fu l’aver completato il corpus didattico della medicina indicando le basi di quella disciplina – la metodologia medica – naturale ed indispensabile perfezionamento di ciò che sarà il futuro insegnamento clinico.

Il successo e la fama di Boerhaave come medico non furono tuttavia sufficienti a persuadere il mondo medico dell’inconsistenza delle idee sostenute dai sistemisti i quali continuarono almeno fino la seconda metà del de XIX secolo – a professare e ad insegnare  i loro principi. Tra loro vanno ricordati  almeno  Antonio Giuseppe Testa (1/56-1814), Giovanni Rasori (1766-1837) e Giacomo Tommasini (1768-1846).

Ma in questi stessi anni, cominciarono a manifestarsi anche alcune ferme  critiche nei riguardi dei sistemi medici, sollevate,  in ambito accademico, da un giovane assistente di Clinica Medica a Bologna: Maurizio Bufalini.

Maurizio Bufalini, nato a Cesena nel 1787, era un giovane assistente di Antonio Testa allora titolare della Cattedra di Clinica Medica all’Università di Bologna da lui istituita nel 1802, assertore della concezione vitalistica. Ancora da studente, nel 1813, Bufalini aveva scritto un saggio “Della dottrina della vita” nel quale affermava, contrariamente alle tesi del suo Direttore, che la vita è un fenomeno complesso che non può essere definito se non dalla conoscenza di tutti i fatti minori che la costituiscono, e sostenendo di conseguenza, che il semplice dinamismo – uno dei sistemi medici dei quali si è detto – è un assurdo. Qualche anno più tardi, nel 1819 scrisse “I fondamenti della patologia analitica” nei quali proclamava, a  fondamento della scienza medica, l’esame dei fatti. (Castiglioni, p. 607).

Nel 1814 Antonio Testa moriva e nelle more della nomina del successore l’insegnamento venne affidato per incarico per un anno, al giovane Bufalini, dalle idee del tutto diverse ed opposte a quelle diffuse dallo stesso Testa a da Giacomo Tommasini.  che sarà,  nel 1815, il reale successore titolare del Testa. Nel breve tempo in cui insegnò a Bologna, Bufalini si adoperò a contrastare l’uso di teorizzazioni, dei sistemi e delle interpretazioni solo “filosofiche” dei fenomeni della natura, cercando di persuadere i colleghi della necessità di sostituirvi il metodo sperimentale, fondato sulla osservazione dei fatti e sulla loro interpretazione critica: in questo modo, Bufalini  andava ponendo  le basi di quel razionalismo critico che doveva ricevere la completa maturazione e il pieno sviluppo da parte di Augusto Murri, salito più tardi nel 1875 alla cattedra di Clinica Medica bolognese. Tuttavia le esortazioni di Bufalini non riscossero a Bologna molta considerazione e nel 1829 gli fu negata la successione al Tommasini. Trasferitosi il Tommasini a Parma, la carriera di Bufalini continuò poi dopo un periodo di difficoltà familiari, a Firenze ,dove fu chiamato nel 1835 dal locale Governo Granducale a insegnare Clinica Medica,  proprio quando in Italia il vitalismo, altamente proclamato dalle scuole dominanti di Rasori e di Tommasini, era giunto all’apogeo. Anche più tardi, morti il Rasori (1837) e il Tommasini (1846), e pur smorzatisi i clamori e le avversioni, i consensi nei confronti di Bufalini non furono mai pieni.

Il ruolo della metodologia in medicina ha rappresentato – assieme alla confutazione delle teorie vitalistiche – il nucleo più importante dell’opera di Bufalini. Sarà qui bastevole per dare un saggio del pensiero metodologico bufaliniano, la citazione di questi primi capoversi dei  Canoni sui primi più generali fondamenti del metodo scientifico:

  “Io non ammetto i così detti principi a priori, perché non credo che uomo alcuno abbia la facoltà di crearli, come di leggieri può a ognuno fornirne argomento la propria coscienza. [ … ]

  Io non ammetto che le cognizioni dei fatti, e perciò non altro che scienza empirica o sperimentale, come comunemente si dice.

  Intendo essere un fatto ciò che nell’ ordine dell’universo sappiamo avere un’esistenza, o permanente o transitoria. [ … ]

  Ogni fatto non si conosce, che o per osservazione diretta, o per avvertimento della coscienza

La relazione di causa e d’effetto non si può conoscere, se non si osserva la cagione nell’ atto di operare il suo effetto: perciò ogni volta che, come accade spesso, si presentano più cagioni possibilmente acconcie alla generazione d’un effetto noi non sappiamo quale di esse veramente lo generi, se non, rimuovendole a una a una, scorgiamo infine quella, che non si può rimuovere, senza che pur se ne tolga l’effetto, né si può variare, senza che similmente vari l’effetto. In tale modo soltanto noi possiamo osservare il fatto della relazione di causa e d’effetto (citati da. Filosofia della Medicina, p. 184 ). 

Specie in quest’ultimo canone, che riecheggia quello che sarà il cardine del principio falsificazionista popperiano, mostra tutta la modernità del pensiero bufaliniano. Certamente  la più evoluta e rigorosa concezione metodologica di Bufalini non può essere paragonata per contenuti al Methodus di Boerhaave,  è  tuttavia possibile ravvisare almeno una continuità ideale con l’Autore olandese, sulla base della comune convinzione dell’essenzialità del metodo  per la formazione medica.  Una più stretta continuità di pensiero e di esposizione è presente invece, tra il pensiero  metodologico del Bufalini e  quello di Augusto Murri.

Augusto Murri  nacque a Fermo il 7 settembre 1841. Nel 1863 conseguì il diploma di dottore in Medicina e Chirurgia a Camerino e il 23 novembre 1864, dopo un periodo di pratica a Pisa e a Firenze ottenne in quest’ultima città, il grado di laureato in Medicina.

Appena laureato ottenne borse di studio per l’estero con le quali si  recò a Parigi dove conobbe e studiò con Bouillaud, Bazin, Hardy, Ricord, Fournier, Piorry e specialmente Trousseau. L’anno successivo fu a Berlino dove frequentò le cliniche di Frerichs e di Traube. Al periodo berlinese (1864-66, circa) appartengono le ricerche sull’itterizia che, pubblicate nel 1868 in Italia, avranno molta importanza sulla sua vita professionale. In questo lavoro sostenne, contro il parere di Leyden e di Frerichs, che l’atrofia giallo acuta del fegato non è tanto una malattia a sé, quanto la possibile fase finale di varie malattie del parenchima epatico e che essa è sperimentalmente riproducibile  mediante intossicazione con fosforo.

Tra il 1866 e il 1869, dopo il ritorno in Italia, fu per un certo periodo disoccupato. Ottenne poi un interinato di sei mesi a Sanseverino Marche poi una condotta a Cupramarittima, poi a Fabriano e infine a Civitavecchia. Nel 1868 compare su “Lo Sperimentale” il lavoro eseguito a Berlino: “Sulla natura del processo morboso dell’itterizia grave” e l’anno dopo, nel 1869, Baccelli, Clinico Medico di Roma, colpito favorevolmente dal lavoro di Murri,  lo invitò a concorrere per l’assistentato nella sua Clinica Medica di Roma. Così, nel 1870, Murri divenne assistente di Baccelli ed iniziò gli studi sulla genesi della febbre. L’anno dopo, nel 1871 divenne Aiuto alla Clinica Medica di Roma diretta dallo stesso  Baccelli e negli anni seguenti, pubblicò “Del potere regolatore della temperatura animale” (1873) e “Sulla teoria della febbre” (1874).

Nello stesso anno, 1874, consigliato da Baccelli partecipò ad un concorso per esami alla Cattedra di Clinica Medica di Torino. Nonostante le assicurazioni di Baccelli, risultò terzo, sembra perché, pur avendo tenuto una lezione dai contenuti eccellenti, aveva sbagliato i tempi dell’esposizione.

Nel 1875, il ministro Bonghi gli fece chiedere se avrebbe accettato di andare a Padova dove era divenuta vacante la cattedra di Clinica Medica, in seguito alla scomparsa di Vincenzo Pinali. Ma Luigi Concato, di origini padovane ed allora alla Clinica Medica di Bologna, reclamò per sé il ruolo di Padova. Il ministro nominò allora Murri alla Clinica Medica di Bologna.

La città di Bologna non accettò di buon grado né la partenza di Concato né la nomina del quasi sconosciuto Murri: nacquero polemiche sui giornali e negli ambienti accademici. Ma Il ministro confermò comunque la nomina e quindi Murri approdò a Bologna in un clima a lui ostile. Il 19 gennaio 1876, Murri, tenne la prolusione all’insegnamento  della Clinica Medica con un discorso dotto e, nello stesso tempo, equilibrato guadagnando la stima della cittadinanza bolognese  nonché quella di quasi tutti i Colleghi (rimarranno ancora per qualche anno alcuni cosiddetti “concatiani” a lui non favorevoli).

Il 19 gennaio 1902, si festeggiò la conclusione di 25 anni di insegnamento di Clinica e in tale occasione, gli venne conferita la cittadinanza onoraria di Bologna. Sempre in tale occasione, un folto comitato di Colleghi, allievi ed  estimatori, si fa promotore della ristampa (Fig. 4) di numerosi lavori scientifici di Murri che vengono pubblicati in tre volumi dalla Casa Editrice Gamberini e Parmeggiani di Bologna sotto il titolo di “Scritti Medici di Augusto Murri” .

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ll 1902 è anche l’anno in cui inizia l’avvenimento più tragico della vita di Augusto Murri e della sua famiglia. Il 2 settembre di quell’anno, il conte Francesco Bonmartini, marito della figlia di Murri, Linda, viene trovato ucciso nella sua casa mentre la famiglia era in ferie a Venezia.  Pochi giorni dopo, Murri viene a sapere dal fratello di lui, avvocato Riccardo, che il figlio Tullio, si era rivolto a lui confessandosi autore dell’uccisione del cognato e chiedendogli un consiglio legale. Murri alla polizia invitando il figlio a costituirsi. Il 14 settembre 1902, venne arrestata anche la figlia Teodolinda (Linda) quale sospetta ispiratrice e complice dell’assassinio del marito e pochi giorni dopo Tullio si costituì. I due vennero giudicati a Torino nel 1905: Tullio fu condannato a 30 anni di reclusione e Linda a 10.

Sconvolto da queste vicende, Murri chiese un’aspettativa di due anni per motivi di salute ed il suo insegnamento si interruppe temporaneamente. L’anno successivo chiese addirittura l’esonero definitivo dalla docenza. Ma il ministro Nasi lo invitò a fruire interamente del suo periodo di aspettativa esprimendo tuttavia la speranza che egli ritornasse poi all’insegnamento.

Così, il 14 gennaio 1905, terminato il periodo di aspettativa e su pressione di personalità e di studenti, Murri tornò ad insegnare, nonostante che la vicenda familiare fosse tutt’altro che conclusa ed anzi si stesse per avviare verso la fase più dolorosa ed impegnativa, quella del processo. In quest’occasione Murri pronunciò le sue più famose lezioni su “Il pensiero scientifico e didattico della Clinica Medica bolognese”, vera pietra miliare della metodologia medica.

Nel 1912 al compimento di 35 anni di insegnamento, viene pubblicato su iniziativa della Società Medica Chirurgica di Bologna, un volume collettaneo   dal titolo “Scritti Medici in omaggio ad Augusto Murri” (da non confondersi con il precedente del 1902 dal titolo assai simile) che raccoglie lavori di vario argomento redatti da vari autori appartenenti o vicini alla Scuola murriana. La dedica è assai eloquente in relazione alla notorietà ed alla stima che Murri aveva acquistato tra la classe medica bolognese: “Ad Augusto Murri Maestro insigne di Clinica Medica che rinnova nella forza del pensiero filosofico nella purezza dello stile e della parola nella vastità della dottrina nella meraviglia della didattica l’antico genio della stirpe nostra nel XXXV anno di insegnamento questo volume la Società Medica Chirurgica di Bologn dedica”

Nel 1913 Murri si ammalò e dovette sottoporsi ad un importante intervento chirurgico addominale. Ma la sua attività di clinico e di studioso continuò: nel 1914  comparve una delle sue opere più famose: “Il Medico Pratico”

Nel 1916, raggiunto il 75° anno di età fu collocato a riposo Ma la sua attività di studioso continuò fino a tarda età: nel 1918 pubblicò il “Saggio di perizie medico-legali” seguita da “Dei medici futuri” (1922); infine, all’età di 82 anni, nel 1923, pubblicò “Nosologia e psichiatria”, nella quale avversò nuovi tentativi di rinascita di vitalismo in medicina.

Nel maggio del 1931, durante il festeggiamento del novantesimo compleanno di Murri, il podestà di Bologna G. Berardi lo nominò cittadino onorario di Bologna. Fu questa l’ultima onorificenza tributata a Murri: l’anno seguente, l’11 novembre 1932, Augusto Murri muore nella sua casa a Bologna all’età di 91 anni. E’  tumulato nella tomba di famiglia nel cimitero di Fermo.

Nella piuttosto vasta produzione editoriale di Murri, l’opera più nota più letta e più citata è senza dubbio la raccolta delle sue lezioni cliniche (Lezioni di clinica medica 1905-1906 Società Editrice Milano, 1919 (Fig. 5) [La prima edizione è del 1908]). In realtà una raccolta di Lezioni di Clinica Medica di Augusto Murri venne effettuata nel 1883-1884 da Alessandro Codivilla e da Napoleone Cavara; una copia di queste “dispense” (Figg. 6-7) fu trovata da Giovanni Danieli nella biblioteca di famiglia e dallo stesso pubblicata nel 2001 in mille esemplari numerati, fuori commercio, con la prefazione di chi scrive.

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Meno letta e meno conosciuta – ma non meno significativa – è invece la sua più corposa opera collettanea ”Scritti medici di Augusto Murri  in tre Tomi, Tipografia Gamberini e Parmeggiani, Bologna, 1902”  che  raccoglie la produzione scientifica relativa ai primi anni del suo magistero, comprendente i testi di varie conferenze e di relazioni congressuali.

Nel primo tomo, sono  comunque comprese quattro Prelezioni: quella pronunciata il 20 novembre 1876 (La clinica come scienza e come arte);  La prelezione  1881 (Della Scienza sperimentale e della teoria cellulare rispetto alla Clinica (in due lezioni); la prelezione  1883 (Se e come l’opera dei medici riesce utile); e la prelezione 1889 (Del buon senso nella Medicina pratica) Nello stesso volume si trova il testo della famosa Prolusione al Corso di Clinica Medica che – letta il 19 gennaio 1876 capovolse l’opinione inizialmente ostile a Murri, della Facoltà medica e della cittadinanza bolognese.

In generale la produzione di Murri risente di uno stile tipicamente didattico: ne è conseguito che negli anni successivi commenti, citazioni e riproposizioni del suo pensiero siano stati riportati, da parte dei vari AA. che se ne sono occupati, mediante estrapolazioni di frasi simili a massime di comportamento o a  sentenze a carattere filosofico: in breve in forma assai simile a quella propria degli aforismi.  Forse lo stesso Murri si accorse di questo possibile distorsione – cui potevano andare incontro i suoi insegnamenti e volle chiarire senza mezzi termini la sua posizione: “Una delle tendenze antiche, ch’ io però combatto sempre più, perché molti moderni la propugnano senz’avvedersene, è quella degli aforismi e delle regole nette e precise. Questa specie di sapienza medica arieggia assai quella popolare della filosofia dei proverbii e perciò trova molto favore. È certo, che il condensare in poche parole una serie di osservazioni è utile per tutti, massime per chi deve imparare. Ma c’è anche un gran pericolo in tutte le formule generali, perché non ce n’è una, che resista a tutte le prove.. Aggiungendo: “Ci sono tuttora dei Clinici che insegnano per sentenze, per aforismi e hanno gran fortuna come maestri, perché lo scolaro torna a casa credendo d’avere con se un tesoro. E sarà ben così il più spesso. Ma anche il professore erra e lo studente porta seco anche gli errori del maestro, se non ha l’abitudine di esaminare col proprio cervello le sentenze di tutti” (Lezioni cliniche, p. 60).

Tuttavia la sua produzione scientifica  venne criticata perché troppo settoriale e complessivamente carente delle classiche trattazioni  sistematiche su qualche argomento medico, e quindi non sarebbe stata in grado di contribuire ad un efficace progresso della medicina. L’insegnamento metodologico, al tempo, era considerato di secondaria importanza specie se condotto sotto forma di un razionalismo eminentemente critico.

Lui tuttavia si difendeva dicendo : “Non tutti, certo, pensano così: il metodo critico è faticoso e dispiace a molti; ma, s’esso è veramente necessario per giungere alla verità, bisogna subirlo o bisogna rinunziare a coltivare una scienza. Qualche collega non malevolo, un po’ infastidito da qualche obbiezione mossagli, si sfoga dandomi dell’ipercritico, ma questa è una parola, non una ragione. [Scritti Medici, 502) “In vero, se io avessi potuto aspirare ad una lode, nessuna mi sarebbe giunta sì ambita come questo rimprovero. Un eccesso di critica, come si concepisce?” (Lezioni cliniche, p. 13).

Per quanto riguarda la citata critica all’opera di Murri, di essere cioè troppo settoriale  e priva di contenuti specifici della patologia, potrebbe essere condivisa solo se si trascurassero i più volte citati “Scritti medici” nei quali sono riportati studi approfonditi a carattere monografico su precisi argomenti: vedi ad esempio, il complesso di considerazioni sulle emoglobinurie (da frigor,  sifilitica,  da chinina) o quelle in tema di aritmie cardiache, di problemi pneumologici e sul meccanismo del fenomeno di Cheyne Stokes, o infine sulla termogenesi e sulle diverse manifestazioni del fenomeno della febbre: veri capitoli di fisiopatologia  sicuramente attuali ed innovativi considerata l’epoca.

Il pensiero metodologico di Murri sui compiti del clinico e del medico in generale è il risultato di un’analisi acuta e lineare dei difetti della professione medica di allora e sui rimedi necessari. Murri afferma, innanzitutto, che la diagnosi medica è un atto squisitamente intellettuale e non un semplice atto classificatorio

“Messi davanti ad un uomo ammalato, il nostro obbligo intellettuale è di scoprire il perché dei suoi disordini”. (Citato da: Augusto Murri di Aldo Spallicci, p.132)

“Più invecchio e più vedo chiaro, come l’esercitare per bene la medicina sia cosa ardua. I profani non hanno neppure una lontana idea di questo: tu inciampi ad ogni piè sospinto in qualche persona d’ingegno, che ti chiede il rimedio per la tal malattia, persuaso che la patologia sia una specie di ufficio postale, in cui non s’ha da far altro che mettere o togliere le lettere nelle caselle, secondo l’ordine alfabetico. Ma anche nei medici è rarissimo un esatto concetto dell’ufficio del pratico. Molti mandano a memoria le sentenze apprese in scuola o nei libri e vanno innanzi con esse senza addarsi mai della fallacia d’alcune di esse; altri s’invogliano di qualche dottrina e su quella modellano ogni particolare loro giudizio. … [Ma] la dote più eccellente per un pratico è … la sua critica. Inutile ch’egli abbia pieno di notizie il cervello se non sa misurarne il valore” (Psicopatie gastriche …, Rif. Med., 1911).

E’ quindi errato credere che il problema clinico possa essere risolto per semplici collegamenti analogici tra ciò che si vede in un malato e ciò che si è letto nei libri o si è visto in altri pazienti, perché “non c’è un malato che sia eguale all’altro”.

“E’ facilissimo di concluder male, quando si trae la diagnosi da pochi sintomi anzi che da tutti. …. Capitano ad ogni passo sillogismi come questo: “la malaria dà la febbre intermittente; il paziente abita in una zona malarica e ha la febbre intermittente, dunque la sua intermittente è da malaria”…. Bisogna guardare più addentro, non contentarsi di conoscere ciò che ci fu, bisogna sapere ciò che c’è  bisogna cercare, cercar sempre e forse allora sarà svelato un fatto che mostri come nessuna di queste cause esistenti sia quella che nell’individuo dà veramente origine all’intermittente, un fatto al quale non s’era neppur pensato” (Il medico pratico, p. 26-27).

In  sostanza il metodo clinico secondo Augusto Murri  poggia essenzialmente su tre pilastri fondamentali: osservare molto; criticare tutto e dubitare di tutto; ragionare rigorosamente.

Osservare:

“Un clinico dovrebbe guardare, tastare, ascoltare, percuotere, pesare, misurare, consumare quanti più reagenti chimici che può, applicare congegni meccanici… studiar preparati microscopici, sperimentare sugli animali, fare indagini batteriologiche. Però dovrebbe parlare il meno possibile – molti fatti e punto chiacchere – ecco il Clinico vero!” (Lezioni cliniche, p. 39)

Criticare:

“Nella clinica, come nella vita, bisogna avere un preconcetto, uno solo, ma inalienabile – il preconcetto che tutto ciò che si afferma e che par vero può essere falso: bisogna farsi una regola costante di criticare tutto e tutti, prima di credere: bisogna domandarsi sempre come primo dovere; “perchè devo io credere a questo”?” (Lezioni cliniche, p. 21)

Ragionare:

“Ma come ricostruire [il processo morboso]? Lo ripeto: ciò è possibile solo colla ragione. L’immaginazione, rigorosamente contenuta dalla critica, permette di ricongiungere con un’ipotesi ragionevole le parti empiricamente note. Se il clinico non deve far questo, rinunzi allora a comprendere: ma se vuole comprendere, non può fare che così” (Lezioni cliniche, p. 41).

Cos’è quindi per  Augusto Murri la Clinica?  Come si è già detto, la clinica non consiste solo in un gran sapere, ma nel saper applicare le nozioni acquisite ad ogni caso, non è tanto erudizione quanto intelligenza e perspicacia nell’agire. Per Murri, quindi l’attività del clinico è prevalentemente educazione mentale e sotto questo aspetto, la Clinica va considerata come una disciplina del tutto particolare essa: infatti non si occupa di quelle realtà astratte che sono le malattie, ma di quei problemi reali che sono le situazioni patologiche presenti nei singoli pazienti.

Murri ha dimostrato che la Clinica è di fatto fondata sulla Metodologia. Una metodologia  che risente delle prospettive epistemologiche di Autori come Stuart Mill e Claude Bernard, applicate alle specifiche situazioni della diagnosi Tuttavia, pur nell’ambito di un’epistemologia sostanzialmente induttivista ha saputo liberarsi da una concezione metodologica troppo rigida, riconoscendo il ruolo fondamentale della critica razionale e dell’analisi dell’errore nell’attività del medico, sì da poter essere a ragione considerato un precursore  delle impostazione ipotetico-deduttive e fallibiliste che molta fortuna avrebbero conosciuto nel dibattito epistemologico successivo.

Bibliografia

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Murri A. Saggio di Perizie Medico Legali, Nicola Zanichelli Editore, Bologna, 1918

Murri A. Pensieri e Precetti. A cura di A. Gnudi e A. Vedrani. Nicola Zanichelli Editore, Bologna, 1919

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Scandellari C. – Augusto Murri e il suo pensiero metodologico   Bollettino della Facoltà di medicina e Chirurgia dell’Università di Ancona, III (7-8): 12-16, 2000

Spallicci A. Augusto Murri. Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1944

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Scandellari C., La nascita del concetto di “clinica” negli Scritti medici e in altre opere di Augusto Murri, Medicina e Chirurgia, 70: 3200-3207, 2016. DOI:  10.4487/medchir2016-70-8