Il ruolo organizzativo e pedagogico del Presidente di Corso di Laurea Magistrale in Medicinan.60, 2013, pp.2683-2698, DOI: 10.4487/medchir2013-60-3

Abstract

Until lately, the Presidents of the Italian Undergraduate Curricula in Medicine were fully aware of their role in curriculum managing only. A recent reform of the Italian University Structure, shifting the focus from the Schools of Medicine to the single Departments, gave the Curricula Presidents larger autonomy but also burdened them with new managerial tasks, especially in the field of quality assurance. In the meantime, the spurs received by the National Conference of Undergraduate Curricula Presidents, through its Educational Innovation Committee, and the bench-mark of International Medical Education, are convincing the Italian Curricula Presidents of their constitutional role as promoters of the new achievements of research in Medical Education, too. In this setting, the Educational Innovation Committee organized a workshop, open to all the Undergraduate Curricula Presidents, on the topic of their changing role. The workshop was held in Rome (Sapienza University) on the 23rd June 2013, and gained a wide attendance.

The workshop was subdivided into two subsequent Sessions, respectively dealing with the managerial and educational roles of the Presidents of Undergraduate Curricula in Medicine. Each Section was organized in three contemporary working groups. Each class was lead by an expert in medical education and by a chairperson, and worked separately on a different topic. At the end of each Session,  a plenary debriefing allowed all participants to share the conclusions of the different groups. The topics addressed in the single groups were: Session 1 (managerial role): 1.1) the role of the President of the Undergraduate Curriculum in Medicine; 1.2) the role of the Coordinators of the single Integrated Courses and Terms (Italian curriculum is 6-year long and is arranged into 12 subsequent semesters); 1.3) the role of the Teaching-Educational Committee (every President should by assisted by a technical committee including both teachers and students, and in some Curricula a proper Medical Education Committee is also present); Session 2 (educational role); 2.1) quality control, including self-evaluation, on curriculum efficacy; 2.2) teaching and learning clinical skills; 2.3) modalities of learning assessment. 

Articolo

 

Premessa

In questo articolo si dà ragione, per sommi capi, dell’atelier pedagogico che il Gruppo di Lavoro Innovazione Pedagogica ha organizzato per la Conferenza Permanente dei Presidenti di Corso di Laurea Magistrale (CLM) in Medicina, a Roma Sapienza il 23 Giugno 2013.

Scopo di questo atelier era di fare il punto sul ruolo del Presidente del CLM in Medicina, soprattutto in questa fase delicata di passaggio in cui viene ridefinito il ruolo di raccordo della facoltà, o della scuola di Medicina. Il Presidente di CLM si trova oggi ad essere coinvolto sempre di più in un’impegnativa ricerca di eccellenza didattica e di innovazione pedagogica, che ne esalta le doti di pedagogista, ma anche i crescenti compiti organizzativi (una volta in gran parte demandati alle facoltà) che affronta spesso senza avere adeguate strutture di supporto.

In questo contesto, è maturata la decisone di coinvolgere i Presidenti di CLM in un atelier, che affrontasse tali tematiche. Queste hanno confermato la loro grande attualità, stante l’adesione senza precedenti riscontrata: hanno partecipato 48 tra Presidenti e loro delegati e 5 Studenti in rappresentanza del SISM (per l’elenco dei partecipanti si rimanda all’Appendice in calce a questo articolo).

– la prima, dedicata al ruolo manageriale della  Presidenza del CLM, si è concentrata, in altrettanti Laboratori, sugli attori dell’organizzazione didattica: il Presidente di CLM, la Commissione Tecnica di Programmazione didattico-pedagogica (CTP) e il Coordinatore Didattico di anno/semestre e di corso integrato;

– la seconda, incentrata sul ruolo pedagogico del Presidente di CLM, ha affrontato, in altrettanti Laboratori, alcuni temi squisitamente pedagogici quali: la valutazione dell’apprendimento, le attività formative professionalizzanti e, in questa fase di interazione con l’ANVUR, la valutazione dell’efficacia didattica.

Ogni Laboratorio è stato animato da un esperto (in genere un Presidente di CLM o un membro del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Pedagogia Medica) e da un moderatore (in genere un Presidente di CLM).

Sessione I: Laboratorio No. 1

Tema: Il ruolo del Presidente di Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia

Esperto: Giuseppe Familiari (Roma Sapienza, Polo S. Andrea)

Moderatore: Maria Filomena Caiaffa (Foggia)

Obiettivi: Al termine del Laboratorio, i partecipanti dovranno essere consapevoli che il Presidente, oltre alle responsabilità formali della gestione del CLM, ha anche le seguenti responsabilità/obblighi:

– indirizzo verso modelli innovativi e aggiornati di pedagogia medica, condivisi con la comunità internazionale;

– promozione dei valori fondanti della professionalità e del comportamento eticamente corretto;

– attenzione a che vi sia il giusto equilibrio di ruoli all’interno della comunità co-educante (Corpo Docente/Studenti/Pazienti).

Il ruolo del Presidente di CLM: da quello istituzionale a quello pedagogico

Il Presidente del Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia (CLMMC) riveste un ruolo oltremodo complesso, in un momento storico caratterizzato da un rapido cambiamento economico e sociale. Andreas Schleicher1 definisce emblematicamente tale complessità: “Today, because of rapid economic and social change, Schools have to prepare students for jobs that have not yet been created, technologies that have not yet been invented and problems that we don’t yet know will arise”. Il Presidente del CLMMC, oltre alle responsabilità formali legate alla gestione del Corso di Laurea, dovrebbe quindi avere anche un ruolo di indirizzo verso modelli pedagogici innovativi, aggiornati e condivisi con la comunità internazionale; dovrebbe essere inoltre promotore dei valori fondanti della professionalità e del comportamento eticamente corretto dei docenti e degli studenti; dovrebbe curare che vi sia il giusto equilibrio all’interno della comunità co-educante costituita dal corpo docente, dagli studenti e dai pazienti.

Il Presidente ha, pertanto, non solo un ruolo istituzionale, ma anche un ruolo a forte caratterizzazione pedagogica, comprendente quello della promozione di valori nell’ambito della comunità co-educante.

Il ruolo istituzionale del Presidente è ben descritto nei regolamenti didattici degli Atenei, anche se, in relazione all’applicazione della Legge n. 240 del 30/12/2010, vi possono essere interpretazioni diverse negli Statuti degli atenei italiani. A titolo di esempio, ai commi 4 e 5 dell’Articolo 13 (Corsi di Studio) dello Statuto della Sapienza di Roma è scritto che al “Presidente spetta il compito di convocare il Consiglio, determinare l’ordine del giorno, organizzare la didattica e coordinare – in accordo con il/i Dipartimento/i coinvolto/i le coperture dei singoli insegnamenti” e che “i Consigli operano in conformità al Regolamento Didattico di Ateneo, assicurano la qualità delle attività formative, formulano proposte relativamente all’ordinamento, individuano annualmente i docenti tenendo conto delle esigenze di continuità didattica”.

In estrema sintesi, il Presidente predispone il documento di programmazione didattica che deve essere approvato dal Consiglio, in relazione al piano degli studi, alle sedi delle attività formative professionalizzanti, alle attività didattiche elettive, al calendario delle attività didattiche e degli appelli d’esame, ai programmi dei singoli corsi integrati ed ai compiti didattici attribuiti ai Docenti ed ai Tutori.

Il Presidente, come recentemente previsto dal Decreto Legislativo 27/01/2012 n. 19, riguardante l’introduzione del sistema di accreditamento iniziale e periodico dei corsi di studio, predispone inoltre il rapporto del riesame annuale e provvede ai numerosi adempimenti previsti dall’attivazione della scheda SUA. Questi ultimi compiti previsti dal Decreto Legislativo sono in realtà complessi e ampliano il ruolo del Presidente, là dove alla sua funzione strettamente istituzionale deve essere aggiunta quella che preveda una buona conoscenza e una buona pratica delle regole della pedagogia medica.

Il ruolo pedagogico del Presidente non deve però essere considerato solo nel nuovo confronto con il sistema di valutazione e di accreditamento italiano (ANVUR/AVA), ma soprattutto in relazione al confronto obbligato con la dimensione internazionale della medical education, dove sono costantemente rivalutate le diverse abilità del core curriculum (curriculum planning), la certificazione del loro effettivo raggiungimento (learning outcomes), le nuove strategie di apprendimento/insegnamento (approaches to teaching and learning), i metodi di verifica dell’apprendimento (assessment tools) e di tutto quello che riguarda, in senso lato, le metodologie ed il management della formazione del medico.2,3,4,5 

L’attenzione del Presidente dovrà essere incentrata anche e soprattutto sull’efficacia di singole parti del processo formativo, come ad esempio l’erogazione delle attività e i risultati di apprendimento nei singoli corsi integrati e nei singoli moduli all’interno dei corsi integrati, bilanciando l’attenzione tra qualità del processo e qualità del prodotto, allo scopo di organizzare il curriculum in maniera più sistematica, più trasparente e soprattutto rendendo i docenti più responsabili.6

Uno strumento pratico ed efficace per guidare la riflessione sulle strategie pedagogiche del corso di laurea in Medicina e Chirurgia è sicuramente offerto dalle SPICES di Harden.7 Come suggerito dal metodo SPICES, in una visione moderna, ed ampiamente accettata dalla letteratura internazionale, la didattica moderna dovrebbe essere centrata sull’apprendimento piuttosto che sull’insegnamento (Student-centred education), finalizzata all’apprendimento per problemi (Problem-based learning), con integrazione interdisciplinare e interprofessionale (Integrated education), a misura di studente (Elective-driven education) e sistematica (Systematic education).8 Alcuni esempi di organizzazione curriculare derivano anche da questo modello, come il curriculum dal profilo biomedico-psico-sociale caratterizzato da forte integrazione verticale tra scienze di base e scienze cliniche, dall’inizio precoce della formazione clinica e da un percorso verticale di metodologia medico-scientifica e scienze umane che accompagna lo studente sino alla laurea.9,10,11

Un insegnamento moderno deve inoltre fare espresso riferimento ai valori che possono trarsi dall’apprendere all’interno della comunità, nei cui confronti il Corso di Laurea dovrebbe avere maggiori responsabilità formative.12,13,14

Il ruolo del Presidente di CLM, promotore di valori ed armonizzatore della comunità co-educante

Il ruolo pedagogico del Presidente deve essere considerato in senso ancora più ampio, in relazione ai comportamenti eticamente corretti che dovranno acquisire gli studenti in formazione, all’interno di un contesto formativo che ne sappia far emergere correttamente le potenzialità inespresse.15,16,17

È emblematica, in tal senso, la proposizione posta da Stefano Semplici,18 Presidente del Comitato Internazionale di Bioetica dell’UNESCO: “se nelle Facoltà di Medicina si debba semplicemente insegnare come funziona il corpo umano, a quali rischi di malattia è esposto e come le diverse patologie possono essere efficacemente curate o si debba piuttosto integrare questo fascio sempre più differenziato di competenze in una visione del senso della pratica medica, dei suoi fini e dunque, conseguentemente, dei suoi doveri”. Sempre dallo stesso autore, il richiamo all’Art. 6 del Codice Deontologico FNOMCeO là dove è scritto: “il Medico è tenuto a collaborare alla eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario, al fine di garantire a tutti i cittadini stesse opportunità di accesso, disponibilità, utilizzazione e qualità delle cure” ed il suo commento che riportiamo integralmente: “Non si tratta, con tutta evidenza, di uno standard di competenza. Si tratta del dovere morale di opporsi all’idea che ogni cittadino ha diritto alla speranza di salute che è in grado di comprare e nulla più. Questa tesi non si trova nei trattati di anatomia e non corrisponde alle condizioni di esercizio della pratica medica in molti paesi. Fa parte, con altri principi come quello del rispetto dell’autonomia del paziente, di una prospettiva etica, prima ancora che di un quadro normativo giuridicamente vincolante, che si chiede di condividere. E che dunque dovrebbe essere insegnata. Come non sempre accade, almeno in forma curriculare esplicita, visto che la bioetica e l’etica medica continuano a spiccare per la loro assenza in molte delle Facoltà di medicina italiane”. Senza dubbio parole forti e importanti, su un tema che ha già l’attenzione dei Presidenti.

Anche nella prospettiva internazionale, è forte la consapevolezza del fatto che i valori della professionalità (professionalism) debbano essere incorporati all’interno dell’intero percorso curriculare.19

I valori della globalizzazione dell’educazione medica sono infine importanti nella visione che ogni singolo Corso di Laurea di Medicina e Chirurgia non debba essere una entità isolata, ma debba condividere culture ed esperienze di tipo internazionale. Affrontare i temi della salute globale significa inevitabilmente incrociare la questione della complessità e dell’efficacia con quella dei fini e dei beni.

Il ruolo “multifunzionale” del Presidente può essere sinteticamente descritto da queste definizioni:

1. saper organizzare e coordinare le attività didattiche con attenzione alla realtà internazionale, seguendo le giuste innovazioni e suscitando il dibattito corretto tra Docenti e Studenti;

2. saper promuovere comportamenti eticamente corretti sia nei Docenti che negli Studenti;

3. costituire il primo esempio di correttezza professionale, competenza e comportamento nei confronti degli Studenti e dei Docenti;

4. essere in grado di risolvere con equilibrio le problematiche, invece di alimentare discordie, che dovessero porsi nella gestione del corso.

Il Questionario delle Priorità: l’emergenza pedagogico/formativa

Nell’ambito del laboratorio, è stato distribuito ai Presidenti un “Questionario delle Priorità”, nel quale si chiedeva di indicare, tra le 29 azioni pedagogico/formative di miglioramento del Corso di Laurea descritte, le cinque azioni giudicate come urgenti e prioritarie (Tab. 1).

L’analisi dei questionari compilati ha evidenziato la seguente lista delle cinque priorità scelte dai partecipanti, in ordine decrescente:

1. organizzo il tirocinio pratico-formativo degli studenti cercando di creare le condizioni che migliorino la qualità dell’apprendimento in laboratorio ed in clinica (piccoli gruppi);

2. istituisco un gruppo di lavoro per la definizione delle attività didattiche professionalizzanti di concerto con il Preside di Facoltà/Direttore di Scuola e il Direttore Generale dell’Azienda;

3. istituisco o rinnovo la “Commissione Paritetica” con gli studenti, cercando di metterli realmente al centro del processo formativo;

4. potenzio i rapporti internazionali cercando di aumentare il numero di accordi bilaterali ERASMUS e il numero di soggiorni internazionali degli studenti e dei docenti;

5. analizzo i corsi integrati, le modalità di insegnamento e avvio un processo di riorganizzazione delle aggregazioni disciplinari.

L’analisi delle azioni pedagogico/formative, scelte come prioritarie dai Presidenti, pone l’accento sull’esigenza di rinnovamento e di potenziamento su ambiti basilari quali quello del core curriculum e dello svolgimento corretto delle attività didattiche professionalizzanti, il rapporto con gli studenti, la maggiore esigenza di scambi internazionali, la riorganizzazione dei corsi integrati. Questi argomenti rappresentano già materia di studio per la Conferenza Permanente dei Presidenti di CLM in Medicina, e questo censimento di opinione non fa che rafforzare l’idea del giusto percorso intrapreso, già da numerosi anni, dalla Conferenza stessa.

Sono diventato Presidente di Corso di Laurea. Nei primi cento giorni del mio mandato affronto queste priorità di ambito didattico/pedagogico: (indicare non più di 5 opzioni tra quelle esistenti o proponendone altre)

1 Attivo un gruppo di lavoro per la definizione della mission formativa, specifica del corso
2 Analizzo l’organizzazione didattica per valutare il livello di integrazione verticale/orizzontale
3 Analizzo i corsi integrati, le modalità di insegnamento e avvio un processo di riorganizzazione delle aggregazioni disciplinari
4 Analizzo l’organizzazione didattica verificando se è condotta per problemi o è sistematica
5 Istituisco o rinnovo la “Commissione Tecnico-Pedagogica”
6 Istituisco la Commissione “medical education” per implementare la “internazionalizzazione” del CLM
7 Istituisco un gruppo di lavoro per la definizione delle unità didattiche elementari (UDE) ed una analisi/revisione del “core curriculum” su standard Europeo
8 Istituisco un gruppo di lavoro per la definizione delle attività didattiche professionalizzanti di concerto con il Preside di Facoltà/Direttore di Scuola e il Direttore Generale dell’Azienda
9 Mi metto a scrivere un codice di comportamento etico per i Docenti e gli Studenti
10 Analizzo le forme esistenti di valutazione degli studenti (compreso l’esame di laurea), vedo il loro livello di coerenza con gli obiettivi didattici e cerco di razionalizzarne l’organizzazione generale
11 Istituisco o rinnovo la Commissione “Quality Assurance” e mi occupo del controllo dell’efficienza didattica del CLM, facendo anche attenzione all’efficacia didattica dei singoli Docenti
12 Istituisco o rinnovo la “Commissione Paritetica” con gli studenti, cercando di metterli realmente al centro del processo formativo
13 Faccio una analisi delle attività svolte dai coordinatori di semestre/coordinatori di corso integrato e propongo al Consiglio un rinnovo totale/parziale
14 Implemento metodologie didattiche in modalità E-learning avanzate istituendo un gruppo di lavoro ad hoc
15 Implemento o istituisco lo “Skill Lab” o un “Centro di Simulazione Avanzato”
16 Mi occupo, per quanto rientri nelle mie possibilità di gestione, di migliorare la vivibilità dei luoghi di studio, delle aule, dei laboratori. Cerco di rendere disponibili i fondi che sono necessari chiedendo ai Responsabili dei Centri di Spesa correlati al CLM
17 Mi occupo della didattica tutoriale e cerco di rinnovare l’organizzazione esistente
18 Attivo forme di peer-education coinvolgendo studenti anziani e specializzandi
19 Implemento la collaborazione con il territorio promuovendo nuove iniziative/convenzioni con Enti Pubblici, Ospedali, ASL, Ordine dei medici, Associazioni in ambito sanitario etc.
20 Potenzio il servizio di biblioteca con abbonamenti on-line a riviste scientifiche e pedagogiche
21 Potenzio i rapporti internazionali cercando di aumentare il numero di accordi bilaterali ERASMUS e il numero di soggiorni internazionali degli studenti e dei docenti
22 Istituzionalizzo seminari di aggiornamento pedagogico per i docenti, cerco di istituire dei premi per i migliori studenti del CLM, implemento i “grand rounds” e le “conferences”
23 Attivo un percorso di eccellenza centrato sulla ricerca scientifica per gli studenti meritevoli
24 Potenzio e razionalizzo il sito internet del CLM (bacheca, calendari, forum etc.)
25 Mi occupo delle ADE e cerco di implementare le integrazioni interprofessionali
26 Potenzio e razionalizzo l’attività della segreteria didattica del CLM e sottolineo l’importanza del rispetto degli orari di ricevimento degli studenti
27 Se sono Presidente di CLM di un piccolo Ateneo con un numero limitato di Docenti, cerco di risolvere i problemi che possono derivare da pensionamenti e/o maternità del personale docente.
28 Organizzo il tirocinio pratico-formativo degli studenti cercando di creare le condizioni che migliorino la qualità dell’apprendimento in laboratorio ed in clinica (piccoli gruppi)
29 Cerco di organizzare in modo razionale il calendario delle lezioni frontali, del tirocinio pratico-formativo, gli spazi per lo studio autonomo e il calendario di esami.
30 Altro:

Tab. 1 – Il “Questionario delle Priorità” per l’azione didattico-pedagogica del Presidente di CLM in Medicina

Sessione I: Laboratorio No. 2

Tema: Il ruolo del Coordinatore di Corso Integrato e di Semestre/Anno

Esperto: Carlo Della Rocca (Roma Sapienza, Polo Pontino)

Moderatore: Silvio Scarone (Milano Statale, Polo S. Paolo)

Obiettivi: Al termine del Laboratorio, i partecipanti dovranno essere consapevoli che:

– il Coordinatore di Corso Integrato (CCI) e il Coordinatore di Semestre/Anno (CS) hanno funzioni sia tecnico-organizzative che pedagogiche;

– il CCI e il CS lavorano all’interno e per un progetto pedagogico unitario e condiviso del CLM, con il quale si confrontano continuamente;

– la possibilità che il CCI e il CS hanno di adempiere alle proprie funzioni è strettamente collegata alla capacità di interagire tra loro e con i docenti.

Dopo un breve giro di presentazione, l’esperto ha impostato la propria relazione sui compiti del CCI e del CS presentando una serie di esperienze criticamente riesaminate. A seguire è stato svolto un lavoro in piccoli gruppi costituito dalla pianificazione/programmazione di un semestre tipo (il I semestre del IV anno del CLMMC “E” del Polo Pontino della “Sapienza, Università di Roma”) articolata sulla base di obiettivi didattici, distribuzione dei CFU, tipologia di insegnamento e modalità e calendario degli esami. Il lavoro dei gruppi è stato infine discusso collegialmente ed è stata quindi raggiunta una sintesi motivata e condivisa di quanto elaborato, che ha costituito il prodotto finale del lavoro del laboratorio da presentare in plenaria.

Il ruolo del Coordinatore di Corso Integrato

È stato rilevato come la figura del Coordinatore di Corso Integrato20 sia ormai diffusamente consolidata mentre quella del Coordinatore di Semestre lo è molto meno (96% vs 59% dei CLMMC italiani, fonte Site Visit, III esercizio I Ciclo21)  ed è stato sottolineato come spesso sia il Presidente di CLM a vicariare quest’ultima figura, talvolta anche inconsapevolmente, benché si tratti di un ruolo fondamentale. Per ambedue le figure sono stati quindi delineati sia i compiti pedagogici che quelli organizzativi. Nel caso del CCI è stata ricordata e riproposta la check-list condivisa dalla Conferenza dei Presidenti di CLMMC e  pubblicata nel numero 35/2006 di Medicina e Chirurgia22 (Tab. 2), sottolineando come essa riguardi meramente gli aspetti organizzativi che, se pur minimali, rappresentano comunque l’ossatura del coordinamento di corso integrato.

Tab2 dossier60

In realtà, il germe del valore pedagogico dell’azione del CCI è già insito nei compiti organizzativi sopra ricordati che, tra l’altro, rispondono anche alle esigenze di trasparenza e di comportamento etico indispensabili nell’azione del docente dei nostri CLM. Ad esempio, non si può definire un orario, nel rispetto dei CFU di ciascun modulo, che sia didatticamente valido in termini di distribuzione dei compiti didattici e di pianificazione di attività didattiche coerenti, senza individuare preliminarmente e collegialmente gli obiettivi dell’apprendimento (competenze conoscitive e operative) nel rispetto del core curriculum.Tale azione va fatta partendo da “cosa lo studente deve sapere/saper fare” e non da “cosa il docente pensa di dover  insegnare” e non va disgiunta dall’individuazione di forme di valutazione pertinenti agli obiettivi stessi. In questo senso, a livello del Corso Integrato, l’integrazione tra funzioni pedagogiche e organizzative risulta più immediata anche perché la mancata integrazione tra le due funzioni risulta facilmente in una “scomposizione” dell’integrità del corso stesso, che è macroscopicamente evidente sia allo studente che ai docenti.

Il ruolo del Coordinatore di Semestre

Diverso appare il discorso per il coordinamento di semestre, dove i compiti organizzativi, anch’essi riassunti in una check-list condivisa dalla Conferenza, e pubblicata sempre nel numero 35/2006 di Medicina e Chirurgia (Tab. 3), sono particolarmente rilevanti e possono apparire meno immediatamente integrati con una funzione pedagogica. È per questo che la mancanza del CS nella quasi metà dei CLMMC italiani viene solo apparentemente vicariata da un coordinamento centrale che, nella stragrande maggioranza dei casi, non può far altro che distribuire aule e definire orari.

Tab3 Dossier60

Il Progetto pedagogico di semestre

In realtà è proprio la crucialità del compito organizzativo del Coordinatore di Semestre che può in qualche modo limitarne l’evoluzione in senso pedagogico, e non è raro che questo esiti in una funzione di mero assemblaggio di corsi tra loro rigidamente separati (si pensi alla difficoltà di introdurre, ad esempio, l’esame di semestre24). Funzione pedagogica fondamentale sarebbe, in questo contesto, quella di costruire un progetto di semestre in cui i corsi siano realmente integrati tra loro in termini, ad esempio, di una disposizione dei contenuti didattici secondo una progressione di apprendimento rinforzata anche da calendari di esami che facilitino “corsie preferenziali” a sostegno della stessa progressione di apprendimento. Per fare questo è indispensabile creare una comunità formativa di studenti e docenti centrata sulla trasparenza del patto formativo (blackboard, liste di discussione…) e verificare l’efficacia della didattica con indicatori soggettivi (i giudizi degli studenti e dei docenti) ed oggettivi sia di processo (acquisizione di competenze pedagogiche da parte dei docenti…) sia di risultato (valutazioni formative, il progress test, il flusso degli studenti nel semestre…). Tutto ciò è realizzabile in modo efficace solo se, a livello di CLM, il curriculum è stato realmente programmato secondo un progetto che abbia individuato, per ciascun semestre, un quadro coerente di obiettivi e che il tutto sia concertato e condiviso nell’ambito del rispetto reciproco dei ruoli e delle funzioni dettato dai principi dell’Etica della Pianificazione e dell’Organizzazione, anch’essi condivisi dalla Conferenza e pubblicati nel numero 54/2012 di Medicina e Chirurgia25.

Dibattito e conclusioni

Sulla base di quanto discusso, la proposta di pianificazione e programmazione del semestre-tipo è stata effettuata secondo i seguenti criteri:

– Individuazione di una successione “a cuneo” dei Corsi di Patologia Integrata, in modo che la progressione dell’apprendimento dello studente possa essere per contenuti omogenei (singolo apparato o apparati tra essi integrati; cardiovascolare e polmonare, nefro-urologico, ecc);

– “Spalmatura” dei Corsi di Anatomia Patologica e di Metodologia Clinica durante tutto il semestre con contenuti coordinati con quelli di volta in volta sviluppati nelle Patologie Integrate e con svolgimento di journal club curati dal Coordinatore del Corso Integrato di Lingua Inglese, anch’esso distribuito durante tutto il semestre;

– Centralizzazione, a livello di coordinamento di semestre, delle attività professionalizzanti, organizzate in piccoli gruppi contemporaneamente attivi a rotazione sotto il tutoraggio dei docenti dei diversi corsi, per il raggiungimento delle abilità individuate tra gli obiettivi del semestre stesso.

In conclusione è stato ampiamente condiviso come i ruoli del CCI e del CS non siano solo fondamentali per l’organizzazione puntuale ed “eticamente” corretta del CLMMC, ma che essi possano e debbano rappresentare gli strumenti effettori del progetto pedagogico del Corso di Laurea stesso, progetto che deve essere sviluppato sotto l’impulso e la guida del Presidente di Corso di Laurea, ma che di volta in volta si arricchisce e si modifica in base alle esperienze proprie dei singoli coordinamenti di corso integrato e di semestre.

Sessione I: Laboratorio No. 3

Tema: Il ruolo della Commissione Tecnica di Programmazione Didattico-Pedagogica

Esperto: Stefania Basili (Roma Sapienza, Polo Policlinico)

Moderatore: Bruno Moncharmont (Molise)

Obiettivi: Al termine del Laboratorio, i partecipanti dovranno essere consapevoli che:

– La CTP esercita funzioni istruttorie nei confronti del CCLM, o deliberative su specifico mandato dello stesso;

– La CTP  identifica le necessità didattiche del CCLM e propone le afferenze dei Docenti ai CI;

– La CTP organizza il monitoraggio permanente di tutte le attività didattiche;

– La CTP promuove iniziative di aggiornamento didattico e pedagogico dei Docenti.

La Commissione Tecnica di Programmazione didattico-pedagogica26 (CTP) è presente, come organo del corso di studi, nella maggior parte dei corsi di laurea in Medicina e Chirurgia italiani, sebbene la sua denominazione possa essere differente (ad esempio, Commissione didattica oppure Giunta per la didattica). Anche la sua composizione, così come la periodicità delle sue riunioni, varia moltissimo da sede a sede. Anche le funzioni attribuite alla CTP presentano un ampia variabilità tra le varie sedi.

Composizione e durata in carica della CTP

La CTP è solitamente prevista nel regolamento didattico del Corso di Laurea ed è istituita dal Consiglio di Corso di Laurea, e la sua durata coincide con quella del Presidente, che è in genere triennale.

Nella sua composizione la CTP include sia membri di diritto che membri eletti. Membri di diritto sono il Presidente del Corso di Laurea, che solitamente la presiede, ed il Vicepresidente. Membri eletti sono solitamente dei docenti di ruolo, preferibilmente almeno uno per ogni anno di corso. È auspicabile che la CTP sia composta dai Coordinatori didattici di semestre (o di anno, laddove così previsto). Non vi è uniformità nella presenza dei rappresentanti degli studenti. In alcuni casi la composizione della CTP include tra i membri di diritto il coordinatore del tirocinio (o attività professionalizzanti) ed il manager didattico (o responsabile della segreteria didattica). Il Presidente può integrare la CTP con altri membri, ai quali possono essere attribuite deleghe specifiche e con i vice-coordinatori di semestre, nel caso fossero previsti. Il numero dei componenti è pertanto notevolmente variabile, da un minimo di 8-10 ad un massimo di 25-30. Le funzioni svolte dai componenti della CTP debbono essere riconosciute come compito istituzionale del docente e pertanto certificate dalle Autorità accademiche come attività inerenti la didattica.

Funzioni della CTP

La CTP si riunisce in media una volta ogni due mesi, o ad intervalli più brevi quando se ne presenta la necessità, ed esercita funzioni istruttorie nei confronti del CCLM, o deliberative su specifico mandato dello stesso. In particolare, le attività della commissione si esplicano negli ambiti sottoelencati che, pur rimanendo comunque di pertinenza del Consiglio di Corso di Studi, possono giovarsi della ristretta composizione della commissione per essere definite o implementate in maniera più efficace:

i. definizione del progetto formativo del corso di studi

ii. organizzazione delle attività didattiche

iii. utilizzo delle risorse dedicate alla didattica

iv. monitoraggio della coerenza dei risultati ottenuti con gli obiettivi programmati

v. promozione dell’aggiornamento didattico-pedagogico dei docenti.

Definizione del progetto formativo del corso di studi

La CTP identifica gli obiettivi formativi del core curriculum, li aggrega nei corsi di insegnamento che risultano funzionali alle finalità formative, ed attribuisce loro i crediti formativi, in base all’impegno temporale complessivo richiesto agli studenti per il loro conseguimento. È parte di questa progettazione anche la definizione delle propedeuticità degli esami di profitto e la istituzione di limitazioni alla iscrizione agli anni successivi in funzione della progressione della carriera dello studente. Inoltre la commissione si impegna a riesaminare periodicamente la programmazione didattica in termini di calcolo del numero ottimale di docenti attesi e di attribuzione dei compiti didattici ai docenti. D’intesa con i docenti interessati, individua le metodologie didattiche adeguate al conseguimento dei singoli obiettivi didattico-formativi. È attribuito alla CTP anche il compito di valutare ed organizzare le attività didattiche elettive (ADE) altresì definite attività formative a scelta dello studente (AFASS), sia per quanto riguarda il numero di crediti ad essi attribuibili in relazione all’impegno dello studente, sia per la loro congruità con il progetto formativo.

Organizzazione delle attività didattiche

La CTP, con la collaborazione delle segreteria didattica, pianifica e coordina tutte le richieste organizzative della didattica. Particolare incombenza tecnica della CTP è la assegnazione di aule adeguate per le lezioni frontali, dei laboratori per le lezioni interattive e delle strutture assistenziali per le attività professionalizzanti. La Commissione ha la responsabilità, poi, di redigere il calendario delle attività didattiche, e di conseguenza l’orario delle lezioni, con particolare riguardo alle festività religiose, alla disponibilità delle aule ed alla pianificazione delle attività professionalizzanti. Grazie alla presenza dei docenti dei diversi anni di corso, la commissione deve stabilire anche il calendario delle verifiche di profitto, per ottenere una ottimale distribuzione delle date di esame per gli studenti, e proporre al Presidente la composizione delle commissioni di esame. Laddove se ne ravveda la esigenza, la CTP può discutere con i docenti la modalità di preparazione delle prove – formative e certificative – di valutazione dell’apprendimento, in coerenza con gli obiettivi formativi prefissati.

Il dialogo continuo con i rappresentanti degli studenti ed i coordinatori didattici di semestre o di anno servirà poi alla CTP per intervenire su ulteriori esigenze organizzative che si renderanno manifeste durante lo svolgimento dell’attività didattica, elaborando proposte, redigendo bozze di delibera ed esaminando le pratiche riguardanti gli studenti da sottoporre alla discussione collegiale del Consiglio.

I problemi specifici di singoli studenti che giungono all’attenzione della CTP e che riguardano la progressione della carriera dello studente o, comunque, la vita dello studente all’interno della comunità accademica, dovranno essere affrontati con la partecipazione del tutor al quale lo studente era stato affidato. La CTP non può infatti sostituirsi alla servizio di tutoraggio, ma deve piuttosto favorirne l’utilizzo e l’efficacia.

Utilizzo delle risorse dedicate alla didattica

La CTP valuta, con funzioni propositive nei confronti del CCLM, le afferenze ai corsi integrati di professori e ricercatori, tenendo conto delle necessità didattiche del CCLM, delle appartenenze dei docenti ai settori scientifico-disciplinari, delle loro propensioni e del carico didattico individuale. Per le competenze disciplinari non presenti, la commissione formula proposte di copertura di insegnamenti sia per quanto riguarda la tipologia di copertura (supplenza o contratto) sia per quanto riguarda i requisiti necessari per l’attribuzione. Se coerente con la regolamentazione dei Dipartimenti, la commissione può anche essere chiamata ad esprimere un parere sulle domande di copertura pervenute.

Altro compito della commissione è quello di proporre la distribuzione di risorse finanziarie del Dipartimento in funzione delle necessità dei diversi corsi integrati e delle proprie iniziative pedagogiche (acquisto di manichini e attrezzature didattiche, finanziamento di attività pedagogiche).

Monitoraggio della coerenza dei risultati ottenuti con gli obiettivi programmati

La CTP esegue una rilevazione continua della specifica realtà del CLM, dei suoi limiti e punti di forza, tramite il continuo ascolto delle istanze degli studenti e dei docenti, e tramite un’analisi ragionata dei risultati delle rilevazioni delle opinioni degli studenti e dei dati relativi alla progressione delle carriere degli studenti di ciascuna coorte. Inoltre, individua parametri di risultato e di processo, e verifica, con l’ausilio di questi, l’efficacia della didattica, programmando successivamente, d’intesa con i docenti, azioni di miglioramento. Da queste azioni deve conseguire una revisione periodica del curriculum degli studi, dell’articolazione dei corsi integrati e dell’attribuzione dei CFU sulla base dell’evidenza sperimentale raccolta.

Sulla base di queste attribuzioni la CTP può a pieno titolo svolgere le funzioni del Gruppo di riesame previsto dal DM 47/13, provvisto che nella composizione siano rappresentati gli studenti ed il personale tecnico amministrativo, assumendo quindi un ruolo ben definito nel processo di autovalutazione ed accreditamento (AVA).

a CTP promuove iniziative di aggiornamento didattico e pedagogico dei docenti e dei tutor clinici, d’intesa con la commissione per la medical education interna al Corso di Laurea o all’Ateneo (laddove istituite).27 La commissione inoltre pianifica varie forme di sperimentazione didattica, ne segue l’esecuzione e ne valuta i risultati.

Dibattito e prospettive future

Dalla discussione con i partecipanti all’atelier è emerso che, sia pur con tutte le differenze esistenti, la CTP è un organo indispensabile nella complessa realtà di un corso di laurea in Medicina e Chirurgia, al quale le sue stesse peculiarità (durata, integrazione didattica-assistenza, formazione dello studente per una figura professionale ben definita, per citarne solo alcune) impongono una organizzazione forte e ben strutturata. La commissione però, lungi dall’essere un apparato burocratico sclerotizzante, deve essere intesa come un organo dinamico, propositivo ed innovativo, soprattutto se essa si impegna a coinvolgere tutti i docenti del corso di laurea a riconsiderare i propri modelli di insegnamento alla luce degli attuali modelli di innovazione pedagogica nel campo della medical education.

Una ulteriore considerazione è emersa dalla discussione delle attribuzioni della CTP passate in rassegna nei paragrafi precedenti. È evidente che alla CTP sono attribuite funzioni importanti sia nella fase di progettazione del corso di studi che della sua realizzazione, nonché funzioni di verifica della coerenza dei risultati ottenuti con gli obiettivi definiti. Queste attribuzioni consentono alla CTP di svolgere tutte le azioni previste da un processo di qualità. Nell’ottica degli adempimenti previsti dal processo AVA (autovalutazione, accreditamento iniziale e periodico delle sedi e dei corsi di studio e valutazione periodica, DM 47/13 e documento ANVUR del 9 gennaio 2013) la CTP, oltre che configurarsi in Gruppo di riesame (come già fatto rilevare precedentemente), potrà e dovrà svolgere un ruolo fondamentale nel coadiuvare il Presidente del corso di studi per la compilazione della scheda SUA finalizzata all’accreditamento iniziale. Per contro, proprio le specifiche attribuzioni della commissione nel campo della progettazione del corso di studio e del processo di autovalutazione non possono consentire ai componenti della CTP (né tantomeno al Presidente del consiglio di corso di studi) di partecipare come componenti o coordinatori delle commissioni paritetiche docenti studenti previste dalla legge 240/10, alle quali è attribuito il compito di verifica interna della efficacia dell’attività di autovalutazione dei corsi di studio.

Sessione II: Laboratorio No. 4

Tema: La valutazione dell’efficacia didattica

Esperto: Fabrizio Consorti (Roma Sapienza “C”, Polo Policlinico)

Moderatore: Licia Montagna (Milano Statale, Polo Humanitas)

Obiettivi: Al termine del Laboratorio, i partecipanti dovranno essere consapevoli che:

– la valutazione è un’attività multidimensionale, basata su valori;

– la valutazione più corretta e utile è inquadrata in una ottica di “sistema”.

Valutazione di profitto, di processo e di risultato

Nel mondo della formazione, quando si parla di valutazione si intende un insieme di azioni il cui esito è quello di produrre un giudizio di valore su un “oggetto”, situazione o evento. In didattica, quando parliamo di valutazione si è soliti associarla alla valutazione di profitto del discente. Si tratta di un modello che si è affermato principalmente nei sistemi scolastici e di derivazione comportamentista.

La valutazione di profitto parte dalla definizione di obiettivi educativi misurabili e osservabili, con la finalità di misurare il livello di performance raggiunto alla fine del processo di apprendimento28,29,30. Questo modello, essenziale per la definizione e la valutazione di obiettivi core nella formazione sanitaria, risulta riduttivo quando si tratta di valutare abilità complesse quali le competenze relazionali, di ragionamento e di assunzione di decisioni, e soprattutto non tiene conto degli elementi di processo che hanno portato lo studente a quel risultato, ovvero non considera come oggetto della valutazione il processo di apprendimento e la modalità con cui viene ottenuta la performance osservata. Se, come detto, questo modello è considerato essenziale nella formazione sanitaria, perché permette di definire e assicurare con un buon margine di precisione un livello standard di perfomance dei futuri professionisti della salute (medici, infermieri), dall’altro restituisce una fotografia che, per quanto precisa, è anche estremamente povera rispetto all’intero percorso formativo dello studente. Non permette di comprendere i processi che hanno portato ad un determinato risultato, i fallimenti, le difficoltà, le risorse messe in campo per superarle.

Accanto a questo modello, da diversi anni nel mondo della formazione si parla di valutazione di risultato, ovvero di un sistema di valutazione che non si focalizza solo sui contenuti o sui comportamenti misurabili, ma considera anche il cambiamento del soggetto nel percorso di apprendimento, attraverso una vasta gamma di eventi, e lungo tutto l’arco di tempo della sua storia formativa. La valutazione di risultato non è da confondere con la valutazione di processo in senso stretto, in quanto si tratta di considerare non solo le conoscenze e abilità acquisite,  ma le modalità con cui questo processo è avvenuto. In altre parole, è come guardare uno stesso oggetto da più punti di vista, permettendo in questo modo di avere una comprensione più ampia del fenomeno.31

La valutazione come sistema

Considerare la valutazione come un “sistema” capace non solo di misurare se il soggetto rientra all’interno di uno standard di competenza,32 ma anche la capacità da parte dello stesso soggetto di agire, declinando il sapere e le abilità acquisite all’interno del contesto, comporta l’allestimento di metodi di valutazione plurimi e multi-modali,33 capaci di cogliere il soggetto nella gestione dei processi: per esempio, pazienti simulati per la valutazione delle skill relazionali; prove pratiche sul manichino per la valutazione delle competenze tecniche; valutazione al letto del paziente (mini-CEX34), il tutto con prove ripetute più volte nel tempo.

Un sistema di valutazione efficace, capace dunque di restituire la “rotondità” del processo formativo, è un sistema che non solo si basa su una forte progettazione, ma che chiede anche trasparenza: per esempio, dichiarando gli obiettivi di apprendimento all’inizio del percorso, obiettivi  coerenti al core curriculum nazionale. È un sistema che si preoccupa di monitorare il percorso formativo attraverso l’uso di test d’ingresso e in itinere. Questo aspetto è molto importante per uscire dalla logica di considerare il processo valutativo come un evento finale legato all’apprendimento realizzato, con il rischio di associare il risultato al programma erogato. L’introduzione di sistemi di valutazione in itinere significa considerare la valutazione come un sistema di feedback in cui la valutazione serve non solo all’autovalutazione dello studente, ma anche al docente per monitorare ed orientare l’attività didattica e formativa, in un ottica di ricerca.

In questo senso anche il progress test può rappresentare un valido strumento per sviluppare la capacità critica e di auto-valutazione dello studente, per esempio allestendo momenti di restituzione dei risultati agli studenti stessi, utilizzando il test come uno strumento longitudinale che offra la possibilità di costruire un profilo dello studente per seguire il proprio processo di apprendimento.

L’efficacia della valutazione si esprime dunque anche nella possibilità di sviluppare una cultura della valutazione, educando lo studente a saper effettuare una critica interna da confrontare poi con il feedback esterno: perché non ha senso valutare un adulto se questi non è capace di auto-valutarsi; passo indispensabile per riconoscere poi la valutazione esterna che riceve.

La competenza del valutatore

È chiaro che un sistema di questo tipo, in cui la valutazione si apre anche ad una dimensione “dialogica”, la competenza del valutatore (formatore/docente) è essenziale. Un valutatore aperto a considerare la valutazione non solo come evento misurabile ma anche come evento da interpretare e comprendere attraverso dati che provengono da eventi diversi (abbiamo visto la necessità di utilizzare metodi e strumenti diversificati a seconda degli obiettivi di apprendimento da valutare); un valutatore capace di mettersi in gioco accettando la sfida di elaborare strumenti che permettano non solo di attribuire un punteggio, ma di saper anche descrivere un fenomeno di apprendimento, per poterlo così comprendere e solo allora valutare anche nella sua soggettività.

Dibattito e conclusioni

Sulla base di queste considerazioni, e del lavoro svolto dal gruppo durante il workshop, possono essere suggerite le seguenti raccomandazioni:

– la competenza del valutatore ( = del docente che valuta) è di importanza fondamentale;

– è necessario utilizzare delle modalità oggettive e pertinenti di valutazione (prove pratiche, pazienti standardizzati, progress test delle competenze);

– un elemento importante nella valutazione è la differenza pre-post intervento. Si incoraggia perciò l’uso di test di ingresso ed in itinere;

– si caldeggia un uso più esteso del progress test nazionale come strumento: va preparato e poi discusso con gli studenti;

– ruolo degli studenti:

– vanno aumentate e valorizzate le loro “competenze” a valutare;

– va diffusa una “cultura della valutazione”, rafforzata da ritorni visibili verso gli studenti;

– una valutazione di efficacia è possibile solo se gli obiettivi sono esplicitamente indicati, preferibilmente referenziati a quelli del core curriculum nazionale

– la valutazione NON è una minaccia all’autonomia universitaria se:

– l’uniformità riguarda la core competence come risultato atteso e i criteri e metodi di valutazione;

– l’autonomia si esplica nei metodi formativi, nella testimonianza dei modelli di ruolo, nella dimostrazione di libertà critica di pensiero;

– la definizione di una “idoneità didattica” può essere il frutto maturo di un buon sistema valutativo

Sessione II: Laboratorio No. 5

Tema: Le Attività Formative Professionalizzanti

Esperto: Rosa Valanzano (Firenze)

Moderatore: Luigi Demelia (Cagliari)

Obiettivi: Al termine del Laboratorio, i partecipanti dovranno essere consapevoli che:

– distribuzione e modalità di svolgimento delle Attività Formative Professionalizzanti (AFP) sono assai variabili in Italia;

– le difficoltà attuative nell’organizzazione delle AFP possono trovare numerose soluzioni;

– le AFP includono non solo abilità operative (saper fare) ma anche abilità relazionali e competenze professionali.

Le attività didattiche professionalizzanti rappresentano un elemento distintivo ed imprescindibile della formazione medica, che coniuga le conoscenze  acquisite con le abilità ad esse connesse.35 

Non si tratta comunque di esclusive competenze tecniche, ma anche di  competenze gestuali, emotivo-relazionali e metodologiche-metacognitive che dovranno condurre lo studente a comprendere le potenziali integrazioni tra medici, tra le differenti figure professionali, le persone assistite e la società.

Inoltre, le attuali possibilità diagnostiche procedono ad una velocità che spesso supera le nostre capacità di trattare e di adeguatamente intervenire.

La storica affermazione “see one, do one, teach one” non è dunque più storicamente accettabile. Tuttavia le basi della conoscenza, la risoluzione dei problemi, la capacità di sintesi e di analisi  rimangono in ogni caso quali presupposti indispensabili per il loro conseguimento.

Competenze gestuali

Le competenze gestuali devono prevedere:

– la comprensione della procedura, in termini di indicazioni, complicanze e controindicazioni;

– l’apprendimento delle modalità di esecuzione (ad esempio: conoscere la regione anatomica, individuare il corretto angolo di visuale, conoscere e scegliere i materiali necessari, saperli utilizzare in modo appropriato e sicuro, etc.);

– l’acquisizione del coordinamento psico-motorio necessario;

– l’acquisizione della specifica abilità tecnica (technical skill).

Molteplici sono le modalità didattiche utilizzabili: letture, modelli, animali, cadaveri, attori (paziente standardizzato), programmi computerizzati, simulatori virtuali, persone malate, peer physical examination. Esse dovranno essere scelte sulla base del tipo di procedura e del livello di conoscenza stabilito, nonché, ovviamente, sulla disponibilità delle attrezzature scelte. Un cenno a parte va fatto riguardo la peer physical examination che potrà divenire sempre più diffusa a causa della minore presenza dei malati nei reparti, conseguente al diffondersi di altri tipi di assistenza (es. ospedali territoriali, case protette, hospice, etc), della presenza di malati più gravi (e quindi meno facilmente disponibili per gli studenti), nonché per il possibile rifiuto della visita da parte delle persone assistite. La peer physical examination presenta tuttavia lo svantaggio di svolgersi in un ambiente protetto, in assenza della componente empatica, e con la possibile presenza di fattori locali, quali leggi, costumi, religioni che possono pregiudicare un corretto apprendimento.

Competenze emotivo-relazionali

Di grande complessità risulta l’insegnamento e l’acquisizione delle competenze emotivo-relazionali, tanto che Cochrane ed altre EBM rewievs affermano che esse possono sì essere insegnate, ma senza la sicurezza del loro effettivo trasferimento e mantenimento nella pratica clinica. Le competenze emotivo-relazionali devono essere indirizzate sia verso la persona assistita sia verso gli altri studenti, i medici, gli infermieri e le altre figure professionali, il cui lavoro potrà garantire adeguati risultati solo se svolto in maniera collaborativa e coordinata.

Benché sia dimostrato che adeguate competenze emotivo-relazionali assicurino una migliore diagnosi, una migliore scelta decisionale da parte del paziente ed un migliore outcome, l’insegnamento è spesso assente o inefficace, talora proprio per il mancato coinvolgimento dell’assistito. La valutazione di tali competenze è estremamente difficile in quanto viene ad inserirsi la dimensione dell’attendibilità:

– la conoscenza e l’abilità;

– la capacità di discriminazione (e di autovalutazione dei propri limiti);

– la coscienziosità (precisione);

– la veridicità (l’assenza di inganno nell’interazione discente/docente).

Le modalità di approccio alle competenze emotivo-relazionali possono essere:

– attitudinali (basate sulla sensibilità e sulla consapevolezza culturale);

– cognitive (basate sulla conoscenza multiculturale);

– trans-culturali (basate su appropriate skill che, partendo dallo stretto legame tra comunicazione ed esito della cura, si modulino e si adeguino sulla base del tipo di malato, cercando di eliminare le disparità etniche tramite un’adeguata comunicazione trans-culturale).

Competenze metodologiche/meta-cognitive

Le competenze metodologiche/metacognitive (cliniche) consistono nella capacità di organizzare, dirigere e controllare i processi mentali, adeguandoli alle esigenze del compito da svolgere. Essere permettono di costruire il sapere partendo da strategie cognitive ed esperienziali elaborate personalmente a partire da informazioni conosciute. Esse includono competenze generiche, quali il ragionamento, la comunicazione, l’aggiornamento, la professionalità, e competenze specifiche, tra le quali l’analisi, la valutazione, l’interpretazione, la programmazione, la comunicazione, l’intervento, nonché lo sviluppo professionale, il suo mantenimento e trasferimento. In definitiva, quanto più una persona è cosciente del suo operato e di come la propria mente lavora, tanto  più è in grado di operare un controllo sui propri processi cognitivi e conseguentemente ottiene migliori risultati nelle attività che esegue.

Insegnamento e valutazione dell’apprendimento delle competenze professionali

Le modalità didattiche e valutative devono essere modulate in maniera flessibile ed adeguata al contesto didattico dei vari CLM.

In primis, è necessario individuare e precisare  in maniera chiara e fattibile le skill che devono essere incluse nei curricula, prevedendo una loro coerente progressività, stabilendo una gradualità nel livello di responsabilità, associata ad un’adeguata metodologia didattica, e ad una   pertinente modalità di verifica.

È inoltre ovviamente  necessario, a monte, che esistano strutture e facilities didattiche adeguate, pur nell’ambito delle peculiarità delle diverse esigenze o scelte locali. In alcuni casi esistono infatti difficoltà attuative, conseguenti ad  inadeguati accordi con il SSN, ad indisponibilità di spazi idonei ed anche (benché raramente) alla resistenza, da parti dei docenti, a dedicarsi a tale  tipo di didattica, privilegiando invece quella frontale che  risulta di routinaria, e quindi  più agevole, attuazione.

Strumenti didattici per le attività formative professionalizzanti

Per quanto sopra enunciato, gli strumenti didattici possono e sono estremamente diversi nei vari CLM e possono prevedere: letture, modelli, animali, cadaveri, attori (paziente standardizzato), programmi computerizzati, simulatori virtuali, persone assistite.

Di seguito viene precisato il setting e le caratteristiche delle varie scelte didattiche.

1. L’osservazione diretta del paziente

2. La peer physical examination

3. L’impiego del paziente standardizzato

4. L’utilizzo di animali da laboratorio

5. L’ impiego di cadaveri

6. La disponibilità di laboratori chirurgici

7. L’impiego di metodiche innovative, quali simulatori, realtà virtuale, etc.

Osservazione diretta del paziente

L’osservazione diretta della persona assistita consente di lavorare nell’ambiente reale, permettendo allo studente di raccogliere l’anamnesi, di fare l’esame obiettivo, di eseguire una medicazione, etc. Tali azioni dovranno sempre considerare la tipologia dell’assistito ed il contesto socio-culturale in cui essa vive, nonché le sue convinzioni etico-religiose, alle quali potranno conseguire differenti modalità di visita o di setting di visita. Una donna di religione islamica, ad esempio, potrebbe chiedere di essere visitata da un sanitario donna, rendendo implicito che, in tale caso, alle abilità tecniche si affiancherebbero le abilità emotivo-relazionali e metodologiche-metacognitive.

Peer physical examination (PPE)

Le modalità di gestione del sistema sanitario Italiano si sono profondamente modificate negli ultimi anni, parallelamente alle caratteristiche dei pazienti stessi, che presentano un età anagrafica più elevata, con conseguente incremento delle  co-morbidità e quindi, della complessità. A fronte di ciò si associano richieste aziendali (talora perentorie) di riduzione dei giorni di degenza. Da tali considerazioni scaturisce la possibilità, o addirittura  la necessità, di utilizzare questa metodica didattica che presenta dunque (accanto alla peculiarità pedagogica) vantaggi pragmatici: la PPE è molto più economica di un simulatore ed evita di addestrare docenti ad hoc; inoltre protegge gli assistiti dall’imbarazzo di avere accanto studenti troppo giovani, pur consentendo loro di fare pratica  e di ottenere un immediato feed-back della loro prestazione; inoltre è documentato un elevato gradimento di tale metodica da parte degli studenti, che arriva al 94-98%, se si evitano procedure invasive quali l’esplorazione rettale o vaginale e la regione inguinale e mammaria.

Il paziente standardizzato

Nasce a Maastricht negli anni ’70 per poi diffondersi rapidamente. I pazienti standardizzati/simulati possono essere attori, studenti o pazienti veri  che vengono addestrati, attraverso un impegnativo training di preparazione, a simulare i più vari sintomi clinici e svariate condizioni psico-emozionali. Tale metodica didattica è di grande utilità nel setting di valutazione di performance clinica tramite  il modello dell’OSCE (objective structured clinical examination).

Il vantaggio principale consiste nella costante disponibilità di pazienti, a cui corrisponde un’illimitata  possibilità di addestramento (almeno teorica) e a cui si associa l’opportunità di realizzare un feed-back con l’attore, in un contesto distensivo.36

L’utilizzo di animali di laboratorio

Ha scarsissima applicazione nei Corsi di Laurea in Medicina, se non nell’ambito di un lavoro sperimentale finalizzato ad una tesi di laurea

L’impiego di cadaveri

Tale possibilità didattica permette un diretto contatto dello studente con l’anatomia normale e patologica, rendendo certamente più semplice l’acquisizione delle conoscenze anatomiche e dei loro risvolti in campo clinico e medico-legale. Tuttavia esistono notevoli difficoltà nel loro reperimento. La donazione dei cadaveri ad uso scientifico è ancora raramente concessa dai familiari del defunto, spesso per motivi religiosi o per difficoltà formali e burocratiche.

L’impiego di metodiche innovative: simulatori e realtà virtuale

Le tecnologie più avanzate applicate a manichini ed ambienti realistici sono in grado di simulare situazioni in ogni campo della medicina. I modelli di ultima generazione sono in grado di imitare in maniera estremamente realistica le reazioni fisiche e fisiologiche di un paziente vero, grazie a un software interattivo basato su sofisticati modelli matematici, che simula in tempo reale la risposta cardiovascolare, respiratoria, neurologica e farmacologica di un organismo umano. Le apparecchiature collegate al manichino registrano in ogni istante le sue reazioni e le conseguenze dell’intervento medico simulato. Tutte le simulazioni didattiche possono essere  registrate da una telecamera e successivamente riproposte ed analizzate dai docenti durante lezioni frontali e discussioni di gruppo (debriefing).

In ogni caso l’efficienza e l’efficacia didattica rimangono indissolubilmente legate al docente ed al suo cuore.

Dibattito e conclusioni

La discussione in laboratorio ha evidenziato una serie di potenzialità e di criticità. È emersa, in primo luogo, una grande diversità di impostazione del curriculum delle attività didattiche professionalizzanti nelle diverse Sedi, che fa nascere l’esigenza di un censimento specifico, a livello nazionale, al di là dei risultati offerti dalle on-site visit. In questo contesto potrà nascere l’esigenza di una ricognizione degli accordi convenzionali tra Sistema Sanitario Nazionale e Università, al fine di valorizzare le esperienze che si sono rivelate più efficaci. Nel contesto di questa revisione, occorrerà prevedere forme di incentivazione dei Medici del Sistema Sanitario Nazionale verso forme di tutoraggio rivolte agli studenti dei Corsi di Laurea Magistrale in Medicina.

Un altro tema di grande rilievo emerso dalla discussione (e che è stato affrontato in maggiore dettaglio nel laboratorio n°. 6) è la necessità di definire forme specifiche e pertinenti di valutazione dell’apprendimento delle abilità professionali, affiancando alla valutazione delle necessarie competenze cognitive che sono alla base dell’esercizio della professione, anche la valutazione – mediante opportune prove pratiche – dell’effettiva acquisizione di abilità gestuali e relazionali e di competenze professionali.

Sessione II: Laboratorio n° 6

Tema: La valutazione dell’apprendimento

Esperto: Pietro Gallo (Roma Sapienza “C”, Polo Policlinico)

Moderatore: Pier Maria Furlan (Torino, Polo S. Luigi Gonzaga Orbassano)

Obiettivi: Al termine del Laboratorio, i partecipanti dovranno essere consapevoli che:

– la valutazione condiziona l’apprendimento;

– una corretta prova di valutazione deve essere:

– pertinente

– obiettiva

– collegiale (inter-disciplinare ed eventualmente inter-professionale)

– le modalità di valutazione vanno scelte in fase di programmazione del corso.

Dopo un breve giro di presentazione, l’esperto ha introdotto il tema illustrando i tre obiettivi della sua presentazione.

La valutazione condiziona l’apprendimento

Uno dei più noti assunti della Pedagogia Medica è che assessment drives learning,37 ovvero che la valutazione indirizza (spesso in modo compulsivo…) l’apprendimento dello studente. In altre parole, lo studente studia, apprende, acquista competenze in funzione delle modalità dell’esame. Ma è anche vero che assessment drives teaching: le scelta delle modalità di valutazione delle competenze acquisite dovrebbe condizionare non solo la programmazione e l’esecuzione delle attività didattiche, ma anche la selezione degli obiettivi educativi realisticamente perseguibili.38 Al contrario, nel momento attuale, si registra una contraddizione: c’è diffusa consapevolezza dell’importanza di erogare una didattica professionalizzante ma poi si insiste su di un’unica forma di valutazione, l’esame orale. In questo modo si vanificano enormi investimenti in termini di risorse umane e materiali, e si manda allo studente un messaggio confondente. Se si vuole che lo studente acquisisca abilità operative e relazionali, prima, e competenze professionali, poi, è indispensabile includere nella valutazione dell’apprendimento una qualche forma di “prova pratica”. È, del resto, questa la via da percorrere per giungere a uno degli obiettivi qualificanti che la Conferenza Permanente dei Presidenti di CLM in Medicina si è posta: quell’esame di laurea abilitante che dovrà necessariamente comprendere una forma di valutazione pratica.

In realtà, per valutare le competenze acquisite dagli studenti abbiamo un’intera cassetta degli attrezzi,39,40,41 fornita di strumenti diversi:

Esami scritti

Ve ne sono di numerose tipologie:

– domande a risposta multipla;

– domande a risposta aperta “breve”;

– domande a risposta aperta “lunga”;

– temi;

– tesine.

Contrariamente a quanto comunemente si crede, l’esame scritto valuta non solo le competenze mnemoniche ma anche abilità “superiori” come interpretare (dati o quadri morbosi), valutare nessi logici, risolvere problemi, e prendere decisioni.

Esami orali

Anche in questo caso, ci sono diverse tipologie:

– esami orali “tradizionali”;

– esami orali con griglia di valutazione;

– esami orali nei quali l’esaminatore si pone come “paziente standardizzato”.

Esami pratici

Anche in questa cassetta, ci sono molti attrezzi:

– valutazione orale o scritta (si mostrano reperti [pezzi anatomici, quadri istologici, radiogrammi, tracciati ECGrafici…] e si pongono quesiti interpretativi);

– esami pratici su singole competenze operative (saper fare… una manovra semeiologica o terapeutica, un atto gestionale…);

– esami pratici su competenze relazionali: tanto le prove pratiche sulle competenze operative che quelle sulle competenze relazionali possono avvalersi di video (OSVE: Objective Structured Visual Examination) e richiedono l’impiego di griglie di osservazione;

– paziente simulato

– paziente standardizzato

– prova pratica a stazioni (OSCE: Objective Structured Clinical Examination)

Portfolio

Lo studente può inserire nel suo portafoglio personale appunti, materiale didattico ricevuto, proprie ricerche bibliografiche, tesine svolte, un diario di bordo… Il portfolio è in primo luogo uno strumento formativo di riflessione dello studente ma può essere esaminato in modo critico insieme a lui e divenire così uno strumento di valutazione certificativa.

Una corretta prova di valutazione deve essere: a) pertinente, b) obiettiva, c) collegiale (inter-disciplinare e possibilmente inter-professionale)

Qual è, nella cassetta degli attrezzi delle prove di valutazione, lo strumento migliore? Evidentemente un martello non è in sé né migliore né peggiore di un cacciavite, ma è più o meno pertinente all’obiettivo che uno si è dato. Allora, la prova migliore è quella più pertinente agli obiettivi didattici che uno si è dato. In questo senso, una prova pratica è l’unica pertinente alla valutazione dell’acquisizione di competenze operative, mentre un esame scritto è perfettamente in grado di valutare le competenze conoscitive, così come l’esame critico di un paziente simulato permette di valutare il possesso di numerose competenze professionali.

Ma, se il primo requisito di un esame è quello di essere pertinente, l’etica del docente e il patto formativo con lo studente richiedono che un esame debba essere anche obiettivo. Da questo punto di vista, non tutte le prove, per quanto pertinenti, sono ugualmente obiettive.

Caratteristica di una prova di valutazione obiettiva è che: a) ogni competenza da verificare sia misurabile e sia stata definita a monte; e b) che il livello accettabile di performance complessivo (in termini di promosso/non-promosso e di voto) sia stato predeterminato, prima dello svolgimento della prova. In questo senso, non tutte le prove pertinenti sono anche obiettive:

–  esami scritti: solo le domande a risposta multipla e quelle a risposta aperta breve consentono una valutazione predeterminata e obiettiva;

– esami orali: possono diventare obiettivi solo mediante l’uso di griglie di valutazione stabilite a monte;

– esami pratici: anche questi, per essere obiettivi, richiedono l’impiego di griglie di osservazione (checklist) predeterminate.

Infine, la valutazione dell’apprendimento deve essere integrata e collegiale: il grande impegno di integrazione, che è necessario sia in fase di pianificazione che di esecuzione del corso, viene del tutto vanificato se tale integrazione non viene espressa anche in fase di valutazione.

Il senso dell’attuale riforma degli ordinamenti didattici è quello dell’integrazione interdisciplinare,42 ed infatti i nostri corsi sono tutti denominati come “corsi integrati”. Tuttavia, la valutazione dei curricula dei CLM del nostro Paese rivela che molti corsi sono ancora monodisciplinari, e molti altri, pur multi-disciplinari, dividono rigidamente l’apporto delle diverse discipline all’interno di moduli separati e distinti. Al contrario, un corso interdisciplinare si caratterizza non solo per l’apporto di disciplinaristi diversi ma per l’organizzazione dell’attività didattica in Unità Didattiche Complesse, articolate in interventi didattici – di durata variabile – posti in successione o, meglio, in co-presenza.

Un esame integrato interdisciplinare ha anche il pregio che porta a privilegiare la verifica delle capacità di risolvere problemi e prendere decisioni: le competenze cognitive e quelle operative sono spesso “disciplinari” mentre nella realtà il medico affronta “problemi interdisciplinari”.

Le modalità di valutazione vanno scelte in fase di programmazione del corso

La programmazione del corso non può essere disgiunta da quella dell’esame,43 anzi ne deve essere guidata. Occorre partire dall’esame perché un obiettivo didattico ha senso solo se è verificabile, e va insegnato nella misura in cui se ne può verificare l’apprendimento.

Articolazione del dibattito

A titolo d’esempio, e per animare il dibattito, viene descritta la modalità con cui si svolgono gli esami di molti Corsi Integrati del CLM in M&C del Polo San Luigi Gonzaga di Orbassano (Torino), che consiste in un numero di domande chiuse e aperte proporzionale ai CFU dei singoli moduli. Viene preso ad esempio il corso di Neurologia e Malattie del comportamento che, oltre a queste discipline, comprende Anatomia, Biochimica, Fisiologia, Farmacologia e Neurochirurgia, per un totale di 17 CFU (Tab. 4). Per ogni CFU vengono sottoposte agli allievi 4 domande chiuse e una/due domande aperte. Per accedere all’orale bisogna aver superato il 25% delle domande di ciascuna materia (un punto per ciascuna domanda chiusa corretta, sino a 4 per quelle aperte) e il 50% delle domande totali. L’accesso all’esame orale è facoltativo e qualunque sia il risultato (purché superiore ai valori di cut-off) garantisce il 18. Se si sostiene l’orale, la commissione ha a disposizione un range di sei punti (in meno o in più): accedere alla prova orale con un 23 può comportare la bocciatura, mentre con 25 teoricamente si può ottenere la lode. Il compito vale anche (e solamente) per l’appello successivo. È concesso ritirarsi ma, in questo caso, lo scritto dovrà essere ripetuto. Per la prova scritta sono concessi 90 minuti e la durata media dell’interrogazione orale oscilla tra i 15 e i 30 minuti.

tab4 dossier60

Da quest’anno le “dorsali cliniche”44 saranno oggetto di esame orale e di discussione di tutti gli accertamenti strumentali. L’esame dei tirocini presso i distretti, il 118-ambulanze e i MMG prevede invece una relazione scritta e una discussione orale.

Dopo un’approfondita discussione alla quale hanno partecipato tutti i presenti, il laboratorio si è concluso con l’esecuzione di un “esercizio” desunto dalla letteratura:45 è stata scelta una Unità Didattica Complessa che è stata articolata in Obiettivi Didattici Elementari. Questi sono stati suddivisi in obiettivi cognitivi, pratico/relazionali e professionali ed è stata compilata una griglia nella quale, per ogni obiettivo, andavano precisate le modalità di insegnamento (scegliendo tra tutoriale, lezione frontale, attività didattica a piccoli gruppi e paziente simulato) e la tipologia di valutazione (optando tra  prova scritta, orale, pratica o portfolio). Il risultato dell’esercizio (riportato nella Tab. 5) non ha alcuna pretesa di esaustività, ma ha aiutato i presenti a prendere coscienza: a) dell’opportunità di scegliere tra forme diverse di insegnamento, in funzione dell’obiettivo specifico; b) della necessità di scegliere tra forme diverse di valutazione dell’apprendimento, che siano pertinenti all’obiettivo didattico; c) che le due componenti di programmazione delle procedure didattiche e di scelta delle modalità di valutazione non possono essere disgiunte.

Tab5 dossier60

Appendice

All’atelier pedagogico dal titolo Il ruolo del Presidente di Corso di Laurea in Medicina, organizzato per la Conferenza Permanente dei Presidenti di Corso di Laurea Magistrale in Medicina (CPPCLM), tenutosi a Roma Sapienza, il 23 Giugno 2013, a cura del Gruppo di Lavoro Innovazione Pedagogica, hanno partecipato: Francesco Bandello (Milano San Raffaele), Isabella Barajon (Milano Statale Humanitas), Stefania Basili (Roma Sapienza “D”), Tiziana Bellini (Ferrara), Silvia Bocci  (SISM, Siena), Maria Filomena Caiaffa (Foggia), Renzo Carretta  (Trieste), Paola Cassoni (Torino I), Amos Casti (Segretario della CPPCLM), Sandra Cecconi (L’Aquila), Claudio Ceconi (Ferrara), Gian Paolo Ceda (Parma), Fabrizio Consorti (Roma Sapienza “C”), Francesco Curcio (Udine), Angelo D’Ambrosio (SISM, Roma Sapienza Sant’ Andrea), Carlo Della Rocca (Roma Sapienza “E”), Luigi Demelia (Cagliari), Italia di Liegro (Palermo, Caltanisetta), Maria Luisa Eboli (Roma Università Cattolica S.C.), Giuseppe Familiari (Roma Sapienza, S. Andrea), Amelia Fillippelli (Salerno), Giorgio Fujiano (Catanzaro), Piermaria Furlan (Torino San Luigi Gonzaga – Orbassano), Pietro Gallo (Roma Sapienza “C”), Antonello Ganau (Sassari), Paola Izzo (Napoli Federico II), Marco Krengli (Piemonte Orientale), Andrea Lenzi (Presidente della CPPCLM), Claudia Marotta (SISM, Roma Università Cattolica S.C.), Manuela Merli (Roma Sapienza “B”), Mario Messina (Siena), Gabriella Mincione (Chieti), Bruno Moncharmont (Molise), Licia Montagna (Milano Statale Humanitas), Raffaella Muraro (Chieti), Giovanni Murialdo (Genova), Marco Nicolazzi (SISM, Piemonte Orientale), Alessandro Padovani (Brescia), Carla Palumbo (Modena/Reggio Emilia), Giampaolo Papaccio (Napoli II Università), Maria Penco (L’Aquila), Laura Recchia  (Molise), Paolo Remondelli (Salerno), Luca Richeldi (Modena/Reggio Emilia), Giorgio Rosso (Torino San Luigi Gonzaga – Orbassano), Marina Scarpelli (Ancona), Silvio Scarone (Milano Statale, San Paolo), Anna Spada (Milano Statale, Policlinico), Felice Sperandeo (SISM, Roma Sapienza “D”), Francesco Squadrito (Messina), Maria Grazia Strepparava (Milano Bicocca), Rosa Valanzano  (Firenze) e Maurizia Valli (Pavia).

Bibliografia

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Cita questo articolo

Gallo P., Basili S., Caiaffa M.F. et al., Il ruolo organizzativo e pedagogico del Presidente di Corso di Laurea Magistrale in Medicina, Medicina e Chirurgia, 60: 2683-2698, 2013. DOI:  10.4487/medchir2013-60-3

Indice n. 60/2013

MEDICINA E CHIRURGIA
QUADERNI DELLE CONFERENZE PERMANENTI DELLE FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA

60/2013

(scarica qui il l’intero numero in PDF)

SOMMARIO

 

Editoriale

Le realtà e le sfide nei Corsi di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia, di Andrea Lenzi e Stefania Basili

Conferenza Permanente dei Presidenti di CLM in Medicina e Chirurgia

Insegnare nelle Università la Fitoterapia e l’Agopuntura?, di Calogero Caruso, Claudio Rizzo, Italo Vantini

Le tematiche didattico-pedagogiche delle Malattie Rare, di Guido Biasco, Gianluigi Cetto, Mario De Marchi et al.

Il Progress Test 2012, di Alfred Tenore, Stefania Basili, Marco Proietti

Dossier

Il ruolo organizzativo e pedagogico del Presidente di Corso di Laurea Magistrale in Medicina, di Pietro Gallo, Stefania Basili, Maria Filomena Caiaffa et al.

Libri che hanno fatto la storia della Medicina

De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio, di Stefania Fortuna

Scuole italiane di Medicina

La scuola internistica padovana di medicina clinica e sperimentale di Gino Patrassi, di Giuseppe Realdi e Achille Cesare Pessina

Notizie dal CUN

Notizie dal CUN, di Manuela di Franco

Libri

Giacomo Del Vecchio, Luciano Vettore: Decidere in terapia. Dialogo sul Metodo nella Cura, di Giovanni Danieli

 

De humani corporis fabrica di Andrea Vesalion.60, 2013, pp.2705-2709, DOI: 10.4487/medchir2013-60-5

Abstract

Andreas Vesalius published his De humani corporis fabrica in Basle in 1543. This treatise substituted Galen’s anatomy based on animals, and founded modern human anatomy. It was revolutionary because for the first time it criticized Galen, the Greek physician who had dominated the history of medicine until then. Vesalius gave an important contribution to the development of scientific method: he affirmed that the anatomist should trust his own observations and refuse every authority. The 300 illustrations of this treatise, which are precise and beautiful, were reprinted and plagiarized for many years.

Articolo

Andrea Vesalio (1514-64) pubblicò nel 1543, a Basilea, presso l’editore Giovanni Oporino, il De humani corporis fabrica, un’opera rivoluzionaria che avrebbe segnato una svolta nella storia della medicina, fondando l’anatomia umana moderna e superando, almeno in parte, il galenismo ancora dominante. Vesalio aveva allora soltanto 28 anni, ma non era un giovane qualunque né per origini familiari né per formazione né per esperienze di ricerca. Era nato a Bruxelles il 31 dicembre 1514 da una famiglia benestante di solide tradizioni mediche. Suo padre, Andrea come il figlio, era un farmacista apprezzato alla corte imperiale di Carlo V.

Dopo la formazione primaria a Bruxelles e alcuni anni all’università di Lovanio, a cui si era iscritto nel 1530, Vesalio si trasferì a Parigi nel 1533 per studiare medicina, e qui divenne allievo di professori come Jacques Dubois (1478-1555), conosciuto con il nome di Sylvius, e di Guinther d’Andernach (1505-74): entrambi erano impegnati in studi anatomici come interpreti e seguaci fedeli del nuovo Galeno greco che l’edizione Aldina, pubblicata a Venezia nel 1525, aveva reso più facilmente accessibile. A Parigi, durante le lezioni anatomiche di Sylvius, Vesalio si prestò ad eseguire le dissezioni dei cadaveri che in genere erano affidate a barbieri o chirurghi, insomma a persone con abilità manuali ma senza nessuna cultura, che avevano il compito di isolare le diverse parti anatomiche, descritte dal professore agli studenti ex cathedra, secondo le parole di Galeno.

Fig.1 SFSchermata 2013-10-25 alle 16.24.53

Nel 1536 Vesalio fu costretto a lasciare Parigi per il nuovo conflitto franco-spagnolo, e dopo un breve soggiorno a Lovanio, in cui si laureò in medicina nel 1537, si trasferì a Padova, una sede universitaria di grande prestigio che richiamava molti giovani d’Oltralpe. Qui ottenne il titolo di dottore in medicina il 5 dicembre 1537 magna cum laude, e il giorno dopo ricevette l’incarico di insegnare anatomia e chirurgia nello stesso ateneo. Diversamente dalla pratica consueta, Vesalio eseguì sempre, in prima persona, le dissezioni dei cadaveri per gli studenti, senza affidarle ad altri. E per avere a disposizione immagini del corpo umano da mostrare agli studenti, in assenza del cadavere, pubblicò nel 1538 sei tavole anatomiche incise da un artista olandese allievo di Tiziano, Stephen von Calcar (1499-1546). Nello stesso anno, nel 1538, pubblicò per gli studenti anche una revisione delle Institutiones anatomicae del suo professore Guinther d’Andernach, un manuale di anatomia uscito nel 1536 e basato su Galeno.

L’ambiente padovano fu favorevole a Vesalio e alle sue ricerche anatomiche. Non era mai stato facile per lui – e neppure per gli altri – avere cadaveri umani da dissezionare, ma a partire dal 1539 Marcantonio Cantarini, un giudice del tribunale di Padova interessato all’anatomia, gli fornì quelli dei condannati a morte in buon numero. Le sue esperienze di dissezione furono quindi più frequenti, e sempre più evidenti gli apparirono le differenze tra il corpo umano che osservava sul tavolo settorio e quello descritto da Galeno, che pure gli era ben presente. Negli stessi anni, infatti, Vesalio si trovò a rivedere le traduzioni delle opere anatomiche di Galeno – compresa quella dei primi nove libri dei Procedimenti anatomici, pubblicata dal suo professore Guinther d’Andernach a Parigi nel 1531 – per l’edizione curata da Agostino Gadaldini (1515-75) e stampata dai Giunta a Venezia nel 1541-42. Maturò la convinzione che il corpo umano non dovesse essere studiato sui libri di Galeno, ma attraverso la dissezione e l’osservazione diretta. Per sua stessa ammissione, del resto, Galeno aveva dissezionato e vivisezionato soltanto animali – scimmie, buoi, maiali, capre, pecore, cani – e aveva attribuito all’uomo le strutture che aveva osservato in questi, sulla base del metodo analogico che aveva ereditato da Aristotele.

Dopo le lezioni tenute a Bologna nel gennaio 1540, in cui diede dimostrazione che Galeno aveva descritto le ossa della scimmia piuttosto che quelle dell’uomo, Vesalio intraprese a Padova la stesura di un trattato completo di anatomia che superasse Galeno. A questo lavorò per i due anni successivi, e nell’estate del 1542 si trasferì a Basilea per curarne la pubblicazione presso l’editore Giovanni Oporino. Il De humani corporis fabrica uscì nell’agosto 1543 piuttosto che in giugno, come si legge nel colofone.

Si tratta di un’opera innovativa, bella e monumentale di oltre 700 pagine in folio. È divisa in sette libri che trattano delle ossa (libro I), dei muscoli (libro II), dei vasi sanguigni (libro III), dei nervi (libro IV), degli organi addominali (libro V), di quelli toracici (libro VI), del cervello (VII). La corredano circa trecento immagini, incise su legno, numerose a tutta pagina, di grande impatto estetico – soprattutto quelle delle ossa e dei muscoli – ma anche di straordinaria funzione didattica ed esplicativa. Il testo contiene infatti continui rimandi alle immagini, in cui le diverse parti sono sempre contraddistinte da lettere alfabetiche, maiuscole e minuscole, che trovano corrispondenza e spiegazione nella legenda allegata. Il De humani corporis fabrica non è la prima opera anatomica illustrata, ma le sue immagini superano tutte le precedenti per ricchezza, precisione e bellezza: furono in seguito ristampate e plagiate numerose volte e nel complesso dominarono l’illustrazione anatomica fino al Settecento.

Quanto al contenuto del De humani corporis fabrica, i primi due libri sono i più innovativi. Esemplari sono le descrizioni di Vesalio della mascella, dello sterno, dell’omero, del femore, della tibia, del perone, come pure le sue dimostrazioni che Galeno aveva descritto le stesse ossa, ma non quelle dell’uomo, piuttosto della scimmia. Gli altri libri, che trattano organi con una fisiologia più complessa, dipendono ancora massicciamente da Galeno. Ma anche in questi Vesalio fa importanti osservazioni, tra cui: la vena cava non parte direttamente dal fegato, come pensava Galeno, che le attribuiva la funzione di trasportare al cuore il sangue che sarebbe stato prodotto dal fegato (libro V); il setto interventricolare del cuore non contiene pori invisibili – come sosteneva Galeno – attraverso i quali il sangue sarebbe passato dal ventricolo destro a quello sinistro (libro VI); alla base del cervello non c’è la cosiddetta rete mirabile, un’area fittamente vascolarizzata – come pensava Galeno che l’aveva osservata negli ungulati – che avrebbe avuto il compito di filtrare il sangue e produrre il pneuma psichico, responsabile delle facoltà mentali, delle sensazioni e dei movimenti (libo VII); il nervo ottico non è cavo, come pensava Galeno, secondo cui tutti i nervi sarebbero stati percorsi dal pneuma psichico (libro IV). Queste osservazioni, che Vesalio talvolta condivise con anatomisti a lui precedenti – come nel caso della rete mirabile già negata da Jacopo Berengario da Carpi (1466-1530), il più importante anatomista pre-vesaliano attivo a Bologna – avrebbero avuto conseguenze devastanti per la fisiologia galenica, che tuttavia per il momento non fu attaccata: Vesalio espresse su questa diverse perplessità, ma non andò oltre. La prima scoperta fisiologica che supera Galeno riguarda la circolazione del sangue, e fu fatta nel secolo successivo da William Harvey (1578-1657), un medico inglese che non a caso la mise a punto a Padova, dove soggiornò tra il 1600 e il 1602.

Gli errori anatomici di Vesalio contenuti nel De humani corporis fabrica furono in seguito corretti, ma la sua lezione di metodo rimase fondamentale e insuperata nella storia della medicina e della scienza: priorità dell’osservazione e rifiuto di ogni autorità, compreso Galeno che era stato per secoli dominante. Vesalio ripete questa sua lezione in tutto il De humani corporis fabrica, ma la esplicita soprattutto nella prefazione dell’opera che indirizza a Carlo V, l’uomo politico allora più potente, presso il quale suo padre prestava servizio. Qui Vesalio critica la medicina del tempo che ha perso la sua unità, si è frantumata in molteplici specialità e ha abbandonato con disprezzo la manualità. Ne è conseguita una profonda decadenza della chirurgia, praticata da persone incolte, come pure dell’anatomia. La medicina, secondo Vesalio, può rinascere soltanto se pone al centro l’anatomia, intesa come pratica settoria che il medico deve fare in prima persona, senza affidare ad altri il coltello, fidandosi dei suoi occhi e ripetendo le osservazioni. Galeno non è autorevole tanto da sostituire l’esperienza. Vesalio quindi attacca Galeno perché non ha mai aperto cadaveri umani, ma quelli di animali, e con una certa arroganza afferma che Galeno avrebbe commesso addirittura duecento errori in una sola dissezione.

Tutto questo è rappresentato efficacemente nel frontespizio del De humani corporis fabrica. Al centro della scena c’è il cadavere di una donna, a cui è stata appena aperta la cavità addominale dal medico – Vesalio stesso, come dimostra il facile confronto con il suo ritratto contenuto nel foglio seguente – con i coltelli posti sul tavolo. Vesalio non è in cattedra – come avveniva di consueto – ma fa la sua lezione accanto al cadavere, descrivendo gli organi addominali che tiene in vista con la sua mano destra. Tra gli spettatori ci sono diversi animali, provocatoriamente vivi, tra i quali una scimmia tanto utilizzata da Galeno, poco realistica, ma ampiamente simbolica.

Il De humani corporis fabrica è l’opera più importante di Vesalio e in qualche modo anche la sua unica opera. Poco dopo la pubblicazione, Vesalio abbandonò l’insegnamento universitario e la ricerca a Padova a favore dell’attività clinica, diventando medico dell’imperatore Carlo V. Fu evidentemente per lui un’occasione troppo allettante, da non perdere: ritornava a casa, a Bruxelles, e per giunta per ricoprire un posto prestigioso e ben remunerato. Per il resto della sua vita Vesalio fu medico della famiglia imperiale, alla corte di Carlo V e poi del figlio Filippo II, a Bruxelles prima e dal 1559 in Spagna.

Continuò ad essere interessato all’anatomia, ad aggiornarsi sulle ricerche dei colleghi e sulle critiche che gli venivano via via rivolte, ma le occasioni di eseguire dissezioni diventarono molto sporadiche. Si occupò a più riprese del De humani corporis fabrica. Pubblicò nel 1543 un’epitome per gli studenti, nel 1555 la seconda edizione che contiene qualche novità anatomica, poi lavorò ad una terza edizione che non fu mai pubblicata, ma di cui rimangono le sue note, forse scritte prima del 1559, in una copia conservata presso la biblioteca dell’università di Toronto (Thomas Fischer Rare Book Library). Il progetto editoriale fu forse interrotto dalla morte, che avvenne il 14 ottobre 1564 a Zacinto, sull’Adriatico, nel viaggio di ritorno da un pellegrinaggio in Terrasanta. Non sono noti i motivi che lo avevano indotto a compiere il pellegrinaggio, ma sono privi di fondamento i racconti di errori – diventati presto colpe da espiare – che Vesalio avrebbe commesso sul tavolo anatomico, sezionando corpi di persone ancora vive. Piuttosto Vesalio doveva essere stanco della vita di corte in Spagna, e sembra che fosse molto concreto il suo progetto di ritornare ad insegnare all’università di Padova dopo Gerusalemme.

Il De humani corporis fabrica ebbe subito dopo la pubblicazione un grande impatto nella comunità scientifica, che si misura anche dal numero di quanti gli si opposero in nome di Galeno, e dalla violenza dei loro attacchi. Tra tutti basta citare Sylvius, il vecchio professore di Vesalio a Parigi, fervente galenista, che contro Vesalio scrisse in più occasioni – addirittura un’operetta nel 1551 – e lo ritenne responsabile di una terribile epidemia antigalenica che si stava diffondendo in Europa. Tuttavia il metodo di ricerca di Vesalio si fece strada ovunque, anche tra i suoi oppositori. Bartolomeo Eustachio (1510-74), attivo a Roma, progettò un trattato anatomico che punto per punto confutasse Vesalio e difendesse Galeno. Questa opera non fu mai completata, mentre Eustachio pubblicò nel 1563-4 gli Opuscula anatomica che riguardano la descrizione di parti sottili, come l’orecchio, i denti, le ossa del capo, i reni, il sistema vascolare, in qualche modo approfondendo le ricerche di Vesalio, non certo negandole. Inoltre, più che alla scrittura, Eustachio affidò alcune sue scoperte anatomiche, soprattutto sui nervi e sul cervello, alle immagini che Vesalio aveva tanto utilizzato e sviluppato e che invece Galeno difficilmente avrebbe approvato: le opere di Galeno, comprese quelle anatomiche, non sono illustrate. Nel 1552 Eustachio fece incidere su rame una serie di grandi tavole che furono pubblicate soltanto nel 1714 dal medico Giovanni Maria Lancisi (1654-1720): più accurate e precise di quelle di Vesalio, seppure meno belle, le tavole anatomiche di Eustachio finirono per sostituirle.

Critica di Andrea Vesalio a Galeno

Praefatio del De humani corporis fabrica indirizzata all’imperatore Carlo V, c. 3v

Tutti prestarono fede a Galeno a tal punto che non si trovava nessun medico che pensasse che un errore, seppure minimo, fosse stato mai rilevato nei suoi volumi di anatomia, e ancor meno che lo potesse essere in seguito. Invece – a parte il fatto che Galeno spesso si corregge, segnala non una sola volta una propria negligenza commessa in qualche opera, quando in seguito diventa più esperto, e frequentemente fa affermazioni contraddittorie – sulla base della rinata arte della dissezione, della lettura attenta dei suoi libri e della correzione sicura degli stessi in numerosi passi, è per noi evidente che Galeno non dissezionò mai un corpo umano. Piuttosto, preso dalle sue scimmie, sebbene abbia avuto due cadaveri di uomini senza sangue, spesso accusa a torto i medici precedenti che si erano esercitati nella dissezione di uomini.

Troverai per giunta in Galeno numerose affermazioni che non sono per niente corrette neppure per le scimmie, per non dire – cosa che suscita grandissima meraviglia – che Galeno non si è accorto di nessuna delle molteplici e infinite differenze tra gli organi del corpo umano e della scimmia, se non di quella che riguarda le dita e la flessione del ginocchio: senza dubbio avrebbe mancato anche questa insieme con le altre, se non gli fosse saltata agli occhi senza dissezione dell’uomo.

Ma fino ad oggi non mi sono mai impegnato ad esporre i falsi dogmi della dissezione di Galeno, facilmente il primo dei maestri, e ancor meno vorrei proprio ora essere considerato irriverente nei confronti di chi è maestro di tutti i maestri e poco rispettoso verso la sua autorità. Non ignoro, infatti, quanto i medici – non diversamente dai seguaci di Aristotele – si turbino quando osservano che Galeno, nel corso di una sola dimostrazione anatomica, errò più di duecento volte nella descrizione corretta dell’armonia umana delle parti, della loro utilità e funzione, e nello stesso tempo controllino le parti dissezionate con occhio severo e con lo scopo principale di difenderlo. Tuttavia anche questi in seguito, spinti dall’amore della verità, a poco a poco si calmano e attribuiscono maggiore fiducia ai loro occhi e ai loro ragionamenti, non inefficaci, piuttosto che agli scritti di Galeno.

Cita questo articolo

Fortuna S., De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio, Medicina e Chirurgia, 60: 2705-2709, 2013. DOI:  10.4487/medchir2013-60-5

Decidere in Terapian.60, 2013, pp.2714

-Cop Misoginia

Decidere in terapia – Dialogo sul Metodo nella Cura di Giacomo Delvecchio e Luciano Vettore Edito da “Liberodiscrivere” della Libreria Internazionale Medico Scientifica Frasconi di Genova, 2013, p. 296 e 24,00

Il libro non ha la forma e lo stile del trattato; al contrario è costruito come un dialogo, un confronto dialettico tra i due autori, che scambiano, condividono e confrontano le loro opinioni su una serie di temi che riguardano il metodo nella cura; si propone di colmare una carenza nella letteratura medico-scientifica, dove sono numerose le trattazioni del metodo nella diagnosi (Poli, Scandellari, Federspil …), ma ha finora trascurato la metodologia della terapia, o meglio la metodologia nella cura, che la comprende, essendo quest’ultima significativamente più ampia del solo ambito delle prescrizioni terapeutiche.

Nei dodici capitoli del libro vengono discussi i connotati di questa metodologia, declinati in molti temi e corroborati da una vasta bibliografia: viene così trattata l’evoluzione storica del concetto e della pratica della cura; vengono considerate le molteplici e differenti tipologie di terapia; è oggetto di discussione ampia e argomentata il quesito se, attualmente, nel processo clinico debba essere prioritario il momento diagnostico o quello terapeutico; un intero capitolo è dedicato alla logica nelle decisioni terapeutiche e un altro alla epistemologia della terapia; il “cuore “ del libro probabilmente si trova nel capitolo più breve, quello dedicato al giudizio clinico, inteso come sintesi tra il momento della diagnosi complessiva dello stato di salute del paziente (spesso con polipatologia) e l’armonizzazione delle conseguenti decisioni terapeutiche, pure molteplici.

I rimanenti capitoli riguardano: la libertà di cura nell’ottica del paziente e in quella del medico; l’educazione terapeutica del paziente e l’educazione alla salute del soggetto sano con fini essenzialmente preventivi; la gestione dell’incertezza nelle scelte terapeutiche; gli errori di terapia; l’etica della cura.

All’interno dei vari capitoli gli autori discutono problemi concettualmente rilevanti come, per esempio, le medicine alternative, il rapporto tra medicina delle evidenze e medicina narrativa, il problema del consenso informato e quello dell’accanimento e dell’abbandono terapeutico; nonché concetti fondamentali come il concetto di salute, di malattia, di guarigione, di cronicità, la prospettiva della “medicina partecipativa” e del “paziente esperto”,  e molti altri. Sarebbe tuttavia troppo lungo scriverne esaurientemente in questa sede, senza contare che ciò toglierebbe al lettore il piacere della scoperta.

Ciò che si può dire è che problemi e concetti non sono trattati in modo sistematico, bensì riconsiderati in capitoli diversi perché con ottiche differenti, ma sempre con un atteggiamento problematico e dialettico; questa apparente ridondanza è giustificata – come dichiarano gli stessi autori – dal fatto che questo libro non ha lo scopo di trasferire conoscenze, bensì quelli di maturare competenze stimolando l’impegno del lettore alla riflessione personale e al pensiero critico, anche grazie al confronto della propria esperienza con ciò che sta leggendo: infatti il suo fine esplicito non è quello di insegnare la terapia delle varie malattie, bensì quello di quello di aiutare l’acquisizione di una “forma mentis” nell’approccio di cura, e quindi di una strategia mentale: cioè di “fornire al lettore – potenziale curante – una guida al ragionamento terapeutico metodologicamente corretto, antropologicamente ed eticamente fondato”.

Nel rispetto di questa scelta, solo nell’ultimo capitolo gli autori si sono concessi una “digressione pratica”, fornendo brevi ma sostanziosi consigli sulla condotta prescrittiva, che sono resi pregnanti grazie proprio alla precedente “educazione metodologica”.

Il testo nella sua complessità è dedicato ai medici in formazione, siano essi studenti in medicina o specializzandi, ma anche ai medici già formati e desiderosi di migliorare la loro performance professionale, e – perché no – pure agli altri professionisti della salute che hanno ruolo nel processo di cura. Per questo auspico l’adozione di questo prezioso volumetto nei corsi di laurea e di specializzazione, come insostituibile strumento di apprendimento attivo e partecipato.

Notizie dal CUNn.60, 2013, pp.2712-2713

Il 19 giugno il CUN ha incontrato il Ministro, On. Prof. Maria Chiara Carrozza. Nel corso dell’incontro il Presidente, prof. Andrea Lenzi, ha informato il Ministro sui lavori che hanno visto impegnato il CUN in questi mesi e sulle proposte più rilevanti ed urgenti elaborate di recente. I Coordinatori delle Commissioni permanenti hanno poi rappresentato al Ministro alcune difficoltà riscontrate dal Sistema Universitario nell’applicazione del processo di Riforma. Tra questi il Decreto di riordino del Dottorato di Ricerca, il processo di Abilitazione Scientifica Nazionale 2012, sul quale il CUN ha avviato un Osservatorio e la necessità di una sua revisione, l’applicazione del DM 47 AVA, l’Autonomia universitaria.

Il Comitato d’area medica ha illustrato problemi connessi, in particolare, alla formazione in quest’area, quali la necessità di anticipare i test di accesso a Medicina per consentire l’avvio della didattica ad apertura dell’Anno Accademico, di istituire il titolo di Laurea abilitante evitando ai giovani laureati ulteriori allungamenti di tempo per potere esercitare la professione, il percorso MD-PHD che consenta di ottenere il doppio titolo in 8 anni, ed infine i problemi connessi alle Scuole di Specializzazione sia in termini di insufficiente numero di borse, sia per la modalità di accesso che probabilmente sarà nazionale. Il Ministro ha prestato molta attenzione alle problematiche che sono state poste ed ha assicurato un rapporto fattivo con il CUN.

Nel corso del mese di luglio prima della pausa estiva sono state formulate alcune raccomandazioni :1) sulla semplificazione dell’attività di ricerca (Decreto Legge del 21 giugno 2013 n. 69); 2) sull’utilizzo e il riutilizzo delle risorse per i ricercatori a tempo determinato; 3) sullo stato giuridico dei Ricercatori e dei Professori di ruolo negli atenei statali e/o non statali, ivi compresi gli atenei telematici.

Tra le mozioni la richiesta di emendamento all’art. 58, c. 3 del Decreto Legge del 21 giugno 2013 n. 69, in relazione alle “chiamate dirette” e sull’interpretazione del DM 8 febbraio 2013 n. 45 in relazione all’“impegno esclusivo a tempo pieno” dei dottorandi in cui si chiede di chiarire se e in quali termini il riferimento a “un impegno esclusivo e a tempo pieno” autorizzi esperienze di formazione anche professionali che il collegio dei docenti consideri correlate e funzionali alle attività di ricerca; e si chiede inoltre al Ministro se non ritenga opportuno prevedere modalità di svolgimento dei corsi di dottorato che permettano di affiancare al percorso formativo e di ricerca, pratiche e tirocini professionali nonché attività professionali o industriali, ferma restando la necessità di salvaguardare la qualità didattica e scientifica del corso di dottorato (per il testo completo www.cun.it).

Il 16 luglio, alla presenza del Ministro On. Prof. Maria Chiara Carrozza, l’ANVUR ha presentato i risultati della VQR 2004-2010. I dati organizzati in tabelle, i Rapporti di Area dei GEV e il rapporto finale ANVUR sono pubblicati sul sito www.anvur.org

Il CUN ha quindi avviato un’analisi ed una riflessione sui risultati della VQR presentati dall’ANVUR. A questo proposito dopo ampio dibattito sulla cultura e sulla necessità della valutazione, a cui l’Università Italiana ha mostrato di non sottrarsi è stata approvata dal Consiglio (16 luglio 2013) una dichiarazione in cui, si ribadisce che: “La valutazione è un imperativo assoluto per l’Università italiana. Per consolidarla occorre far si che l’obbligo di trasparenza e comunicazione dei dati raccolti diventi un’occasione di crescita del sistema e non un processo che ne favorisca divisioni, rivalità immotivate o logiche punitive.…omissis . Occorre richiamare tutti a una grande cautela nella presentazione e nell’utilizzo dei dati, che eviti la tentazione dello scoop e della semplificazione. Una valutazione rigorosa implica innanzitutto la capacità di fare e pubblicare confronti omogenei, senza centrare l’analisi su dati ad effetto. La valutazione deve essere uno strumento non “di” governo ma “per” il governo, qualcosa che non sostituisca le scelte, ma aiuti le sedi istituzionali a scegliere per il meglio. La logica delle pagelle è la strada sbagliata. Il CUN pertanto ribadisce quanto già dichiarato in passato: valutazione e non classifiche. Rating e non ranking.”

Il professor Marco Mancini è stato nominato dal Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro, On. Prof. Maria Chiara Carrozza, Capo Dipartimento per l’Università, l’AFAM e per la Ricerca.

Il Ministro, On. Prof. Maria Chiara Carrozza, ha istituito, con proprio decreto, una “Commissione di Studio con il compito di elaborare proposte operative in materia di potenziamento del sistema di autovalutazione della qualità e dell’efficacia delle attività didattiche e di ricerca delle università, dell’accreditamento iniziale e periodico delle sedi e dei corsi di studio universitari e della valutazione periodica della qualità, dell’efficienza e dei risultati conseguiti dagli Atenei”. La Commissione è composta dalla professoressa Daria de Pretis, nominata dal Ministro Coordinatrice della Commissione, dal professor Pasquale Nappi, e dal professor Andrea Stella, coordinatore della Commissione II – “Politiche per la valutazione, la qualità e l’internazionalizzazione della Ricerca” del CUN.

Il 19 luglio 2013, per il Parziale rinnovo del Consiglio Universitario Nazionale dell’Area 13 “Scienze economiche e statistiche” è stato eletto il prof Marco Valente(ricercatore) dell’Università degli Studi dell’ L’Aquila.

Il 23 luglio si è conclusa la consultazione pubblica sui criteri di scientificità delle pubblicazioni e degli altri prodotti di ricerca che ha registrato oltre 15000 questionari compilati e oltre 5000 completati . I risultati saranno disponibili in autunno e saranno la base per l’anagrafe dei professori, ricercatori e prodotti scientifici (ANPRePS).

La prossima adunanza del CUN si terrà il 10 settembre 2013.

Manuela Di Franco

Segretario generale

La scuola internistica padovana di medicina clinica e sperimentale di Gino Patrassin.60, 2013, pp.2710-2712

Gino Patrassi nacque ad Amelia (Terni) il 31 agosto del 1904. Laureatosi a Firenze nel 1927, si dedicò nei suoi primi anni accademici allo studio della morfologia, come allievo e docente nell’Istituto di Anatomia Patologica diretto dal prof. Bindo De Vecchi, e ottenne l’incarico di insegnamento di Istologia Patologia  e poi di Anatomia Patologica presso l’Università di Firenze. Completò la sua preparazione mediante periodi di perfezionamento all’estero, in Germania, presso le scuole allora famose di Rossle e a Berlino, presso l’Istituto di von Bergmann, il padre dell’anatomia funzionale. Al ritorno dalla Germania passò dall’Anatomia Patologica alla Clinica medica, diretta dal prof. Pio Bastai, con il quale si trasferì, come suo aiuto,  alla Clinica Medica di Padova nel 1939. Divenne professore straordinario di Patologia Speciale Medica nel 1949, cattedra tenuta presso l’Università di Cagliari, e poi di nuovo a Padova, chiamato dalla Facoltà ad occupare la medesima cattedra e a dirigere l’Istituto. Nel 1963 è chiamato a dirigere la cattedra e l’istituto di Clinica Medica generale dell’Università, dove rimase fino al 1974, anno del suo pensionamento. Il prof. Patrassi morì a Padova, il 12 settembre 1981.

La sua produzione scientifica è multiforme, come si usava nelle cliniche mediche quando la medicina non era così specializzata com’è adesso. La sua bibliografia contiene studi sulla patologia del sangue – meritano di essere ricordate l’anemia ellitto-poichilocitica che ha avuto l’eponimo di Fanconi-Patrassi e gli studi sulle leucemie aleucemiche e subleucemiche; poi gli studi di splenoepatologia, di cui fondamentale fu la monografia su La questione del Morbo di Banti, contributo a quell’epoca fortemente originale, indirizzato allo studio delle correlazioni fisiopatologiche tra malattie epatiche progressive fino alla cirrosi e all’ipertensione portale e le variazioni emodinamiche nel contesto splenico e splancnico. Da qui gli studi sulle cirrosi splenomegaliche e sulla circolazione portale, argomento conclusosi, con la partecipazione degli allievi C. Dal Palù, A. Ruol e P. D’Agnolo, con la relazione La pletora portale, al Congresso Nazionale di Medicina Interna, tenutosi a Torino, nel 1961, in collaborazione con il chirurgo di Roma, prof. P. Valdoni. Altro settore di studio di Patrassi fu la patologia endocrina in particolare quella tiroidea, che culminò con una  relazione al Congresso nazionale di Medicina Interna sulla Terapia delle Distireosi, allora agli albori della pratica clinica. Ancora, a sottolineare la multiformità degli studi clinici di Patrassi e il suo prestigio a livello nazionale, vi furono le relazioni, sempre alla Medicina Interna nazionale, sull’Ipertensione reno-vascolare”1968), in collaborazione con C. Dal Palù e A. Ruol, e sulle Iperlipoproteinemie (1971), in collaborazione con G. Crepaldi. Ma sono soprattutto i suoi contributi sulla descrizione di casi clinici che stanno a significare la sua profonda capacità e competenza clinica in tutti i settori della medicina, espresse dalla visita quotidiana in corsia, dove era di impareggiabile insegnamento il suo rapporto con il malato e la sua grande umanità con pazienti, personale paramedico, studenti, giovani medici e assistenti anziani. Era puntuale nella visita e meticoloso nell’ascolto dell’anamnesi e nell’esame obiettivo, sereno nella discussione, sempre attento a cogliere il problema principale e proporne soluzioni concrete. Parallelamente alla notevole competenza clinica, ebbe sempre altrettanta attenzione ai giovani, espressa in particolare nell’insegnamento della Medicina interna, sia in lezioni magistrali, sia durante la visita medica, al letto del malato.

La sua attività didattica si svolse per quasi mezzo secolo a Firenze, a Padova, a Cagliari e poi ancora a Padova, ove è ricordato dagli allievi per chiarezza di pensiero, equilibrio, compiutezza di aggiornamento, indirizzo verso le decisioni concrete, essenzialità delle nozioni, nonché la sua innata arguzia toscana. Memorabile fu una sua relazione del 1964 su Prospettive di riforma degli studi medici, dove egli delinea il quadro di grave crisi a cui stava incamminandosi l’Università italiana, quasi a presagire i grandi sconvolgimenti che avrebbero portato alle manifestazioni studentesche del ’68 e alle sue conseguenze. In questa relazione colpisce soprattutto la logica con cui sono delineati i possibili piani di studio in funzione del tipo di medico che si vuole far uscire dall’Università; prevede una maggiore attenzione alla formazione medica e clinica generale, con approccio globale al malato attraverso gli strumenti prioritari dell’anamnesi e dell’esame obiettivo, una riduzione del carico didattico di argomenti specialistici, già allora eccessivamente prevaricanti nel corso di laurea. Riteneva indispensabile una solida formazione metodologica e clinica internistica, prima di approdare a qualsiasi specializzazione, che peraltro guardava sempre con un certo sospetto per l’ineludibile componente riduzionistica propria di ogni specialità, a fronte della visione olistica del malato che sempre aveva propugnato e testimoniato. Auspicava inoltre il coinvolgimento dei medici ospedalieri, in particolari quelli dei grandi ospedali, nella formazione pratica dei neo laureati. Infine illustrava le modalità con cui si sarebbero dovute svolgere le carriere dei ricercatori e degli assistenti. Proposte ragionevoli e illuminate, dettate da esperienza e saggezza, dove la preparazione scientifica e di ricerca doveva trovare un forte connubio con la preparazione clinica e didattica: proposte rimaste inascoltate in questi 40 anni di vita universitaria, dove le riforme degli studi medici succedutesi hanno portato le facoltà mediche alla deplorevole condizione attuale, con progressiva frammentazione della preparazione medica, carenze formative nell’approccio al malato e prevalente dominio dei settori specialistici e tecnologici.

Coerentemente con i suoi interessi scientifici preminenti, il prof. Patrassi ha fondato a Padova e organizzato il Centro di Splenoepatologia, tuttora attivo come centro di ricerche sperimentali e cliniche ad opera degli allievi e dei successori. Patrassi fu insignito della medaglia d’oro dei Benemeriti della Scuola e della Cultura e dell’Arte e gli fu riconosciuto il premio Ganassini e il premio Marzotto, negli anni 1967-68.

Nell’ambito delle iniziative accademiche ha contribuito a fondare e avviare la Facoltà di Medicina presso l’Università di Trieste, facendo parte del Comitato Ordinatore assieme al prof. Valdoni; inoltre ha fondato e avviato la Facoltà di Medicina presso l’Università di Verona, come sede distaccata dell’Università di Padova. Numerosi suoi allievi furono chiamati ad occupare cattedre di Medicina interna e di specialità mediche presso queste nuove facoltà, dalle quali gemmarono prestigiose Scuole cliniche e di ricerca, affermatasi a livello nazionale e internazionale. A testimoniare il suo vivo interesse per il governo dell’Università, Patrassi fu anche preside di facoltà negli ultimi anni della sua carriera accademica, a dire il vero senza grandi soddisfazioni.

Il ricordo di Gino Patrassi come Maestro e come scienziato sarebbe decisamente parziale e astratto se dovesse prescindere dalla sua personalità reale, ben presente in chi lo ha potuto conoscere direttamente. Tutti coloro che gli sono stati vicini, nelle buone come nelle tristi vicende della vita, lo hanno apprezzato ancor di più come uomo, con il suo corredo di grandi doti intellettuali, morali e civili e anche, perché no (come ebbe a dire Piero Leonardi, uno dei suoi Aiuti più amato, nel ricordo che di Patrassi fece all’Ordine dei Medici di Padova nel 1982 e dal quale sono tratte queste note), di qualche piccola umana debolezza, che imponeva a chiunque lo conoscesse non tanto di venerarlo come un mito, quanto di circondarlo di comprensione e di affetto. Immenso infatti fu il suo attaccamento alla famiglia, negli ultimi anni ripetutamente e atrocemente colpita, il senso di responsabilità e la comprensione verso i malati, la costante fedeltà ai suoi ideali, avulsi da ogni interesse materiale, la profonda onestà intellettuale e professionale, l’amor di Patria, in pace e in guerra, la passione per la musica e le arti in genere, l’entusiasmo per una partita di caccia, la sana giocondità espressa nei convivi con gli amici, ove non si contavano le battute spiritose o pungenti, il riconoscimento ed il rammarico di qualche suo inevitabile errore e infine la serenità con la quale ha accettato la fine dei suoi giorni, da lui lucidamente prevista e coraggiosamente affrontata, sempre circondato dall’affetto dei suoi cari e degli allievi più amati.

Gli Allievi

Professori di prima fascia

Titolarità di Cattedra di 1° Fascia conseguita durante la vita accademica del Maestro

– In Medicina Interna: M. Austoni (Padova), G. Crepaldi (Padova), C. Dal Palù (Padova, Trieste, Verona, Padova), G. De Sandre (Padova, Verona), A. Ruol (Padova, Trieste, Padova)

– In Cardiologia: S. Dalla Volta (Padova)

Titolarità di Cattedra di 1° Fascia conseguita con gli Allievi del Maestro

– In Medicina Interna: G. Baggio (Sassari), R. Corrocher (Parma, Verona), R. Fellin (Ferrara), A Gatta (Padova), D. Girelli (Verona), O. Olivieri (Verona), A. Pagnan (Castelfranco Veneto, Padova), P. Palatini (Padova), P. Pauletto (Padova-Treviso), A.C. Pessina (Trieste, Verona, Padova), P. Prandoni (Padova), G. Realdi (Siena, Sassari, Padova), G.P. Rossi (Padova), L. Vettore (Verona)

– In Geriatria-Gerontologia: G. Curri (Trieste), G. Enzi (Padova), M. Frezza (Trieste), E. Manzato (Padova)

– In Malattie del Metabolismo: A. Avogaro (Padova), S. Del Prato (Pisa), D. Fedele (Padova), M. Muggeo (Verona), A. Tiengo (Padova)

– In Cardiologia: G.P. Trevi (Chieti, Novara, Torino)

– In Immunologia Clinica ed Ematologia: G. Perona (Verona), G. Pizzolo (Verona), G.P. Semenzato (Padova)

– In Oncologia Medica: R. Cellerino (Ancona), G.L. Cetto (Verona)

– In Gastroenterologia: A. Alberti (Padova)

– In Pneumologia: M. Saetta (Padova), R. Zuin (Padova)

– In Anatomia Umana Normale: F. Munari (Padova)

– In Alimentazione e Nutrizione Umana: P. Tessari (Parma, Padova)

Professori di 2° fascia con responsabilità primariale

– G.B. Ambrosio (Venezia), G.C. Falezza (Verona-Negrar), L. Caregaro Negrin (Padova), A. Semplicini (Venezia)

Primari ospedalieri

– G. Andolfatto-Zaglia, P. Avogaro, G. Battaglia, G. Belloni, A. Benedetti, G. Bertelli, F. Binda, A. Bonanome, A. Bonadonna, G. Bovo, G. Buttò, D. Corà, V. Crepaldi, G. Dagnini, B. D’Agnolo, L. Dalla Palma, C. Dalla Rosa, I. Dal Zotto, S. De Biase, M. Di Lollo, G. Diodati, W. Donadon, G. Donaggio, Francescon, F. Furlanello, S. Gabaldo, G. Ghiotto, Gregoris, P. Leonardi, L. Lusiani, A. Maggia, I. Masetto, G. Mazzei, R. Miori, Nardini, F. Palermo, E. Piccolo, Porro, G. Roberti, P. Spandri, F. Tremolada, R. Trevisan, G. Vescovo, Vignato, A. Visonà, S. Zamboni, E. Zerbini, Zerman

Principali linee di ricerca della Scuola

– Linea di Medicina Interna (epidemiologia clinica, metodologia clinica e sperimentale): M. Austoni, C. Dal Palù, A. Ruol, G. Crepaldi, G. Realdi, R. Corrocher

– Linea cardiovascolare (clinica e sperimentale): C. Dal Palù, S. Dalla Volta, A. Pessina, A. Pagnan, G.P. Trevi, R. Corrocher, G.P. Rossi, P. Palatini, P. Pauletto, O. Olivieri, D. Girelli

– Linea endocrina-metabolica: (patologia endocrina, dislipidemie, diabete): G. Crepaldi, A. Tiengo, M. Muggeo, G. Enzi, E. Manzato, G. Baggio, D. Fedele, A. Avogaro, S. Dal Prato

– Linea ematologica-immunologica: (clinica e sperimentale) G. De Sandre, G. Perona, L. Vettore, G. Pizzolo, G.P. Semenzato

– Linea pneumologica (clinica e sperimentale): M. Saetta, R. Zuin

– Linea gastroenterologica ed epatologica (Clinica e sperimentale): A. Alberti, A. Gatta, G. Realdi

– Linea oncologica: R. Cellerino, G.L. Cetto

 

Le tematiche didattico-pedagogiche delle Malattie Raren.60, 2013, pp.2679-2682, DOI: 10.4487/medchir2013-60-2

Abstract

The European Parliament defined Rare Diseases (RD) as those occurring with a prevalence rate of up to 5/10000.

According to the WHO , RD amount to  roughly 10% of known diseases and In Italy their prevalence is estimated in the range of 450.000-600.000 patients.

The rarity of each specific nosological entity implies  a diagnostic and therapeutic latency  that  negatively influences the patient’s  prognosis.

In the 2013-2016 National Program for RD, the Italian Ministry of Health planned a reorganization of diagnostic, clinical and prognostic routes, including rehabilitation , community assistance and  research strategies.

As far as the teaching programs is concerned, we suggest that medical Students should approach this field from a theoretical and practical point of view.

Concretely, this means to promote  a progressive acquisition of knolwledge throughout all semesters , starting at the first year with a basic biological teaching.

A second stage will provide Students with a clinical therotical basis which shpuld be implemented in the third stage by active involvement in RD outpatient Services as well as in the National and regional RD Networks.

Articolo

Le Malattie Rare (MR) sono definite sulla base di una bassa prevalenza nella popolazione e il Parlamento Europeo ha definito un limite di prevalenza non superiore a 5 casi su 10.000 abitanti. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone che soffrono di patologie meno frequenti, che colpiscono una persona su 100.000 o meno. Secondo una stima dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) rappresentano il 10% delle patologie umane note. Si stima che il 6-8% della popolazione europea nel corso della vita, complessivamente 27- 36 milioni di cittadini, sia affetto da una MR.

L’OMS ha calcolato l’esistenza di circa 6.000 entità nosologiche, ma si tratta probabilmente di una stima riduttiva e, di fatto, l’Unione Europea (UE) calcola il loro numero in circa 8.000. Si può quindi stimare che la prevalenza dei malati rari complessivamente considerati sia dal 50 al 100% superiore a quella stimata per il solo elenco del DM 279/2001, cioè da 7,5 a 10 per 1.000 residenti. In base a queste stime in Italia ci sarebbero dai 450.000 ai 600.000 malati rari, di cui solo 300.000 presentanti forme comprese nell’attuale elenco allegato al DM 279/2001. Queste discrepanze tra le stime sono giustificate dal fatto che l’effettiva numerosità delle MR varia in funzione dell’affinamento degli strumenti diagnostici e dell’evoluzione delle classificazioni in uso.

Si tratta di patologie eterogenee, accomunate da problematiche assistenziali simili, che necessitano di essere affrontate globalmente e che richiedono una particolare e specifica tutela, per le difficoltà diagnostiche, la gravità clinica, il decorso cronico, gli esiti invalidanti e l’onerosità del trattamento. Il problema delle MR deve essere valutato facendo anche riferimento anche ai loro aspetti clinici e funzionali.

Molte MR sono complesse, gravi, degenerative, cronicamente invalidanti; circa un terzo di esse riduce l’attesa di vita a meno di 5 anni.

La rarità comporta scarsa disponibilità di conoscenze scientifiche, e difficoltà nell’ottenere una diagnosi appropriata con lunghi tempi di latenza tra esordio della patologia, diagnosi appropriata e trattamento adeguato, che incidono negativamente sulla prognosi della condizione: “poco si conosce sulla malattia” e spesso “il medico non (ri)conosce la malattia”.

Il ritardo nella diagnosi delle MR dipende da vari fattori:

– mancanza di conoscenze adeguate da parte dei medici spesso collegata alla estrema rarità della malattia,

– segni clinici individualmente non diagnostici,

– assenza o limitata disponibilità di test diagnostici,

– frammentazione degli interventi,

– inadeguatezza dei sistemi sanitari.

Molti malati rari non riescono ad ottenere un inquadramento della loro patologia nel corso di tutta la loro vita. L’eziologia di almeno la metà delle MR purtroppo resta ancora sconosciuta.

Se diagnosi precoce e trattamento appropriato: molte non incidono significativamente sulla durata della vita.

Da quanto premesso emerge l’importanza di una diagnosi precoce e precisa nei soggetti con aspetti fenotipici orientativi o sospetti.

La diagnosi di MR richiede competenze specifiche multidisciplinari atte a riconoscere, seguire e curare le varie anomalie presenti nell’individuo e ad effettuare un accurato screening famigliare. Per i soggetti affetti molto importante è il counselling genetico e l’ausilio psicologico.

Le MR, per la loro bassa prevalenza e per la loro specificità, richiedono quindi un approccio globale multi-disciplinare e percorsi diagnostico-terapeutici molto complessi. Sono necessari interventi specifici e combinati per prevenire la morbilità e migliorare la qualità di vita  delle persone colpite.

La frequente mancanza di terapie eziologiche efficaci non implica l’impossibilità di trattare le persone affette da MR. Infatti sono numerosi i trattamenti sintomatici, di supporto, riabilitativi, educativi, sostitutivi o supplementativi di funzioni, palliativi, ecc. comprese alcune prestazioni attualmente non erogate dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN), che possono cambiare notevolmente il decorso clinico e l’attesa di vita, il grado di autonomia e la qualità della vita delle persone affette e dei loro familiari. L’accesso a questi trattamenti già disponibili e i loro aspetti innovativi costituiscono elementi chiave nelle politiche per l’assistenza ai malati rari.

Le MR costituiscono un problema di sanità pubblica per l’impatto numerico sulla popolazione.

Comunità Europea – Le MR, per le loro peculiarità, sono state identificate dalla Comunità Europea (CE) come uno dei settori della sanità pubblica per i quali è fondamentale la collaborazione tra gli Stati membri; le MR sono state oggetto di decisioni, regolamenti e raccomandazioni comunitarie volte a incentivare sia le iniziative regionali e nazionali, sia le collaborazioni transnazionali.

1999 – Decisione N. 1295/1999/CE del 29 aprile 1999 del Parlamento Europeo e del Consiglio,  programma di azione comunitaria 1999-2003 sulle MR (migliorare le conoscenze scientifiche sulle MR e creare una rete europea d’informazione per i pazienti e le loro famiglie; formare ed aggiornare gli operatori sanitari, per migliorare la diagnosi precoce; rafforzare la collaborazione internazionale tra le organizzazioni di volontariato e quelle professionali impegnate nell’assistenza; sostenere il monitoraggio delle MR negli Stati Membri.)

2003-2008 – Primo Programma Comunitario

2008-2013 – Secondo Programma Comunitario

2010 – Decisione della CE n. 2009/872/EC, 30 novembre 2009: Istituzione del Comitato europeo di esperti sulle malattie rare, European Union Committee of Experts on Rare Diseases (EUCERD – http://www.eucerd.eu): il Comitato ha l’obiettivo di coadiuvare la CE nell’elaborazione e nell’attuazione delle azioni comunitarie nel settore delle MR, in collaborazione con gli Stati membri, le Autorità europee competenti in materia di ricerca e sanità pubblica e gli altri soggetti che operano nel settore.

Italia – L’attenzione nei confronti delle MR si è focalizzato in Italia a partire dagli anni ‘90. Nel 2001 con Decreto Ministeriale (279/01) è stato istituito il “Regolamento per la Rete Nazionale Malattie Rare”. Le attività, i servizi e le prestazioni destinate alle persone affette dalle MR sono entrate a fare parte integrante dei “Livelli Essenziali di Assistenza” (LEA), infatti è stata predisposta l’esenzione dalla partecipazione al costo delle relative prestazioni, in relazione alle condizioni cliniche individuali e per  le patologie identificate.

DM 279/01

– Individuazione delle MR che hanno diritto  alla esenzione (581 malattie) per codice malattia (Tab. 1)

– Definizione delle modalità di esenzione dalla partecipazione al costo delle relative  prestazioni.

– Istituzione della Rete nazionale delle MR con individuazione da parte delle regioni dei centri accreditati.

– Attivazione del Registro Nazionale delle MR presso l’Istituto Superiore di Sanità, CNMR.

Schermata 2013-10-24 alle 19.43.49

L’attenzione per le MR si è accresciuta negli ultimi anni con la consapevolezza che queste malattie condividono una serie di problemi e richiedono politiche specificamente indirizzate.

È previsto l’aggiornamento dell’elenco delle MR del suddetto DM con l’inclusione di nuove malattie, ma ciò è al concerto tecnico del Ministro dell’economia e finanze per le valutazioni di compatibilità economico finanziaria.

Sono infatti oggi a disposizione classificazioni più corrette (Tab. 2) che includono dati di expertise internazionali, quale la classificazione riportata in Orphadata.

Schermata 2013-10-24 alle 19.46.51

Il Ministero della Salute alla fine del 2012 ha preparato la Bozza di Piano Nazionale Malattie Rare 2013-2016.

Il Piano ha confermato l’interesse per il settore delle MR e si propone di costruire un quadro d’insieme e fornire indicazioni utili ad affrontare il problema delle MR in maniera organica con una attuazione ai diversi livelli istituzionali e nelle diverse aree assistenziali occupandosi dei percorsi diagnostico-assistenziali, della riabilitazione e dell’assistenza domiciliare.

Un importante rilievo è stato dato al ruolo svolto dalla ricerca nel campo delle MR. La ricerca, sia clinica che di base, viene infatti ritenuta lo strumento di elezione per accrescere le conoscenze sulle MR.

La formazione è ritenuta un aspetto cruciale nel campo delle MR.

La crescita e la valorizzazione professionale degli operatori sanitari sono requisiti essenziali che devono essere assicurati attraverso la formazione permanente.

Sono stati poi individuati i criteri di designazione e valutazione dei Centri di “expertise” per le Malattie Rare:

– adeguata capacità di diagnosi, follow-up e presa in carico dei pazienti;

– volume di attività significativo  vs  prevalenza della malattia;

– capacità di fornire pareri qualificati,  utilizzare linee-guida di buona pratica clinica  ed  effettuare controlli di qualità;

– documentato approccio multidisciplinare;

– elevata competenza ed esperienza (pubblicazioni scientifiche)

– riconoscimenti, attività didattica e di formazione;

– significativo contributo alla ricerca;

– stretta interazione con altri centri esperti, capacità di operare in rete a livello nazionale ed internazionale;

– stretta collaborazione con le Associazioni dei pazienti;

– verifica periodica del mantenimento dei requisiti.

Proposta di percorso formativo in Malattie Rare nel CdL Medicina e Chirurgia

Le MR sono contenuti della formazione universitaria pre- e post-laurea in quasi tutti gli Atenei italiani.

In particolare, la maggioranza dei Corsi di Laurea prevede l’insegnamento delle Malattie rare nell’ambito di diversi Corsi Integrati (Genetica, Pediatria, Medicina Interna), spesso con ore di insegnamento frontale non organizzate in CFU, oppure in Corsi Elettivi, che hanno la prerogativa di dovere essere scelti dallo Studente e di non raggiungere capillarmente la popolazione studentesca.

Si rende necessario, a nostro parere, costruire un percorso formativo che si sviluppi nell’arco dei dodici semestri affrontando il problema con un lavoro didattico frontale da un lato e di tipo professionalizzante dall’altro, coinvolgendo, ove esistenti, gli ambulatori dedicati alle Malattie rare  e la rete  dei Centri regionali per lo studio e la cura delle stesse.

Questo percorso si può articolare in tre fasi.

1a fase

Precoce coinvolgimento clinico dello studente, introduzione del concetto di MR nei primi anni di corso, dati generali (lezioni frontali)

C.I. Metodologia clinica (2° anno di corso) per la identificazione di segni clinici o di sospetto alle condizioni rare

2a fase 

Ore di insegnamento nei singoli C.I.: avviamento alla identificazione di segni clinici o di sospetto di condizioni rare nelle diverse patologie d’organo e nelle diverse età (lezioni frontali e attività pratica), in particolare nel:

Corso di Genetica Medica

C.I. di Pediatria (condizioni congenito-malformative)

C.I. di Clinica Medica

3a fase 

Attività professionalizzante negli Ambulatori di Malattie Rare e coinvolgendo la rete (Tab. 3)   dei Centri regionali per lo studio e la cura delle malattie rare.

Si fa qui riferimento all’ Istituto Superiore di Sanità (http://www.iss.it/cnmr/) al Network
Orphanet Italia: http://www.orpha.net/consor/cgi) e al Network Uniamo (http://www.uniamo.org/it/progetti/community-malattie-rare.html)

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Bibliografia

Cita questo articolo

Biasco G., Cetto G., De Marchi M., et al., Le tematiche didattico-pedagogiche delle Malattie Rare, Medicina e Chirurgia, 60: 2679-2682, 2013. DOI:  10.4487/medchir2013-60-2

Il Progress Test 2012n.60, 2013, pp.2699-2704, DOI: 10.4487/medchir2013-60-4

Abstract

A Progress Test (PT), currently incorporated in different American and European Medical Schools, is a longitudinal, educational assessment tool designed to give feedback to students regarding their progressive acquisition of cognitive knowledge during a learning process.  It is a written knowledge exam (usually involving multiple choice questions) that is usually administered to all students, at the same time and at regular intervals  throughout the entire academic program. The peculiarities of a PT is, first, that students cannot specifically study for it and thus their results reflect the knowledge they have been able to acquire for the specific year of study, and second, that it samples the complete knowledge domain expected of new graduates on completion of their course, regardless of the year level of the student. 

The differences between students’ knowledge levels are reflected in the test scores; the further a student has progressed in the curriculum the higher the scores. As a result, these scores provide repeated longitudinal measurements, curriculum-independent, of the objectives (in knowledge) of the entire program. 

In 2012, 80% of the Italian Medical Schools administered the seventh PT to 18,687 students enrolled throughout the 6 years of medical training.  Three hundred questions, equally divided into two groups, Basic Sciences and Clinical Sciences, were administered over a 6-hour period divided into a 3-hour morning (Basic Sciences) and afternoon (Clinical Sciences) session. The information acquired from Progress Tests is useful not only to better comprehend the progress of students but also to understand teaching programs/methods used in order to fulfill the objectives of Italian Medical Schools to introduce appropriate learning and teaching interventions aimed at continuously improving the quality of the Italian medical graduate.   

Articolo

Introduzione

Le Facoltà di Medicina e Chirurgia italiane dall’Anno Accademico 2006/2007 hanno incluso il Progress Test tra gli strumenti indispensabili per la valutazione longitudinale delle conoscenze degli studenti(1-4).  Il Progress Test (PT), già incorporato nel curriculum medico di diverse Università americane ed europee, ha delle caratteristiche peculiari che trovano i loro capisaldi nel fatto che (i) lo studente non può prepararsi specificamente per il PT e che (ii) la valutazione è basata solo sulla capacità dello studente di acquisire e ritenere le conoscenze riguardo agli obiettivi del curriculum formativo globale e non del singolo corso integrato.

La somministrazione del PT nei primi 20 giorni del  mese di novembre a tutti gli studenti dei 6 anni di corso permette di poter valutare il mantenimento delle conoscenze che sono il viatico per il raggiungimento della competenza professionale distintiva del laureato in Medicina e Chirurgia.

Come ogni anno, anche nel 2012, è stato condotto, su iniziativa della Conferenza dei Presidenti di Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia, il settimo PT che si è svolto il 14 Novembre 2012.

Metodi e Risultati

Come negli scorsi anni il PT è stato composto di 300 domande a scelta multipla.  Le prime 150 domande riguardano le scienze di base e sono somministrate in 3 ore nel corso della mattina. Le successive 150 domande, somministrate nel pomeriggio, sono inerenti le scienze cliniche. Nella Tabella 1 è riportata la numerosità delle domande per aree disciplinari.  Per ogni domanda esiste una sola risposta giusta ed ad ogni risposta giusta viene assegnato un punto.  Non sono valutate le risposte sbagliate.

TAB1 TBM

Nel 2012, l’80% dei corsi di Laurea ha partecipato al PT.

Di seguito verranno riportati i risultati ottenuti nei 41 corsi partecipanti.

Al settimo progress test, 8 corsi di laurea non hanno potuto partecipare per motivi strettamente tecnici dovuti soprattutto alla difficoltà di reperire una idonea organizzazione per l’ottimo svolgimento del PT.  Da segnalare, tuttavia, che nel corso di questi anni solo 2 sedi non hanno mai partecipato al PT (Università di Pavia ed Università di Varese).

La difficoltà tecnica di somministrare il PT è dovuta soprattutto alla assoluta necessità di avere personale addestrato per l’organizzazione, la disponibilità di aule e di supporto elettronico e per la correzione dei compiti.  È da segnalare, tuttavia, che moltissime sedi provvedono da sempre alla correzione manuale con griglia degli elaborati e che questa incombenza è spesso svolta dai Docenti stessi.

Come ogni anno, su delega della Conferenza, ogni Corso di Laurea ha deciso in maniera autonoma a quale anno di corso fosse somministrato il PT. La considerazione dell’utilità di tale metodologia di valutazione è sempre più diffusa tra i Docenti ed anche quest’anno si è osservato un aumento delle sedi che hanno deciso di somministrare il Test a più anni di corso. In totale, sono stati coinvolti 194 dei 246 (79%) anni accademici nelle quarantuno sedi partecipanti.

Come riportato nella Fig. 1, ben il 56% dei corsi di Laurea ha somministrato il PT ai 6 anni di corso. Il 22% dei Corsi di Laurea ha coinvolto almeno 5 anni di corso,  il 19.5% ha coinvolto almeno 2 anni di corso.

Fig1 TBP

Nonostante la mancanza, rispetto agli anni precedenti, di 8 Corsi di Laurea, la numerosità totale degli studenti partecipanti è stata tra la più alta di questi sette anni di sperimentazione (Fig. 2). La percezione dell’importanza del PT da parte dei Presidenti e dei Docenti partecipanti al PT è stata trasferita in maniera significativa agli studenti considerando un incremento del 22% nella popolazione totale di studenti partecipanti tra il 2010 e 2012. Tale considerazione è estrapolabile soprattutto dal notevole risultato ottenuto negli ultimi anni di corso che comprendono studenti che hanno effettuato il PT già dal loro primo anno e che sono consapevoli della sua importanza e significato.

Fig2 TBM

Rispetto al 2011, c’è stato un incremento del 16% al 2° anno ma solo del 2% ed 1% al 3° e 4° anno rispettivamente. L’aumento maggiore si è verificato al 5° anno (+29%) ed al 6° anno  (+24%).

Se si considera che dopo il primo anno di sperimentazione, ossia nell’esercizio 2007, si poteva contare su una popolazione di studenti, iscritti dal 1° al 6° anno di Medicina, di 7930, nel settimo anno di esercizio, tale popolazione si è molto di più che raddoppiata (18687)  (Fig. 2).

La partecipazione degli studenti rispetto al numero potenziale degli iscritti si è sempre comunque attestata nei diversi anni intorno al 50% (Fig. 3); nel 2012 tale percentuale è stata del 50.6%

Fig3 TBM

Fig4 TBM

Nella figura 4, è osservabile che tale percentuale raggiunge valori altissimi considerando gli studenti iscritti al primo anno di corso con una percentuale che si avvicina al 68%.  Così come la numerosità degli studenti partecipanti negli ultimi due anni di corso rappresenta sicuramente la considerazione da parte dello studente del significato progettuale del PT, non vi è dubbio che questa ampia partecipazione del primo anno rappresenta la volontà del Presidente e del suo Corso di Laurea.

Analisi dei risultati per anno di corso e per tipologia di domande

Nella figure 5,6,7,8 sono riportate le percentuali delle risposte corrette in relazione alle due tipologie di esame (Scienze di base e Scienze cliniche) e confrontate con quelle ottenute nel 2011 (Figg. 5 e 6) e con la media dei 7 anni di sperimentazione (Figg. 7 e 8).

Come osservabile, le percentuali ottenute nelle domande concernenti le scienze di base  nel 2012 sono in media più basse di quelle ottenute nel 2011 con una uguaglianza o superiorità osservabile solo nel 2° e 3° anno.

Fig5 TBM

Fig6 TBM

Per quanto riguarda invece le scienze cliniche, il dato percentuale sembra essere sempre superiore rispetto a quello osservato nei diversi anni di corso nel 2011. Tale dato è confermato in tutte le discipline individuali che compongono questa porzione del PT fatta eccezione per le scienze del comportamento che hanno mostrato un significativo decremento nel numero di risposte esatte in tutti gli anni di corso.

Come osservabile nella figura 7 il dato relativo alle scienze di base sembra essere costante e riproducibile dal 2006 al 2012, tranne per gli anni 2006, 2007 e 2011 che hanno percentuale più alta di circa il 10% rispetto agli altri anni. Interessante notare che durante questi tre anni la percentuale di domande nozionistiche, rispetto a quelle deduttive, era circa il 10% in più.

Fig7 TBM

Nella figura 8, è invece da notare come l’andamento della percentuale di risposte esatte relativo alle scienze cliniche nei diversi anni di corso riflette più o meno quello delle scienze di base con un aumento di circa il 10% negli stessi tre anni (2006, 2007 e 2011) tranne per i risultati del 2012 dove, anche se la percentuale di domande deduttive era del 10% in più rispetto a quelli del 2006, 2007 e 2011, i risultati mostrano valori uguali a questi tre anni se non addirittura più alti.

Fig8 TBM

Tale osservazione era riprodotta in tutte le discipline individuali delle scienze cliniche.

Per valutare meglio questa particolare distribuzione abbiamo analizzato le diverse percentuali osservate solo considerando gli studenti iscritti al sesto anno di corso nei 35 Corsi di Laurea che hanno condotto il PT al sesto anno.

Per le scienze di base (Fig. 9) la media nazionale è stata circa del 44% con una deviazione standard di circa il 12%.

Fig. 9 - Andamento della percentuale delle risposte corrette nelle scienze di base nei 35 corsi di laurea che hanno fatto sostenere l’esame agli studenti iscritti al 6° anno.

Fig. 9 – Andamento della percentuale delle risposte corrette nelle scienze di base nei 35 corsi di laurea che hanno fatto sostenere l’esame agli studenti iscritti al 6° anno.

Ben diversa la distribuzione riguardante le scienze cliniche dove, come osservabile in Figura 10, la media era del 48% ma con una deviazione standard vicina al 20%.

Fig. 10 - Andamento della percentuale delle risposte corrette nelle scienze cliniche nei 35 corsi di laurea che hanno fatto sostenere l’esame agli studenti iscritti al 6° anno. La figura indica anche il numero di studenti che hanno sostenuto l’esame in ciascuno dei 35 corsi di laurea.

Fig. 10 – Andamento della percentuale delle risposte corrette nelle scienze cliniche nei 35 corsi di laurea che hanno fatto sostenere l’esame agli studenti iscritti al 6° anno. La figura indica anche il numero di studenti che hanno sostenuto l’esame in ciascuno dei 35 corsi di laurea.

Tale ampia deviazione standard potrebbe essere attribuibile a circa 4-5 Corsi di Laurea nei quali si sono osservate percentuali vicine al 90% di risposte esatte che non solo riguardavano gli ultimi due anni ma anche gli anni iniziali.

Tale dato, rappresenta sicuramente un outlier da non considerare ai fini del buon comportamento generale ed attribuibile a qualche particolare situazione che potrebbe aver contaminato il risultato del test e che, inoltre, potrebbe spiegare l’inaspettata aumentata differenza nella percentuale di risposte corrette nell’esame del 2012 (Fig. 8). Infatti, nella figura 11, che contiene entrambi gli andamenti per i due gruppi di domande, si potrà osservare che in quelle Facoltà con risultati nelle scienze cliniche inaspettatamente alti, la mattina (scienze di base) ha dato risultati sovrapponibile al resto d’Italia mentre il pomeriggio (scienze cliniche) c’è stato questo diverso comportamento. Purtroppo forse è da considerare che, negli ultimi anni alcune Facoltà hanno incentivato la partecipazione al Progress Test con particolare valore al fine del punteggio dell’esame di Laurea senza prendere in considerazione la particolare capacità dello studente medio di ricorrere a tecniche sopraffini per arrivare al risultato.  Questo a significare che la prossima missione della Conferenza, nel momento che la Commissione per l’abilitazione alla professione medica sta lavorando per trasferire l’esperienza del Progress Test all’esame di abilitazione, dovrà essere quella di tutelare l’ottimo e corretto svolgimento del Progress Test.

Fig. 11 - Paragone dell’andamento della percentuale delle risposte corrette sia nelle scienze di base che in quelle cliniche nei 35 corsi di laurea che hanno fatto sostenere l’esame agli studenti iscritti al 6° anno. La figura indica anche il numero di studenti che hanno sostenuto l’esame in ciascuno dei 35 corsi di laurea. Gli ovali mettono in evidenza l’enorme discrepanza tra i risultati nella parte clinica rispetto alla parte di base.

Fig. 11 – Paragone dell’andamento della percentuale delle risposte corrette sia nelle scienze di base che in quelle cliniche nei 35 corsi di laurea che hanno fatto sostenere l’esame agli studenti iscritti al 6° anno. La figura indica anche il numero di studenti che hanno sostenuto l’esame in ciascuno dei 35 corsi di laurea.
Gli ovali mettono in evidenza l’enorme discrepanza tra i risultati nella parte clinica rispetto alla parte di base.

Conclusioni

Il PT 2012 ha mostrato un aumento della numerosità degli studenti partecipanti. Dopo 7 anni di sperimentazione cominciamo veramente ad essere fiduciosi che il PT, nei Corsi di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia in Italia, possa rappresentare un test affidabile nella valutazione delle conoscenze acquisite durante il corso di laurea.

Il tentativo di trasformare l’attuale esame di abilitazione in un Progress Test finale sta diventando una probabile realtà e forse una necessaria realtà alla luce dei “soliti” risultati dell’esame di abilitazione che anche quest’anno hanno dato delle percentuali di abilitati vicine al 99%. Questa percentuale non rappresenta una realtà e soprattutto non considera che la valutazione è una componente critica dell’insegnamento. E’ quindi mandatario, come auspicato dalla Conferenza Permanente dei Presidenti dei CLM di Medicina e Chirurgia, che il PT, ormai evenienza routinaria e capo saldo della formazione dei nostri studenti, prossimi professionisti della salute, diventi il futuro modello di un corretto esame di abilitazione. Partecipare al PT potrebbe diventare, per lo studente, uno strumento per migliorare la propria formazione (assessment drives learning) e, per il Corso di Laurea, un mezzo per migliorare l’iter educativo (assessment drives curricular improvements).

Bibliografia

1. Mennin SP, Kalishman S. (1998). Student assessment. Acad Med. 73(9 Suppl):S46-54.

2. Newble DI, Jaeger K. (1983) The effect of assessments and examinations on the learning of medical students.  Med Educ. 17: 165-171.

3. Tenore A. (2010). Il Progress Test- Considerazioni e speranze per il futuro delle Facoltà di Medicina Italiane.  Med Chir 49: 2123-2130.

4. Recchia L, Moncharmont B. (2011) Elaborazione dei dati relativi al nuovo Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi del Molise. I risultati del Progress Test. Med Chir 51: 2237-2242.

Cita questo articolo

Tenore A., Basili S., Proietti M., Il Progress Test 2012, Medicina e Chirurgia, 60: 2699-2704, 2013. DOI:  10.4487/medchir2013-60-4

Insegnare nelle Università la Fitoterapia e l’Agopuntura?n.60, 2013, pp.2668-2678, DOI: 10.4487/medchir2013-60-1

Abstract

According to National Center for Complementary and Alternative Medicine (CAM)  of NIH,  the CAM terms are used to mean the array of health care approaches with a history of use or origins outside of mainstream medicine. Numerous surveys document high level of interest in use of CAM among the Western public, hence raising the matter of their study in the medical education. Several scientists have subjected  CAM interventions to the same methodological scrutiny responsible for the progress of Western clinical medicine  (that is evidence based), i.e. with the standard of randomized controlled trials. So,  the purpose of this paper was to review the scientific evidences of  two particular CAM, Phytotherapy and Acupuncture, to evaluate their possible involvement in the medical education.

Articolo

Il crescente attuale interesse verso quelle forme di medicina alternativa che coinvolgono medici e pazienti nella ricerca di rimedi terapeutici capaci di lenire le sofferenze, e la percezione che questo mondo al confine con la medicina tradizionale possa, talvolta, ingenerare false aspettative o, peggio ancora, cattiva gestione nell’approccio terapeutico di talune patologie, impone al mondo accademico una riflessione sull’opportunità di avvicinarsi a queste discipline alternative con quel rigore scientifico che vuole slatentizzare falsi miti, ma al tempo stesso esaminare  la possibile validità di un approccio terapeutico che affonda le sue radici in tempi e culture molto lontane dalla nostra.

La medicina moderna ha prodotto i suoi eccezionali risultati grazie all’applicazione estensiva del metodo sperimentale: oltre un secolo di straordinari progressi hanno consentito di spiegare i meccanismi eziopatogenetici e fisiopatologici di diverse malattie e di svilupparne trattamenti terapeutici e preventivi.

L’approccio logico dei fondatori della medicina sperimentale era quello di ricondurre l’eziologia di ogni malattia ad un’unica causa, la cui rimozione avrebbe determinato la remissione dei sintomi e la guarigione della malattia. Tale approccio fu certamente facilitato dal fatto che la maggior parte delle malattie studiate erano di origine microbica e che, pertanto, era facile stabile un rapporto di causa-effetto con la malattia. Certamente questa modalità di rappresentare “l’evento malattia” non teneva conto dell’ingombrante presenza della variabilità biologica individuale che rappresenta l’espressione della natura storica degli organismi viventi, a lungo considerata alla stregua di un fastidioso “rumore di fondo”. Tuttavia questa modalità di approccio fu un passaggio inevitabile perché la medicina cominciasse a darsi una propria identità scientifica e con lo sviluppo della clinica e della genetica è stato più semplice dimostrare che la variabilità individuale è invece la “realtà” con cui non può non avere a che fare il medico.

La medicina moderna si è poi arricchita con il metodo statistico matematico che, applicato in ambito sanitario, ha permesso di ottenere un’osservazione epidemiologica complessa ed elegante che consente, attraverso trials clinici e meta-analisi, sia di ricercare le cause di malattia, sia di fornire una base obiettiva alle decisioni cliniche. Nella pratica medica, questo concetto ha favorito l’affermarsi della medicina basata sulle prove, EBM (Evidence Based Medicine) che mira a una standardizzazione e ottimizzazione delle procedure di scelta in medicina per cui risultati degli studi clinici, accessibili attraverso la letteratura, sono fondamentali per la valutazione degli interventi e della pratica medica in generale.  Questo approccio consente inoltre di  stimolare i medici e gli studenti ad un confronto risolutorio delle problematiche che vengono affrontate mediante l’utilizzo di banche dati disponibili sul WEB anche se, nella visione corrente dell’EBM, l’individualità dei pazienti tende a essere svalutata e pertanto l’obiettivo della pratica clinica si sposta irreversibilmente dalla cura degli individui a quella delle popolazioni. L’approccio medico più completo è pertanto quello che riesce fare convergere la dimensione sperimentale, che per sua natura tende a ignorare le dimensioni socio-culturali della malattia e la dimensione epidemiologica che tende invece a sminuire il valore del dato biologico ed a spersonalizzare il rapporto con il paziente.

Tale completezza ha una duplice connotazione: da una parte sta la consapevolezza che la medicina, pur avvalendosi dei metodi scientifici e matematici come logica di approccio, rimane una scienza capace di farsi carico dell’essere umano che difficilmente può essere “ingabbiato” in schemi e formule; dall’altra sta la percezione che l’individuo, in quanto paziente, riesce ad avere del medico cui si affida: paradossalmente, mentre la medicina scientifica raggiungeva nuovi traguardi e si spostava verso un approccio più preciso, sofisticato ed ultraspecialistico, essa era percepita dai pazienti come inefficace poiché, evidentemente, l’evoluzione scientifica ha finito per compromettere la relazione medico-paziente. La nascita delle specialità mediche sta infatti, comportando la frammentazione della relazione con il medico curante (ossia del medico che si prende cura del paziente), in molteplici rapporti parziali con esperti in specifiche aree cliniche capaci di prescrivere cure.

A tutto questo si aggiunge il contributo tecnologico, che, se da una parte consente di affinare le indagini e rendere univoche le diagnosi, d’altra parte spersonalizza la relazione e compromette la diagnosi clinica, poiché  riduce significativamente il tempo dedicato all’anamnesi ed alla visita medica, sminuendo il valore della relazione interpersonale che nel corso dei millenni, è stata la pietra miliare del contributo terapeutico della medicina: dallo sciamano al clinico medico del novecento, l’attenzione all’essere umano è stata  base e fondamento dell’atto medico. Proprio questo aspetto appare essere il punto di fragilità della moderna medicina scientifica occidentale: l’ingenerarsi di una progressiva e graduale insoddisfazione dei pazienti è tra i motivi per cui le medicine alternative e complementari trovano sempre più spazio nell’opinione pubblica, identificando il medico umanista, empatico e compassionevole, con il cultore delle terapie alternative, non scientifiche.

In realtà la medicina scientifica e la medicina umanistica devono essere due facce della stessa medaglia perché la relazione medico-paziente non è una relazione magica, ma una relazione interpersonale di per sé “terapeutica” che affonda le sue radici evolutive nelle emozioni che si attivano quando un individuo chieda aiuto ed un altro accolga questa richiesta e che come tale è suscettibile di una rigorosa analisi scientifica.

Per questo motivo appare ragionevole un’apertura a forme di approccio medico alternative se possono costituire motivo di arricchimento scientifico e umano per il medico moderno.

Medicine alternative e complementari (CAM)

L’espressione con cui in genere ci si riferisce a tutte quelle pratiche mediche non riconosciute dalla medicina ufficiale è Medicine Complementari e Alternative, (CAM, Complementary and alternative medicines), intendendo un insieme molto esteso ed eterogeneo di pratiche diagnostico-terapeutiche che non sono ufficialmente incorporate nella moderna medicina scientifica e che non formano un corpo unico di conoscenze né un insieme omogeneo di discipline, anzi nella loro eterogeneietà risiede proprio la loro peculiarità.

I termini “complementare” ed “alternativa” non sono intercambiabili, in quanto alternativo si riferisce all’uso esclusivo di questi approcci diagnostici terapeutici, mentre complementare si riferisce al loro uso integrato alla medicina cosi detta “convenzionale”. Le teorie alla base di queste pratiche talvolta però, rappresentano approcci alla gestione della salute e della malattia che differiscono fortemente dalla prospettiva su cui si fonda la medicina scientifica e in taluni casi si fondano sul principio di esistenza di una forza vitale che non riconosce specifici meccanismi biologici alla base dei fenomeni patologici: ciò fa sì che il problema della valutazione della loro utilità clinica in termini di efficacia e di sicurezza sia di enorme complessità, poco affrontato e solo in qualche caso risolto.

Data l’estrema diversità delle CAM è particolarmente complesso inquadrarle in un sistema di classificazione esaustivo. Un tentativo è stato fatto dal National Center for Complementary and Alternative Medicine negli Stati Uniti, che ha proposto di classificare le CAM in cinque categorie (Tab. 1).

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L’elenco non è ovviamente completo e deve essere considerato semplicemente esemplificativo, essendo impossibile il censimento completo di queste pratiche terapeutiche. Inoltre, le categorie non sono tra loro mutuamente esclusive e alcune delle pratiche citate potrebbero essere classificate in più di una categoria, a ulteriore riprova della eterogeneità delle CAM.

La scelta di questo lavoro è quella di focalizzare l’attenzione sull’Agopuntura e sulla Fitoterapia, perché sono i soli due approcci di CAM per i quali sono disponibili evidenze scientifiche che in qualche modo giustificano l’interesse della medicina scientifica. D’altro canto, Agopuntura e Fitoterapia riscuotono un certo successo nella pubblica opinione sia perché non prevedono l’uso di farmaci chimici (vedasi dopo, paragrafi sulla  Fitoterapia), sia per l’approccio relativista[1] del nostro tempo che, subendo il fascino delle culture orientali, induce a considerare tutti i prodotti delle differenti culture come intercambiabili ed addirittura alternativi tanto da dare uguale valenza alla Medicina Occidentale e a quel sistema di teoria medica e pratica che viene spesso definito Medicina Tradizionale Cinese (MTC, Box 1).

Box 1 – La Medicina Tradizionale Cinese (MTC) e la Medicina occidentale.

La MTC abbraccia un antico sistema filosofico, il Taoismo (l’uomo deve seguire il Tao, astrazione metafisica che indica la legge universale della natura, nel senso che non deve modificare l’armonia dell’universo). Essa  non è basata quindi sull’empirismo scientifico, ma su presupposti filosofici e vede la salute come il risultato di un’armonia tra le funzioni corporee e tra il corpo e la natura. Gli uomini sono intesi come microcosmo del più grande universo, microcosmi interconnessi con la natura e soggetti alle sue forze. Il corpo umano è considerato come un’entità in cui le varie parti hanno funzioni distinte ma sono tutte interdipendenti. Quindi la salute e la malattia sono correlate all’equilibrio delle funzioni. Varie sono i componenti chiave di questa filosofia, ricordiamo solamente la teoria Yin-yang dei due principi opposti ma complementari che modellano il mondo e tutta la vita, e, più importante per l’agopuntura, l’esistenza di un’energia vitale, chiamata Qi, che circola nel corpo attraverso un sistema di canali chiamati meridiani, 12 primari e 8 secondari e la salute è un processo di mantenimento dell’equilibrio ed armonia nella circolazione di Qi (una disarmonia interna causerebbe il blocco dell’energia vitale del corpo, di qui il trattamento con l’inserzione degli aghi).La MTC prevede l’esame del paziente (in particolare la palpazione del polso) ed enfatizza i trattamenti individualizzati; oltre all’agopuntura abbiamo prodotti fitoterapici, e terapia dietetica tra le altre pratiche. Va notato che la conoscenza di salute e malattia in Cina si sviluppò puramente dall’osservazione di soggetti viventi perché la dissezione era proibita, quindi le conoscenze anatomiche erano pressocché inesistenti.Anche nella medicina prescientifica occidentale ippocratica la malattia veniva considerata come una rottura dell’equilibrio armonico tra quattro umori – sangue, flemma, bile gialla e bile nera– individuati sulla falsariga dei quattro elementi della filosofia empedoclea – terra, aria, fuoco e acqua – e delle corrispondenti qualità – secco, freddo, caldo e umido. Nella concezione ippocratica c’è malattia quando uno di questi principi è in difetto, in eccesso o, isolandosi nel corpo, non è combinato con tutto il resto. Il ciclo degli umori è sottoposto al ciclo delle stagioni ed è influenzato dall’ambiente inteso in senso lato, dal clima, alle abitudini alimentari, al regime politico. In realtà già nell’antichità, le varie scuole mediche ridefinirono ed arricchirono il sapere empirico accumulato in migliaia di anni di pratiche sciamaniche attraverso un approccio naturalistico. Nasceva così il metodo clinico e l’insegnamento all’uso dell’osservazione dei singoli malati e del ragionamento fondato sul modello funzionale del corpo. Il passaggio alla medicina scientifica, cioè ad un concetto anatomo-fisiologico della malattia, fu un processo lento che abbisognò di molti secoli per svilupparsi e che ha avuto bisogno di conoscenze anatomiche e fisiologiche di base sia degli animali ex vivo sia nell’uomo post-.mortem.Ci si potrebbe chiedere perché questa evoluzione si è verificata  in Europa e non in Cina che pure nel corso dei secoli raggiunse risultati tecnologici notevoli (basti pensare alla bussola ed alla polvere da sparo): la Cina è rimasta chiusa nel suo mondo per millenni, nella convinzione profonda che essa fosse l’unica vera civiltà; in grado nel 1405 di costruire una flotta gigantesca che avrebbe potuto solcare tutti i mari del mondo, la distrusse dopo 30 anni perché nulla di veramente importante ed utile si poteva trovare al di fuori dell’Impero.Il Mediterraneo e l’Europa sono stati invece per secoli terre di contaminazione e di scambi culturali e solo gli scambi e le contaminazioni permettono il progresso della scienza3

Definizione e storia dell’Agopuntura

Il termine “Agopuntura” descrive un gruppo di procedure, praticate in Cina ed in altre zone dell’Asia per migliaia di anni, caratterizzate dalla stimolazione di punti nel corpo con varie tecniche. Si ritiene che abbia avuto origine in Cina, dove è rimasta una componente fondamentale della MTC e, ad oggi, è la tecnica orientale più conosciuta e studiata. Si caratterizza per l’inserimento di sottili aghi metallici, solidi in o attraverso la cute in siti specifici per stimolare gli impulsi nervosi. Ciò dovrebbe promuovere il corretto flusso di energia vitale, “Qi”, che i terapeuti cinesi ritengono muoversi attraverso il corpo lungo specifici canali chiamati “meridiani”. La profondità di inserzione dell’ago (6,4-38,1 mm), il diametro (0,1- 0,3 mm), la lunghezza (12,7 -76,2 mm), ed il numero (4-20) degli aghi usati, variano a seconda delle scuole di agopuntura, così come il numero delle sedute.

L’origine storica di questa tecnica è ancora oggetto di dibattito, sopratutto per quanto attiene all’epoca cui far risalire le prime sistematizzazioni dell’agopuntura. Prove documentali ritrovate in una tomba del II secolo a.c. fanno riferimento ad un sistema di meridiani, sia pure diverso da quello sistematizzato in seguito. D’altronde occorre tenere conto del fatto che, nel corso dei secoli, si sono affermate parecchie scuole in competizione tra loro e quindi è possibile che ciascuna avesse un proprio schema di trattamento.

Di un certo interesse è stato il ritrovamento di statue in bronzo risalenti al XV secolo che mostrano con chiarezza i punti di inserimento degli aghi in uso attualmente: per l’epoca cui vengono fatte risalire, la loro esistenza appare però verosimilmente correlata ad uno scopo didattico più che ad un tentativo di sistematizzare la metodica.

Certo è che durante la dinastia Ming (1368-1644), fu pubblicato il Grande Compendio di Agopuntura e Moxibustione2, dove è chiaramente descritta la serie completa di 365 punti che rappresentano le aperture per i canali attraverso i quali gli aghi possono essere inseriti per modificare il flusso dell’energia Qi .

Nel corso dei tempi, l’Agopuntura conobbe anche fasi di declino poiché l’interesse in Cina diminuì a partire dal XVII secolo, fino ad essere esclusa dall’Istituto Medico Imperiale nel 1822. La “filosofia” legata al mondo dell’Agopuntura però non fu di semplice contenimento, infatti, nonostante tutto, la tecnica continuò ad essere praticata nell’immenso mondo rurale cinese ed a continuare a diffondersi in altri paesi asiatici, finché nel 1929 fu dichiarata fuori legge insieme alle altre pratiche tradizionali.

Bisognerà aspettare l’insediamento del governo comunista nel 1949 per riabilitare e reintegrare le forme tradizionali della medicina, tra cui l’Agopuntura. Questa nuova considerazione di tali discipline portava in sé sia aspetti nazionalistici, sia il tentativo di fornire una qualche forma di terapia ad un’enorme popolazione povera e sofferente. Si racconta, infatti, che il presidente Mao, da malato, preferisse la medicina occidentale all’Agopuntura.

Sotto il regime comunista gradualmente si raggiunse il consenso per la realizzazione di una MTC standardizzata con la creazione di istituti di ricerca e reparti all’interno di ospedali di stile occidentale, sia di Medicina Tradizionale sia di Agopuntura.

Mentre tutto questo avveniva in Oriente, nel corso dei secoli l’Agopuntura fu conosciuta da molti viaggiatori europei; la prima descrizione medica risale al 1680 ad opera di un medico europeo che lavorava in Giappone per la Compagnia delle Indie Orientali.

Nella prima metà del XIX secolo, l’interesse si spostò anche in America e in Europa, come documentato da uno storico Editoriale di Lancet del 1823, intitolato Acupuncturation, anche se entro la metà del secolo l’agopuntura cadde in discredito.

Con la riapertura dei rapporti tra Stati Uniti e Cina in seguito alla visita del Presidente Nixon, si riaprì l’interesse del mondo occidentale per la MTC: in particolare si cercò di capire se l’agopuntura potesse essere utilizzata come antidolorifico, con risultati negativi, dopo gli interventi chirurgici data la segnalazione di un giornalista del New York Times che riferì di essere stato curato con l’agopuntura per il controllo del dolore dopo un intervento di appendicectomia.

Agopuntura, procedure terapeutiche

Nella pratica tradizionale, l’inserimento dell’ago può essere accompagnato da altre procedure di contorno, proprie della MTC. In che misura, tali procedure possano contribuire all’aspettativa (speranza) di guarigione e quindi all’efficacia del trattamento non è conosciuto.

Dopo l’inserimento degli aghi, si richiede al paziente di rilassarsi, riposando con gli aghi inseriti per 15-30 minuti. Gli aghi possono essere stimolati manualmente dal medico per suscitare nel paziente una sensazione dolorosa sorda e localizzata, definita “de qi”e l’agopunturista percepisce una reazione di restringimento dell’ago causata da un fenomeno biomeccanico di avvolgimento del tessuto connettivo, che richiede un aumento della forza necessaria per ulteriori movimenti dell’ago.

Lo sforzo della comunità scientifica sta nella possibilità di caratterizzare gli effetti dell’agopuntura in termini di principi di fisiologia medica, fondamento e pilastro della medicina occidentale. Il limite di questo approccio sta nella difficoltà di standardizzare l’influenza del contesto e del rapporto con il medico sull’efficacia terapeutica. Tuttavia, alcuni dati sperimentali sono stati ottenuti, anche se queste osservazioni non permettono di elaborare una teoria unificante sugli effetti dell’agopuntura sui meccanismi del dolore cronico (Box 2).

Box 2 – Possibili meccanismi fisiologici dell’azione terapeutica dell’agopuntura.

I risultati degli studi condotti sull’uomo con la PET o la RMN risentono fortemente dell’aspettativa di un risultato terapeutico positivo, che attiva quindi regioni cerebrali specifiche e che, come accennato nel testo, di per sé può essere la causa effettiva del miglioramento clinico. Studi di risonanza magnetica funzionale hanno mostrato effetti immediati di una prolungata stimolazione con agopuntura in aree limbiche e basali del proencefalo, correlate alle funzioni somatosensoriali e affettive coinvolte nel processamento del dolore, ma risultati almeno in parte sovrapponibili sono ottenuti con la falsa agopuntura (può consistere in una inserzione poco profonda o simulata o gli aghi sono inseriti in punti non canonici). Comunque, l’Agopuntura induce il rilascio di oppioidi endogeni nel tronco cerebrale, sottocorticale, e nelle strutture limbiche e la PET ha dimostrato che l’Agopuntura aumenta il potenziale di legame dei µ-oppioidi per diversi giorni in alcune delle stesse aree cerebrali. Una linea di ricerca si è dedicata principalmente agli effetti dell’agopuntura sui tessuti, in particolare sul tessuto connettivo. I meridiani sono per lo più localizzati lungo i piani connettivali tra i muscoli o tra i muscoli e le ossa. Così gli aghi interagirebbero con il tessuto connettivo interstiziale, stimolando meccanicamente i fibroblasti: stimolazione avvertita dall’agopunturista come una reazione di restringimento dell’ago (vedasi testo). Il conseguente rimodellamento del citoscheletro dei fibroblasti avrebbe effetti sulla trasduzione del segnale , sull’espressione genica, con rilascio di mediatori che possono interagire con le fibre nervose sensitive e con l’adesione alla matrice. In linea con gli effetti locali vi è il dato che l’anestesia locale ai siti dell’inserzione degli aghi blocca completamente gli immediati effetti analgesici dell’agopuntura, indicando che questi effetti dipendono dall’innervazione.

Diversi trial clinici hanno valutato l’efficacia dell’agopuntura nel trattamento delle varie patologie, anche se gli unici dati scientificamente positivi riguardano il trattamento di alcune algie osteoarticolari ed in particolare della lombalgia: si stima che circa il 70% delle persone nei paesi occidentali industrializzati soffra od abbia sofferto di lombalgia e che questa costituisca nel mondo occidentale uno dei motivi più comuni per la richiesta di consulenza medica.. Nella storia naturale della patologia, il 90% circa degli episodi acuti si risolve entro 6 settimane, tuttavia il 25% dei pazienti hanno una ricaduta entro l’anno successivo e sviluppano una lombalgia cronica refrattaria ai trattamenti convenzionali nel 7% dei casi.

Dal punto di vista eziopatogenetico, la diagnosi differenziale è ampia, ma la forma più comune (85%) è la lombalgia idiopatica, spesso associata a sintomi cronici o ricorrenti con una rilevante morbilità.

L’osservazione che alcuni pazienti migliorano dopo aver ricevuto il trattamento può produrre il convincimento che il miglioramento possa essere causato dal trattamento. Questo convincimento però esemplifica un errore che nasce dal fatto che i miglioramenti osservati potrebbero infatti essere dovuti a molteplici fattori, diversi dalla efficacia del trattamento, quali il decorso benigno della patologia, l’attenuazione dei sintomi, la remissione spontanea della malattia, l’effetto placebo legato all’aspettativa di guarigione.

L’approccio più rigoroso che consente di discriminare gli effetti veri di un trattamento è quello della sperimentazione clinica controllata (RCT, Randomised controlled trial) e delle relative meta-analisi che ne permettono un’analisi combinata.

Una meta-analisi del 2008 che includeva 6359 pazienti, ha dimostrato che l’agopuntura non è più efficace della “falsa” agopuntura, ma che entrambe furono più efficaci rispetto all’assenza di trattamento, suggerendo che l’agopuntura possa essere un utile supplemento ad altre forme di terapia per il trattamento della lombalgia. Queste conclusioni sono state confermate in una successiva meta-analisi pubblicata nel 2010.

Risultati più rilevanti sono stati ottenuti, infine, in una meta-analisi pubblicata nel 2012 su Archives of Internal Medicine che, attraverso l’analisi di 29 trials (complessivamente 17922 pazienti) relativi al trattamento di vari tipi di dolore osteoarticolare o cefalea, ha dimostrato una certa efficacia dell’agopuntura sul dolore cronico, suggerendo che gli effetti benefici del trattamento siano la summa di due componenti: una maggiore che è l’aspettativa (speranza) di guarigione (effetto placebo, effetto contesto) ed una minore che è legata all’effetto specifico che la collocazione degli aghi e la loro profondità permette di evocare.

Questo dato suggerisce, quindi, che l’agopuntura, per alcuni tipi di dolore, potrebbe essere considerate un’opzione terapeutica.

Per quanto riguarda gli effetti avversi, uno studio tedesco condotto su due milioni di trattamenti in 229.230 pazienti ha registrato la presenza di almeno un evento avverso nel 8,6% dei casi ma solo nel 2,2% dei casi questi richiedevano il ricorso a terapia . Gli effetti avversi più comunemente segnalati sono stati il sanguinamento o ematomi (6,1%) e dolore (1,7%).

Definizione e storia della Fitoterapia

Come suggerisce il nome, la Fitoterapia impiega piante ed erbe medicinali ai fini terapeutici. Definita anche come herbal medicine, fa parte della variegata e disomogenea costellazione delle cosiddette CAM, ma di queste a rigor di logica non dovrebbe far parte, dal momento che, tradizioni popolari a parte, da secoli le piante sono usate a fini terapeutici e da esse vengono ricavate sostanze, principi attivi e farmaci per curare numerose malattie. D’altra parte, la storia della farmacologia trae largamente origine dall’impiego dapprima di erbe e piante medicinali, quindi dall’estrazione sempre più sofisticata ed appropriata di sostanze e rimedi preparati sotto svariate forme farmaceutiche, fino al riconoscimento dei cosiddetti principi attivi, cioè di quelle sostanze chimiche contenute nella pianta, dotate di un’azione farmacologia specifica e ben definita, utile ai fini terapeutici, che ha rappresentato le basi cognitive per il passaggio alla produzione degli stessi principi non più estrattivi, ma sintetizzati dall’industria farmaceutica attraverso una sempre più sofisticata tecnologia.

Almeno una trentina di farmaci di rilevante importanza derivano da piante: dalla più antica (e storicamente importantissima) corteccia di china (il chinino), alla cannabis sativa (farmaci analgesici), alla notissima digitalis purpurea (digitale), al colchicum autunnalis (colchicina) fino al più sofisticato Tolypocadius inflatus (ciclosporina) ed alla vinca ossa (vinblastina, vincristina). Notissima e presente anche nei nostri giardini la pianta di San Giacomo (iperico) da cui si estrae un principio ad attività antidepressiva, di largo uso nei paesi del centro Europa. Un enorme potenziale curativo è quindi presente nel mondo vegetale.

Chi visitasse una vecchia farmacia od un museo farmaceutico vedrebbe una grande varietà di strumenti per l’estrazione e la produzione di infusi, decotti, tisane, pillole, granuli, pomate, creme, cataplasmi, fiale, etc ed apprezzerebbe l’elegante teoria di vasi contenenti varie forme di estratti di erbe e piante medicinali, dalla semplice menta e camomilla al più sofisticato iperico. Non dimentichiamo che fino ai primi del novecento la botanica era importante materia di insegnamento per lo studente in medicina e  che ancora negli anni ’60 alcuni professori di farmacologia esigevano  all’esame la conoscenza di un centinaio di ricette galeniche, molte delle quali derivate da piante ed erbe medicinali. Tutti ricordiamo le caramelle, ma anche i cataplasmi contenenti eucalipto (eucaliptolo) per la tosse. Non è sfuggita alla pratica di molti medici la proprietà astringente della carruba, e non ha mistero l’analoga proprietà dell’acqua di riso dove il cereale bollito a lungo rilascia un peptide con proprietà antidiarroiche, così come la presenza di un principio attivo nelle prugne, usate comunemente per la stipsi.

La Fitoterapia appare come una forma naturale di terapia, nella quale quello che oggi usiamo come principio attivo non sarebbe che la componente attiva contenuta nel suo “contenitore naturale”, cioè nella pianta medicinale. Sembrerebbe quindi logico considerare, oltre che per le sue origini popolari ed antiche, e per il radicamento nella medicina tradizionale di popolazioni a lungo rimaste al di fuori del circuito della ricerca e dell’innovazione come la conosciamo noi occidentali (come è il caso dell’Africa sub-sahariana, di aree del sud-America), od ancora per la sua presenza in aree nella quali si consolidata una cultura medica del tutto particolare (es.: Cina), questo tipo di terapia come la “madre” della farmacologia moderna e sembrerebbe perciò logico ricercare, estrarre, purificare e quindi impiegare i principi attivi, “liberati” dal loro originario involucro vegetale e, come passo successivo, i principi attivi sintetizzati.

È invece cruciale capire che la caratteristica fondamentale della Fitoterapia non sta nell’impiego di un principio attivo estratto e purificato, per quanto con l’aspetto di un prodotto naturale, ma nell’utilizzo delle parti delle piante (raccolte e trattate nel cosiddetto periodo “balsamico”) e non la sostanza chimica in se stessa. In questa accezione canonica, la Fitoterapia non si pone come modalità di trattamento che usa sobriamente dei principi attivi “donati” dalla natura ed isolati da un contesto fisico-chimico botanico nel quale sono contenuti, ma di utilizzarli come sono naturalmente presenti nel loro stesso contesto, cioè di utilizzare la pianta o erbe medicinale. Si tratta di un vero e proprio metodo specifico di terapia che trova nelle erbe medicinali non solo le sostanze terapeuticamente utili, ma una modalità di approccio che vede nella pianta il veicolo di proprietà peculiari che, in quanto naturali ed insite nel contesto dell’elemento vegetale, conferirebbero una sorta di plusvalore terapeutico all’insieme di prodotti e composti in essa contenuti.

Inoltre, se parte importante della Fitoterapia si basa sull’uso di singole “erbe” contenenti un principio attivo noto e testato, per lo più la Fitoterapia si avvale di miscele di erbe e piante, in composizioni e proporzioni anche codificate, molte di uso comune alle quali, da sole o in combinazione, sono attribuite proprietà curative. Se ad esempio piante come senna, cascara, frangula, plantago ovata, rabarbaro hanno documentatamente effetto lassativo o procinetico sull’apparato digerente e quindi l’indicazione è la stipsi, l’aloe (radici) ha un effetto antinfiammatorio e viene impiegata in numerosi preparati farmaceutici anche topici, ed è noto l’effetto ipertensivizzante e sodio-ritentivo della liquirizia, così come quello papaverino-simile della menta piperita, è meno noto come ad altre piante di comune impiego in cucina come l’aglio, il prezzemolo, il sedano, i chiodi di garofano, ma anche il carciofo, il ginepro, l’alloro, il rafano, il peperonicino (procinetico gastrico), lo zenzero, la carota, la salvia siano attribuite svariate, e talora tra loro molto diverse, siano attribuite proprietà terapeutiche . Effetti documentati, ma anche solo vantati o terapeuticamente irrilevanti possono coesistere nella Fitoterapia come, a nostro avviso, un portato della ricerca, ma anche della cultura e delle tradizione popolari. Insomma, una cultura consolidata dal tempo e dalla tradizione, oltre che dai cultori dell’erboristeria, da secoli presente nella medicina popolare e nelle medicine tradizionali/etniche. Nessuno si potrà sorprendere delle proprietà sedative della camomilla (i fiori) e della valeriana. Una vera e propria conoscenza popolare, ma anche l’osservazione,  spesso solo descrittiva e acritica, della medicina fino al XIX secolo hanno portato all’accumularsi di conoscenze o di convincimenti sull’uso di  centinaia di erbe medicinali  e piante che sono entrate nella farmacopea antica e popolare, e che, perfezionate da più recenti ed importanti acquisizioni, nella farmacopea del quotidiano.

L’origine popolare della Fitoterapia, assieme ad una lunga appartenenza alla ricerca accademica quando erano costruiti i primi orti botanici con ampi spazi per piante officinali ed erbe medicinali (giardino dei “semplici” o dei rimedi semplici), forniscono forti basi storiche e culturali per la Fitoterapia.

La Fitoterapia come alternativa alla terapia farmacologica

In tempi più recenti, a fronte di un approccio tecnologico alla medicina, si è sviluppata una cultura più “ecologica” del curare che considera il prodotto naturale come un rimedio meno “aggressivo”, più dolce, più rispettoso del rapporto fra il corpo del paziente e la natura che lo circonda, forse più ingenuamente attento alla relazione tra “malattia” o “disturbo”, medico (o colui che cura) e rimedio fino a realizzarsi in un semplicistico (e banalizzante) cortocircuito malattia-rimedio. Se nella medicina l’indicazione ad un trattamento farmacologico transita attraverso una sofisticata ricerca di una “regola” universale con solide basi derivate dalla sperimentazione empirica, che ci dirà a quali pazienti, in quali condizioni, in quali circostanze, con quali limiti, con quali precauzioni, a quali dosi, in quali tempi, etc. potremmo o dovremmo somministrare un trattamento (in questo caso un farmaco), nella Fitoterapia la semplificazione di questa relazione è palese.

Se singoli rimedi possono giovare pazienti con specifiche patologie, più spesso numerosi rimedi vegetali sarebbero in grado di curare patologie assai vaste e variegate, che troverebbero oggi spazio in interi capitoli di un trattato di patologia, così come il numero di patologie che potrebbero giovarsi di erbe medicinali o di piante anche comuni sono innumerevoli e molto diverse tra loro. Patologie per le quali non si conosce trattamento o che richiedono terapie molto complesse sembrerebbero affrontabili anche con miscele di piante molto comuni come le patate, la cipolla, l’origano, il basilico, il cavolo; situazioni molto serie, come il diabete, potrebbero giovarsi di mirtillo, cicoria, artemisia (usata anche in una particolare forma di agopuntura associata a moxibustione, vedasi nota 2), l’osteoporosi essere trattabile con il limone ed il cavolo, così come piante molto comuni avrebbero effetto sulla febbre, l’inappetenza, le malattie polmonari. Interessante, percorrendo siti di informazione su Fitoterapia, come la stessa pianta possa trovare indicazione in decine di disturbi diversi ed alcune particolari piante, come il “ginseng”, rappresenti una vera e propria panacea nei confronti di innumerevoli e diversissimi disturbi.

Sorprendente che, nelle informazioni rinvenibili sui siti che pubblicizzano prodotti fitoterapici, si affermi come un prodotto, come singolo principio attivo o una miscela di più composti, sia utile su “le malattie del fegato”, le “malattie della vescica”, le “affezioni respiratorie”, a significare in modo inequivocabile che il bersaglio cui l’informazione – se così può essere chiamata – si rivolge non sono certo i medici, ma direttamente il consumatore e che l‘estensore dell’informazione non ha, nella meno maliziosa delle ipotesi, idea alcuna di medicina. Peraltro, chiunque frequentasse un cosiddetto centro benessere si troverebbe oggetto di informazioni e consigli su prodotti “salutistici” naturali da parte di “operatori del benessere” la cui competenza in fitoterapia rimane non definita, per non parlare di quella in medicina.

Pur riconoscendo che negli ultimi tempi non poca ricerca è stata condotta in ambito fitoterapico, si deve sottolineare che il possesso da parte di una erba medicinale di alcune azioni farmacologiche specifiche, quindi di proprietà terapeutiche potenziali, non significa affatto che essa sia efficace, cosa che può essere documentata solo attraverso la metodologia degli studi controllati, randomizzati, a doppio cieco, ove possibile, cui la Fitoterapia non può sottrarsi in linea di principio, anche se la regolamentazione consente il commercio di prodotto che seguono percorsi facilitati rispetto al farmaci. Va anche sottolineato come la gran parte degli studi ben condotti non hanno documentato, se non in pochi casi, un’efficacia superiore al placebo  o superiore a farmaci disponibili per la stessa specifica affezione. Per cui la loro usabilità nella pratica clinica appare per lo più dubbia o discutibile. La qualità degli studi, indagata nelle rassegne sistematiche della Cochrane, appare spesso scadente, tale da non permettere spesso le meta-analisi. Il numero assai limitato di risultati inequivocabilmente postivi sull’efficacia di fitoterapici cozza con l’enorme numero di patologia e sintomi sui quali un vastissimo numero di piante ed erbe medicinali sarebbe attive e terapeuticamente utili. Inoltre, non si vede perché, a fronte di una patologia seria per la quale esiste trattamento efficace e sicuro, si debba ricorrere a prodotti poco sperimentati e molto probabilmente meno efficaci. Se un’alternatività di trattamenti in queste circostanze non è concepibile, risulta anche difficile comprendere che cosa significhi il più moderato termine di “complementare”, in quanto non si capisce che cosa un prodotto naturale debba o possa essere di complemento  rispetto ad un trattamento efficace ed altrettanto sicuro.

In effetti, una realtà così articolata, per essere appresa e praticata con la serietà che la professione medica impone, richiederebbe un percorso formativo molto serio e approfondito, con tutte le conoscenze proprie del medico e le specifiche conoscenze delle proprietà farmacologico-terapeutiche fornite da numerose piante. Va sottolineato che una certa attività di ricerca, con finanziamenti privati (industria farmaceutica ed industrie moderne di fitoterapici), ma anche pubblici (NIH) porta da un lato ad un miglioramento nella qualità della produzione con una maggiore standardizzazione ed affidabilità dei preparati in commercio, dall’altro ad una serie di nuove acquisizioni, ma anche al vaglio del metodo degli studi controllati e randomizzati alcune più diffuse forme di Fitoterapia. Inoltre, senza approfondire aspetti regolatori, l’autorizzazione al commercio di fitoterapico segue procedure molto più semplici, e certamente assai meno rigorose, di quelle adottate a livello internazionale ed europeo per i farmaci propriamente detti.

Entrando oggi in una farmacia, non si vedrebbero più mortai, alambicchi, vasi decorati, ma neppure si vedrebbero farmaci, ma la versione moderna dei primi, sotto l’esplicita presentazione di Fitoterapici, spesso sotto l’equivoca (e di per sé falsa) dizione di prodotti omeopatici (che svilisce la stessa Fitoterapia). Questa abituale esibizione di prodotti deriva in larga misura dal fatto che essi non richiedono necessariamente una prescrizione medica (ricetta) e da una più semplice commercializzazione di fitoterapici, si rivolgono alla gestione sintomatica di disturbi comuni, ma minori o funzionali, sono praticamente privi di rischi nell’uso, non richiedono uno specifico controllo medico. Infatti, l’assenza dell’obbligo di esibire prove accertate di efficacia terapeutica, ma solo di una generica affermazione della non nocività del prodotto, favorisce la loro commercializzazione come prodotti “da banco” (per alcuni dei quali la richiesta di uno studio controllato, randomizzato, a doppio cieco in effetti suonerebbe ridicola, per esempio per la camomilla) che non necessitano di ricetta medica, potendo quindi essere autoprescritti, come peraltro accade per alcuni farmaci di larghissimo impiego – di per sé non privi di effetti indesiderati, quali l’acido acetisalicilico ed il paracetamolo. L’uso sempre più diffuso dei fitoterapici, soprattutto in Paesi come Germania, Francia, Stati Uniti e, ad una qualche distanza, anche Italia, impone una seria conoscenza del fenomeno, delle sue motivazioni, dei potenziali vantaggi ed opportunità che la Fitoterapia può fornire in determinate condizioni e contesti, ma anche dei rischi sistematici e specifici che questo tipo di trattamento comporta o che è proprio di specifiche piante e loro derivati.

Possibile tossicità dei trattamenti fitoterapici

Poco si riflette sul fatto che le piante possono contenere composti chimici dotati di azione farmacologia utile, ma anche dannosa e che specifiche parti di una pianta, magari raccolte in uno specifico momento del suo ciclo biologico, sono utili oppure dannose. Inoltre, area di provenienza, caratteristiche del terreno, condizioni climatiche, tempo di raccolta, tecniche di conservazione, procedure di estrazione ed altre ancora condizionano il contenuto e quindi l’effetto del prodotto fitoterapico. La complessità di queste variabili trova oggi, a differenza di ieri, nelle moderne tecniche analitiche una certa garanzia di “purezza” dei preparati, ma che cosa si può dire di preparazioni provenienti da paesi esotici, privi di qualsiasi controllo? La composizione completa di quanto è contenuto nella formulazione commerciale è cruciale , ma possono non essere riportate le quantità effettive del principio o dei principi attivi, degli eventuali eccipienti, la possibile presenza di contaminanti, data la loro natura essenzialmente estrattiva, con possibili rilevanti discrepanze per lo stesso principio attivo (es.: ginseng) tra le varie confezioni (anche di 10 volte; dose comunque non indicata). Altrettanto rilevante è la possibile omissione di attività presenti, ma non dichiarate.

Un altro punto rilevante è dato dal fatto che i fitoterapici, benché naturali, non sono privi di effetti indesiderati o addirittura tossici. L’informazione a questo proposito è praticamente nulla sia per i medici che, ovviamente, per i pazienti, il tutto aggravato dal fatto che la sperimentazione su questi prodotti è molto meno rigorosa e sistematica rispetto ai farmaci. La conoscenza accurata dei possibili effetti tossici dei fitoterapici ha livelli di accuratezza ben diversa da quella sui farmaci, basandosi su dati aneddotici, su segnalazioni spontanee. La cosa non è irrilevante in quanto, se misurata, la presenza di reazioni avverse, pur in genere minori, riguarderebbe un paziente su 4 se trattato con un solo principio attivo e di uno su tre se con più erbe medicinali o principi attivi. Di ancora più rilevante importanza sono le possibili interazioni tra erbe medicinali e farmaci. È un rischio largamente sottostimato, se non ignorato nella pratica medica quotidiana, specie ambulatoriale. Interazioni con anticoagulanti, diossina, antiipertensivi, antiaritmici, alcuni antibiotici, immunosoppressori, antistaminici, farmaci attivi sul sistema nervoso centrale, sul sistema endocrino, ed altri ancora sono segnalati.

Qualche riflessione, infine, sull’uso dei prodotti fitoterapici in patologia oncologica: se ipotetici benefici antitumorali sono stati riconosciuti in alcune piante e preparati contenenti una varietà di preparati vegetali avrebbero fornito dati interessanti, pur se non controllati, per espressa affermazione di comitati di esperti sugli effetti antitumorali derivati da pratiche di medicine alternative e complementari, si auspicano necessari studi seri e approfonditi su questa materia. Le relazioni tra tumori e Fitoterapia meriterebbero argomentazioni approfondite. Per lo scopo di questo articolo, è doveroso sottolineare che, a fronte di alcuni effetti interessanti e promettenti sull’azione antitumorale di alcune sostanze contenute in particolari piante, nei siti e nella letteratura si raccomanda sempre di usare prodotti fitoterapici come adiuvanti, complementari, sempre in combinazione con il trattamento oncologico complessivo. Tale affermazione appare in quanto meno ambigua, se non censurabile quando appare fortemente inquinata da affermazioni e suggerimenti assolutamente inaccettabili. Inoltre, il recente caso della richiesta di ritiro di fitoterapici contenenti della gingka biloba, fitoterapico di larghissima diffusone, per la sua capacità in condizioni sperimentali di indurre carcinoma del fegato nei ratti, aprendo vaste polemiche tuttora in corso, ci deve far riflettere sul problema della sicurezza, ed assolutamente critici sull’uso di fitoterapici, anche come “adiuvanti”, in pazienti neoplastici

La lezione che si trae è quella di un notevole ambito di potenziale interesse, di una grande varietà di prodotti che vedono un miglioramento nei sistemi di produzione, ma anche una inadeguatezza del medico nel dare risposte al paziente che approccia trattamenti con erbe medicinali. Un’altra lezione che si trae è quella data dalla necessità di perfezionare le capacità di raccolta di informazioni considerando non rinunciabile la rilevazione sistematica, nell’anamnesi farmacologica del paziente, dell’uso di erbe medicinali, fitoterapici ed integratori alimentari.

Conclusioni

Nel documento della FISM sulla formazione nelle medicine e pratiche complementari non convenzionali riservato a medici chirurghi ed odontoiatri, la Fitoterapia è definita come un “Metodo terapeutico basato sull’uso delle piante medicinali o di loro derivati ed estratti opportunamente trattati, uso che può avvenire secondo codici epistemologici appartenenti alla medicina tradizionale oppure anche all’interno di un sistema diagnostico-terapeutico sovrapponibile a quello utilizzato dalla medicina convenzionale”. I due aggettivi “tradizionale” (riferito ai codici epistemologici) e “convenzionale” chiariscono due facce possibili della Fitoterapia, ma la cosa più rilevante del documento della FISM è che si riserva la formazione ai laureati in medicina (od odontoiatria), come i soggetti qualificati alla prescrizione di fitoterapici nel contesto quindi di un relazione medico-paziente.

La Fitoterapia comprende un mondo farmacologico-terapeutico assai complesso ed articolato, popolato anche di evidenze scientifiche (principi attivi identificati e con riconosciute proprietà farmacologiche), così come di tradizioni popolari, alcune anche di rilievo nella pratica quotidiana e in disturbi per così dire minori. Essa può esprimersi in un cotesto culturale “popolare” e tradizionale  nel quale la “naturalità” dell’approccio terapeutico, la presunta non nocività e non “invasività” di ciò che è naturale e tradizionale si contrappone in varia misura con tutto ciò che è “artificiale”, “chimico”, in qualche modo estraneo al nostro organismo.

Va peraltro sottolineato come la Fitoterapia dovrebbe essere praticata solo da laureati in medicina che sono in grado di applicare un corretto metodo di approccio al paziente, alla diagnosi ed alla terapia, dando garanzia che trattamenti ed approcci efficaci e comprovati da evidenze scientifiche non siano sostituiti da trattamenti privi o poveri di evidenze scientifiche. Sia chiaro che il riferimento all’EBM non può trovare eccezioni in funzione del “metodo” terapeutico che si usa.

Esistono quindi presupposti concreti, di diversa natura, per una riflessione ponderata ed equilibrata seria sulla Fitoterapia: le basi storiche e scientifiche di questa branca della farmacologia, il riconoscimento nelle piante di un gran numero di principi attivi utili ai fini terapeutici, la presenza – con i suddetti limiti – di una ricerca in progressivo sviluppo, che trova a valle però un rilevante limite nelle procedure semplificate (di fatto elusive nei confronti della documentazione di efficacia e in qualche misura di sicurezza) per la commercializzazione, alcune consolidate conoscenze appartenenti alla tradizione ed alla consuetudine (specie per disturbi minori e molto comuni). Ciò non toglie tuttavia le numerosi incongruenze nell’uso pratico di innumerevoli preparati, miscele, cui vengono attribuiti effetti indimostrati, capacità di intervenire terapeuticamente su innumerevoli patologie, anche molto diverse tra di loro.

La Fitoterapia, uscita dalla porta del tempo, quasi completamente esaurito il suo nobile compito di fornire medicamenti e rimedi nei tempi passati, resa obsoleta dallo sviluppo dell’industria chimico-farmaceutica, ma anche dall’avvento di nuove metodologie di approccio alla ricerca su farmaci e trattamenti  e dall’adozione in tempi recenti nella cultura medica dell’EBM, può rientrare dalla finestra nella pratica clinica e nella formazione medica? La risposta non può stare in un remake di tempi passati, in una semplicistica (e non vera) equazione di naturale = buono, sano, non dannoso o nella vaghezza equivoca che può derivare da un generico ed ingenuo atteggiamento “ecologico” nei confronti della terapia, né transitare attraverso un’informazione incontrollata (quale può esservi su Internet), e neppure sul pur legittimo interesse di produttori e distributori al pubblico. Tuttavia, essa non può neppure trovare mancanza di risposta per omissione di informazione ed assenza di strumenti culturali appropriati da parte dei medici stessi. Data la larga diffusione della Fitoterapia, facilmente percepibile dal diffondersi di Erboristerie e dalla quasi ubiquitaria presenza di prodotti fitoterapici in primo piano nelle farmacie, esiste, oltre ad un bisogno percepito da parte dell’utenza,  un bisogno professionale quanto meno sui principi generali di Fitoterapia da parte del medico e, quindi, un bisogno formativo per lo studente di medicina.

La formazione dello studente in medicina deve basarsi sull’acquisizione di metodologie e contenuti che hanno solide basi scientifiche, con costante riferimento alla Medicina Basata sulle Evidenze, come più volte ribadito dalla Conferenza Permanente dei Presidenti di Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia a proposito delle CAM. Lo studente in medicina deve esser consapevole del fatto che la medicina che è basata sull’uso di erbe medicinali (Fitoterapia) rappresenta una realtà alla quale dovrà essere in grado di fornire una risposta al paziente. Egli dovrà  conoscerne i principi fondanti, ed essere dotato di alcune informazioni fondamentali sulla sicurezza dei trattamenti, i rischi e le interazioni con altri farmaci, ed acquisire la capacità di rilevare nella raccolta anamnestica l’uso di erbe medicinali e fitoterapici. La formazione dello studente, che prevede in 6 anni l’acquisizione di una mole rilevante di conoscenze, non può contenere negli obiettivi del core curriculum la conoscenza della fitoterapia in misura tale da sviluppare capacità prescrittive (la mole di conoscenze interdisciplinari che uno studente dovrebbe acquisire rende impercorribile lo studio specifico della Fitoterapia, a fronte di un’utilità assai limitata) quanto per gestire con appropriatezza il paziente che usa prodotti naturali, per fornirgli una corretta informazione, renderlo consapevole dei potenziali rischi e delle interazioni – talora rilevanti – con farmaci, oltre che della intrinseca distanza che distingue un trattamento vagliato dalle Autorità regolatorie europee e nazionali, sotto regole definite e assi rigorose, da altri trattamenti, pur di lunga tradizione e non privi di una certa ricerca scientifica in anni più recenti, ma che sono molto meno sottoposti ad un controllo così puntuale e capace di fornire tutte le garanzie possibili di efficaci e sicurezza per il cittadino.

L’obiettivo didattico è quello di fornire allo studente in medicina innanzitutto la consapevolezza di un’area della farmacologia-terapia che si avvale di erbe e piante, delle dimensioni della questione, la capacità di percepire l’uso di questi prodotti nel paziente, di apprezzarne e comprenderne le motivazioni, di identificare la tipologia del prodotto (eventualmente richiedendo di vedere la confezione), gli scopi terapeutici, gli effetti, i rischi, le modalità ed i contesti prescrittivi, l’origine del prodotto (se da una moderna industria di prodotti fitoterapici o di provenienza popolare o da paesi esotici-orientali), di identificare la fonte prescrittiva e/o il circuito informativo cui egli ha accesso (es: siti Internet), di gestire un dialogo rispettoso, ma rigoroso con il paziente, fornirgli le informazioni relativamente al contesto clinico entro il quale il fitoterapico viene usato, di rassicurare il paziente sull’assenza di rischi e sui possibili benefici, ma anche cautela fino alla sospensione se si ravvisino potenziali rischi o se il loro uso appare alternativo a trattamento più efficaci e sicuro, soprattutto in presenza di malattie gravi e soprattutto di patologia oncologica.

Una trattazione sulla Fitoterapia, dedicando una lezione od una discussione di uno o più casi clinici emblematici nell’ambito della disciplina Farmacologia, potrà fornire allo studente le informazioni essenziali su questo metodo di terapia per il raggiungimento degli  obiettivi formatici già menzionati.

Nel documento della FISM sulle CAM citato precedentemente, l’Agopuntura è definita un Metodo diagnostico e terapeutico appartenente alla MTC, che si avvale dell’infissione di aghi metallici in ben determinate zone cutanee (punti e meridiani cutanei), per ristabilire l’equilibrio di uno stato di salute alterato. Anche per l’Agopuntura, si riserva la formazione ai  laureati in medicina (od odontoiatria), come i soggetti qualificati al metodo, nel contesto quindi di un relazione medico-paziente.

Prescindendo dai meccanismi di azione, che ovviamente non sono quelli sostenuti dalla MTC, è fuor di dubbio che, come discusso, il trattamento con l’Agopuntura è di qualche utilità per i pazienti con alcuni tipi di dolore cronico resistente alla terapia, tant’è che negli Stati Uniti nelle linee guida per il trattamento della Lombalgia, redatte dall’American College of Physicians e dall’American Pain Society, si consiglia di considerare l’agopuntura come una possibile opzione per i pazienti che non rispondano alla terapia convenzionale.

Visto il ristretto ambito specialistico, è impensabile che nel Corso di Laurea si debba dare spazio all’insegnamento dell’Agopuntura, che esula dallo scopo formativo del Corso di Laurea, ma se ne dovrebbe discutere, insieme con le altre opzioni per il trattamento del dolore nei Corsi di Anestesia e Rianimazione.

Lo scopo del Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia è quello di formare  un medico a livello professionale iniziale con una cultura biomedico-psico-sociale, che possieda una visione multidisciplinare ed integrata dei problemi della salute e della malattia, con una educazione orientata fondamentalmente alla promozione della salute, e con una cultura umanistica nei suoi risvolti di interesse medico.

La risposta alla disaffezione dei pazienti verso la Medicina Scientifica, di cui si scriveva all’inizio del lavoro, deve consistere nel rafforzare la formazione “umanistica” del medico. Lo studente deve essere educato a comprendere quello che nella lingua inglese è definito come “illness” (piuttosto che disease che si riferisce ai segni e sintomi della malattia) e cioè il disagio del paziente per le alterate condizioni di benessere e le sue aspettative, ad ascoltare quindi la sua storia di malattia, il suo vissuto (Medicina Narrativa) per comprendere quale sia la richiesta di aiuto che il paziente in realtà pone. Così imparerà a considerare ogni paziente, non come un insieme di sintomi da chiamare con il nome di una malattia, ma un individuo unico per costituzione genetica e per esperienze di vita che cerca sollievo per il proprio disagio.



1 Come magistralmente puntualizzato da Claudio Magris, relativismo non deve significare, però, negazione della verità e  della necessità della sua ricerca.

2 Tecnica di stimolo dei punti di Agopuntura attraverso il calore generato dalla combustione di coni o sigari di Artemisia secca.

3 Paul Valery ha definito il Mediterraneo macchina per produrre civiltà.

Bibliografia

Per la Storia della Medicina Scientifica e per l’Effetto Placebo e l’Aspettativa di Guarigione, il lettore interessato troverà ulteriori informazioni rispettivamente nei libri di Gilberto Corbellini e di Fabrizio Benedetti, dai quali alcuni concetti sono stati ripresi:

Benedetti F. Il Cervello del Paziente. Le Neuroscienze della Relazione Medico-Paziente, Giovanni Fioriti, Roma, 2012.

Corbellini G. EBM, Medicina basata sull’Evoluzione, Laterza, Bari-Roma, 2007

Per le CAM esistono parecchi documenti della FISM e della FNOMCO e due lavori della Conferenza Permanente dei Presidenti dei Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia; è ricco di informazioni per il pubblico e per i sanitari, il sito dedicato della NIH.

http://nccam.nih.gov/

Lechi A, Vantini I: Riflessioni sulle medicine alternative e complementari ed il corso di laurea   specialistica in medicina e chirurgia. Med Chir 2004; 24: 919-923.

Macrì F, Natale N: Documento sulla formazione nelle medicina e pratiche complementari/non convenzionali riservato a medici chirurghi e odontoiatri. Commissione FISM per le Medicine Complementari/Non Convenzionali, 2012 (scaricabile dal sito www.fism.it)

Vantini I, Caruso C, Craxì A: L’insegnamento delle Medicina Alternative e Complementari(CAM) nel Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia: Posizione della Conferenza Permanente dei  Presidenti di Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia (CPPCLM). Med Chir 2011; 53: 2331-2

Per la Fitoterapia:

Dobrilla G, Corazzi G: Fitoterapia. Erbe medicinali tra evidenze d’efficacia ed effetti indesiderati. Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2005

Dobrilla G. Le alternative. Guida pratica alle cure non convenzionali. Zadig Editore, Roma 2008, pp 1- 302.

Per l’Agopuntura, il lettore interessato ai meccanismi di azione troverà ulteriori informazioni nei lavori di Langevin, rintracciabili su Pubmed, e di cui si cita il sito di una rassegna su Scientist, scaricabile dal sito:

Berman BM, Langevin HM, Witt CM, Dubner R. Acupuncture for chronic low back pain. N Engl J Med. 2010;363:454-61 http://www.the-scientist.com/?articles.view/articleNo/35301/title/The-Science-of-Stretch/

Vickers AJ, Cronin AM, Maschino AC, Lewith G, MacPherson H, Foster NE, Sherman KJ, Witt CM, Linde K; Acupuncture Trialists’ Collaboration. Acupuncture for chronic pain: individual patient data meta-analysis. Arch Intern Med. 2012;172:1444-53.

White A, Ernst E .A brief history of acupuncture. Rheumatology (Oxford). 2004;43:662-3.

Cita questo articolo

Calogero C., Rizzo C., Vantini I., Insegnare nelle Università la Fitoterapia e l’Agopuntura?, Medicina e Chirurgia, 60: 2668-2678, 2013. DOI: 10.4487/medchir2013-60-1

Le realtà e le sfide nei Corsi di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgian.60, 2013, p.2667

Abstract

In this issue has been reported the realities and challenges in Medical School Master Degrees in Italian real life scenario.

In particular, has been showed the results of seventh progress test among the Italian Medical Faculties that enrolled 18,687 students throughout the 6 years of medical training.  Furthermore, articles about the regulatory management of the Medical Schools and pedagogic mission enrich this issue.

Finally, possible curricula on “rare diseases” and on “alternative medicines” have been proposed.

Articolo

L’innovazione pedagogica, con i suoi atelier di approfondimento, rappresenta l’impegno della Conferenza Permanente dei Presidenti dei CLM di Medicina e Chirurgia nel miglioramento continuo della qualità della didattica e nella realizzazione di un’uniformità di metodi d’insegnamento e valutazione tra le varie sedi.  Il Progress Test (PT), così come il progetto On Site Visit, rappresentano invece una realtà  della Conferenza che ne ha fatto strumenti di autovalutazione sempre più obiettivi ed affidabili sulla qualità della formazione e della valutazione professionale del medico. I Gruppi di studio della Conferenza continuano a portare avanti nuove sfide come ad esempio un progetto didattico su un tema di particolare significato come quello delle Malattie rare e su quello più complicato delle Medicine alternative.

Alla luce delle notevoli e veloci innovazioni diagnostiche e terapeutiche sembra indispensabile infatti introdurre nel core curriculum dello studente di medicina il concetto di malattia rara già nei primi anni di corso e in questo numero della rivista trova spazio un contributo di un Gruppo di studio, coordinato da Silvio Scarone, sulla possibilità di inserire nella struttura curriculare un percorso formativo dedicato alle malattie rare.

Il Prof. Mantegazza in una prefazione ad un trattato di agopuntura e medicina cinese nel 2007 scrisse “Il mondo medico occidentale sta lentamente comprendendo che esiste un metodo di  interpretare la malattia e di curarla utilizzato da una quota rilevante dell’intera popolazione mondiale in Cina e in Estremo Oriente. Cercare di conoscerlo, allo scopo di utilizzarne gli aspetti positivi, riducendone i potenziali rischi, è l’atteggiamento più ragionevole che qualsiasi studioso dovrebbe avere”. E’ proprio con questo atteggiamento “scientifico” che Calogero Caruso insieme al Gruppo Medicine alternative e aspetti regolatori – monitoraggio ha condotto per la Conferenza uno studio attento, qui riportato.

Nel dossier della rivista troverete anche un documento scritto da Pietro Gallo, insieme al gruppo d’innovazione pedagogica, sul Ruolo del Presidente che racchiude importanti aspetti organizzativi-manageriali della Presidenza del CLM e si concentra sugli “attori” dell’organizzazione didattica come il coordinatore didattico e la CTP. Inoltre, a corollario di questa nuova figura manageriale, vengono aggiunti importanti aspetti di squisita natura pedagogica che vanno dalle attività formative professionalizzanti alla valutazione dell’efficacia didattica.

Per quanto riguarda il settimo Progress Test, sempre in questo numero troverete i metodi ed i risultati del PT 2012, al quale hanno partecipato 18687 studenti, risultati che confermano come il PT sia uno stumento affidabile per valutare l’acquisizione ed il mantenimento delle conoscenze di base e cliniche dei nostri studenti e che possa sicuramente prendere il posto dell’attuale Esame di abilitazione all’esercizio della professione come auspicato dalla Conferenza.

Questo numero della nostra rivista è forse uno dei più densi di contributi degli ultimi anni a significare il grande percorso che la Conferenza sta facendo e la grande partecipazione di tutti i Presidenti, vecchi e nuovi.

Siamo contenti che venga presentato a Portonovo dove il nostro Past-President, Giovanni Danieli, farà da anfitrione alla riunione congiunta delle Conferenze Permanenti delle Facoltà e delle Scuole di Medicina, organizzata dalla Università Politecnica delle Marche e dove festeggeremo i settant’anni del nostro Presidente Onorario, Luigi Frati, Magnifico Rettore della Sapienza-Università di Roma.