Medicina narrativa e counselling. Strumenti di educazione alla medicina partecipativa per il miglioramento della relazione tra medico e pazienten.64, 2014, pp.2874-2880, DOI: 10.4487/medchir2014-64-1

Abstract

The changes in medicine have challenged the empathic relationship between doctor and patient. To improve its quality it is necessary to educate physicians to the “participatory medicine”, which may use in particular two instruments: narrative medicine and counselling; the first one is not opposed, but on the contrary must be in harmony with the evidence based medicine; the second uses the word as an instrument of care in therapeutic patient education and in healthy citizen education; both narrative medicine and counselling facilitate the alliance to cure, which asks the patient to provide his experience of suffering, becoming active collaborator and responsible together his doctor of the care process, at the same time growing the overall medical knowledges.

Now it is necessary that these truths rightfully become contents of future physicians education.

Articolo

Una medicina che cambia

Si può affermare che la medicina moderna ha subito una metamorfosi significativa a partire dagli anni ‘50, perché solo da allora l’intervento dei medici non si è più limitato a osservare, descrivere e riconoscere i fenomeni, ma è diventato capace di cambiare in modo non sporadico la storia naturale delle malattie e quindi la sorte dei malati.

Prima dell’era della chimica e quindi della farmacologia industriale, mancando le “pillole” – almeno quelle efficaci – il medico poteva agire quasi soltanto con la parola; il suo ruolo sociale universalmente riconosciuto era quello del consigliere e del consolatore.

Negli anni ’50 sono iniziati i veri progressi della medicina scientifica e la medicina cambiava nel bene, ma – purtroppo – anche nel male:

– alla medicina della persona (quella impersonata dal “caso clinico”) si andava affiancando con forza la medicina delle popolazioni (per esempio quella fondata sui risultati dei trials clinici controllati);

– alla medicina delle ipotesi e delle teorie si è andata sostituendo la medicina delle evidenze scientifiche che richiede dimostrazioni sperimentali delle proprie affermazioni;

– alla relazione empatica capace di confortare si è troppo spesso sovrapposto l’ assordante silenzio delle tecnologie, o il linguaggio contorto delle burocrazie, ai quali sembra legarsi fatalmente una medicina diventata strumento pubblico, complesso, collettivo e molto costoso, e perciò bisognevole anche di una organizzazione efficiente.

La crisi della relazione medico-paziente, conflitto tra due culture

In particolare, accanto al cambiamento indubbiamente positivo dell’efficacia terapeutica si sono purtroppo palesati di pari passo i regressi nella comunicazione tra curante e curato, che derivano dall’accrescersi dell’asimmetria tra i due soggetti: si tratta di un’asimmetria naturalmente costitutiva del rapporto medico-paziente, ma che negli ultimi decenni è stata accentuata dallo sviluppo tecnologico e biologico-riduzionistico della medicina scientifica; ciò si è manifestato con alcuni fenomeni abbastanza emblematici, anche se in parte presenti già in tempi più lontani: l’atteggiamento paternalistico dei medici nelle relazioni con i loro pazienti; l’uso di un linguaggio tecnico senza grande attenzione per i livelli di comprensione degli interlocutori; l’uso dell’anamnesi quasi soltanto per l’acquisizione delle informazioni sullo stato di organi e apparati, e non anche per la comprensione dei vissuti soggettivi; l’unilateralità nelle decisioni mediche, che confinano il consenso informato ai soli aspetti formali, tanto da trasformarlo molto spesso in una mera incombenza burocratica.

Ancora, la tutela del diritto sacrosanto a essere ben curati viene spesso perseguita usando approcci rivendicativi più che di corresponsabilità gestionale, come sono spesso quelli dei Tribunali dei diritti del malato, luoghi dove opportunamente si denunciano pratiche di malasanità, ma talora si vantano anche diritti presunti più che reali; e soprattutto vengono dimenticati i doveri personali che rendono compatibili i fini individuali con quelli collettivi; cioè si dimentica che il concorrere al processo decisionale circa la salute non può riguardare egoisticamente soltanto la propria salute, senza tenere in considerazione anche i riflessi sulla salute degli altri: le parole chiave per realizzare un equilibrio in tutto ciò sono per l’appunto inscindibilmente tre: diritti, doveri e responsabilità.

Infine, alla criticità della relazione medico-paziente purtroppo contribuisce anche una formazione medica orientata prevalentemente alla performance diagnostico-terapeutica limitata al curare, mentre fatica a farsi strada l’attenzione al prendersi cura.

Questo – sia pure in prima approssimazione – è lo scenario sconfortante nel quale correntemente oggi si gioca la relazione tra medico e paziente, relazione che si dibatte tra conflittualità e complicità nella ricerca improbabile di una effettiva negoziazione tra un medico che consigli sapientemente (cioè secondo scienza e coscienza) e un cittadino che sappia effettivamente essere giudice e vero responsabile della qualità della propria vita.

Insomma, come conseguenza dei mutamenti ai quali è andata incontro nell’ultimo mezzo secolo la medicina come scienza e come professione, si è sviluppato un conflitto  apparentemente insanabile tra curanti e curati, che di fatto può essere letto come un conflitto tra due culture: il medico è il detentore della “cultura” scientifica e professionale, sulla quale fonda le proprie decisioni diagnostiche e terapeutiche; ma anche il paziente ha una sua “cultura”, che non è scientifica ma esistenziale, perché nessuno può conoscere meglio di lui il vissuto della sofferenza “sperimentata” di persona. La distanza tra di esse può venire ridotta solo facendole comunicare tra loro con il riconoscimento delle potenzialità intrinseche. Ma come si può cercare di raggiungere questo obiettivo? E come si possono educare gli studenti futuri medici a una relazione empatica tra medico e paziente?

Come sanare il conflitto?

Come prima cosa è necessario educare i professionisti della salute non solo al senso critico, alla problematicità, al confronto dialettico delle idee e delle scelte, ma anche e in pari misura ai valori della comprensione, della tolleranza, del rispetto, cioè a valori squisitamente etico-umanistici, cioè all’etica del dubbio e della responsabilità.

Affinché il medico sia fedele a questi valori non basta nutrirlo di competenze scientifiche, fargli conoscere la psicologia, renderlo esperto nelle tecniche della comunicazione, ma si deve anche aiutarlo a conoscere se stesso affinché impari a rendere fertili le proprie emozioni; insomma bisogna renderlo “esperto in umanità”.

Per questo, oltre a fornirgli i contenuti e gli strumenti professionali appropriati per agire è necessario aiutarlo a maturare le attitudini e le motivazioni che si riflettono in prima istanza sulle qualità della relazione interpersonale: affinché una comunicazione diventi relazione non basta parlarsi; è indispensabile essere disposti a farsi raccontare, imparare ad ascoltare, chiedere per capire, aiutare a capire, partecipare e condividere; questi sono infatti i connotati di quella che si definisce come relazione empatica, e che molto si nutre – come vedremo più avanti – di componenti narrative depurate dai tecnicismi del linguaggio medico-scientifico.

Strumenti necessari ad acquisire queste capacità sono sicuramente le tecniche della comunicazione che oggi si insegnano nelle nostre Scuole di Medicina, ma non sono sufficienti; infatti è pur vero che l’empatia probabilmente non si può insegnare né apprendere a scuola, perché non è un’abilità ma un’attitudine, cioè è il frutto di una ricchezza personale: ma allora per far crescere l’attitudine empatica bisogna far crescere le doti della persona. A questo potrebbero contribuire le Medical Humanities, pure recentemente introdotte nelle Scuole mediche italiane e tra queste in particolare la così detta “medicina narrativa”.

La “Medicina narrativa”

Con questo termine s’intende una tendenza che si va sempre più sviluppando e che considera utili gli aspetti narrativi presenti nelle relazioni di cura.

Il benessere e soprattutto i malesseri sono potenti stimoli alla narrazione delle circostanze e dei tempi in cui essi si realizzano e si costatano, delle loro cause presunte o vere, delle paure e delle speranze che essi suscitano, degli eventi che li peggiorano o li migliorano, dei rimedi che si presumono o si sono constatati come efficaci.

Nella relazione comunicativa tra medico e paziente, che in gran parte si sostanzia nell’anamnesi, la narrazione può prendere differenti connotati formali: può arricchirsi di colore e calore, o al contrario cristallizzarsi in una sequenza di “fatti” o di “eventi”, raccolti con la presunzione di una descrizione oggettiva e quindi veritiera, ma anche rappresentati e trascritti con tratti sicuri e definiti, senza incertezze o sfumature.

Sono questi i due connotati opposti della raccolta anamnestica: da una parte il punto di vista del paziente, che possiede come unico strumento comunicativo la possibilità di raccontare i propri vissuti e di colorarli e riscaldarli (ma talvolta anche di sbiadirli e raffreddarli) in relazione con le proprie esperienze e le proprie emozioni; le quali – trattando di cose importanti come la salute e la malattia, cioè in fondo la vita o la morte, e comunque la sofferenza – spesso deformano i contorni della realtà rispetto alla sua rappresentazione definita secondo i crismi della razionalità; dall’altra il punto di vista del medico, che vorrebbe conoscere la realtà nei suoi contorni oggettivi e che ritiene per (de)formazione professionale che la verità sia figlia unica dell’obiettività e della razionalità.

D’altra parte il medico è stato formato soprattutto a scrivere una cronaca; il paziente è interessato a raccontare una storia; il punto è che il medico produce una cronaca di fatti che riguardano la vita di un’altra persona, mentre il paziente racconta la storia che sta vivendo, la storia della sua vita.

Grazie alla “medicina narrativa” si sta prendendo coscienza che la ricerca ad oltranza della razionalità e della obiettività di per sé auspicabile, nella realtà è un’illusione; che lo sfrondare i fatti dalle opinioni alla fine ne distorce la veridicità perché li impoverisce irrimediabilmente di elementi che – lungi dall’essere solo “depistanti” – ne facilitano l’interpretazione. Il fine essenziale della “medicina narrativa” è proprio quello di restituire al mondo della medicina una visione complessiva e unitaria, cercando di fare sintesi tra le due visioni che separatamente da sempre rappresentano le due metà di un’entità unica: la visione scientifica e quindi razionale del medico e quella esistenziale del paziente, fatta di esperienze e di emozioni.

Si deve nella realtà constatare che l’apertura del medico alla medicina narrativa migliora le sue capacità di cura: tra il paziente che narra e il medico che partecipa attivamente anche ai risvolti della narrazione apparentemente estranei alla medicina, nasce una sorta di complicità, che aiuta entrambi nella gestione della sofferenza e talvolta anche nell’ intervento efficace sulla malattia.

“Medicina narrativa” versus “Medicina delle evidenze”

Questa constatazione contrasta la presunta antinomia tra “medicina narrativa”, più appropriatamente denominata medicina basata sulla narrazione (NBM) e “medicina scientifica” oggi uniformemente definita come medicina basata sulle evidenze (EBM), o – più correttamente – come medicina basata sulle prove di efficacia.

L’EBM ha meriti indubitabili: sicuramente i “trials” clinici controllati sono quanto di meglio la ricerca clinica può oggi produrre; tuttavia, essendo di derivazione “riduzionistica” in parte tradiscono la complessità dei fenomeni biologici; inoltre si fondano su criteri epidemiologico-statistici, e quindi non possono tener conto delle condizioni fisiopatologiche dei singoli individui. Tra parentesi, non si può nemmeno dimenticare che gli studi clinici controllati costano e quindi si realizzano solo quelli finanziati (per lo più dall’industria farmaceutica), che poi sono quelli che producono prove utili a chi li finanzia.

Ma i limiti principali della EBM  stanno nel fatto che essa si rivolge soprattutto alla terapia delle malattie piuttosto che al trattamento globale della persona.

Tuttavia, bisogna anche dire che la metodologia attuale della ricerca clinica è come la democrazia: ancorché imperfetta, è quanto di meglio oggi disponibile. Inoltre la EBM è un formidabile strumento di formazione, perché insegna a individuare e ad analizzare i problemi, a tradurre l’incertezza in quesiti ai quali rispondere con le conoscenze disponibili, a cercare, individuare e valutare criticamente le evidenze, a verificare la significatività clinica di queste e ad applicarle alla situazione clinica specifica: in altri termini, insegna a porre le domande pertinenti, a trovare le risposte corrette e utili, ad applicarle alle situazioni specifiche e a valutare criticamente i risultati; cioè è uno strumento importante per affrontare la soluzione dei problemi.

Tuttavia i problemi clinici sono concreti e immanenti, e anche problemi apparentemente simili sono tra loro differenti; solo l’esperienza e l’intuito del medico sanno trasformare la teoria in prassi utile: perciò, proprio se temperate dall’esperienza, le evidenze scientifiche possono trasformare l’educazione continua in medicina in sviluppo professionale continuo.

Se non si considerano con onestà intellettuale sia i pregi, ma anche i limiti dell’EBM, in una sorta di delirio di onnipotenza si rischia di dimenticare che la medicina – come il sabato evangelico – è fatta per l’uomo e non viceversa.

Allora non si tratta di contrapporre o addirittura di sostituire la “narrative based medicine” alla “evidence based medicine”, in una visione manichea che fa alternativamente vincere la creatività o la razionalità; si tratta piuttosto di cercare tra le due un mix equilibrato, finalizzato comunque al benessere (come diceva Aristotele, alla felicità ?) degli esseri umani, che sono fatti di meccanismi biologici e di pensieri ed emozioni, ammalano per colpa degli uni e delle altre e con la forza di entrambi sperano e desiderano di essere risanati.

Per aiutare queste persone c’è bisogno di Professionisti della salute che abbiano una consapevolezza equilibrata, si potrebbe dire “sapienziale”, di quanto la realtà sia complessa e composita, e che sappiano quindi riflettere per prendere decisioni sagge: allora la “medicina narrativa” troverà la sua ragione fondamentale soprattutto nell’aiutare la formazione di “professionisti riflessivi”, capaci di entrare in relazione empatica con le persone, e per questo utili alla loro salute fisica e psichica.

Così, il significato tradizionale dell’EBM come “Medicina basata sulle evidenze” (abitualmente tradotta come “Medicina basata sulle prove di efficacia”, prove raccolte e valutate con gli strumenti rigorosi della ricerca scientifica) potrebbe venire ampliato e arricchito da una diversa lettura dell’acronimo EBM come “Medicina basata sull’esperienza”: non solo l’esperienza del curante che adatta alla situazione specifica i risultati della ricerca, ma anche l’esperienza diretta del paziente che aumenta di per sé le conoscenze scientifiche del ricercatore.

La parola e la cura: il counselling

Tuttavia sarebbe a mio avviso riduttivo rivolgere l’attività educativa solo ai malati e in particolare ai pazienti di malattie croniche; soprattutto in relazione alla prevenzione dovrebbero essere soggetti di educazione anche le persone sane, che preferirei chiamare in un contesto democratico “cittadini” piuttosto che “utenti” (parola di sapore burocratico), o peggio “pazienti (perché il sano non patisce, né deve avere pazienza), o peggio ancora “clienti” (vocabolo che porta con sé uno sgradevole sapore mercantile): si tratta di educare i cittadini soprattutto al cambiamento dei propri stili di vita, così da diventare cittadini maturi e responsabili anche nei confronti della propria salute.

Come sempre, anche in questo caso l’educazione porta a trasformazione, nella quale il professionista della salute gioca pienamente il ruolo di educatore. E pure in quest’ottica l’educazione è fatta non solo di informazione, ma anche di formazione, che si giova di una comunicazione empatica, cioè capace di condividere valori e convinzioni tra educatore ed educando nel rispetto della libertà individuale; tale modalità, che si fonda sulla condivisione, deve peraltro svolgersi in maniera trasparente, cioè in modo ben diverso dalla così detta persuasione occulta, tipica ad esempio della comunicazione pubblicitaria. La comunicazione empatica si basa su una relazione interpersonale nella quale gioca un ruolo importante la considerazione e la stima reciproca, elementi che si sviluppano attraverso la negoziazione di scelte responsabili e personalizzate, in quanto attente e adattate alle situazioni individuali.

Tutto ciò richiede e si giova fortemente dello strumento del dialogo; in altri termini la parola diventa mezzo essenziale di cura e si dimostra veicolo efficace di ogni tipo di intervento medico, sia esso di natura preventiva, diagnostica, prognostica, terapeutica o riabilitativa. Vale la pena al proposito d’insistere sul fatto che la sola informazione non basta: ne è un esempio eclatante la scarsa efficacia sul miglioramento dello stato di salute dei singoli e della collettività, conseguito dalle trasmissioni televisive e radiofoniche o dai giornali; probabilmente buona parte del loro insuccesso educativo è dovuta al fatto che queste comunicazioni riguardano molto spesso l’informazione sulle malattie e non l’informazione sulla salute, e quindi inducono bisogni sanitari impropri (prescrizione di farmaci o di indagini diagnostiche con indicazioni generali che non tengono conto della peculiarità delle situazioni individuali), anziché facilitare cambiamenti reali e positivi degli stili di vita.

A ciò deve aggiungersi che spesso all’informazione non si accompagna la relazione interpersonale capace di individualizzare l’intervento; così non vengono mobilitate le risorse personali e la capacità di assumere in proprio decisioni completamente consapevoli e perciò mature e responsabili; infine, informazioni veritiere debbono esser trasmesse con il linguaggio più adatto alle capacità di comprensione del singolo soggetto.

L’approccio complessivo appena descritto sostanzia la tecnica del così detto counselling  ed è finalizzato a conseguire la condivisione informata delle scelte, che comporta il riconoscimento della reciproca necessità nel costruire e poi declinare in corsi di azioni uno scenario di cura “su misura”; tale risultato è più valido e significativo del così detto consenso informato; infatti l’obbligo deontologico al consenso informato, oramai consueto in ogni decisione medica, è di per sé uno strumento necessario ma non sufficiente, in quanto troppo spesso si è trasformato in una incombenza burocratica, finalizzata più a proteggere i sanitari da persecuzioni giudiziarie che non a rendere effettivamente partecipe il paziente di decisioni importanti per la sua vita e per il suo benessere.

Al contrario l’arte del counselling è fatta di domande più che di risposte, che trasformano il consenso informato da adesione passiva a una prescrizione in condivisione responsabile delle scelte; in altri termini è – attraverso la parola che spesso diventa narrazione – uno strumento di responsabilizzazione, mai un mezzo di plagio comunicativo.

Purtroppo il counselling finalizzato a modificare gli stili di vita è scarsamente praticato in Italia soprattutto perché ad esso non vengono formati i Professionisti della salute.

Appare allora indispensabile soprattutto per questo tipo di “educazione del cittadino sano” una loro educazione specifica.

Sia l’educazione degli operatori sanitari che quella dei cittadini dovrebbe diventare un impegno permanente e continuo, tanto che si potrebbe suggerire una variante dell’acronimo ECM in ECS: Educazione Continua alla Salute accanto e oltre a Educazione Continua in Medicina.

Anche questo – che oserei chiamare un obiettivo “etico” – è sicuramente un obiettivo ambizioso e difficile, perché il suo conseguimento richiede un profondo cambiamento comportamentale in molti professionisti della salute.

“Medicina partecipativa” e “paziente esperto”

Ebbene, la familiarità con gli strumenti della medicina narrativa può forse diventare una freccia all’arco, un possibile strumento operativo di coloro che sperano e investono nella medicina partecipativa, in una medicina moderna nella quale Professionisti della salute e pazienti facciano ciascuno la propria parte non da sponde contrapposte, bensì in un’ alleanza che ha come fine comune la cura efficace, finalmente nutrita di un vera relazione empatica; quest’ultima infatti si nutre validamente della condivisione reciproca dei racconti informali ma “veri” dei medici, ma anche di tutti gli altri operatori sanitari, e dei loro pazienti. Questa disponibilità all’ascolto da una parte e alla narrazione dall’altra sono le condizioni necessaria alla partecipazione responsabile del paziente alla “gestione” della propria salute, partecipazione che si fonda sul fatto incontestabile che nessuno più di lui può avere esperienza diretta delle proprie sensazioni, cioè del suo vissuto.

In questo contesto si parla oggi di “paziente esperto”: con tale espressione si sottolinea il ruolo rinnovato del paziente che mette a disposizione la propria esperienza di malattia, che solo lui può conoscere fino in fondo, per aiutare e personalizzare il processo di cura.

Ma per diventare effettivamente “esperto” anche il paziente ha bisogno di essere educato: questa attività formativa si concretizza oggi in quella che viene comunemente denominata “educazione terapeutica del paziente”, che si rivolge soprattutto a pazienti cronici. Inoltre, come tutti i processi educativi, anche questo ha uno sviluppo bidirezionale: infatti, se per aderire con responsabilità personale alla cura il paziente dev’essere istruito ed educato, le conoscenze che nascono dalla sua personale esperienza aiutano i curanti nell’esercizio della cura stessa, e fanno crescere anche le conoscenze utili su caratteristiche “nascoste” della malattia; potremmo dire che anche lo sviluppo delle conoscenze scientifiche può essere aiutato dall’esperienza diretta dei pazienti.  In questa prospettiva la co-produzione di conoscenza è un elemento essenziale della medicina partecipativa: quanta distanza dal paternalismo tradizionale dei medici …

Fortunatamente anche i settori più avanzati della ricerca biomedica stanno aprendo prospettive a breve-medio termine per una personalizzazione dei risultati di tali ricerche: mi riferisco alla genetica – soprattutto le farmaco-genomica – come strumento di conoscenza scientifica delle caratteristiche biologiche peculiari al singolo individuo-persona e di conseguenza come elemento decisionale nelle scelte degli approcci diagnostici e terapeutici individuali. Questo approccio sta aprendo orizzonti affascinanti, che  fanno ben sperare in una evoluzione dei protocolli terapeutici standardizzati verso una terapia personalizzata basata sulle evidenze, cioè in un futuro non troppo lontano nella personalizzazione sia della relazione che della cura.

Credo che sia venuto il tempo che pure il nostro impegno educativo attuale nei confronti dei futuri medici si confronti con le prospettive di personalizzazione della medicina in ambito biologico, ma anche in quello della relazione tra medico e paziente, alla quale ho dedicato la parte maggiore di questo contributo.

Bibliografia

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8) Garrino L  La medicina narrativa nei luoghi di formazione di cura. 2010 Centro Scientifico Editore  –  Edi-Ermes Milano

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11) Masini V Medicina narrativa. Comunicazione empatica ed interazione dinamica nella relazione medico-paziente 2005 Ed. Franco Angeli Milano

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Cita questo articolo

Vettore, L., Medicina narrativa e counselling. Strumenti di educazione alla medicina partecipativa per il miglioramento  della relazione tra medico e paziente, Medicina e Chirurgia, 64: 2874-2880, 2014. DOI:  10.4487/medchir2014-64-1

Il Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia di fronte alla direttiva europea 2013/55/UEn.64, 2014, pp.2881-2887, DOI: 10.4487/medchir2014-64-2

Abstract

This article discusses the implications of Directive 2013/55/EU of the of the European Parliament and of the Council, issued on 20 November 2013 and amending Directive 2005/36/EC on the recognition of professional qualifications. The critical issue is the requirement of least 5500 hours of theoretical and practical training. An analysis of Italian medical education shows that this requirement is not fulfilled at present, since the total teaching and/or training time before admission to the medical profession, which includes 6 years of university studies and 3 months of post-graduate training, amounts to about 5200 hours. Different strategies to correct this situation are discussed. The most simple solution consists in increasing the time reserved to practical training by setting that 1 CFU (CFU is the Italian version of ECTS credits) of practical training should correspond to 25 hours, instead of the present 20 hours. An alternative solution could be devised in which the overall extension of practical training is increased from 60 to 90 CFU, and the extension of theoretical teaching is accordingly reduced. The latter solution would make post-graduate training no longer necessary to fulfill the 5500 hour requirement. This would require an extensive revision of teaching organization, but would be consistent with the results of analyses comparing medical education in Italy and in other European countries. In fact, the theoretical knowledge provided in the medical school was found to be deeper in Italy than elsewhere, but Italian medical education was shown to suffer from limited student-patient interaction. Notably, both solutions have the advantage that no new law should be issued by the Government or Parliament, so that the deadline established by the Directive (18 January 2016) could be easily met. 

Articolo

Introduzione

L’integrazione europea si è accompagnata allo sviluppo di una normativa che prevede il riconoscimento automatico del titolo di laurea in medicina e chirurgia nei paesi dell’Unione a condizione che nel percorso formativo vengano rispettati alcuni specifici requisiti.

La Direttiva 93/16/CEE in materia di libera circolazione dei medici e di reciproco riconoscimento dei loro diplomi, recepita dal Decreto Legislativo 17-8-99 n. 3681, richiedeva come condizione formale un percorso formativo “della durata minima di sei anni o un minimo di 5500 ore di insegnamento teoriche e pratiche impartite in una università o sotto il controllo di una università”. Riguardo ai contenuti della formazione si identificavano quattro requisiti, ovvero:

“a) adeguate conoscenze delle scienze sulle quali si fonda l’arte medica, nonché una buona comprensione dei metodi scientifici, compresi i principi relativi alla misura delle funzioni biologiche, alla valutazione di fatti stabiliti scientificamente e all’analisi dei dati;

b) adeguate conoscenze della struttura, delle funzioni e del comportamento degli esseri umani, in buona salute e malati, nonché dei rapporti fra l’ambiente fisico e sociale dell’uomo ed il suo stato di salute;

c) adeguate conoscenze dei problemi e delle metodologie cliniche atte a sviluppare una concezione coerente della natura delle malattie mentali e fisiche, dei tre aspetti della medicina: prevenzione, diagnosi e terapia, nonché della riproduzione umana;

d) adeguata esperienza clinica acquisita sotto opportuno controllo in ospedale”.

Questi requisiti sono stati confermati integralmente nella Direttiva 2005/36/CE2, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali (art. 24), ma sono stati recentemente modificati dalla Direttiva 2013/55/UE3 del 20 novembre 2013, che ci proponiamo di analizzare in questo articolo, cercando di evidenziare le principali modifiche rispetto alla situazione attuale e gli interventi necessari da parte del legislatore e del mondo universitario. Il tempo a disposizione per adeguarsi alla normativa è di poco superiore a un anno. L’art. 3, paragrafo 1, della Direttiva 2013/55/UE precisa infatti che “gli Stati membri mettono in vigore le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva entro il 18 gennaio 2016”.

Uno sguardo d’insieme alla direttiva

La direttiva 2013/55/UE concerne il riconoscimento delle qualifiche professionali. Il testo è quasi interamente costituito dall’art. 1, che modifica sistematicamente la precedente direttiva 2005/36/CE, ai cui articoli è quindi necessario continuare a fare riferimento nella discussione. Al fine di promuovere la libera circolazione dei professionisti, si prospetta un sistema di riconoscimento automatico di alcune qualifiche professionali, inclusa quella di medico, attraverso l’istituzione di una tessera professionale europea (Art. 4 della direttiva 2005/36/CE, quasi interamente sostituito dall’art. 1, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/55/UE).

L’obiettivo è condivisibile ed appare cruciale per il nostro paese, dato che un numero crescente di laureati e specialisti trova uno sbocco professionale in altri paesi europei. Non si richiedono adempimenti specifici da parte degli Atenei. Si precisa infatti che lo Stato d’origine deve consentire “al titolare di una qualifica professionale di richiedere il rilascio di una tessera professionale europea attraverso uno strumento online, fornito dalla Commissione, che crea automaticamente un fascicolo” personale nell’ambito del sistema di informazione del mercato interno (fascicolo IMI). I tempi dovrebbero essere molto rapidi: la tessera deve essere rilasciata entro una settimana o entro tre settimane nel caso vadano richiesti documenti aggiuntivi. La tessera dovrebbe essere poi trasmessa direttamente all’autorità competente di ciascuno Stato membro interessato.

Vengono quindi identificate le “condizioni minime di formazione” necessarie per il riconoscimento automatico dei titoli che danno accesso a specifiche attività professionali. Viene anzitutto analizzata la “formazione medica di base”, termine con il quale ci si riferisce alla formazione fornita nel nostro sistema educativo dal corso di laurea magistrale in Medicina e Chirurgia, da non confondersi con la formazione specifica in medicina generale. In relazione alla formazione medica di base la direttiva 2013/55/UE introduce una significativa novità. Mentre la direttiva 2005/36/CE recitava (art. 24, paragrafo 2) “La formazione medica di base comprende almeno sei anni di studi o 5500 ore d’insegnamento teorico e pratico dispensate in un’università o sotto la sorveglianza di un’università”, ora la direttiva 2013/55/UE (art. 1, paragrafo 18) rende cumulative le condizioni relative al numero di anni e di ore, modificando il testo in questi termini: “La formazione medica di base comprende almeno cinque anni di studio complessivi, che possono essere espressi in aggiunta anche in crediti ECTS equivalenti, consistenti in almeno 5500 ore d’insegnamento teorico e pratico svolte presso o sotto la supervisione di un’università.” Questo punto è analizzato estesamente più avanti.

In relazione alla “formazione medica specializzata” si conferma che questa “è subordinata al completamento e la convalida di un programma di formazione medica di base di cui all’art. 24” [cioè alla laurea magistrale in medicina e chirurgia]. Non si modifica la durata minima della formazione medica specializzata, che resta quella indicata all’allegato V, punto 5.1.3 della direttiva 2005/36/CE, e varia da 3 a 5 anni a seconda della specialità. Si introduce la possibilità per gli Stati membri di “prevedere nelle legislazioni nazionali esenzioni parziali, per alcune parti dei corsi di formazione specialistica, a condizione che dette parti siano già state seguite in un corso di specializzazione per il quale il professionista abbia già acquisito la qualifica professionale in uno stato membro” (art. 1, paragrafo 19 della direttiva 2013/55/UE). L’esenzione non può comunque superare la metà della durata minima del corso di formazione medica specialistica in questione.

Per quanto riguarda la “Formazione specifica in medicina generale” non sono introdotte modifiche rispetto alla direttiva 2005/36/CE, che all’art 28, paragrafo 2, prevede una durata di almeno tre anni a tempo pieno. Permane la possibilità di abbreviare il percorso sulla base della formazione ricevuta durante il corso di laurea magistrale. Infatti il secondo comma del paragrafo 2 recita “Se il ciclo di formazione di cui all’articolo 24 [cioè il corso di laurea magistrale] implica una formazione pratica dispensata in un centro ospedaliero autorizzato, dotato di attrezzature e servizi adeguati di medicina generale o in seno a un ambulatorio di medicina generale autorizzato o a un centro autorizzato in cui i medici dispensano cure primarie, la durata di tale formazione pratica può essere inclusa, nel limite di un anno, nella durata di cui al primo comma [cioè nella formazione specifica in medicina generale]”.

Viene infine meglio precisata la questione delle competenze linguistiche. L’Art. 53 della direttiva 2005/36/CE viene infatti interamente sostituito dall’art. 1, paragrafo 41, della nuova direttiva. In sintesi, dopo il rilascio della tessera professionale “se la professione da praticarsi ha ripercussioni sulla sicurezza dei pazienti” gli Stati ospitanti possono imporre controlli sulla conoscenza di una lingua ufficiale dello Stato ospitante. Il controllo linguistico deve essere comunque “proporzionato all’attività da eseguire”.

La questione delle 5500 ore

Il punto critico che tocca le attività istituzionali degli Atenei è il calcolo delle 5500 ore “di insegnamento teorico e pratico”. L’ordinamento del corso di laurea magistrale in medicina e chirurgia (LM-41) è pressoché identico in tutte le sedi, in quanto elaborato a suo tempo dalla Conferenza permanente dei presidenti dei corsi di laurea in medicina e chirurgia, e recita: “Ad ogni CFU corrisponde un impegno-studente di 25 ore, di cui di norma non più di 12 ore di lezione frontale, oppure 20 ore di studio assistito all’interno della struttura didattica. Ad ogni CFU professionalizzante corrispondono 25 ore di lavoro per studente, di cui 20 ore di attività professionalizzante con guida del docente su piccoli gruppi all’interno della struttura didattica e del territorio e 5 ore di rielaborazione individuale delle attività apprese.”

Appare chiaro che nel computo delle “ore di insegnamento teorico e pratico” le ore di studio o rielaborazione individuale non possono essere prese in considerazione ed è molto opinabile anche prendere in considerazione le ore di “studio assistito”. Nei nostri ordinamenti i CFU professionalizzanti sono 60 su un totale di 360. Ne consegue che il numero massimo di ore di insegnamento teorico e pratico compatibile con l’attuale ordinamento è di 300×12 + 60×20 = 4800 ore. Al più si potrebbe forse argomentare che i 18 CFU riservati alla prova finale possono essere trattati come i CFU professionalizzanti, il che porterebbe il totale a 4944.

Va peraltro considerato che il percorso formativo necessario per accedere alla professione medica include anche il tirocinio post-laurea richiesto per ottenere l’abilitazione all’esercizio della professione. Il DM 19 ottobre 2001 n. 4454 infatti prevede all’art. 2 un “tirocinio clinico della durata di tre mesi” svolto “a integrazione delle attività formative professionalizzanti” previste nel corso di laurea. Che questo tirocinio possa essere considerato alla stesso modo del tirocinio professionalizzante del corso di laurea sembra pacifico, anche perché attualmente in alcuni paesi, che non hanno un corso di laurea della durata di 6 anni (ad esempio Regno Unito e Svezia), la direttiva europea in vigore (2005/36/CE) è soddisfatta soltanto perché si fa riferimento al requisito delle 5500 ore, e nel calcolo è esplicitamente inclusa la formazione “postgraduate”.

Il DM 19 ottobre 2001 non riporta specificazioni sul numero di ore di tirocinio post-laurea, ma per analogia con il corso di laurea magistrale, considerando che tre mesi corrispondono a 15 CFU, il monte orario è stimabile in 15×20 = 300 ore, il che porta il totale complessivo a 5100 ore, o a 5244 se si considerano i 18 CFU della prova finale come tirocinio (vedi Tab. 1).

Schermata 2015-01-19 alle 17.42.15

In conclusione il nostro attuale ordinamento non soddisfa, anche se di poco, il requisito delle 5500 ore, a meno che non si vogliano introdurre forzature interpretative che appaiono difficilmente giustificabili. E’ però possibile raggiungere il risultato voluto con interventi normativi limitati, che vengono discussi di seguito. In particolare vengono prospettate una soluzione che consenta di ridurre al minimo le modifiche dei piani di studio ed una soluzione che risulti compatibile con la prospettiva della laurea abilitante.

Strategie di intervento

Ipotesi di soluzione 1: intervento minimale

La soluzione più semplice consiste in un modesto aumento del numero di ore di insegnamento per CFU che si può realizzare con una modifica dell’ordinamento seguita da un adeguamento del regolamento del corso di laurea magistrale, senza necessità di interventi legislativi. La cosa più logica è specificare che ciascun CFU di tirocinio comporta 25 ore di attività professionalizzante con guida del docente, eliminando il riferimento alle ore di rielaborazione individuale delle attività apprese. Sarebbe utile anche chiarire esplicitamente quante ore di insegnamento corrispondono ai CFU attribuiti alla prova finale. In concreto questa soluzione prevede le seguenti tappe:

a) Modificare l’ordinamento precisando che 1 CFU di didattica frontale corrisponde a 12 CFU di insegnamento teorico, 1 CFU di tirocinio professionalizzante corrisponde a 25 ore di insegnamento pratico con guida del docente (eliminando il riferimento alle 5 ore di rielaborazione individuale) e 1 CFU della prova finale corrisponde a 20 ore di insegnamento teorico-pratico. La modifica dell’ordinamento deve essere approvata dagli Atenei entro la scadenza fissata dal MIUR (31 gennaio 2015) e successivamente deve essere approvata dal CUN.

b) Adeguare i regolamenti dei singoli corsi di laurea. Occorre in particolare aumentare le ore di tirocinio del 25% (da 20 a 25 ore per CFU) e aumentare sostanzialmente le ore di didattica frontale per le sedi che avevano previsto un numero di ore per CFU inferiore a 12.

c) In questo modo si ottiene un totale di 5244 ore di insegnamento nel corso di laurea. Per raggiungere la quota di 5500 ore occorre continuare a considerare i tre mesi di tirocinio post-laurea richiesto per l’abilitazione professionale, valutandolo per analogia con il corso di laurea in 15 CFU, pari a 15×25 = 375 ore, il che porta il totale complessivo a 5619 ore (si veda la Tabella 2 per un quadro riassuntivo). Per evitare ambiguità sarebbe comunque utile ottenere un Decreto Ministeriale o almeno un nota interpretativa che chiarisca questo aspetto, quantizzando le ore dedicate al tirocinio di cui al DM 19 ottobre 2001.

Schermata 2015-01-19 alle 17.42.42

 

Ipotesi di soluzione 2: la prospettiva della laurea professionalizzante

La Conferenza si sta impegnando con forza per arrivare a costituire una laurea professionalizzante, eliminando quindi il tirocinio post-laurea connesso all’esame di abilitazione e consentendo ai futuri medici di ottenere l’abilitazione all’atto stesso dell’esame di laurea o con una prova immediatamente successiva all’esame di laurea stesso. Dato che, come argomentato sopra, la direttiva 2013/55/UE imporrà comunque una rimodulazione del percorso formativo, va valutato se questa non possa essere l’occasione propizia per introdurre modifiche più estese che consentano di raggiungere anche l’obiettivo della laurea professionalizzante.

In ogni caso appare necessario conservare il carico totale di 360 CFU, in quanto nelle premesse alla direttiva 2013/55/UE si precisa che (paragrafo 17) “per il completamento di un anno accademico sono di norma richiesti 60 crediti”. E’ inoltre opportuno evitare di modificare il DM 16 marzo 2007 (Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 9 luglio 2007 n. 155), relativo alla determinazione delle classi di laurea magistrale, che pone i seguenti vincoli:

– almeno 60 CFU per le attività di base

– almeno 180 CFU per le attività caratterizzanti

– almeno 12 CFU per le attività affini e integrative

– almeno 8 CFU per le attività a scelta dello studente

– almeno 60 CFU per attività professionalizzanti

Restano quindi liberi 40 CFU, che nel nostro attuale ordinamento sono stati utilizzati per la prova finale (18 CFU) e per espandere di 22 CFU il peso delle attività di base e caratterizzanti, che complessivamente ammontano quindi attualmente a 262 CFU.

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Per rispettare il vincolo delle 5500 l’unica possibilità è attribuire in ampia misura i 40 CFU “liberi” alle attività professionalizzanti, riducendo la quota destinata alla prova finale e fissando al minimo consentito i CFU delle attività di base, caratterizzanti, affini e integrative e a scelta dello studente (ovvero 60+180+12+8 = 260 CFU). Questa modifica servirebbe anche ad allineare l’Italia agli altri paesi europei, nei quali la durata delle attività pratiche sostanzialmente equiparabili al nostro tirocinio professionalizzante è superiore di oltre un anno5 (vd. Figura 1). In concreto questa soluzione prevede le seguenti tappe (nell’esempio indicato di seguito e riassunto nella Tabella 3 si ipotizza di fissare a 90 CFU il peso del tirocinio professionalizzante):

a) Modificare l’ordinamento come indicato nell’ipotesi di soluzione 1, ovvero rimodulando il numero di ore per CFU, e in aggiunta modificare i CFU nel campo “Altre attività formative (D.M. 270 art.10 §5)”, lasciando 8 CFU per le attività “a scelta dello studente”, riducendo da 18 a 10 i CFU “per la prova finale” e aumentando da 60 a 90 i CFU per le “ulteriori attività formative (tirocini professionali e di orientamento)”. In totale i CFU per il campo “Altre attività formative” diventano 108 contro gli attuali 86. Non è necessario modificare altri campi dell’ordinamento perché in riferimento alle attività di base e caratterizzante sono incluse delle forchette che consentono di intervenire a livello di regolamento, come indicato di seguito.

b) Adeguare i regolamenti dei singoli corsi di laurea. In questo caso oltre alle modifiche del rapporto fra numero di ore e CFU, identiche a quelle indicate per l’ipotesi di soluzione 1, occorre rimodulare la distribuzione dei CFU in tutti o quasi tutti i corsi integrati, per ottenere il seguente risultato globale:

Schermata 2015-01-19 alle 17.43.21

Ridurre al minimo consentito i CFU per le attività di base, caratterizzanti, affini e a scelta dello studente, ovvero in totale 260 CFU contro, gli attuali 282 CFU; per queste attività 1 CFU comporterebbe 12 ore di insegnamento, per un totale di 3120 ore.

Ridurre a 10 (dagli attuali 18) i CFU per la prova finale, con 1 CFU pari a 20 ore di insegnamento, per un totale di 200 ore.

Aumentare a 90 (dagli attuali 60) i CFU per il tirocinio professionalizzante, con 1 CFU pari a 25 ore di insegnamento, per un totale di 2250 ore.

c) In questo modo si ottiene un totale di 5570 ore di insegnamento nel corso di laurea, rispettando i requisiti delle direttiva 2013/55/UE senza necessità di tirocinio post-laurea. Naturalmente per modificare la normativa relativa all’abilitazione professionale occorrerebbe poi un specifico intervento legislativo, che potrebbe però essere completato anche dopo la scadenza del 18 gennaio 2016.

Conclusioni

L’attuale organizzazione dei corso di laurea magistrale in medicina e chirurgia non soddisfa completamente i requisiti indicati dalla direttiva 2013/55/UE, in quanto il numero di ore di insegnamento teorico e pratico è di poco inferiore al minimo di 5500 ore. E’ comunque possibile adeguarsi alla direttiva con alcune modifiche all’ordinamento e al regolamento del corso di laurea, senza richiedere interventi legislativi.

La soluzione più semplice comporta unicamente una variazione del numero di ore di didattica per CFU, fissandolo a 12 ore per la didattica frontale (nei corsi di laurea in cui questo già non accade), a 20 ore per la prova finale e a 25 ore per le attività professionalizzanti. Al di fuori di questa espansione del peso orario delle diverse attività, non sono necessarie modifiche al piano di studi.

La soluzione alternativa prospettata consentirebbe di attivare un percorso formativo che conduce alla laurea abilitante. In questo caso è necessario un aumento sostanziale dei CFU destinati alle attività professionalizzanti (da 60 a 90 nell’esempio delineato), con una parallela riduzione dei CFU assegnati alle attività di base e caratterizzanti. Si tratta di un intervento più complesso, perché occorre ripensare il piano di studi e rimodulare i corsi integrati per rispettare l’equilibrio fra i diversi ambiti disciplinari. L’esito finale sarebbe comunque una significativa riduzione dello spazio dedicato alla didattica frontale associato ad un aumento delle attività formative a impronta pratica e professionalizzante. Da un lato questo intervento ci avvicinerebbe realmente alla situazione europea, riequilibrando il rapporti fra formazione teorica e pratica 5,6. D’altro lato definire un nuovo piano formativo non è un compito semplice, in quanto richiede anche una effettiva revisione delle modalità di insegnamento e può suscitare resistenze da parte dei docenti che vedono ridurre il numero di CFU assegnati al proprio settore scientifico-disciplinare. Ricordiamo infatti che formalmente i CFU delle attività professionalizzanti non sono incardinati su specifici settori scientifico-disciplinari.

Alla luce di queste considerazioni la Conferenza permanente dei presidenti dei corsi di laurea in medicina e chirurgia ha avvito una riflessione per identificare una strategia comune da condividere fra tutti le sedi universitarie. La scelta deve essere compiuta in tempi brevi, in quanto, salvo deroghe ministeriali, la scadenza per le modifiche agli ordinamenti è fissata al 31 gennaio 2015.

Bibliografia

1) DM Decreto Legislativo 17-8-99 n. 368,  http://www.camera.it/parlam/leggi/deleghe/99368dl.htm

2) Direttiva 2005/36/CE, http://www.politichecomunitarie.it/file_download/691.

3) Direttiva 2013/55/UE, http://www.agrotecnici.it/Direttiva-55-CE.pdf

4) DM 19 ottobre 2001 n.445, http://www.miur.it/0006Menu_C/0012Docume/0098Normat/1300Regola.htm

5) Accorroni A, Zucchi R. Studiare medicina in Europa. Dai piani di studio all’esperienza sul campo. Med Chir 2014; 62:2783-2790.

6)     Lenzi A. Studiare medicina in Europa. Med Chir 2014; 62:2777.

Cita questo articolo

Zucchi R., Il Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia di fronte alla direttiva europea 2013/55/UE, Medicina e Chirurgia, 64: 2881-2887, 2014. DOI:  10.4487/medchir2014-64-2

Site visit 2013-2014 Il primo esercizio del secondo ciclo, stato dell’arten.64, 2014, pp.2888-2892, DOI: 10.4487/medchir2014-64-3

Abstract

The first repetition of the second course of the Site Visit Project by CPPCLMC is almost completed. It appears to be more agile and standardised than before and it will lead to the first internal provisional validation of the Italian  CLMMCs, within the CPPCLMC, on the basis of the requisites commonly accepted. Comparison and integration with the Site Visit Project by ANVUR is needed as far as official acceptance by MIUR in terms, also, of its recognition as possible instrument of teaching activity evaluation.

Articolo

Introduzione

Il progetto On Site Visit della CPPCLMMC ha voltato pagina ed è attualmente in corso il I esercizio del II ciclo (2013-2014). Come si ricorderà, questa iniziativa, insieme al Progress Test, rappresenta la testimonianza dell’impegno della Conferenza, e di tutti i corsi di laurea magistrale di medicina e chirurgia italiani, nella ricerca di sistemi di autovalutazione sempre più obiettivi e affidabili sulla qualità nella formazione della figura del medico. Il precedente ciclo di On Site Visit ha proposto e realizzato un metodo, sempre più affinato nel succedersi delle esperienze, per costruire un vero e proprio sistema di accreditamento basato sul rispetto di requisiti minimi realmente raggiungibili, proteso al continuo miglioramento dell’attività dei corsi tramite la progressiva eliminazione delle criticità e la condivisione delle eccellenze riscontrate e serenamente divulgate. Tale esperienza nel suo complesso ha permesso, in base alle simulazioni effettuate, di stilare i requisiti minimi per un possibile accreditamento e ha impegnato tutti i corsi di laurea a lavorare per il loro raggiungimento e mantenimento in modo “sostenibile”. Scopo di questo articolo è di illustrare lo stato dell’arte dell’esercizio attualmente in corso, a pochi mesi dal suo completamento, definendone le novità e le ambizioni che speriamo siano confermate ad esercizio concluso.

Metodologia e stato dell’arte

Il primo esercizio del secondo ciclo ha previsto, oltre le tre classiche fasi, una fase propedeutica basata sulla realizzazione di una simulazione di accreditamento (Fig. 1) concepita come confronto tra i risultati dell’ultimo esercizio effettuato e i requisiti minimi condivisi dalla conferenza (Tab. I).

Schermata 2015-01-20 alle 11.35.04

Schermata 2015-01-20 alle 11.35.29

Nel complesso l’esercizio si sta svolgendo in quattro distinte fasi:

una fase propedeutica in cui è stato comunicato ad ogni Presidente di CCLMMC il risultato della simulazione effettuata per il proprio corso (completata nella prima settimana di Dicembre 2013)

una prima fase in cui è stato compilato “on line”, da ogni Corso di Laurea, un questionario di autovalutazione, attualmente volto ad accertare soprattutto i requisiti condivisi, che è stato reso disponibile in tempo reale alla commissione di coordinamento centrale (periodo gennaio-marzo 2014); la commissione centrale, sta provvedendo di volta in volta a trasferire il questionario compilato alle commissioni che stanno effettuando le visite;

una seconda fase in cui le commissioni, costituite questa volta da un minimo di 2 componenti (due Presidenti di CLMMC in carica di cui uno, con funzioni di coordinamento, appartenente alla commissione centrale o alla task force e con possibilità di invitare un “Past President”) (Tabella 2), stanno effettuando le visite presso le sedi dei Corsi di Laurea (iniziate ad Aprile 2014 e attualmente in corso con completamento previsto per Dicembre 2014); in questo esercizio, accanto alla “check list” già utilizzata in passato che prevede i passi fondamentali da effettuare durante la visita stessa (Fig. 3), è stata predisposta anche una check-list per la verifica dei requisiti minimi e un modello per la stesura delle relazioni in modo da assicurare una certa omogeneità che le possa rendere comparabili;

Schermata 2015-01-20 alle 11.36.05

Schermata 2015-01-20 alle 11.36.23 Schermata 2015-01-20 alle 11.36.38

una terza fase in cui le commissioni stanno compilando e trasmettendo alla commissione centrale le relazioni conclusive su quanto riscontrato; anche per questa fase, come in passato, è stata prevista una “check list” (Fig. 4) con le stesse finalità di quella stilata per la fase II.

Un’importante novità di questo esercizio è rappresentata dall’avere inserito nel questionario una  parte atta a valutare le attività svolte nelle Aziende Sanitarie di riferimento dei CDL per compiere una prima simulazione su cosa succederebbe se si proponesse di variare il parametro Studenti/Pl, attualmente vigente, in un parametro studenti/attività assistenziale. Tale parte, che non è utilizzata ai fini dell’accreditamento dei corsi interno alla Conferenza, indaga, in sostanza indicatori quantitativi e qualitativi delle attività ambulatoriali e di ricovero che vengono svolte nelle Aziende Sanitarie di riferimento per arrivare a capire quali e quante sono al momento le attività assistenziali sulle quali sono costruite le attività professionalizzanti che i CLMMC erogano agli studenti

Nel complesso i Corsi di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia censiti tramite il questionario sono stati 49 e corrispondono a quelli attesi, che in realtà non sono perfettamente corrispondenti a quelli censiti nel precedente esercizio; infatti mentre in una sede è stato deciso di accorpare i 3 CDL presenti, in un’altra il processo di separazione in 3 corsi di laurea differenti dell’unico corso originario è stato ultimato. Per quel che concerne i CDL in lingua inglese, al momento, non essendo nessuno giunto al sesto anno di corso, si è deciso di non includerli nell’esercizio in corso. Attualmente sono già stati visitati 23 CDL e sono state programmate le visite per altri 11 (Fig. 5). Restano da programmare altre 15 visite per un totale di 26 CDL ancora da visitare.

Schermata 2015-01-20 alle 11.37.14

Considerazioni conclusive

Il processo di  trasformazione del Progetto Site Visit in un vero sistema di Accreditamento tra pari è ormai iniziato; nello specifico i requisiti minimi di accreditamento sono stati stilati e condivisi e le linee guida per il raggiungimento/mantenimento in tempi ragionevoli di tali requisiti sono state indicate. La simulazione di accreditamento sui dati già presenti e relativi al III esercizio del I ciclo, effettuata rispetto i requisiti minimi condivisi, ha dimostrato che la grande maggioranza dei corsi sarebbe già potenzialmente accreditabile ed ha indicato ad ogni singolo corso i propri punti di debolezza. Il I esercizio del II ciclo di Site Visit è stato concepito in modo da essere più agile e strutturato in termini di standardizzazione delle procedure e con finalità di Accreditamento interno alla Conferenza che, in prima applicazione, si considererà raggiunto in modo provvisorio con il raggiungimento di almeno l’80% dei requisiti minimi. Una criticità nel prossimo futuro per mantenere il raggiungimento dei requisiti minimi sarà sicuramente rappresentata dalla necessità di adeguare i requisiti strutturali alle repentine fluttuazioni del numero degli studenti, il rispetto della cui programmazione è nei fatti continuamente inficiato dall’accoglimento, da parte della magistratura, dei ricorsi circa presunte irregolarità del test di accesso. Si ritiene che il completamento ormai prossimo dell’esercizio in corso potrà fornire un importante quadro della situazione dei CLMMC anche in vista dell’avvio delle Site Visit dell’ANVUR con le quali è necessario un processo di reale integrazione. In questo senso sembra sempre più indispensabile puntare ad una legittimazione ministeriale del programma delle Site Visit della CPPCLMMC sia in termini di ufficializzazione dello stesso, sia anche ai fini del suo riconoscimento quale strumento di valutazione della didattica relativamente alle strutture coinvolte (Atenei, Facoltà, Dipartimenti).

Ringraziamenti

Si ringraziano i colleghi Presidenti di tutti i CLMMC per la fattiva collaborazione. Un particolare ringraziamento va ai componenti della commissione centrale, Francesco Romanelli e  Riccardo Zucchi, e alla task force costituita da Raffaele De Caro, Luigi Demelia, Pietro Gallo e  Bruno Moncharmont grazie ai quali anche questo esercizio sta arrivando a conclusione.

Bibliografia

Cita questo articolo

Della Rocca C., Lenzi A., Site visit 2013-2014 Il primo esercizio del secondo ciclo, stato dell’arte, Medicina e Chirurgia, 64: 2888-2892, 2014. DOI:  10.4487/medchir2014-64-3

Il Progress Test 2013n.64, 2014, pp.2893-2900, DOI: 10.4487/medchir2014-64-4

Abstract

The Progress Test (PT) is a particular type of examination that recognizes particular and distinctive characteristics such as: (a) students cannot specifically study for the test but can only prepare to take the exam by continuously following and studying their individual courses on a day- by-day basis and (b) the PT covers subject matter that spans the entire 6 years of study. These two characteristics allow for the opportunity (a) to assess students’ accumulated knowledge at any particular time in the course of their studies, and (b) to evaluate their analytical and reflective abilities. The use of this powerful tool goes beyond the simple evaluation of a single medical-related discipline or subject; rather, it concentrates on the overall objectives of the entire 6 year medical curriculum by focusing on how knowledge is integrated and used in an holistic manner.

In 2013, 17,486 medical students from 37 Italian Medical Schools took the PT for the eight year in a row. The students who participated spanned the full 6 years of the Italian medical curriculum. As usual, the exam was administered in the month of November which is close to the beginning of the academic year.  The test was composed of 300 questions equally divided between the Basic and Clinical Sciences, with each section administered over a 3-hour period for a total of 6 hours of examination time.

An analysis of the current results can best be understood by comparing them with those of previous PT’s. The data presented tend to give an overall idea of both the national as well as local outcomes.   Although the results may tend to be thought of as reflecting the progressive acquisition of knowledge and the learning outcomes of our students, underneath it all, they may in reality, be reflecting our teaching methods and content delivery.  Data obtained from consecutive PT’s have been very useful to better understand the principal objective of the PT which is to continuously improve both the learning abilities of our students, as well as the teaching qualities of our professors.

Articolo

Introduzione

Il 13 novembre 2013 è stato condotto in molte Facoltà di Medicina e Chirurgia Italiane l’ottavo Progress Test (PT). Il PT rappresenta un metodo essenziale per la valutazione del miglioramento e del mantenimento, durante i sei anni di corso, delle conoscenze che porteranno poi al raggiungimento della competenza professionale distintiva del laureato in Medicina e Chirurgia.

Schermata 2015-01-20 alle 12.08.04

Il PT  com’è noto, è adesso incorporato nel curriculum medico di diverse Università americane ed europee. Una delle sue caratteristiche peculiari è rappresentata dal fatto che lo studente non può “prepararsi per il PT”, nel senso che non ha indicazioni preliminari sulle domande che saranno somministrate, ma conosce soltanto gli ambiti disciplinari sui quali saranno sviluppate le domande.  Altra caratteristica peculiare è quella che il risultato e la valutazione del PT sono basati solo sulla capacità dello studente di acquisire e ritenere le conoscenze riguardo agli obiettivi del curriculum formativo globale e non del singolo corso integrato.

Schermata 2015-01-20 alle 12.08.21

Negli ultimi otto anni nelle Facoltà di Medicina e Chirurgia italiane, il PT, come riportato nella Tab. 1, è stato sempre svolto nel mese di novembre.

Nel 2006 parteciparono il 55% delle Facoltà in Medicina e Chirurgia (25 dei CLMMC attivi); nel 2013, ottavo anno di PT, il 73% (37 dei 51 CLMMC attivi).

Il quarantotto CLMMC (il 94% del totale) avevano inizialmente aderito, ma ben 11, per motivi organizzativi, non hanno potuto partecipare.

E’ da segnalare che nel corso di questi otto anni di osservazione soltanto un Corso di Laurea non ha mai partecipato al PT.

Metodi e Risultati

Come negli scorsi anni il PT è stato composto da 300 domande a scelta multipla, con una sola risposta giusta sulle cinque proposte. Le prime 150 domande relative alle Scienze di base sono somministrate in tre ore nel corso della mattina del giorno prescelto; le successive 150, inerenti le Scienze cliniche, nel pomeriggio.

Nella Tab. 2, viene riportato il numero delle domande per aree disciplinari.

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Coinvolgimento dei diversi anni di corso

Il 73% dei corsi di Laurea ha somministrato il PT in tutti i sei anni di corso.

La Fig. 1 riporta il numero di anni di corso coinvolti negli otto anni in cui si è svolta l’esperienza.

Schermata 2015-01-20 alle 12.08.57

Fig. 1

Come si può notare dal 2006 ad oggi si è osservato un coinvolgimento sempre più numeroso di tutti gli anni di corso, con un aumento significativo (+17%) soprattutto al primo anno.

In particolare, dei 37 CLMMC, 28 hanno condotto il test a 1° anno, 34 al 2° anno, 35 al 3°, 35 al 4°, 36 al 5° e 35 al 6° anno per un totale di 203 anni accademici. E’ evidente come quasi tutti i corsi tranne due abbiamo somministrato il PT dal 3° al 6° anno consentendo una elaborazione interna del PT e non solo nazionale.

Nonostante la mancanza di 11 CLMMC, inizialmente aderenti, la numerosità totale degli studenti partecipanti è stata simile a quella registrata nel 2012 (17486 vs. 18687, -6%) quando i CLMMC partecipanti erano 41.

La partecipazione al Progress test, che è attualmente su base volontaria in quasi tutte le sedi, dimostra incrementi in anni di corso peculiari. Infatti proprio all’inizio del percorso di studi, ossia al primo anno, si è osservato (Fig. 2) un incremento del 9%, rispetto all’anno precedente ed alla fine del percorso, ossia al 6° anno, un incremento ancora più ragguardevole.

Schermata 2015-01-20 alle 12.09.19

Fig. 2

Da questo si evince come pian piano i nostri studenti comincino ad avvertire l’importanza di questa sperimentazione. Se si considera che nell’esercizio 2006, si poteva contare su una popolazione di poco più di 3000 studenti, nell’ottavo anno di esercizio tale popolazione si è quasi sestuplicata.

Infatti, come si osserva nella fig. 3, la partecipazione degli studenti rispetto a quella attesa è stata,  in questo ultimo anno di esercizio intorno al 54%.

Schermata 2015-01-20 alle 12.09.31

Fig. 3

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Fig. 4

 

La figura 4 confronta l’esercizio 2012 con quello del 2013 mostrando che anno dopo anno si conferma che la partecipazione si aggira sempre tra il 50 ed il 60% per gli anni centrali del corso di studi e si intensifica nel primo e nel sesto anno.

Analisi dei risultati per anno di corso

Nella figura 5 è riportato il numero dei partecipanti alle due tipologie di esame (Scienze di Base e Scienze Cliniche).

Schermata 2015-01-20 alle 12.09.57

Fig. 5

Quest’anno, si è osservata una leggera tendenza alla maggiore partecipazione ai test concernenti le Scienze di Base anche se con minime differenze.

Questo potrebbe riflettere la difficoltà di una piccola percentuale di studenti a sostenere nella stessa giornata, il test relativo alle Scienze di base al mattino e quello delle Scienze cliniche nel pomeriggio.

Considerando la media della percentuale delle risposte corrette di tutti gli anni (Fig. 6) e confrontandola con quelle ottenute nel 2012 e nel 2011 (anno quest’ultimo in cui non fu coinvolto il primo anno di corso), si osserva un incremento della media nel 2013 rispetto al 2012 e una sovrapposizione di dati rispetto al 2011.

Schermata 2015-01-20 alle 12.10.09

Fig. 6

Schermata 2015-01-20 alle 12.10.22

Fig. 7

Prendendo in considerazione il dettaglio per singolo anno di corso (Fig. 7, barre in bianco) in relazione alle Scienze di Base, il PT 2013 ci ha mostrato che per il primo anno la media delle risposte giuste è simile a quella del 2012, mentre dal II al VI anno è sempre più alta del 4-6% rispetto a quella rilevata nel 2012.

Inoltre, guardando il grafico riportato nella figura 8, è evidente la progressione del numero delle risposte giuste dal primo al sesto anno di corso a riprova della capacità di mantenimento ed incremento negli anni delle nozioni di base.

Schermata 2015-01-20 alle 12.10.35

Fig. 8

Per quanto riguarda invece le Scienze Cliniche, si è messo in evidenza un deciso divario rispetto al 2012, con una media del 22,5% (DS: 9,3%) rispetto al 31.6% (DS: 15.6%) del 2012.

Questo comportamento, che appare evidente nella figura 9, è presente in tutti gli anni di corso analizzati, seppur esista un incremento medio passando dal triennio pre-clinico a quello clinico.

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Fig. 9

Al momento della stesura di questo articolo non sono attualmente disponibili i dati relativi alle percentuali delle risposte esatte, stratificate  per aree disciplinari nei sei anni del corso di laurea.

Analisi dell’incremento delle competenze al sesto anno suddivisi per CLMMC

L’analisi molto puntiforme, relativa alla valutazione delle competenze al sesto anno è riportata nella figura 10.

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Fig. 10

I vari CLMMC sono indicati con un numero progressivo per cui è impossibile individuarli. Tuttavia, com’è estrapolabile dalla figura, comportamenti particolarmente anomali sono presenti soltanto in alcuni casi. Vi è poi da segnalare che vi è un corso di laurea (n° 7) nel quale la media delle risposte sia delle scienze di base che di quelle cliniche è bassissima rispetto a quella nazionale riscontrata al sesto anno. Vi sono infine corsi di laurea, dove la media delle risposte alle scienze di base supera notevolmente la deviazione standard.

Dati più dettagliati su questi otto anni di sperimentazione, presentati ad una Special Conference del Congresso internazionale dell’AMEE, tenutosi a Milano dal 30 Agosto al 3 settembre, verranno commentati successivamente da Alfred Tenore.

Conclusioni

Il PT 2013 ha mostrato un aumento significativo del numero di studenti, più evidente per quelli  iscritti al primo e al sesto anno di corso, malgrado l’assenza, all’ultimo momento, per problemi organizzativi, di ben 11 corsi di laurea.

Questo probabilmente è dovuto alla capacità degli studenti e dei docenti di aver finalmente compreso il significato del PT.

Siamo quindi fiduciosi che anche nei Corsi di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia in Italia, il PT possa rappresentare un test affidabile nella valutazione delle conoscenze acquisite durante il corso di laurea. Partecipare al PT è per lo studente uno strumento per migliorare la propria formazione e per il Corso di Laurea un mezzo per migliorare l’iter educativo (assessment drives curricular improvements).

Dopo otto anni di applicazione la CPPCLM&C è fiduciosa che il PT, nei Corsi di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia in Italia, rappresenti un test affidabile per la valutazione delle conoscenze acquisite durante il corso di laurea, tanto che nel 2010 ha proposto al MIUR che, a valle dei sei anni, l’ultimo PT divenga una delle due tappe dell’esame di abilitazione (settimo PT), accanto alla valutazione delle abilità professionali.

Tale ipotesi è divenuta una realtà (una Commissione ad hoc è stata costituita) ed anche una necessità, alla luce dei ben noti risultati dell’esame di abilitazione che ogni anno non riescono a discriminare la preparazione dei nostri laureati con percentuali di abilitati che si avvicinano al cento per cento dei valutati.

Bibliografia

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3) Tenore A. (2010). Il Progress Test- Considerazioni e speranze per il futuro delle Facoltà di Medicina Italiane. Med Chir 49; 2123-2130.

4) Recchia L, Moncharmont B. Elaborazione dei dati relativi al nuovo Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi del Molise. I risultati del Progress Test. Med Chir 51, 2237-2242.

Cita questo articolo

Tenore A., Basili S., Lenzi A., Il Progress Test 2013, Medicina e Chirurgia, 64: 2893-2900, 2014. DOI:  10.4487/medchir2014-64-4

Sassi e stelle. Idee sull’inter-professionalità al margine del Congresso SIPeM 2014n.64, 2014, pp.2905-2906, DOI: 10.4487/medchir2014-64-6

Abstract

The 17th National Congress of the Italian Society for Medical Education (SIPeM) was held in Matera, September 25th-27th and was devoted to “Rethinking the clinics: education to caring and inter-professional education”. The discussion during the sessions showed how difficult still is to manage the concept of inter-professional practice and education. The fundamental starting point is the awareness and the acceptance of the diverse epistemology underlying the various professional points of view on care.

The adoption of a competency-based educational design is a good  first step in the direction of a closer integration of the educational processes of the various professions of care. It is a huge change and the process of change management must be carefully considerate, across a set of steps addressed toward a medium term goal. The way the city of Matera has changed along the centuries and the way a sea star moves and hunts, slowly and sensitive to the environment, may be a good metaphor of this process.

Articolo

Se i “Sassi” nel titolo di questo commento al 17° Congresso nazionale della SIPeM, appena concluso, fanno ovvio riferimento a Matera, la città piena di fascino che ha ospitato l’evento, forse è meno immediato capire di quali “stelle” io stia parlando. Non degli astri notturni ma delle stelle marine, animali enigmatici ed eleganti con la loro simmetria pentagonale. Quello che pochi sanno è che le stelle marine non hanno praticamente predatori naturali ma loro stesse sono tra i predatori più voraci dei nostri mari. Si nutrono di crostacei e conchiglie che afferrano tra le braccia, esercitando una trazione lenta ma continua e per questo poderosa, in grado di sfiancare il più potente muscolo opercolare di qualsiasi vongola o mitilo.

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Quando – a congresso concluso – ho lasciato vagare la mente per sondare le mie sensazioni, è emersa questa curiosa associazione di immagini, che vi consegno, con queste brevi riflessioni. Matera e le stelle marine condividono la stessa impressione di organismi che vengono da epoche remote, rocciosi, immobili. Se le conosci meglio, la città e l’animale, ti accorgi che in realtà si muovono ad un loro ritmo sapiente, adeguate perfettamente al loro ambiente. Matera ha saputo trasformare la “vergogna nazionale” dei due quartieri Sassi (come la chiamò non senza qualche ragione De Gasperi nel ‘52) in patrimonio mondiale UNESCO dell’umanità, la stella striscia silenziosa sui fondali e sugli scogli, palpando instancabile coi pedicelli in cerca di granchiolini e bivalve da divorare, al tempo stesso feroce e delicatissima. Non ha infatti alcun sistema di filtraggio dell’acqua e assimila qualsiasi tossina sia presente nel suo ambiente.

Il tema al centro della riflessione congressuale quest’anno era molto ambizioso: “Ridiscutere la clinica: formazione alla cura e inter-professionalità” e l’intensità che spesso ha raggiunto la discussione  nei momenti assembleari ha testimoniato la difficoltà dell’impresa e la necessità di affrontare e continuare ad approfondire l’argomento.

Non è stato sempre facile, anche nei laboratori e nella presentazione dei poster e delle comunicazioni orali, mantenere il fuoco sull’inter-professionalità come punto di vista privilegiato sui processi di formazione alla cura. E’ pur vero che SIPeM è una società inter-professionale per natura, che raccoglie al suo interno medici di ambiti disciplinari diversi, infermieri, fisioterapisti, psicologi, pedagogisti e tante altre figure. Ciò potrebbe indurre a ritenere che la visione inter-professionale emerga quasi spontaneamente, ma non è così. I processi cognitivi e formativi sono intenzionali ed anche quella forma particolare di apprendimento implicito che va sotto il nome di “hidden curriculum” in realtà origina da sistemi di significato forse non pienamente presenti alla coscienza ma profondamente radicati nel nostro essere, specie professionale. Quando nei comportamenti e negli atteggiamenti qualcuno testimonia un modello di ruolo o una epistemologia professionale (ad esempio quella della dominanza ed auto-sufficienza medica), li “vuole” proporre all’imitazione delle persone che sta formando. Se quella persona venisse interrogata a proposito, riaffermerebbe quel ruolo e quel pensiero nelle parole, anche se ciò di solito non viene fatto spontaneamente, per il timore di entrare in contrasto con la visione “ufficiale” che le istituzioni formative hanno dei valori e dei modelli teorici tipici delle diverse professioni.

Infatti, è proprio il pensiero ufficiale dei professionisti sanitari che afferma il valore dell’inter-professionalità. Solo per citare le due comunità più ampie, l’articolo 66 del nuovo codice di deontologia dei medici recita: ”Il medico si adopera per favorire la collaborazione, la condivisione e l’integrazione fra tutti i professionisti sanitari coinvolti nel processo di assistenza e cura, nel rispetto delle reciproche competenze, autonomie e correlate responsabilità. Il medico sostiene la formazione inter-professionale”, mentre l’articolo 15 del codice di deontologia degli infermieri afferma che: “L’infermiere riconosce che l’interazione fra professionisti e l’integrazione interprofessionale sono modalità fondamentali per far fronte ai bisogni dell’assistito.”

Nonostante quindi l’inter-professionalità sia nel DNA della SIPeM e sia valore ufficiale condiviso delle professioni di cura, l’esperienza del congresso 2014, così come quella della realtà assistenziale che molti di noi vivono quotidianamente, ci ricorda quanto sia difficile mutare atteggiamenti e accettare punti di vista professionali diversi. Se qualche volta lavorare insieme significa solo essere collaterali o coadiutori, la vera essenza dell’inter-professionalità in realtà è questa: riconoscere che una “diagnosi infermieristica” ha una propria epistemologia, che la rende originale e legittima esattamente come una “diagnosi medica”, anche se sono due cose diverse, e comprendere come ciò migliora il proprio lavoro. Lo stesso discorso si potrebbe fare anche dell’interazione inter-disciplinare, che così spesso vede contrapposti medici dell’ospedale e del territorio, della cronicità e dell’acuzie, dei servizi e della gestione clinica.

Tornano a questo punto utili le lezioni che i Sassi e le stelle marine possono offrirci: presenza e impegno umile ma caparbio, apparentemente tetragono ma in realtà sensibilissimo all’ambiente in cui si opera. Non possiamo infatti ignorare le “tossine” sociali del diffuso atteggiamento individualista, l’accondiscendenza a modalità di pensiero molto superficiale, la scarsa propensione alla fatica e il ridotto senso etico che – come gli inquinanti marini – pervadono il nostro ambiente formativo provenendo dal “grande mondo” esterno. Sono elementi ineludibili del problema educativo che fronteggiamo tutti i giorni e non pre-condizioni da rimuovere e che – se non rimosse – ci impediscono di lavorare o peggio giustificano il disimpegno. Occorre sporcarcisi le mani e sviluppare resilienza (non a caso uno dei laboratori del congresso era dedicato proprio alla resilienza).

La società e gli organismi professionali chiedono a gran voce agli operatori della salute di lavorare come squadra. I Corsi di Laurea devono fare la loro parte, con una introduzione lenta, sapiente ma continua di innovazione, un metro cubo di calcare scavato alla volta – come nei Sassi – una valva aperta alla volta, come fanno le stelle marine. I presidenti di CL sono spesso forzatamente appiattiti sulla contingenza, come il resto di questo nostro paese in perenne emergenza, ma noi siamo educatori: non perdiamo la bussola di un orientamento strategico di medio periodo!

Mi permetto quindi in conclusione di indicarvi la progettazione formativa per competenze, in un’ottica inter-professionale, come meta da non perdere di vista. Se poi la fatica vi sembra avere la meglio, avete sempre la Conferenza e gli eventi SIPeM per ritemprare le energie e il morale.

Cita questo articolo

Consorti F., Sassi e stelle Idee sull’inter-professionalità al margine del Congresso SIPeM 2014, Medicina e Chirurgia, 64: 2905-2906, 2014. DOI:  10.4487/medchir2014-64-6

La Scuola di Melli Zanussin.64, 2014, pp.2907-2912

Dopo tanti anni di esperienza di medicina e di università credo di essermi chiarito il concetto di “Scuola” in ambito accademico. Questa non è tanto legata alle opportunità intellettuali e di affermazione personale che un professore autorevole può offrire ai suoi allievi, che è pure importante, ma è soprattutto consistente nella trasmissione di uno stile di pensiero e di una specie di ispirazione di fondo che un caposcuola sa comunicare. In questo senso le scuole mediche italiane non possono essere circoscritte a singole personalità, ma si sono svolte nel tempo con la successione di maestri e allievi che, a loro volta, divenivano maestri, stabilendo ramificazioni con una continuità che ancora dura. In questo senso io ho avuto la fortuna di essere inserito in una delle più prestigiose scuole italiane, quella di Orsi, Grocco, Frugoni, Melli e Zanussi.

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Questo accadde per caso quando da studente feci l’esame di Patologia Generale. A differenza dei più, io avevo scelto gli studi medici non pensando di fare il clinico, ma desideroso di dedicarmi alla ricerca di base.  Perciò ambivo a frequentare come studente interno l’Istituto di Patologia Generale, allora diretto dal professor Pietro Rondoni, accademico pontificio, direttore scientifico dell’Istituto dei tumori di Milano, autore del più rinomato testo di Biochimica di quei tempi e di un’opera originale (che ancora conservo) intitolata “Il cancro”.

Ma mi era stato detto che Rondoni accettava studenti interni solo dopo che avessero sostenuto l’esame di Patologia Generale e avessero preso trenta.  Io ero fiducioso dato che avevo riportato questa votazione in quasi tutti gli esami sostenuti, ma mi sbagliavo perché all’esame con Rondoni presi solo ventotto.

Perciò rinunciai alla Patologia Generale e feci domanda d’internato e fui accettato in Patologia Medica, senza sapere bene in che cosa differisse da quella Generale. Fu così che si decise tutto il mio avvenire perché, ai miei primi contatti con gli ammalati, capii che non potevo che fare il clinico. Ma questa è un’altra storia e il fatto importante è che così feci le mie prime armi in una delle più prestigiose scuole mediche italiane, alla quale dovevo restare legato per tutto il resto della mia carriera. So molto di questa scuola grazie a un libro, “Ricordi e incontri”, che Cesare Frugoni pubblicò nel 1974, quando aveva 93 anni, e che io recensii, senza firmarmi, sulla rivista Tempo Medico. La recensione gli piacque tanto che egli volle sapere il nome dell’autore e poi mi scrisse una gentilissima lettera di ringraziamento, alla quale io risposi dichiarandomi, come allievo di un suo allievo, un suo nipote scientifico, e questo fu l’inizio di un breve scambio epistolare che io ricordo con un certo orgoglio.

Capostipite della scuola fu Francesco Orsi di Pavia (1828-1909), studioso di semeiotica fisica cardiaca, che dette, insieme al suo allievo Pietro Grocco (1856-1916) , clinico medico di Firenze, il nome a un segno ottenibile con la percussione, detto anche del cappuccio di Grocco, per riconoscere la dilatazione dell’atrio sinistro, segno che credo che nessun medico odierno, io per primo, sarebbe in grado di cogliere. Ma a quei tempi  non esisteva alcun mezzo strumentale per studiare il cuore e i medici supplivano con dei virtuosismi di semeiotica  che sono andati perduti.

Come si è visto, l’origine della scuola è cardiologica, ma l’indirizzo che doveva prevalere in seguito fu dato proprio da Cesare Frugoni, uno degli allievi di Grocco che ne continuò la scuola prima a Padova e poi a lungo e con grande successo  a Roma (gli altri allievi di Grocco che occuparono cattedre di prestigio furono Raffaello Silvestrini a Perugia e Pio Bastai a Torino). Fu Frugoni che per primo si avventurò, per quanto i suoi tempi lo consentissero, sul terreno dell’immunologia, arrivando addirittura a pensare ai trapianti,  come risulta dal suo libro già citato. Ma, in realtà, più che ai trapianti pensava all’allergia.

Infatti, a quei tempi, la moderna immunologia doveva ancora nascere e l’allergia era il territorio sul quale si appuntavano prevalentemente le curiosità scientifiche dei precursori di questo settore del sapere medico. In Italia se ne era occupato Cesare Frugoni, che già nel 1935, insieme a Giuseppe Sanarelli e Amilcare Zironi, aveva fondato la prima rivista europea di allergologia, i “Quaderni dell’allergia”. In seguito, era stata creata l’ “Associazione italiana per lo studio dell’allergia”, con presidente Zironi e vice-presidente Guido Melli, l’allievo di Frugoni che sarebbe stato il maestro di Carlo Zanussi e mio, e successivamente la “Società Italiana di Allergologia” con presidente onorario Frugoni, presidente Antonio Lunedei e segretario Serafini. Melli fu presidente della società dal 1965 al 1968, quando questa cambiò nome e divenne la  “Società Italiana di Allergologia e Immunologia Clinica”. In seguito fu il primo presidente della “Società Italiana di Immunologia e Immunopatologia”.

Ma Frugoni fu anche un protagonista negli altri campi della medicina interna, e fu un clinico di grande successo che si occupò della salute di vari personaggi illustri, e fu all’origine di una notevole ramificazione della sua scuola, mettendo in cattedra allievi di grande spessore, come (in ordine alfabetico) Virgilio Chini a Bari, Mario Coppo a Modena, Giuseppe Giunchi a Roma, Aldo Luisada a Chicago, Flaviano Magrassi a Napoli, Gino Meldolesi a Palermo, Guido Melli a Milano, Mariano Messini a Roma, Umberto Serafini a Firenze.

Ma torniamo alle mie esperienze come neofita alla scuola di Melli. A quell’epoca (anno accademico 1950-1951) il mio futuro maestro, nato nel 1900, era da poco tempo a Milano. In realtà era già divenuto, quando non ancora aveva 40 anni, professore ordinario di Patologia Medica all’Università di Parma, e ne era stato scacciato nel 1938 in seguito alle leggi razziali del regime fascista, dato che era ebreo. Aveva trascorso gli anni seguenti parte in Italia, lavorando per un’industria farmaceutica, e poi in Svizzera durante il periodo dell’occupazione tedesca. Ora i suoi diritti gli potevano essere restituiti. Ma il suo posto a Parma era già stato occupato da un altro valente collega, perciò fu una buona occasione che si fosse resa disponibile una cattedra di Patologia Medica a Milano dove alla fine fu chiamato.

Vale la pena di ricordare la storia di questa cattedra. L’Università statale di Milano era giovane, essendo stata fondata dal ginecologo Mangiagalli nel 1928. Inizialmente il clinico medico era Luigi Zoia e il patologo medico Domenico Cesa Bianchi, poi, con il pensionamento di Zoia, Cesa Bianchi era divenuto clinico medico e in Patologia Medica era stato chiamato Luigi Villa. Intorno al 1945 o poco dopo Cesa Bianchi fu colpito da un ictus che lo costrinse a lasciare il servizio. Questo rese, per così dire, orfani i suoi allievi e in modo particolare quelli che ambivano a divenire professori ordinari, in modo particolare Marcello Cellina ed Enrico Poli. Villa divenne infatti clinico medico, condusse con se i suoi allievi e dirottò quelli di Cesa Bianchi (tranne Cellina che divenne primario a Monza) sulla Patologia Medica , che era la cattedra sulla quale era stato chiamato Melli.

Perciò, quando io misi piede nell’istituto diretto dal mio futuro maestro, la scuola vera e propria doveva ancora concretizzarsi. Convivevano, infatti, nella stessa sede allievi  delusi di Cesa Bianchi con altri colleghi che avevano seguito Melli provenendo da altre università. Da Parma era venuto il primo aiuto, Cesare Bartorelli, che era nato fisiologo, ma si era convertito alla clinica studiando l’ipertensione arteriosa e aveva appena tenuto, insieme a Melli,  su questo argomento una relazione al Congresso di  Medicina Interna. Bartorelli aveva una notevole personalità ed era destinato a una brillante carriera, divenendo nel 1956 ordinario di Patologia Medica all’ università di Siena, e poi, 10 anni dopo, tornando a Milano per occupare il posto reso vacante quando Melli si trasferì in Clinica Medica in seguito al passaggio fuori ruolo di Villa. In queste sedi fondò una vera e propria nuova scuola caratterizzata da un’impronta, per quei tempi nuova e originale, di interpretazione fisiopatologica della clinica. Bartorelli, a sua volta, mise in cattedra numerosi suoi allievi: prima Alberto Zanchetti e Arnaldo Libretti, entrambi destinati alla Clinica Medica a Milano, e poi altri, tra i quali mi piace ricordare, in Patologia Medica, Alberto Malliani, al quale, purtroppo prematuramente scomparso, sono stato legato da amicizia personale e da una specie di sintonia intellettuale.

La partenza di Bartorelli per Siena, tuttavia, non fece scomparire nel nostro istituto il nucleo di ricerca cardiologica che egli aveva fondato, che fu mandato avanti con successo da Giuseppe Folli, a sua volta destinato a divenire ordinario di Patologia Medica, prima a Milano, e poi alla Università Cattolica a Roma, dove successivamente passò alla Clinica Medica.

Altri due collaboratori di Melli, Vincenzo Grifoni e Carlo Zanussi, provenivano da Roma ed erano originariamente allievi di Frugoni. Grifoni s’interessava di Ematologia e trascorse un certo periodo a perfezionarsi negli Stati Uniti. Era un bravo clinico e un accurato ricercatore, ma era di una pignoleria leggendaria. Scherzando, non senza sfumature maligne, si diceva che un suo stretto collaboratore era stato valorizzato perché faceva bene la punta alle matite. Io stesso posso testimoniare che, dovendo inviare insieme una lettera a Lancet, iniziammo dedicando non poco tempo alla scelta della carta su cui scrivere. Ma, al di là di certe singolarità caratteriali, Grifoni era certamente di eccezionale cultura e con aperture al futuro che a quei tempi pochi coltivavano.  Io stesso gli sono debitore per avermi indirizzato allo studio dei linfociti, che nel 1960 Nowell aveva scoperto non essere cellule terminali, ma capaci di trasformarsi in blasti e moltiplicarsi sotto varie sollecitazioni, tra le quali la più popolare era la fitoemagglutinina. Era la nascita della moderna immunologia e gli studi sui linfociti dovevano segnare il passaggio dei miei interessi scientifici dalla ematologia alla immunologia clinica, un campo al quale, da allora in poi, sono rimasto fedele. Devo pure a Grifoni di essere stato iniziato allo studio della statistica. Oggi, che la Statistica viene studiata di regola in tutti i corsi di Medicina, questo mio ricordo può sembrare sorprendente, ma a quei tempi nessuno teneva corsi di questa disciplina e la ricerca clinica era più qualitativa che quantitativa. Grifoni invece me ne parlò e mi suggerì lo studio del testo americano di Snedecor e Cochrane, che per qualche anno fu la mia Bibbia.

Grifoni divenne poi, prima professore ordinario di Patologia Medica a Cagliari, e poi di Clinica Medica a Genova, e venne a mancare improvvisamente poco prima di lasciare per anzianità questa cattedra.

Ma il vero continuatore della ispirazione originale di Frugoni e Melli fu Carlo Zanussi, che fondò nel nostro istituto un nucleo vivacissimo di ricercatori che aveva per tema l’allergia.  Questo gruppo fu molto attivo e si distinse per l’originalità di molte ricerche e per la anticipazione di molti temi della moderna immunologia clinica che, nel frattempo, si stava affermando. Avrebbe poi incluso varie personalità importanti per la immunologia italiana, come Domenico Mazzei, Fulvio Invernizzi, Sergio Del Giacco, Roberto Cattaneo e Claudio Ortolani. Anche personaggi destinati a posizioni di rilievo in altre specializzazioni fecero le prime armi in quel gruppo, come l’oncologo Gino Luporini e gli infettivologi Mauro Moroni e Francesco Milazzo. Purtroppo, Mazzei nel 1979, poco più che cinquantenne, e Invernizzi nel 2007 ci hanno lasciato. Il primo era divenuto ordinario di Immunologia Clinica della Università di Milano e il secondo ordinario di Patologia Medica sempre della stessa università.

Nel 1965 Zanussi vinse un concorso di professore ordinario di Malattie Infettive alla Università di Sassari e si allontanò da Milano con Moroni, che lo seguì in Sardegna. Doveva ritornare a Milano pochi anni dopo, prima come professore di Malattie Infettive e poi di Semeiotica Medica e infine, nel 1971, come professore di Patologia Medica ed erede della scuola fondata dal suo maestro Melli e da lui stesso resa tanto importante e attiva. In seguito sarebbe stato Clinico Medico e con questa qualifica sarebbe andato fuori ruolo nel  1995. Quando, tre anni dopo, andò in pensione, fu nominato professore emerito della Università di Milano.

Vorrei, a questo punto, dire qualcosa di Melli con il quale ebbi molta consuetudine fin da giovanissimo, essendo stato per molti anni uno dei due assistenti addetti al Reparto Solventi (nulla a che vedere con la chimica, in questo caso i solventi erano quelli che pagavano il ricovero), dove il direttore, come allora lo si chiamava, veniva a giorni alterni a visitare i pazienti ricoverati.

Melli era molto alto e, pur non essendo grasso, aveva una figura imponente. Portava i capelli grigi pettinati a spazzola, dei semplici baffi e aveva degli occhi azzurri, apparentemente freddi, ma che io ho visto inumiditi di lacrime al letto di qualche caso pietoso. Era chiuso e molto riservato, tutto quello che si sapeva di lui era che viveva semplicemente con sua moglie e che non avevano figli. Pur avendolo frequentato molto, mi è difficile dire se avesse interessi culturali extramedici: una sola volta in un suo discorso nominò Ernst Mach, che allora conoscevo solo come fisico e non ancora come filosofo. Questo mi fa pensare che avesse una solida cultura umanistica, ma non la esibisse, in accordo con il suo temperamento. Era un grande gentiluomo e trattava con la stessa cortesia una nobildonna nel reparto Solventi e una contadina in un reparto comune, e questo in un’epoca nella quale spesso i medici davano del tu ai ricoverati, indipendentemente dall’età e dal sesso.

Si diceva che non era sempre stato tanto chiuso e riservato, ma anzi che in gioventù fosse stato vivace e amante soprattutto di automobili veloci, una passione che non doveva essergli passata del tutto anche ai miei tempi, se è vero che suscitava le ambasce del prudente Bartorelli quando quest’ultimo doveva salire su un’automobile guidata dal suo capo.   Ma si diceva anche che era cambiato dopo gli anni di persecuzione razziale. In effetti era nato a Ferrara, dove esisteva un’importante comunità israelitica, eternata nei suoi romanzi da Giorgio Bassani. Probabilmente il suo ambiente originale era quello descritto nel “Giardino dei Finzi-Contini”, per fortuna con esiti meno tragici, ma sempre tanto drammatici da segnare un uomo per sempre.

Era certamente un grande clinico. Quello che soprattutto lo caratterizzava era saper distinguere, per così dire a colpo d’occhio, i dati essenziali da quelli che rappresentavano solo un rumore di fondo in un caso clinico complicato. In questo credo che fosse stato influenzato dal suo maestro Frugoni, che pure vidi in azione in un paio di consulti con Melli che venne a fare nel nostro reparto.

Questa capacità del nostro maestro era inizialmente un po’ deludente per noi giovani medici che amavamo le diagnosi brillanti. Ma la lezione di Melli era che il dovere del clinico non è di fare diagnosi brillanti, ma diagnosi corrette. Quando capii questo l’ammirai moltissimo e in più di un’occasione gli chiesi come aveva fatto ad arrivare a certe conclusioni, ma lui fu parco di spiegazioni. Probabilmente pensava che era una questione d’intuizione, non facile a teorizzarsi.

D’altro canto, a quel tempo pochi si ponevano il problema del metodo clinico e il solo Enrico Poli aveva pubblicato nel 1965 un libro intitolato: “Metodologia medica. Principi di logica e di pratica clinica”e il suo unico predecessore era stato, tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento, Augusto Murri, cui non a caso il libro di Poli era dedicato. Ma era stato poco seguito. Si narra che quando Grocco fu gravemente malato e si temette per la sua vita, i suoi allievi suggerirono di chiedere il parere di Murri e l’illustre paziente replicò che aveva bisogno di un medico e non di un filosofo.

Melli aveva molta attenzione per la ricerca nel suo istituto. Da giovane era stato inviato da Frugoni a perfezionarsi in Germania, che a quei tempi era l’equivalente scientifico degli Stati Uniti di oggi, e parlava perfettamente il tedesco. Poco dopo essere venuto a Milano aveva dato un importante contributo alla Immunologia italiana pubblicando un ponderoso volume intitolato “Allergia e malattie allergosimili”, dove per allergosimili si intendevano quelle che ora si chiamano malattie immunopatologiche.

Non amava le teorie complicate cui si interessavano molti dei suoi colleghi ed era incline a un sano scetticismo. Rimase celebre una sua polemica con Lunedei a proposito della iperostosi frontale interna, malattia che, secondo Melli semplicemente non esisteva. Inizialmente, non era tanto il promotore, ma piuttosto un interessato valorizzatore delle ricerche condotte dai suoi collaboratori. Ricordo che, in un’occasione in cui  gli mostrai alcuni  miei  risultati sperimentali e mi attendevo un breve colloquio, mi trattenne invece per più di un’ora a discutere i miei dati e a darmi suggerimenti. Si impegnò molto di più quando, secondando le iniziative di Domenico Mazzei (che aveva preso il posto di Zanussi come coordinatore del gruppo immunologico, dopo che questi si era trasferito a Sassari), fu iniziato nel nostro istituto, in collaborazione con il Clinico Chirurgo Edmondo Malan, un programma pionieristico di trapianti renali. Fu allora che, insieme a Mazzei, fece una relazione al Congresso della Società Italiana di Medicina Interna su “I farmaci immunosoppressori”.

Melli era un docente di grande successo. Le sue lezioni erano sempre affollate e io stesso, e molti altri assistenti, andavamo e sentirle appena era possibile. Sarebbe potuto restare in servizio più a lungo di quanto fece, perché gli era riconosciuto il diritto di recuperare gli anni perduti per le persecuzioni razziali, ma lo fece solo per un anno e ci lasciò a sorpresa. Per combinazione io fui il primo cui comunicò questa inattesa decisione e fui profondamente turbato, così come lo furono anche tutti i miei colleghi, anche tenendo conto delle difficoltà connesse alla successione del proprio Direttore.

In effetti, alcuni passarono a lavorare con Elio Polli, che prese il posto di Melli come Clinico Medico, altri seguirono Folli, che nel frattempo era divenuto uno dei Patologi Medici della nostra Università, altri ancora, e io fra questi, scelsero di andare con Zanussi, che divenne anche lui uno dei Patologi Medici, da professore di Semeiotica che era. Fu una scelta felice perché Zanussi divenne il vero successore del nostro primo maestro e io personalmente ne fui valorizzato e gli devo di essere divenuto a mia volta ordinario di Patologia Medica, sempre all’Università Statale di Milano, ma nella sede convenzionata dell’Ospedale San Raffaele.

Dopo di allora vidi Melli poche volte e il caso volle che dovessi essere io a commemorarlo in  Consiglio di Facoltà in occasione della sua morte nel 1985. Doveva farlo Zanussi, ma quella volta era assente e il Preside chiese a me di farlo. Lo feci male, non solamente perché dovetti improvvisare, ma anche perché mi sentivo impacciato da una strana emozione.

Zanussi era diversissimo da Melli. Era biondo, con  capelli discriminati nel mezzo della testa, così che a tratti dei ciuffi gli ricadevano sulla fronte, aveva un profilo aguzzo e la bocca per lo più atteggiata in un sorriso ironico, ma anche pronta a serrarsi in un’espressione risoluta quando doveva esercitare la sua autorità. Perché, se Melli regnava più che governare, Zanussi invece ci teneva a dirigere con polso fermo tutta la scuola, compresi gli allievi che erano divenuti cattedratici a loro volta.

Io non appartenevo al nucleo originale della scuola di Zanussi per puro caso. Anzi, in seguito, quando vedevo la vivacità di questo gruppo provavo una certa invidia. Come ho già detto, arrivai alla immunologia attraverso l’ematologia, quando si capì l’importanza dei linfociti per il sistema immunitario. Ma, a quell’epoca, Zanussi era in Sardegna e cominciai a collaborare con Mazzei. Quando Melli andò fuori ruolo cominciai a lavorare con Zanussi in maniera molto proficua. Tanto che amavo ripetere che io, nel filone delle sue ricerche, ero come la via alternativa del complemento. Insieme abbiamo fatto varie relazioni a congressi, ho collaborato al suo “Terapia Medica Pratica”.

Ma, se lo ammiro come maestro di medicina, più di tutto lo ricordo per le sue straordinarie qualità personali. Era un uomo di grande cultura non solamente medico-scientifica, di vaste letture, con il quale si poteva sempre fare una conversazione intelligente. Ma tutto questo senza pedanteria, venato sempre di ironia e alleggerito dal suo amore per la vita. Amava l’arte, ma anche i buoni vini e la buona cucina, gli piacevano le espressioni pittoriche, ma anche era capace di apprezzare la bellezza femminile. La sua compagnia era sempre piacevole.

A differenza di Melli, che era un solitario, Zanussi era molto socievole e coltivava numerose amicizie, anche con personaggi di notevole rilievo come, per esempio, il direttore del Corriere della Sera, che allora era Piero Ostellino, che richiese la sua collaborazione per argomenti medici sul suo giornale, anche in prima pagina. Si impegnò anche in politica, con il Partito Socialista e per un breve periodo fu anche direttore della ASL milanese, incarico che lasciò volontariamente dopo brevissimo tempo, forse accorgendosi di quale divario esiste tra l’accademia e la politica.

Ma, prima di tutto, diede un importante impulso alla ricerca in una fase di evoluzione del pensiero immunologico particolarmente vivace. Partecipò attivamente alla vita di molte società mediche, come quella Italiana di Medicina Interna, per la quale fece due relazioni, nel 1990 a Milano sui “Meccanismi di guarigione e cronicizzazione delle infezioni virali”, e nel 1992 a Firenze  su “ I sistemi di controllo endogeno delle malattie infettive e infiammatorie” . Fu anche molto attivo nella Società Italiana di Immunologia e Immunopatologia, della quale per un certo periodo fu anche Presidente, e nella Società Italiana di Allergologia e Immunologia Clinica”. Scrisse dei libri, tra i quali il più famoso è il suo “Terapia Medica Pratica”, uscito in prima edizione presso la UTET nel 1986 ed evolutosi in “Diagnosi e terapia”, sempre presso lo stesso editore nel 1995, un’anticipazione dei suoi interessi clinici della maturità avanzata, che avrebbero portato al suo “Metodologia diagnostica in medicina interna” (UTET 1999), al “Breviario medico” (Selecta editrice 2004) e, infine al “Il metodo in medicina clinica” (Mattioli 2007).

La sua scuola ebbe notevoli successi. Molti allievi di Zanussi sono divenuti professori di prima fascia: nel 1980 a Milano Mauro Moroni in Malattie Infettive, io stesso a Milano, e a Cagliari Sergio Del Giacco (dopo un intermezzo con Grifoni), entrambi in Patologia Medica. Successivamente lo sono divenuti, pure in Patologia Medica e sempre a Milano, Fulvio Invernizzi e Luigi Cantalamessa, Raffaella Scorza in Immunologia Clinica, e, più recentemente, a Brescia Roberto Cattaneo in Immunologia Clinica (che, però, già da tempo in questa sede svolgeva come professore associato funzioni dirigenziali in un importante servizio specialistico) e a Milano Pierluigi Meroni in Reumatologia. Anche altri allievi hanno avuto posizioni di rilevo in campo ospedaliero, tra i quali ricordo Claudio Ortolani, che è divenuto coordinatore del Dipartimento di Allergologia Milanese e ha dato importanti contributi a questa disciplina.

Zanussi come clinico non era inferiore a Melli, si vedeva anche nel suo caso l’influenza di Frugoni, ma con uno stile diverso, più comunicativo, e per questo piaceva molto ai giovani. Era anche lui un docente di grande successo.

Mi sono più volte chiesto se con il suo pensionamento, e più ancora con la sua scomparsa, in qualche modo la scuola iniziata da Orsi sia giunta al suo termine. E’ una riflessione difficile: i tempi sono cambiati e la medicina non è più la stessa. Forse da Orsi al primo Zanussi la medicina è mutata meno che nel periodo seguente. Forse adesso la personalità di alcuni protagonisti conta di meno e la stessa idea di scuola medica si è indebolita.

Ma per me resta come un’ispirazione di fondo che può e deve essere trasmessa e che, per quanto mi riguarda, ho cercato di avere presente, pur senza richiamarla esplicitamente, quando, a mia volta, mi sono trovato a essere professore ordinario, a dirigere una struttura di degenza e di ricerca, e ad avere così degli allievi.  Ho sempre amato molto l’immunologia, ma anche tutta la Medicina Interna e, in particolare, l’arte della clinica. Fortunatamente ho avuto bravissimi allievi: per restare al campo universitario, ricordo Maria Grazia Sabbadini, che è divenuta ordinario di Medicina interna e in qualche modo il mio successore, Ruggero Pardi, attualmente ordinario di Patologia Generale, e i più giovani professori associati Angelo Manfredi in Reumatologia, e Patrizia Rovere Guerini in Medicina Interna, tutti presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.  Auguro loro di essere all’altezza, pur in condizioni tanto diverse, delle vicende umane e scientifiche che sono alle loro spalle.

Le Tabulae anatomicae di Bartolomeo Eustachion.64, 2014, pp.2913-2916

1. Vita e opere

Bartolomeo Eustachio (c. 1510-74) è un grande anatomista del Cinquecento, considerato il padre dell’anatomia sottile. Nasce a San Severino intorno al 1510, e a San Severino nel 1539, dopo la laurea, riceve l’incarico della seconda condotta cittadina, che però non gli è rinnovato per l’anno successivo. Nello stesso periodo è chiamato dal duca Guidobaldo II della Rovere ad Urbino, a ricoprire il posto di medico di corte che era stato del padre Mariano prima e del fratello Fabrizio poi, scomparso prematuramente. Ad Urbino Eustachio diventa protomedico, arricchisce la sua cultura nella biblioteca fondata da Federico da Montefeltro, studiando tra l’altro le matematiche e le lingue classiche, compresi – sembra – arabo ed ebraico. Nel 1549 si trasferisce a Roma, al seguito di Giulio della Rovere, il fratello del duca nominato cardinale appena adolescente. A Roma Eustachio è presto un clinico ricercato da pazienti illustri, come Filippo Neri e Carlo Borromeo, insegna alla Sapienza, almeno nel decennio tra il 1555 e il 1565, e compie numerose dissezioni anatomiche sui cadaveri che gli sono forniti negli ospedali del Santo Spirito e della Consolazione. Il 9 agosto 1574, nonostante le precarie condizioni di salute, si mette in viaggio per portare soccorso al cardinale Giulio della Rovere, che si trova malato nella sua residenza estiva di Fossombrone. Eustachio ha difficoltà a procedere ed è costretto a rallentare e a fermarsi più volte lungo la Flaminia, anche con soste prolungate. Muore nei pressi di Fossato di Vico il 25 agosto 1574.

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Eustachio pubblica nel 1563/64 a Venezia, presso l’editore Vincenzo Luchino, gli Opuscula anatomica, una raccolta di cinque trattati di diversa dimensione o epistole, in cui espone i risultati che aveva raggiunti nelle sue ricerche anatomiche: Sui reni, Sull’orecchio (1562), Sulle ossa e il movimento del capo (1561), Sulle vene, Sui denti (1563). Il testo è accompagnato da otto tavole in quarto, che riguardano principalmente l’anatomia renale. Nel 1566 Eustachio pubblica inoltre a Venezia, presso l’editore Lucantonio Giunta, la traduzione latina con commento del Lessico di Ippocrate attribuito ad Eroziano, un oscuro grammatico greco del I sec. d.C., di cui aveva trovato un prezioso manoscritto nella Biblioteca Vaticana. Insieme pubblica un libretto intitolato De multitudine, sulla composizione del sangue.

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Ma da tempo Eustachio lavora ad un’opera più ambiziosa sull’anatomia umana, che comprenda grandi tavole anatomiche e un commento in cui siano discusse punto per punto le affermazioni di Andrea Vesalio, che nel 1543 aveva pubblicato il De humani corporis fabrica illustrato, attaccando per la prima volta l’anatomia di Galeno basata sugli animali e non sull’uomo. Eustachio è infatti un acerrimo avversario di Vesalio e un fedele sostenitore di Galeno, sebbene le sue ricerche rappresentino una revisione dell’anatomia di Galeno. Nella lettera prefatoria agli Opuscula anatomica, Eustachio annuncia la pubblicazione di quarantasei tavole, incise su rame, accompagnate da un trattato Sui dissensi e sulle controversie anatomiche, in cui sarebbero messe a confronto le opinioni dei medici antichi e moderni con le osservazioni anatomiche da lui fatte con l’aiuto dell’assistente Pietro Matteo Pini. Nella lettera introduttiva alla traduzione latina con commento del Lessico di Ippocrate di Eroziano, datata 1564, Eustachio ritorna sulle sue scoperte anatomiche e afferma che ormai da tempo aveva fatto incidere le tavole che vuole pubblicare. Nell’opera Sui reni scrive che le stesse tavole erano state incise nel 1552 (p. 68).

Eustachio tuttavia muore senza riuscire a pubblicare le quarantasei grandi tavole con il commento. Forse in questo fu impedito – come lui stesso scrive – dall’ingente impegno economico che un’opera del genere richiedeva, dall’età ormai troppo avanzata, dai dolori articolari che una malattia invalidante – sembra l’artrite reumatoide – sempre più spesso gli procurava, o dall’attesa di obiezioni da parte di altri anatomisti rivali che gli avrebbero fatto organizzare al meglio il testo, ma che non arrivarono, anche per la morte improvvisa di Andrea Vesalio nel 1564.

2. Le tavole anatomiche da Pini a Lancisi

Bartolomeo Eustachio aveva un figlio Ferrante (m. 1594) che studiò medicina e poi la insegnò a Macerata e a Roma, ma, secondo le sue disposizioni testamentarie, il fedele assistente Pietro Matteo Pini è il beneficiario del suo lascito scientifico: libri, manoscritti, disegni, rami e strumenti. Dopo la morte di Eustachio, Pini cade in una profonda depressione, “dimenticandosi di se stesso e trascurando ogni studio”, come lui stesso racconta nella prefazione all’Indice delle opere di Ippocrate, che aveva preparato per ordine del suo maestro e che ora pubblica per onorarne la memoria presso l’editore Roberto Meietti di Venezia, nel 1597, quando è ormai a casa, ad Urbino, già da qualche tempo e si sente ristabilito. Nello stesso passo, Pini scrive che vorrebbe pubblicare le famose tavole anatomiche, incise su rame, che Eustachio gli aveva lasciato, se Dio l’assiste, ma muore senza riuscire a realizzare il proposito.

In seguito, nel Seicento, medici e anatomisti ricercano le tavole anatomiche di Eustachio a Roma e a San Severino, nella convinzione che queste contengano importanti informazioni scientifiche. Per esempio lo fa, ma senza successo, il medico Marcello Malpighi (1628-94), che è il primo ad introdurre in Italia il microscopio nell’osservazione anatomica, e che ha una grande ammirazione per Eustachio, il quale – afferma Malpighi – avrebbe scoperto tutto quanto c’era da scoprire, se solo avesse avuto strumenti di osservazione più efficaci, il microscopio per l’appunto.

Nel 1712 i rami delle tavole anatomiche di Eustachio sono ritrovate da Giovanni Maria Lancisi, che si rivela un investigatore straordinario. Conoscendo gli scritti di Eustachio e di Pini, Lancisi si convince che bisogna cercare le tavole ad Urbino, dove l’assistente di Eustachio che le possedeva aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita. Con l’aiuto del papa Clemente XI, al secolo Gianfrancesco Albani (1649-1721), discendente di un’importante famiglia di Urbino, di cui Lancisi è amico, medico personale e archiatra, l’erede di Pietro Matteo Pini è presto identificato con il canonico Paolo Andrea de’ Rossi, suo pronipote per parte di madre. A casa di costui è in effetti conservata una cassa che era appartenuta a Pini, nella quale sono contenuti i rami delle tavole di Eustachio, ma non l’opera Sui dissensi e sulle controversie anatomiche che le avrebbe dovute accompagnare. Il Papa Clemente XI compra quindi i rami per 600 scudi e li mette a disposizione di Lancisi, che subito informa dell’entusiasmante ritrovamento i colleghi Antonio Vallisnieri (1661-1730), Giovanni Fantoni e Morgagni. Quest’ultimo è molto impressionato dalle tavole di Eustachio e scrive un lungo saggio sulle scoperte anatomiche, soprattutto riguardanti cervello e nervi, che sarebbero da attribuire ad Eustachio piuttosto che ad anatomisti successivi, come era avvenuto.

Il 21 maggio 1714, in occasione dell’inaugurazione della biblioteca dell’ospedale del Santo Spirito – oggi nota come Biblioteca Lancisiana – a cui partecipano il papa Clemente XI, cardinali, prelati e nobili romani, nel momento culminante della cerimonia, è presentata l’edizione in folio delle tavole anatomiche di Bartolomeo Eustachio, con il commento che Giovanni Maria Lancisi aveva compilato giovandosi dell’aiuto dell’anatomista Antonio Pacchioni (1665-1730) e del giovane allievo Francesco Soldati, e anche con il citato saggio di Morgagni. Nel frontespizio è stampata un’acquaforte di Pietro Leone Ghezzi (1674-1755) che rappresenta Eustachio mentre dissezione un cadavere umano nel teatro anatomico; sopra, in caratteri cubitali, si legge il nome di Clemente XI, che aveva patrocinato sia il recupero dei rami sia la loro pubblicazione, e che è il dedicatario dell’edizione.

Le tavole anatomiche di Eustachio pubblicate da Lancisi sono quarantasette. In una nota contenuta nella lettera a Giovanni Fantoni (p. viii), Lancisi afferma che c’è una tavola in più rispetto alle quarantasei citate da Eustachio, perché un ramo è inciso sui due lati. Tuttavia, le prime otto tavole pubblicate da Lancisi sono quelle sull’anatomia renale, in quarto, già apparse negli Opuscula anatomica. La serie delle grandi tavole non è quindi completa: sono trentanove, e ne mancano sette rispetto alle quarantasei di cui parlava Eustachio, che dovevano essere andate già perdute. Inoltre Francesco Soldati, rivolgendosi al lettore (p. xxxv), segnala che la numerazione delle grandi tavole, che segue quella delle piccole, è inconsueta e ci si aspetterebbe che la tavola IX sulle tre cavità fosse posta all’inizio, davanti a tutte le altre; ma questa numerazione – spiega Soldati – è quella che risale a Pini. Tuttavia è certo che i numeri delle grandi tavole furono aggiunti nel Settecento, subito dopo il loro ritrovamento. Non sappiamo se Lancisi fosse consapevole di tutte le difficoltà o inesattezze che la sua edizione contiene. Il suo intento era forse quello di presentare le tavole anatomiche di Eustachio quanto più possibile complete, originali e autorevoli, perché su queste poggiasse una grande tradizione anatomica romana, capace di competere con quella di qualsiasi altra università, Padova innanzi tutto, che da Eustachio giungesse fino allo stesso Lancisi, passando per il chirurgo Marco Aurelio Severino (1580-1656). Forse in nome di questo progetto Lancisi accettò che nell’edizione si tacesse su quanto – omissioni o interventi – lo avrebbero indebolito.

3. Le tavole anatomiche dopo il 1714

Dopo la prima edizione, i rami delle tavole anatomiche di Bartolomeo Eustachio furono conservati alla Biblioteca Lancisiana. Ma in seguito, per intervento del cardinale Pietro Luigi Carafa, furono messi a disposizione del medico romano Gaetano Petrioli per la sua edizione del 1740. Nel 1750 Gaetano Petrioli afferma di aver letto sul retro del ramo XVII il nome del pittore Giulio Romano (1499-1546), allievo di Raffaello, e di Marcantonio Raimondi (1487-1534), famoso incisore del Cinquecento. Ma queste indicazioni pongono difficoltà cronologiche, perché le grandi tavole furono incise nel 1552, secondo quanto dice lo stesso Eustachio, molti anni dopo la scomparsa di entrambi gli artisti citati dal Petrioli. Quindi la testimonianza del Petrioli è da considerarsi falsa; si sono rivelate infondate anche le altre proposte che sono state fatte nel tempo per identificare pittore o incisore delle grandi tavole, Tiziano compreso. Sembra piuttosto ragionevole pensare che per queste lo stesso Eustachio avesse preparato i disegni o lo avessero fatto dei pittori che lavoravano con lui, in stretta collaborazione; quanto all’incisione bisogna distinguere almeno due o tre mani diverse, tutte coeve: la tavola XXX non può essere stata incisa dalla stessa mano della tavola XXXV!

La storia dei rami di Eustachio successiva a Petrioli ci è nota soltanto in piccola parte. Sappiamo infatti che in seguito i rami furono acquistati da Andrea Massimini (1727-92), chirurgo all’ospedale romano della Consolazione, per la sua elegante edizione pubblicata nel 1783, con un nuovo commento, che però segue da vicino quello del Lancisi della prima edizione. Dei rami di Eustachio si perdono poi le tracce e attualmente non sembrano conservati, almeno in nessuna istituzione pubblica.

Qual è la sorte dei disegni e dei manoscritti che Eustachio aveva lasciato in eredità a Pini, soprattutto l’opera Sui dissensi e sulle controversie anatomiche che avrebbe dovuto accompagnare le tavole ? Com’è possibile che nella cassa di Pini conservata ad Urbino, a casa del pronipote, non ci fosse altro materiale di Eustachio, oltre ai rami pubblicati dal Lancisi ? Nessuno si rassegna alla perdita. Lo stesso Lancisi, scrivendo a Fantoni, si augura che il commento di Eustachio possa essere ritrovato, con l’impegno del papa Clemente XI (p. xiv). Morgagni, scrivendo a Lancisi, chiede ardentemente, “oro te obtestorque”, che la ricerca non sia interrotta, perché il commento di Eustachio dovrebbe contenere molto di più di quanto le tavole mostrano (pp. xxix-xxxi), e suggerisce di continuarla proprio ad Urbino, presso gli eredi di Pini che custodivano le tavole.

In qualche modo la ricerca non si ferma neppure nei secoli successivi e coinvolge l’altra sponda dell’Atlantico. Il 14 novembre 1928 l’editore e antiquario fiorentino Leo Olschki scrive una lettera ad Harvey Cushing, padre della neurochirurgia e grande collezionista, che allora era a Boston, alla Harvard University, proponendogli l’acquisto di un “meraviglioso” manoscritto, al prezzo di 1.000 dollari: sarebbe stato trovato nella casa degli eredi di Pini nel 1715, e conterrebbe 307 disegni anatomici con il commento autografo di Eustachio. Cushing non si lascia sfuggire l’occasione e compra il manoscritto, ma si accorge subito che non è l’autografo di Eustachio. In tre pagine dattiloscritte compila un lucido resoconto, datato 25 dicembre 1928, segnalando che i disegni sono copiati dalle opere anatomiche di Vesalio e di Giovan Battista Canani (1515-79), e che di entrambe rappresentano una semplificazione. Cushing nega che il manoscritto abbia lo stretto legame con Eustachio che Olschki gli aveva vantato, ma non evita di metterlo in qualche modo in relazione con lui, ritenendolo appunti raccolti da uno studente diligente, probabilmente Pini. Tuttavia la scrittura di Pini, che Cushing non conosceva, è diversa da quella che aveva vergato il manoscritto da lui acquistato, oggi conservato a New Haven, alla Medical Historical Library, Harvey Cushing Collection, n. 9, insieme con le note dello stesso Cushing (Iter Italicum V 293a).

Nel 1972 Luigi Belloni, storico della medicina di Milano, identifica nel manoscritto conservato a Siena, alla Biblioteca Comunale degli Intronati, C IX 17, l’opera tanto ricercata di Eustachio Sui dissensi e sulle controversie anatomiche, a partire da una segnalazione dell’Iter Italicum II 151. Il testo presenta due scritture, che sono certamente quelle di Eustachio e di Pini, come accade anche altrove. Eustachio era afflitto dall’artrite che gli causava forti attacchi, come “un migliajo di tratti di corda”; non riusciva neppure a scrivere e ricorreva quindi spesso all’aiuto di Pini. Il 7 gennaio 1971 Eustachio scrive al duca Guidobaldo II della Rovere: “o scritto questa letera con molta difficoltà, e non potrej scriverne un’altra”. Il testo inoltre tratta l’anatomia umana nel suo complesso, ossa, muscoli, nervi, vene, arterie, addome, torace e cranio, ed è organizzato per syngrammata e antigrammata, cioè citazioni di Vesalio, principalmente del De humani corporis fabrica, e successive obiezioni o confutazioni di Eustachio. Questa struttura appartiene anche al trattato Sulle vene, pubblicato negli Opuscula anatomica, che lo stesso Eustachio presenta come una sorta di estratto di quello più ampio, in preparazione, Sui dissensi e sulle controversie anatomiche (p. 262).

Belloni pubblica subito la prefazione, interamente scritta da Eustachio, che contiene un elogio di Galeno contro gli anatomisti che negli ultimi tempi lo avevano ingiustamente attaccato, Vesalio prima di altri, e promette l’edizione di tutto il resto, che tuttavia continua ad essere un desideratum. Negli anni successivi, quasi per un decennio, Belloni pubblica diversi articoli su Eustachio, e nel 1981 l’indice dettagliato del manoscritto di Siena. Come avverte Belloni fin dal primo articolo, molti sono i fogli bianchi in questo manoscritto e il testo è largamente incompleto e provvisorio. Le citazioni di Vesalio, i syngrammata, sono state scritte, ma spesso mancano gli antigrammata di Eustachio, e anche quelli compilati, per esempio sulle vene, non sono definitivi, ma soltanto appunti da rielaborare, come si evince da un confronto tra questi e il trattato Sulle vene pubblicato negli Opuscula anatomica. Si può ora aggiungere che mancano soprattutto le parti sul cervello e i nervi, da cui ci sia aspettava molto o di più, almeno stando alle tavole anatomiche, come già aveva dichiarato Morgagni. Difficile dire se ci sia un’altra versione del trattato Sui dissensi e sulle controversie anatomiche scritta da Eustachio, ma non sembra probabile.

Quanto alla storia del manoscritto di Siena, è davvero molto oscura. Non ci sono note di possesso né indicazioni di provenienza. Neppure l’ingresso nell’attuale biblioteca si lascia in qualche modo datare sulla base dei cataloghi antichi, perché può essere avvenuto in qualsiasi momento, dalla metà dell’Ottocento fino a quella del secolo successivo. Molte domande quindi, per il momento, non hanno risposta. Si trovava il manoscritto di Siena nella cassa appartenuta a Pini, ad Urbino, fino al 1712 ? Ebbe una sua sorte diversa da quella delle tavole anatomiche anche prima del 1712 ? Fu mai nelle mani di Lancisi o di Clemente XI ? La sua esistenza fu allora tenuta nascosta da Lancisi e dai suoi collaboratori perché imbarazzante per l’eccessiva incompletezza ? In ogni caso, la storia della tradizione delle tavole anatomiche di Eustachio non sembra sia stata ancora completamente scritta.

AMEE 2014 International Conference, Milan, Italy Excellence in Education – The 21st Century Teacher. A brief Reportn.64, 2014, pp.2901-2904, DOI: 10.4487/medchir2014-64-5

Abstract

From the 30th August to the 3rd September the 2014 edition of the AMEE conference was held in the splendid context of the MiCo Congress Centre in Milan. This short article wishes to emphasise the importance of the event, which witnessed the enhanced, active participation of our Italian colleagues at this prestigious international conference, and call once again for the renewal advocated in the opening lecture of the congress.

Articolo

The Conference: Organization and Themes

From the 30th August to the 3rd September, the 2014 edition of AMEE Conference was held in the splendid context of the MiCo Congress Centre in Milan. It was organized by the International Association for Medical Education, in collaboration with the University of Milan, the Sapienza University of Rome, the Council of Directors of Italian Medical Curricula, the Council of Directors of Curricula of Italian Healthcare Allied Professions, the Council of Deans and Directors of Italian Medical Faculties and SIPeM, the Italian Society for Medical Education. The president of the AMEE executive Committee was Prof. Trudie Roberts, the General Secretary of the AMEE secretariat was Ronald M. Harden, the Chair of the AMEE 2014 Organising Committee was Fabrizio Consorti, President of SIPeM (Figs. 1, 2, 3).

An important contribution was made by the AMEE student taskforce which is a team of students from all over the world who worked side by side to help with the conference logistics and assist delegates. There were also local representatives: Tancredi Lo Presti, Felice Sperandeo, Eleonora Leopardi, Stefano Guicciardi, Matteo Dameri, Mario Staccioni, Ilaria Gambelli, Matteo Gavagnacchi, Andrea De Rosa, Roberto Barone, Giustino Morlino, Federica Balzarini, Emilia Tomarchio and others (Fig. 4).

The Milano congress provided an excellent occasion, as Ronald Harden pointed out, to:

– deliver an update on current best practice in education in the healthcare professions;

– provide information about trends and developments in education;

– share personal experiences and research;

– network with others from around the world with similar interests.

As is the tradition, this, like all the previous editions of the congress, turned out to be an imposing event due to the number of those taking part and the high quality of the contributions. There were 3,300 delegates from 93 nations, not only from the heavily industrialized countries (over 50 each from the United States, Canada, Brazil, Japan, Taiwan, Thailand, Singapore, Australia, the United Kingdom, Germany, Norway, the Netherlands, Sweden, Finland, Denmark), but also many from low-tech countries (5 or less each from Eritrea, Libya, Chad, Ghana, Cameroon, Uganda, Angola, Botswana). Every facet of the manifold field of medical educational excellence was represented including clinical training, general science, educational science, administrative issues, degree-courses, as well as Deans/Directors of Medical Curricula (288), Directors of Departments (552), Students (288). The representation of the Italian reality was substantial both in size and in quality on this occasion.

There were three Plenary sessions, 22 Symposia on a wide range of topics, 531 Short Communications, 37 Research Papers, 745 Posters, 209 e-Posters and 82 Conference Workshops.

The themes treated included curriculum planning, learning outcomes, teaching and learning, new technologies, assessment, selection, faculty development, education management, medical education research, postgraduate education, CPD and international issues.

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This type of organisation, which did not contemplate plenary sessions alone (which in this instance were few in number and of the highest quality) but a consistent number of parallel symposia, short communications, posters, e-posters and workshops, provided a variety of settings capable of fostering interactivity among participants who were free to focus on the topics of greatest interest to them, although the high quality of the sessions offered make it difficult for some to choose between the myriad events on the daily agenda (Figs. 5, 6, 7).

Last but not least, we wish to mention the numerous Commercial, Not-for-Profit and Academic Exhibitors, whose stands made an excellent contribution by providing information concerning refresher and update opportunities. By way of example it suffices to mention Academic Exhibitors like the Harvard Macy Institute Professional Development Programs of Academic Leaders, and the University of Pavia’s stand.

The Italian Contribution

In the edition of the Congress held this year in Milan, the Italian presence was more numerous and incisive than in the past, a testimony to greater international integration.

The following events are worthy of mention:

SIPeM organized and ran a pre-congress workshop entitled “Cinema as a learning tool to promote reflection in healthcare. How to manage the personal impact of patients’ pain” (conducted by L. Montagna, V. Ferro Allodola, L. Fieschi and L. Garrino). In an international context a similarly sensitive issue represented a veritable challenge which the team managing the event faced and won. The workshop attracted an audience of 25 participants (i.e. the largest audience forseeable) from many different countries and the discussion following the educational activities proposed by the team, demonstrated that the language of cinema is capable of crossing borders and cultures and acting as a very valuable educational tool.

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Of the symposia, that regarding the important Italian experience of the Progress Test, conducted by the Council of Directors of Medical Curricula proved of particular impact. The symposium held by Alfred Tenore on “Progress Testing In Italian Medical Schools: An 8 Year National experience”, compared the experiences of an Italian, a Dutch (L. Schuwirth – Maastricht) and a number of German (Z.M. Nouns – Charitè University, Berlin, Germany) Universities. The Progress Test is important when testing knowledge, a valuable tool for the students who avail of it to monitor their progress. Particular attention needs to be paid, however, to efforts being made to transforming it into an inter-university benchmarking tool. This highly sensitive issue was discussed in depth and is one to which Prof. Alfred Tenore intends dedicating a specific article. The general discussion and the data presented by Alfred Tenore show that the Italian experience is one of the most far-reaching data experiments regarding this theme carried out to date as far as numbers of participant universities and the quantity of data generated are concerned. The dimensions of the results obtained in Italy, compared to those of the Netherlands, where the Progress Test was actually drawn up, prove how up-to-date this practically mandatory procedure has become and how useful it is to students of medicine and surgery.

Another interesting symposium was the one organised by Fabrizio Consorti and dedicated to professionalism, Entitled “Variations on the theme of professionalism: Students’ experiences of professionalism dilemmas across culture”, it attracted the participation of a truly international audience which took active part in discussing experiences from all over the world (conducted by MJ Ho – Taiwan University, Taipei, Taiwan; L. Monrouxe – Cardiff University, Wales, UK; C. Rees – University of Dundee, Scotland, UK; M. Chandratilake – University of Kelaniya, Sri Lanka; F. Consorti – Sapienza University of Rome, Italy; S. Ginsburg – University of Toronto, Canada). The symposium was the outcome of three international research projects run at the National Taiwan University, the Cardiff University of Wales, the University of Dundee in Scotland, the University of Kelaniya in Sri Lanka, the University of Toronto in Canada and the Sapienza University of Rome. The goals of the symposium were to present different cultural contexts for researching dilemmas accruing to professionalism, to discuss cross-cultural similarities and differences in dilemmas regarding professionalism and to discuss how to conduct cross-cultural research. The core methodological concept was the idea of dilemma, a situation where two or more professional values clash. The use of standardized scenarios, written or represented through video clips, proved to be a powerful tool to foster the reflection of learners on the values and motives informing professional action in the presence of complex elements. The inter-cultural comparison of the results carried out, made it even more evident that the construct of professionalism is culturally mediated.

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Besides communications presented by some Italian teachers and students, we wish to refer to the communication approved by the Council of Directors of Medical Curricula, entitled: “Selection of Medical Students and non-cognitive skills: A National, longitudinal written test validation” (C. Barbaranelli, G. Cavaggioni, M.G. Strepparava, A. Lenzi and G. Familiari). We wish to point out that, as far as undergraduate admission to university medical degree courses is concerned, three short communication sessions were held on the topic, as well as a poster session and an e-poster session, which shows how keen the international debate is concerning this issue of the greatest interest in our country at present too. In addition, SISM (Segretariato Italiano Studenti in Medicina – IFMSA Italy) students presented three posters, entitled: “LabMond, Laboratorio di Mondialità: An Informal Education project on Global Health issues. What is the impact in the core curricula of Italian Medical Students?” (S. Pegoraro, E. Giambelluca, M. Staccioni, B. Goletti and G. Perfetti), “Analysis on the knowledge of conflict of interest among medical students” (M. Dameri, A. Meleddu, G. Occhini, S. Bolchini and N. Pecora), “Nationwide Train the Trainer program for undergraduate in the field of Disaster Medicine” (E. Leopardi, L. Ragazzoni, S. Lo Baido, F. Maccapani, P.L. Ingrassia and F. Della Corte).

We also wish to mention that the prize for the best e-poster went to the colleagues from the Milano Bicocca University for “Personality differences in communication skills and attitudes in a sample of Italian medical students” (L. Tagliabue, D. Corrias, G.F.A. Rezzonico and M.G. Strepparava).

The Opening Lecture

Undoubtedly a very special mention goes to the opening lecture by Richard Horton, Editor-in-Chief di The Lancet, United Kingdom, entitled “Meanings of Medicine: the convergence and crises of civilisations”.

Of the utmost interest, this talk addressed the often complex and difficult relationships existing between professional health-care training and global shifts, which impact not only on epidemiological but also on international political issues.

Richard Horton concluded that “Education of health professionals is being threatened by rapid epidemiological and political shifts … It is not clear that medical education systems can meet the demand of fast changing health systems” … A new vision for transformative learning and interdependence for health equity could provide the framework for successful adaptation … But successful adaptation requires a radical reassessment of the role of the University … The forces shaping Universities today – especially market fundamentalism and perverse metrics – are eroding the public values of education and Scholarship … There is an opportunity to defeat these forces … the chief challenges facing societies in the C21st are sustainable and resilient civilisations and survival … The Physician can be an agent for advocacy, resistance, and transformational change, offering a global vision for the right to health, equity, and social justice”.

A brief conclusive summary

Being unable to sum up an event as complex and multifaceted as the AMEE 2014 Milan Conference in all its multiform aspects (for a detailed account of the contributions it is possible however to access the 906-page AMEE abstract book), we believe that the vital message launched by a personality of Richard Horton’s stature, represents an important prompt not only to the Council of Deans and Directors of Medical Faculties and the Council of Directors of Medical Curricula, but to all those responsible for medical and health-care education at national level for the organisation of the country’s national health service policies. If the Editor of The Lancet, one of the world’s most prestigious scientific medical journals, speaks of market fundamentalism and perverse metrics as threats capable of nullify the public values of education and Scholarship, we believe the moment has come to reflect seriously on his words.

The moment has come to reflect deeply on the social and ethical implications of how we teach and manage our professional medical and health-care courses. We are convinced that we must continue to pursue the virtuous route we have already begun, one capable of enhancing health, equity and social justice in this country too, although we believe that medical education in Italy measures up well by international standards and that our national health system is one of the world’s best. Much has been done by the Council of Deans and Directors of Medical Faculties, the Council of Directors of Medical Curricula and by SIPeM, the Italian Society for Medical Education, a lot more still needs to be done in the better interests of health, equity and social justice to which we dedicate our passionate energies, our lives and our work, daily.

Bibliografia

The AMEE 2014 Conference programme and the abstract book are available at http://www.amee.org/conferences/amee-past-conferences/amee-2014

Cita questo articolo

Familiari G, Consorti F., AMEE 2014 – International Conference, Milan, Italy.  Excellence in Education – The 21st Century Teacher. A brief Report, Medicina e Chirurgia, 64: 2901-2904, 2014. DOI:  10.4487/medchir2014-64-5

Indice n. 64/2014

MEDICINA E CHIRURGIA
QUADERNI DELLE CONFERENZE PERMANENTI DELLE FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA

64/2014

(scarica qui il l’intero numero in PDF)

SOMMARIO

Editoriale

Eugenio Gaudio, nuovo Rettore dell’Università di Roma La Sapienza, di Andrea Lenzi, Giovanni Danieli.

Lettura

Medicina narrativa e counselling. Strumenti di educazione alla medicina partecipativa per il miglioramento della relazione tra medico e paziente, di Luciano Vettore.

Conferenza permanente dei CLM in Medicina e Chirurgia

Il Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia di fronte alla direttiva europea 2013/55/UE, di Riccardo Zucchi.

Dossier

Il Progress Test 2013, di Alfred Tenore, Stefania Basili, Andrea Lenzi.

International Conference

AMEE 2014. International Conference, Milan, Italy. Excellence in Education The 21st Century Teacher. A brief Report, di Giuseppe Familiari, Fabrizio Consorti

Congresso SIPEM

Sassi e stelle. Idee sull’interprofessionalità al margine del Congresso SiPEM 2014, di Fabrizio Consorti

Scuole italiane di Medicina

La Scuola di Melli Zanussi, di Claudio Rugaldi

Libri che hanno fatto la storia della Medicina

News

Notizie dal CUN, di Manuela di Franco

Notizie dalla Conferenza Permanente delle Classi di Laurea delle Professioni Sanitarie, di Alvisa Palese

 

Conferenza Permanente delle Classi di Laurea delle Professioni Sanitarien.64, 2014, pp.2919-2920

Meeting annuale, Bologna, 12-13 settembre 2014

Lo scorso 12 e 13 settembre 2014, ospiti dell’Università degli studi di Bologna nella prestigiosa sede del Convento di San Domenico, si è tenuto il Meeting annuale della Conferenza Permanente delle Classi di Laurea delle Professioni Sanitarie.

Un momento scientifico e culturale importante, accreditato ECM, a cui hanno partecipato oltre 400 persone e che si è caratterizzato anche per le procedure di rielezione delle cariche istituzionali della Conferenza, quali i componenti delle Commissioni Nazionali, i loro Presidenti, Vicepresidenti e Rappresentanti dei SDD, il Presidente della Conferenza e gli altri membri della Giunta (Tabella 1).

La Conferenza, che raccoglie i Corsi di Laurea triennali dei 22 profili professionali dell’area sanitaria e le relative Classi di Laurea Magistrali, è organizzata nella Giunta e in 26 diverse Commissioni che sviluppano le istanze via via emergenti dei Corsi di studio. Nella sua presenza ormai quasi ventennale, la Conferenza ha svolto e continuerà a svolgere un importante ruolo di indirizzo e confronto sulle problematiche didattiche, di progettazione formativa e di interfaccia verso i massimi livelli istituzionali, con l’obiettivo dichiarato di elevare la qualità formativa dei Corsi di Laurea e dei Corsi di Laurea Magistrali delle professioni sanitarie.

A Bologna, la Conferenza ha iniziato i lavori riflettendo sui processi di valutazione, autovalutazione e accreditamento nei CdL delle professioni sanitarie. Nella prima sessione dedicata a ‘Formazione, cura e loro relazione con i  processi di valutazione’, moderata dalla Prof. Luisa Saiani dell’Università di Verona e dal prof. Davide Festi dell’Ateneo di Bologna, è intervenuta la prof.  Mariagrazia Contini dell’Università di Bologna con la lettura magistrale ‘Tra formazione e cura: per una riflessività nutrita di empatia’. A seguire, il prof. Curcio dell’Università di Udine ha portato una sintesi dello state dell’arte dei ‘Criteri di valutazione del docente per la valutazione della didattica’ maturati dalla Conferenza delle Scuole di Medicina. Sono state quindi presentate e dibattute esperienze di buona pratica nella valutazione e autovalutazione,sperimentate in alcuni CdL delle professioni sanitarie: la prof. Daniela Mari dell’Università di Milano ha presentato l’esperienza di valutazione da parte degli studenti dell’insegnamento ricevuto nelle sedi di tirocinio; la dott.ssa Giampiera Bulfone dell’Università di Udine ha presentato un sistema di formazione e valutazione/supervisione tra pari dedicato ai docenti delle discipline professionalizzanti; il prof. Bruno Moncharmont dell’Università del Molise ha invece sviluppato la tematica dalla valutazione dal punto di vista della governance del sistema, partendo dall’importante opportunità offerta dalle procedure di riesame.

Nella giornata successiva sono state affrontate le tematiche più vicine alla ‘Governance dei Corsi di laurea delle professioni sanitarie’ con la moderazione del prof. Luigi Frati e dalla prof.ssa Alvisa Palese. Le questioni poste al commento del prof. Eugendio Gaudio, Presidente della Conferenza Permanente dei Presidi di Facoltà di Medicina e Chirurgia, e del dott. Giovanni Leonardi, Direttore Generale Professioni Sanitarie e Risorse Umane SSN, Ministero della Salute, sono state le seguenti: a) Mobilità europea dei neo-laureati delle professioni sanitarie: analisi del fenomeno e sfide formative; b) Fluttuazioni dei fabbisogni, insostenibilità per requisiti minimi: uno scenario di instabilità irrisolvibile, focalizzate dal dott. Angelo Mastrillo dell’Università degli studi di Bologna;  c) Orientamenti di sviluppo delle lauree magistrali in cui da parte del prof. Adriano Ferrari dell’ Università di Modena-Reggio Emilia sono state presentate le proposte elaborate dalle Commissioni congiunte; d) Nuovi profili sanitari, vincoli ed opportunità, tema presentato da un intervento della dott.ssa Silvia Bielli dell’Università di Siena; e) Stato dell’arte dei Master dal punto di vista dell’osservatorio, con quesiti specifici al dott. Giovanni Leonardi. Nella sessione sulla valutazione delle qualità dei tirocini è stata argomentata l’esigenza di rivedere la scheda SUA. Dal dibattito è emerso che i meccanismi di stima del fabbisogni sono ancora imprecisi; sarebbe necessario progredire con modalità più sofisticate; sarebbe inoltre necessario potenziare l’osservatorio nazionale sulla mobilità in uscita di neo-laureati e riflettere sull’esigenza di un sistema di accreditamento dei professionisti in ingresso che hanno acquisito il titolo di studio in altri paesi. Il primo incontro di insediamento della neo-eletta Giunta per la definizione del programma triennale su queste ed altre priorità emerse, è stata fissata per il 16 dicembre 2014, a Bologna.

Con questo triennio la Presidenza   passa dalle mani del prof. Luigi Frati, fondatore assieme al prof. Giovanni Danieli della Conferenza,  a Luisa Saiani; l’Assemblea ad acclamazione e con molta riconoscenza l’ha nominato Presidente Onorario. La Giunta della Conferenza sente  la piena responsabilità di conservare il patrimonio di idee, di tensione continua verso lo sviluppo culturale e scientifico delle professioni sanitarie consegnato dai due padri fondatori.

Si ringraziano i colleghi dei Consigli Direttivi precedenti e non rieletti per il contributo che hanno dato alle Commissioni Nazionali e alla Conferenza. Saranno invece perfezionate nei prossimi mesi le elezioni per i CdS/Classi: Podologia, Tecniche Ortopediche, Tecniche Audiometriche, Tecniche Audioprotesiche, Magistrale II Riabilitazione, Magistrale IV Prevenzione.

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