Notiziario

AMEE 2016 a Barcellona

l’innovazione nell’educazione medica

Il congresso

Anche quest’anno, dal 27 al 31 Agosto 2016, si è tenuto a Barcellona il Congresso internazionale della International Association for Medical Education (AMEE – https://www.amee.org/home), sicuramente uno dei più importanti eventi di pedagogia medica internazionale. A questo congresso, il sedicesimo di una lunga serie, hanno partecipato ben 3.500 delegati da 92 paesi del mondo (Fig. 1). Alcuni paesi hanno contribuito con un numero elevatissimo di partecipanti, altri (Angola o Antigua and Barbuda,ad esempio) con un numero molto limitato; la delegazione Italiana era composta da un numero molto limitato, ma qualificato di partecipanti (escluso chi scrive). I partecipanti comprendevano un elevatissimo numero di Presidi, Vice-Presidi, Presidenti di Corso, ma anche Docenti e 357 studenti, tra cui, ovviamente, alcuni Italiani (Fig. 2).

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Il Congresso, come al solito molto ricco di eventi, ha offerto 11 sessioni plenarie (Fig. 3), 25 Simposi tematici, 505 comunicazioni brevi, 54 “research papers”, 12 “PhD reports”, 915 poster (Fig. 4) e ben 68 Conferenze organizzate in forma di “Workshops”, con un altro grado di interattività e discussione tra i partecipanti.

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Le sessioni più importanti erano inoltre visibili in diretta streaming sul sito AMEE, con un allargamento notevole della platea mondiale. Era chiaro che la partecipazione al Congresso avrebbe dovuto prevedere una accurata selezione degli eventi da seguire (a parte le 11 sessioni plenarie, vi erano poi ben 18 eventi in simultanea); partecipando ad una sessione, si aveva il rammarico che se ne sarebbero perse tante altre altrettanto interessanti.

A corollario degli eventi scientifici debbono essere citati anche l’elevatissimo numero di espositori, comprendente non solo l’industria, ma anche altre Società scientifiche nella pedagogia medica o prestigiose Università (Harward, ad esempio).

Non potendo essere esaustivo nel descrivere un evento così grande per dimensioni e per qualità (chi avesse curiosità può consultare l’abstract book sul sito AMEE) mi limiterò a ricordare le due letture iniziali, e una nuova iniziativa: “Wisdom of our Crowd”.

Il riferimento alle due letture plenarie iniziali

La lettura plenaria iniziale tenuta da Graham Brown-Martin (Education Design Labs, UK), potente innovatore nel campo pedagogia e della tecnologia, è stata un eccitante viaggio nel mondo del futuro, dell’innovazione, del “Learning Re-Imagined”, pensando al futuro dei prossimi 80 anni. Là dove il Docente non sarà sostituito dalla tecnologia, ma da un docente che debba essere padrone della tecnologia; da un docente che, nei contesti sociali diversi, sappia essere in grado di saper riconoscere e promuovere l’eccellenza degli altri, con questo impegno: “the purpose of education is to equipe our children with the skills to reimmagine society, to meet the challenges of their generation, for the benefit of all”.

Non abuserò della pazienza di chi legge, ma credo sia interessante anche riportare una citazione di Paulo Freire (1990), fatta da Brown-Martin durante la sua relazione, e che definisce un ruolo per il docente; citazione innovativa in quegli anni, altrettanto innovativa anche oggi dopo 26 anni: “The Teacher is of course an artist, but being an artist does not mean that he or she can make the profile, can shape the students. What the educator does in teaching is to make it possible for the students to become themselves”. Ritengo ancor più importante questa citazione, quella di un grande pedagogista ed educatore del passato, quando essa costituisce la base del pensiero di un grande innovatore di oggi; debbo, però, far anche notare come, quando tale citazione viene proposta da un grande innovatore perché essa può essere ancora innovativa oggi, è pur vero che forse, nel mondo, su questo tema, tante cose sono ancora da fare.

L’insegnamento non è un FedEx, afferma sempre Brown-Martin, alludendo ad una pur molto efficiente agenzia di consegna pacchi internazionale, quanto invece esso deve essere considerato “as reconstruction, rather than as a transmission of knowledge”.

Molto interessante infine, ai fini di un futuro dibattito, la sua personale dicotomia tra le attuali politiche di insegnamento (Global Education Reform Movement) e quelle che lui definisce “politiche alternative”: Teaching core subjects VS broad and creative learning; standardization VS personalization; Test-based accountability VS professional responsibility; Market-based management VS Educational leadership; data and control VS collaboration and trust. Sono fermamente convinto, a questo riguardo, che quelle sopra descritte non debbano essere considerate come “alternative”, ma che tra i due modi di vedere l’insegnamento del futuro debba essere messo in campo il massimo sforzo per individuare il giusto punto di incontro verso l’alternativa, non dimenticando necessariamente quanto di buono vi sia nell’attuale modo, già avanzato, di pensare.

Anche la seconda lettura, tenuta da Glenda Eoyang (Human Systems Dynamics Institute, USA), è stata molto interessante e dedicata alle teorie sull’incertezza. L’incertezza è infatti una costante della vita nelle professioni mediche, anche se appare raramente nei programmi educativi per gli operatori sanitari. La teoria e la pratica per operare con l’incertezza sono stati a lungo relegati nel mondo dell’intuizione e della fortuna. Al contrario, gli sviluppi recenti nelle scienze del caos e della complessità hanno introdotto approcci rigorosi e disciplinati per poterla affrontare. In questa lettura sono stati trattati i principi fondamentali della dinamica dei sistemi umani e tre distinzioni fondamentali che informano teoria e pratica per migliorare i risultati educativi degli studenti, i risultati delle prestazioni per la salute pubblica e i risultati riguardanti la salute dei singoli pazienti.

Wisdom of our Crowd

La saggezza della nostra folla, tradotto letteralmente, è stato un modo interessante di porre dei quesiti molto generali al termine delle letture plenarie, acquisendone immediatamente le risposte ottenuti attraverso i sistemi multimediali dei comuni telefonini. La conduzione del sondaggio è stata condotta nell’aula delle riunioni plenarie, pertanto le risposte comprendono un grande numero di docenti presenti.

Vi riporto, sinteticamente, tre domande di ordine molto generale, e le percentuali più significative delle risposte.

La prima domanda era: “What is the role of lectures in the medical education programme?” Il 42,5% delle risposte era “Some traditional lectures replaced with alternative approaches”, mentre il 43,6% rispondeva: “the majority of all traditional lectures replaced by alternative approaches”. E’ ovvio dedurne una scarsa importanza per le lezioni teoriche, oggi ancora largamente usate nel nostro sistema didattico.

La seconda domanda era: “What is the most important attribute of a good teacher?” In questo caso vi era una assoluta maggioranza (80,7%) su una delle alternative proposte: “A passion for teaching students and supporting their learning”. Anche questa è una affermazione da condividere assolutamente con i nostri Docenti Italiani, nella convinzione che a tanti di loro questa qualità non manchi.

La terza domanda era centrata sull’uso della multimedialità nel proprio lavoro di docente. Era chiesto: “Which of the following do You make most use in your teaching programme?”. Le opzioni e le relative percentuali di risposta erano: Twitter (2,3%); Facebook (10,6%); You Tube (34,7%); Skipe (6,0%); Other Platform (29,2%); None (17,6%). Anche in questo caso, prevale una maggioranza significativa, pari all’82,4%, di docenti che utilizzano tecnologia multimediale, mentre il 17,6% dichiara di non usare alcuna multimedialità. Credo che una simile percentuale potremmo averla se rivolgessimo la stessa domanda ai nostri Docenti Italiani.

Giuseppe Familiari

Notizie dal Consiglio Universitario Nazionale

Tra ottobre e novembre il CUN ha si è occupato di diversi argomenti. Nella adunanza di metà ottobre è stata formulata una raccomandazione sui  «Dottorati Innovativi, attuazione del Programma Nazionale per la Ricerca 2015-2020 e indicazioni con riferimento al DM n.552/2016 (art. 10, comma 1, lett. e) » contenente alcune indicazioni preliminari e in via di definizione sulla caratterizzazione dei Dottorati Innovativi, nell’intento di collaborare al processo di definizione dei Dottorati Innovativi stessi, propone alcune le osservazioni allo scopo di favorire l’integrazione e l’armonizzazione dei principi richiamati dal documento dell’Unione Europea sui ‘Principles for Innovative Doctoral Training’  nei dottorati esistenti. Un’altra raccomandazione ha riguardato il Decreto legislativo recante semplificazione delle attività degli Enti Pubblici di ricerca (Atto Camera 329)”Il CUN ha approvato un testo con il quale ha chiesto che siano estese al sistema universitario le semplificazioni previste per le attività degli Enti Pubblici di ricerca e che, anche per le Università statali, sia anticipata al 2017 la possibilità di assunzione del personale fino al 100% delle risorse liberatesi con le cessazioni e si provveda alla separazione del fondo di finanziamento ordinario da quello premiale.

Il Consiglio si è inoltre espresso su un altro argomento di grande attualità.

E’ stato infatti approvato un testo con il quale, vista la previsione contenuta nella legge di stabilità 2016 (art. 1, commi 207 e ss l. n. 208/2015) con la quale s’istituisce un Fondo per le «Cattedre universitarie del merito Giulio Natta», confermando le valutazioni in precedenza espresse sulle disposizioni dedicate all’università contenute nella legge di stabilità 2016, sottopone in urgenza all’attenzione della Ministra Giannini alcune considerazioni, chiedendo che di queste si faccia interprete presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Su questo stesso argomento il CUN ha successivamente ha approvato un testo con il quale esprime apprezzamento per l’attenzione prestata dal Consiglio di Stato alle esigenze  di promozione e libertà della ricerca scientifica e di tutela delle autonomie universitarie, condividendone le preoccupazioni. Ribadisce inoltre che ogni intervento sull’articolazione e la sistemazione dei saperi e delle discipline è assegnato dalla legge alle competenze del Consiglio Universitario Nazionale.

Il CUN ha poi approvato un testo nel quale, in riferimento alla sua Determinazione del 10/09/2014 sui passaggi di settore scientifico-disciplinare e concorsuale dei ricercatori a tempo determinato, precisa che la richiesta di passaggio di SSD possa ritenersi ammissibile nel caso in cui il passaggio sia richiesto verso un SSD la cui declaratoria sia coerente con le attività di ricerca previste dal contratto.

Infine Il Consiglio Universitario Nazionale, visto il disegno di legge recante «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019», ha approvato un testo con il quale, pur manifestando apprezzamento per il maggior impegno finanziario dello Stato a favore del sistema universitario, esprime preoccupazione per la crescente centralizzazione delle scelte di destinazione dei finanziamenti, per la tendenza alla verticalizzazione delle determinazioni che investono il settore dell’Università e della Ricerca e all’accentramento dei processi decisionali presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri; il testo evidenzia inoltre gli aspetti del disegno sotteso agli interventi della legge di bilancio, nel settore Università e Ricerca, sia quelli meritevoli di positive valutazioni sia quelli che, invece, suscitano perplessità.

Si ricorda inoltre che tra il 19 ed il 25 gennaio 2017 le votazioni per l’elezione dei componenti del Consiglio Universitario Nazionale, in rappresentanza delle seguenti aree scientifico – disciplinari : 01,  02, 04, 06, 08, 11 e 14.

Per ciascuna delle predette aree sono eletti :

– n. 1 professore di I fascia;

– n. 1 professore di II fascia;

– n. 1 ricercatore, anche a tempo determinato.

Le votazioni avranno luogo tra le ore 9,00 e le ore 17,00, escluso il sabato. Il giorno 25 gennaio 2017 le operazioni di voto termineranno alle ore 14.00.

Quindi anche l’area Medica dovrà nuovamente eleggere i propri rappresentanti.

Manuela Di Franco

Consigliere CUN area 06, Segretario Generale

Agenzia Nazionale della Valutazione e della Ricerca – ANVUR

In questa settimana l’Agenzia Nazionale della Valutazione e della Ricerca (ANVUR) consegna al Ministro dell’Istruzione Università e Ricerca , senatrice Stefania Giannini i dati relativi alla seconda VQR, imponente esercizio di valutazione della ricerca all’interno del sistema universitario e degli Enti di Ricerca vigilati dal MIUR. Questa senza dubbio la novità più rilevante dal “pianeta ANVUR”. Nel mese di Dicembre i dati saranno resi noti dal Ministero mentre le relazioni, sia quelle per Area CUN che quella generale appariranno nel mese di Febbraio.

Sono disponibili sul relativo sito ministeriale, da pochissimi giorni, i “titoli e relativi criteri di valutazione per l’attribuzione dell’Abilitazione alle funzioni di professore” che ciascuna Commissione era tenuta a scegliere fra gli undici del bando, in numero non inferiore a 6 ma di cui il candidato è tenuto a soddisfarne non meno di 3.

Il giorno 30 Novembre andranno a definitiva approvazione da parte del Consiglio Direttivo le Linee Guida relative all’Accreditamento Periodico delle Sedi  delle Università e dei Corsi di Studio. Il documento diventa quindi parte integrante del sistema di Accreditamento-Valutazione-Autovalutazione, noto come AVA. Si ricorda che l’accreditamento  viene concesso dal MIUR dopo un verifica di qualità basato sui criteri definiti appunto dall’ANVUR. L’accreditamento è almeno quinquennale per le sedi e almeno triennale per i Corsi di Studio.

La nuova AVA o AVA 2.0 si distingue per una ampia revisione dei Requisiti e degli Indicatori di Qualità. I Requisiti sono scesi da 7 a 4 ed altre modifiche sono state introdotte per giungere ad un giudizio finale più equilibrato e di più agevole interpretazione finale.

Nel corso del 2017, applicando appunto i nuovi requisiti di AVA 2.0, riprenderanno le visite alle sedi da parte dei CEV (Comitati Esperti Valutatori): per facilitare il passaggio dai requisiti di AVA 1.0 ad AVA 2.0 le visite saranno concentrate nel corso del secondo semestre dell’anno. Verranno visitati fra gli altri alcuni fra i più grossi Atenei italiani come Bologna e Napoli Federico II. Per garantire al massimo la migliore qualità dei CEV è stato fatto un bando per il reclutamento di circa 100  nuovi Esperti di Sistema: il bando è scaduto da poco e la Commissione nominata ad hoc procederà alla scelta finale prima della metà di Dicembre.

Proseguono poi i lavori del Gruppo di Lavoro sulle Professioni e Professionalità, nato sul presupposto della necessità di valorizzare il contenuto professionale di vaste aree dell’Università e sulla convinzione che non  bastino la valutazione della ricerca e della didattica, ma che sia invece opportuno affiancare loro anche una specifica valutazione della presenza e della qualità della professionalità nell’Università. Il GdL terminerà entro Dicembre i lavori relativi alle Professioni di Veterinaria e di Agraria mentre sono in fase avanzata le acquisizioni dei pareri nelle altre Aree (Medicina, Giurisprudenza, Ingegneria, Architettura ecc.).

E’ anche iniziato un processo di censimento delle Scuole di Specializzazione in Psicologia che dovrebbe portare ad un percorso valutativo da parte dell’ANVUR sia delle Scuole pubbliche di appartenenza universitaria che di quelle private.

Per finire vorrei qui ribadire il ruolo cruciale che la componente tecnico-amministrativa degli Atenei riveste in tutti questi processi valutativi. Tale componente deve oggi essere valorizzata all’interno della intera filiera di questi processi e per questo motivo è improrogabile la necessità di far emergere con maggior forza il Ciclo della Performance come uno degli aspetti qualificanti delle attività dell’ANVUR.

Paolo Miccoli

Direttivo ANVUR

Conferenza permanente dei Presidenti di Consiglio di CLM in Medicina e Chirurgia

Attività Editoriale

“Dottori, domani. Storie, dialoghi e riflessioni per una nuova educazione alle cure” e l’ultimo libro che il nostro past Presidente Luciano Vettore ha scritto con la collaborazione di Giacomo De Vecchio ed il contributo di Giuseppe Parisi

“Dottori, domani” considera con stile narrativo le basi pedagogiche e i problemi concreti che riguardano l’insegnamento e l’apprendimento nelle Scienze della salute e della cura in Italia. Tutti i capitoli – con l’intento di stimolare nei lettori una riflessione creativa – iniziano con un racconto, proiettato in un futuro abbastanza prossimo, nel presupposto che la formazione di oggi deve rispondere adeguatamente alle domande di salute che incontreranno i professionisti di domani; segue un dialogo tra gli autori, che fa emergere gli aspetti problematici narrati nel racconto; ogni capitolo si conclude con numerosi approfondimenti teorici di natura pedagogica e con una sintesi dei contenuti.

Il libro si propone come il primo testo italiano dedicato alla “formazione dei formatori” in ambito sanitario.

Antonio Delfino Editore, Roma – ottobre 2016

264 pagine,  E 18; anche in formato e-book

Acquisibile anche da Amazon

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Valentina Gazzaniga, che coordina la rubrica di Scienze umane di questa rivista, ha curato insieme ad A. Piccioli, P. Catalano, il volume Bones. Orthopaedic Pathologies in Roman Imperial Age. (Springer-Verlag Gmbh, 2015). Il libro presenta i risultati di studio di un gruppo di ricerca interdisciplinare composto da antropologi, ortopedici e storici della medicina, che hanno ricostruito la storia delle pratiche ortopediche nella Roma di età Imperiale, lavorando su una estesa campionatura di materiali ossei provenienti dagli scavi di necropoli romane di età imperiale curati dalla Soprintendenza Speciale per il Colosseo e l’Area Archeologica Centrale di Roma. L’uso combinato di fonti osteologiche e mediche, insieme all’impiego tecniche di imaging di recentissima generazione,  ha consentito di tracciare un quadro chiaro delle patologie orto-traumatologiche nella Roma Imperiale e delle tecniche medico-chirurgiche e degli strumenti impiegati per la loro correzione. L’omogeneità del campione studiato e l’alto numero di individui esaminati costituisce un importante valore aggiunto del testo.

Bones. Orthopaedic Pathologies in Roman Imperial Age, a cura di V. Gazzaniga, Springer-Verlag Gmbh, 2015).

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Medicina nei secoli ospita nel suo Supplemento speciale del 2016 una serie di articoli apparsi su questa rivista tra il 2014 e il 2016  nella rubrica dal titolo Libri che hanno fatto la storia della medicina. Il volume omonimo presenta, nel loro contesto storico, le opere più significative dall’antichità ai nostri giorni di alcuni grandi medici e scienziati, da Ippocrate a Oliver Sacks passando per Galeno, Avicenna, Al Zahrawi, Andrea Vesalio, William Harvey, Marcello Malpighi , Bernardino Ramazzini, Giambattista Morgagni, Rudolph Virchow, Claude Bernard, Augusto Murri e  gli Autori americani dell’ultimo DSM. Il volume si apre con la presentazione di Andrea Lenzi e di Giovanni Danieli e si chiude con la post-fazione di Gilberto Corbellini.

I libri che hanno fatto la storia della medicina. A cura di Giovanni Danieli e Valentina Gazzaniga. Medicina nei Secoli –Arte e Scienza, Supplemento speciale 2016, Sapienza Università Editrice, 2016, ISBN 978-88-98533-97-8)

Conferenza permanente delle Classi di Laurea delle Professioni sanitarie

Dopo il Meeting di Bologna dello scorso settembre, in cui sono stati affrontati e discussi gli aspetti di sostenibilità dei Corsi di studio delle professioni sanitarie a vent’anni dalla loro attivazione, nonché i processi di accreditamento ANVUR, le Commissioni Nazionali stanno affrontando le tematiche prioritarie definite nella loro programmazione.  Tra i numerosi aspetti emersi negli ultimi due mesi, riteniamo importante segnalare due importanti novità di interesse trasversale:

  1. a) In accordo all’impegno assunto dalla dott.ssa Ugenti nel corso del Meeting annuale della Conferenza, al fine di assicurare il corretto svolgimento delle prove finali dei Corsi di Laurea delle professioni sanitarie, tenuto conto delle Linee di Indirizzo approvate in materia dalla nostra Conferenza (12 settembre 2013) ed acquisito il parere favorevole dell’Osservatorio Nazionale delle professioni sanitarie (28 settembre 2016), con Circolare Interministeriale dello scorso 30 settembre us sono state definite indicazioni operative. In particolare, come riporta la Circolare, “la prova finale dei Corsi di Laurea è unica; si compone di due momenti di valutazione diversi, cioè di una prova pratica e di una prova che consiste nella redazione dalla tesi e della conseguente dissertazione. La prova pratica può svolgersi secondo due modalità:

1) simulazione pratica, strutturata in modo da permettere al candidato di dimostrare di avere acquisito le conoscenze e abilità pratiche, tecniche e relazionali inserite nel contesto operativo previsto dal proprio profilo professionale;

2) prova con domande a risposta chiusa e a risposta aperta su casi clinici o situazioni paradigmatiche della pratica professionale.

Entrambe le modalità possono essere integrate con un colloquio ove la Commissione – in accordo ai Collegi/Associazioni di categoria – lo ritengano necessario. Pertanto NON sono considerate valide eventuali prove scritte con quiz valutativi delle sole conoscenze teoriche”.

La Circolare è stata inviata a tutti i Presidenti di Commissione nazionale di Corsi di studi triennali con preghiera di assicurarne la più ampia diffusione.

  1. b) È possibile fare qualche bilancio sulle prove di ammissione ai Corsi di Studio delle lauree sanitarie. Mastrillo ha prodotto un articolato report, disponibile sul sito de Il sole 24 Ore Sanità del 20 ottobre 2016, in cui evidenziano i seguenti aspetti:

1) le domande (vendi tabella 1) sono rimaste stabili rispetto all’anno accademico precedente. Si sono infatti registrate 86.709 domande di ammissione ai 22 corsi di laurea delle Professioni sanitarie, mentre l’anno precedente vi era stato un calo del -2,2% mentre due anni fa del -16,2%. Quindi, i corsi delle professioni sanitarie stanno registrando una media di 3.4 candidati/posto (in generale) per i complessivi 439 corsi di studio (-4 rispetto all’aa precedente) e le complessive 719 sedi (diminuite da 741, -22 rispetto all’anno precedente). Nella tabella sono descritte le domande pervenute per ciascun profilo professionale.

2) Il tasso di occupazione, a un anno è invece in aumento del 2.2%, dal 61% del 2011 e 2012 al 63% del 2014, come da elaborazione di Mastrillo sui dati rilevati da Alma Laurea.

Alvisa Palese

Segretario generale

Perché un progetto “Medicina e Shoah”?n.72, 2016, pp. 3299-3301, DOI: 10.4487/medchir2016-72-6

Abstract

In 2011, a group of professors from the Faculties of Pharmacy and Medicine and Medicine and Dentistry of the “Sapienza” University in Rome started a seminar for students from the medical department entitled “From Nuremberg to the Belmont Report: the origins of Bioethics”, which explained the decisive role that the trial of the Nazi doctors had in the definition of medical ethics, bioethics, and standards of good practice. In 2013, these scholars inaugurated a monographic study structured over four meetings, which included study credits for students and ECM for healthcare professionals, under the title “Medicine and the Holocaust”, in order to study these issues in-depth and show the evolution of doctrine and ethics from Eugenics to today. The initiative’s success resulted in the course being repeated and offered every year with a great response from the public, leading to a cross-disciplinary project, funded in 2015, on this subject. In 2016, the exhibit “Medicine and the Shoah.  From Nazi experiments to bioethics” was opened, financed and supported with funding from the 8×1000 UCEI and hosted by several Italian universities.

Parole chiave: Medicina nazista; storia della bioetica; insegnamento dell’etica medica; Insegnamento professionale

Key words: Nazi Medicine; History of Bioethics; Teaching in Medical Ethics; Professional learning

Articolo

I presupposti del progetto: dall’eugenica nazista all’etica medica

Oggi si è abituati a parametri etici che stabiliscono la liceità o meno della ricerca biomedica, dei protocolli sperimentali e della pratica clinica. Il vero punto di svolta per formalizzare principi etici della medicina si è avuto solo in seguito alle atrocità commesse da medici e scienziati nazisti, che dell’eugenica e delle teorie razziali fecero una sorta di religione e fede politica.

Sul finire del XIX secolo gli sviluppi dell’eugenica lasciano infatti spazio all’idea che possa esistere il pericolo di contaminazione e inquinamento di un popolo per unioni tra individui di “ceppi” razziali diversi, che ne minacciano la ‘purezza del sangue’ e l’identità. Si delinea così una distinzione biologica e razziale, che trova il suo fondamento nelle dottrine eugeniche, secondo cui il progresso della razza umana dipendeva dal miglioramento della trasmissione selettiva delle caratteristiche ereditarie della popolazione alle generazioni future. Si incentivano campagne di eugenica positiva fondate sulla propaganda di un modello estetico che risponda ad un prototipo biologico sano e salutare su cui basare la scelta del partner, ma dal primo Novecento trova sempre più spazio un’eugenica ‘negativa’, volta a costruire popoli sani impedendo la riproduzione di individui ritenuti patologici e contaminanti per impurità o inferiorità biologica e morale, adottando la sterilizzazione forzata di disabili e di portatori di malattie e menomazioni ereditarie.

Il progetto eugenico si rinvigorisce nella Germania del III Reich all’indomani dell’insediamento di Hitler al governo. Promosso dalla Gemeinnützige Stiftung für Heil- und Anstaltspflege, l’ente pubblico per la salute e l’assistenza sociale, con le leggi di Norimberga  del 1933 viene promulgato il progetto di tutela della razza tedesca per la prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie, che prevede la sterilizzazione di persone ritenute affette di patologie ereditarie; nel 1935 le leggi sulla purezza del sangue tedesco vietano i matrimoni tra tedeschi e ebrei e dal 1941 si deportano ebrei,  sinti e rom nei campi di concentramento. Le leggi di Norimberga fanno parte di un sistema globale in cui la difesa della razza ariana assurge al ruolo di misura di pubblica igiene e la prevenzione medica e sanitaria arriva a coincidere con l’idea di prevenzione e igiene razziale per la tutela della razza tedesca.

Le sperimentazioni mediche selvagge sui detenuti nei campi di concentramento (Figura 1) costituiscono il fulcro del dibattito della comunità medica a partire dal processo ai dottori a Norimberga: le riflessioni sul comportamento criminale dei medici nazisti hanno fatto sentire tutta l’urgenza di riaffermare i principi deontologici e etici della medicina, e di formalizzare parametri obbligatori per stabilire la liceità o meno di una ricerca sperimentale. Il Codice di Norimberga, redatto nel corso dei Processo ai medici, rappresenta infatti il primo documento ufficiale e “universale” che pone limiti etici agli studi sperimentali, delineando linee guida di legittimazione alla ricerca biomedica. Centrale diventa l’idea dell’obbligatorietà del consenso informato del paziente e/o del soggetto sottoposto a sperimentazione; si ribadisce la necessità di un senso di responsabilità dello sperimentatore, e ogni ricerca è legittima e lecita se  i risultati sono utili alla società e deve esser preceduta da sperimentazioni su animali. I limiti forse troppo vincolanti del Codice portano nel tempo a cercare una normazione univoca  che permetta studi e protocolli sperimentali nel rispetto dei principi di liceità espressi a Norimberga, e che trova la sua espressione nella Dichiarazione di Helsinky del 1964, riconosciuta ancora oggi come parametro di riferimento nella sperimentazione medica e nel rapporto medico-paziente. Il perpetuarsi di alcune ricerche sperimentali condotte su esseri umani inconsapevoli porta alla redazione del Belmont Report e all’individuazione di linee guida e principi etici su cui impostare la ricerca bio-medica, che esprimono i principi fondamentali della bioetica contemporanea.

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Un progetto didattico innovativo

Quello dei rapporti tra medicina e nazismo è un tema poco dibattuto dalla storiografia classica; solo negli ultimi anni si sono avuti importanti contributi scientifici sul tema, fondamentale, invece, per ricostruire i rapporti tra scienza e società, tra ricerca medica e cultura. Il concetto della centralità del paziente nell’azione medica e nelle ricerche sperimentali è infatti il risultato del processo di umanizzazione della medicina nato come antagonizzazione al modello nazista, che applicava l’etica medica solo nei riguardi di individui idonei a rinvigorire la razza, che rispondono a determinate stigmate di popolo, e cercando di eliminare quanti erano visti come elementi infestanti della nazione. Con Norimberga il paradigma si inverte: l’individuo acquista una centralità assoluta in tutte le sue peculiarità, e il concetto di individualità si traspone ai popoli stessi, nella totale accettazione della diversità, fondando così il diritto umanitario. Si è pertanto sentita l’esigenza di inaugurare un’attività didattica su queste tematiche, per professionalizzare chi opera nel campo della sanità e dare una formazione più completa della storia della medicina e dell’etica medica agli studenti delle facoltà mediche.

Su tali presupposti, nell’anno accademico 2010/2011 si è tenuto il primo seminario intitolato “Dal processo di Norimberga al Belmont Report: le origini della bioetica” per gli studenti di Odontoiatria e Protesi Dentaria e quelli di Igiene Dentale della Facoltà di Medicina e Odontoiatria della “Sapienza” Università di Roma. L’efficacia dell’iniziativa ha portato i docenti a reiterare l’attività didattica elettiva nei seguenti due anni, con lezioni tenute da professori universitari e da storici della Fondazione Museo della Shoah. Nel 2013 si è svolto un master per gli operatori sanitari intitolato “Medicina e Shoah” e dal 2014 le due iniziative si sono fuse, attivando il corso monografico “Medicina e Shoah” che riconosce crediti formativi agli studenti dei corsi di laurea delle facoltà mediche della “Sapienza” di Roma e crediti E.C.M. per i professionisti sanitari.

Il corso si articola in quattro incontri, con due relatori per ogni lezione.

Le tematiche trattate sono di grande attualità, in una prospettiva diacronica che permette di approfondire le origini e le lunghe durate dell’etica medica sino alla bioetica.

I temi salienti delle prime due lezioni sono la storia dell’eugenica e la sua valenza sociale e culturale nei paesi occidentali; la costruzione dell’apparato burocratico e organizzativo per la realizzazione del programma di sterilizzazione; l’Aktion T4, ovvero il progetto eutanasico di disabili e pazienti psichiatrici ricoverati in istituti, dotati di locali in cui immettere il gas e forni crematori; le sperimentazioni mediche condotte sui prigionieri richiusi nei campi di concentramento; lo sviluppo del progressivo internamento nei campi di concentramento di ebrei, sinti e rom.

Le ultime due lezioni si incentrano sull’importanza che il Processo di Norimberga ai medici nazisti ha avuto nella normazione dell’attuale etica medica e della bioetica applicata. Le riflessioni sul comportamento criminale dei medici tedeschi durante il III Reich hanno infatti fatto sentire tutta l’urgenza di riaffermare i principi deontologici ed etici della medicina, e di formalizzare parametri obbligatori per stabilire la liceità o meno di una ricerca sperimentale

Si illustra infatti come il perpetuarsi di alcune ricerche sperimentali condotte su esseri umani inconsapevoli abbia portato nel 1978 alla redazione del Belmont Report, ossia all’individuazione di linee guida e principi etici su cui impostare la ricerca bio-medica, che esprimono i principi fondamentali della bioetica contemporanea.

Il corso si chiude con una riflessione sul pregiudizio tra ieri e oggi, e, in un’ottica diacronica, sulla lunga durata di stereotipi “razzisti” che fanno riemergere oggi toni xenofobi e nazionalistici nei confronti dei migranti e delle minoranze in generale.

Prospettive di sviluppo

Nel 2015 è stato presentato un progetto di ricerca scientifica interdisciplinare con la partecipazione di docenti delle tre facoltà mediche della “Sapienza”, volto a analizzare i pregiudizi diffusi nei confronti di minoranze tra ieri e oggi e la percezione dell’influenza del pensiero medico nelle politiche razziali naziste. Si sono per questo preparati e somministrati ai partecipanti del corso Medicina e Shoah due questionari a risposta multipla: uno per analizzare le conoscenze storiche pregresse degli studenti sulla storia dell’eugenica, delle teorie razziali, della medicina nazista e degli sviluppi dell’etica medica e della bioetica; l’altro per indagare sull’eventuale persistenza di luoghi comuni, intesi come reminiscenza di un pregiudizio secolare nei confronti di rom, sinti e ebrei e sulla riproposizione di atteggiamenti pregiudizievoli nei confronti dei migranti di oggi e di fasce di popolazione marginali. I risultati dei test serviranno a sviluppare nuovi settori di indagine, in una prospettiva interdisciplinare di working progress, per integrare attività didattiche in base alle esigenze di formazione professionale che se ne deducono.

Il successo del corso monografico ha spinto i docenti ad organizzare e allestire la mostra itinerante “Medicina e Shoah. Dalle sperimentazioni naziste alla bioetica”, finanziata con l’8×1000 dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. L’inaugurazione è avvenuta il 20 maggio 2016 presso il Museo di Storia della Medicina dell’Università “Sapienza” di Roma, con l’intento di comunicare i contenuti del corso e di esortare le facoltà mediche di altri atenei italiani, in cui è attivato l’insegnamento delle scienze umane, a programmare percorsi formativi analoghi. E’ stata infatti ospitata dall’Università di Milano e di Siena e altri atenei sono interessati a partecipare.

Si intende proseguire in queste iniziative a livello nazionale e internazionale con progetti di ricerca e didattici futuri.

Bibliografia

1) Annas G. J., Grodin M. A.. The Nazi Doctors and the Nuremberg Code: Human Rights in Human Experimentation. Oxford, Oxford University Press, 1992.

2) Corbellini G. (a cura di), Dal Giuramento ippocratico alla Bioetica. Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2012.

3) Durand Y., Il nuovo ordine europeo. La collaborazione nell’Europa tedesca (1938-1945). Bologna, Il Mulino, 2002.

4) Freyhofer, Horst H. The Nuremberg Medical Trial: The Holocaust and the Origin of the Nuremberg Medical Code, New York, P. Lang, 2004.

5) Friedlander H., The Origins of Nazi Genocide: From Euthanasia to the Final Solution. Chappel Hill and London, University of North Carolina Press, 1995.

6) Müller-Hill B., Murderous Science: Elimination by Scientific Selection of Jews, Gypsies, and Others in Germany, 1933-1945. New York, Oxford University Press, 1998.

7) Pasetti M., Storia dei fascismi in Europa. Bologna, Archetipolibri, [2009].

Cita questo articolo

Marinozzi S., Gaj F., Perché un progetto “Medicina e Shoah”?,  Medicina e Chirurgia, 72: 3299-3301, 2016. DOI:  10.4487/medchir2016-72-6

Ippocrate e la Scuola di Kosn.72, 2016, pp. 3295-3298, DOI: 10.4487/medchir2016-72-5

Abstract

Was Hippocrates the founder of the medical school having his name? Was he its principal exponent and interpreter? We cannot answer ‘yes’ or ‘no’ to these questions. The article briefly analyzes the paths throw which history constructed the image of the Hippocratic School. The School of Kos, more than being a precise reality, seems to be a cultural construction, fixed as a sort of revealed truth during the XIXth century.

Parole chiave: Ippocrate – Scuola di Kos – Scuola di Cnido

Keywords: Hippocrates – School of Kos – Cnidian School

Articolo

Beneficiò Ippocrate dell’insegnamento della Scuola di Kos? Ne fu il fondatore? Ne fu il caposcuola? Come vedremo, dobbiamo rassegnarci a non rispondere né sì né no. In effetti, Ippocrate nacque a Kos, come suo padre che gli insegnò la medicina e come suo nonno, che si chiamava già Ippocrate ed era anch’egli medico. Non vi erano allora in questa isola del Dodecanneso né scuole di insegnamento, né naturalmente diplomi, né tempio di Asclepio e nemmeno platani sotto la cui ombra raccogliere gli allievi (Fig. 1).

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Il tirocinio dei giovani si faceva in famiglia, al letto del malato – ed il termine “clinico” ne fa ancor oggi fede -, ma probabilmente anche presso la casa del medico, dopo le visite, sempre sotto la guida del padre e sempre oralmente. Tale trasmissione da padre a figlio si verifica nel caso del “padre della medicina”, che formò due figli medici, Tessalo (che avrebbe officiato in Sicilia ed in Macedonia) e Dracone; entrambi ebbero un figlio cui diedero il nome del loro nonno.  Ma la famiglia si allargò, nel senso che il maestro diede fiducia a suo genero, Polibo, e gli affidò le proprie responsabilità mediche quando partì per la Tessaglia (Fig. 2). In altre parole, due categorie di medici si distinguono allora a Kos: quelli che come il grande Ippocrate pretendono di discendere realmente da Asclepio per il tramite di suo figlio Podalirio e quelli che si avvicinano al maestro e si aggregano ai suoi seguaci, come ad esempio Siennesi di Cipro; si può poi immaginarne probabilmente una terza, quella di coloro che non hanno nulla a che vedere con Ippocrate.

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I primi, in quanto ritenuti di origine divina, beneficiano di privilegi religiosi a Delfi, informazione di cui disponiamo grazie alla pubblicazione relativamente recente (1956) di  un decreto datante ai primi anni del IV secolo a.C., scoperto nel fatale 1939, che regolava  la condotta della loro associazione o koinon nel santuario di Delfi; essi sono degli “Asclepiadi”, discendenti “biologici” di Asclepio (pur se tutti gli Asclepiadi biologici non sono necessariamente dei medici), e questo aggettivo glorioso non tarderà ad essere sviato dal suo senso reale, de facto a causa di una certa confusione innocente, oppure volontariamente per una autoglorificazione più o meno pubblicitaria : dei medici di altra ascendenza definiranno se stessi “Asclepiadi” come rendenti omaggio al dio Asclepio mediante l‘esercizio della loro arte. Ma i veri Asclepiadi non sono tutti di Kos: ve ne sono anche altri a Cnido, sul continente asiatico, che sono citati nel decreto, e nel caso di questi luoghi di sapere si è autorizzati a pensare che una nobile rivalità sia stata esacerbata dal fatto della loro prossimità geografica, di circa una trentina di chilometri. Ve ne furono anche a Rodi, dove la famiglia si è estinta. La rivalità non implicava necessariamente il voler la morte del vicino oppure l’anatema, come è provato da questo koinon. Secondo anche la testimonianza di Galeno (De methodo medendi) “…i due gruppi di Asclepiadi in Asia, a anche i medici che abitavano in Italia (Filistione, Empedocle, Pausania ed i loro discepoli) partecipavano a (una) competizione salutare. Vi era una rivalità tra tre scuole mediche famose, i medici della scuola di Kos contavano tra loro il più alto numero di colleghi eccezionali, seguiti da quelli di Cnido ed infine dagli Italiani”, già segnalati da Erodoto in particolare a Crotone.

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La “desertificazione” medica suggerita dalla scomparsa dei Rodiani e dal declino di quelli di Cirene, colonia greca in Libia la cui gloria è egualmente attestata da Erodoto, aggiungendosi ad un aggravamento della situazione sanitaria dovuta probabilmente alla prima invasione della malaria, ebbe numerosi effetti cruciali nella storia della medicina occidentale: il culto di Asclepio conobbe uno sviluppo folgorante (Fig.3). Ippocrate viaggiò (era un medico periodeuta) per rendersi conto della situazione al di fuori del suo ambito insulare: si recò, come s’è detto, nel nord della Grecia, nell’isola di Taso, l’isola rotonda a qualche chilometro dalla Tracia (Fig.4), peregrinazioni queste che ci valsero quel tesoro che sono i sette libri delle Epidemie, una delle opere più celebri della letteratura medica mondiale. In effetti, da allora si presentò la necessità di scrivere dei libri di medicina, più tardi riuniti in seno a quello che avrebbe preso il nome di Corpus hippocraticum, perché bisognava allargare il vivaio dei futuri medici al di fuori della famiglia, in circuiti sempre maggiori, non essendo più possibile che ciascuno di questi allievi venisse totalmente preso per mano. Galeno, nel De anatomicis administrationibus, spiega che “col passare del tempo parve opportuno trasmettere l’arte non soltanto agli appartenenti alla famiglia, ma anche al di fuori di essa. Così dunque l’arte medica uscì dalla famiglia degli Asclepiadi”. Sono questi apprendisti, tanto per cambiare esterni, che debbono vincolarsi, verso la loro arte e verso il loro maestro, a non rivelare l’insegnamento dispensato, onde preservare la dimensione aristocratica del cerchio degli Asclepiadi, mediante quello che noi chiamiamo il Giuramento di Ippocrate, che l’intera tradizione attribuisce effettivamente ad Ippocrate e che è di fatto allo stesso tempo un contratto ed un giuramento; la nostra tradizione moderna si è focalizzata molto meno sugli aspetti contrattuali, maggiormente ancorati ad una quotidianità concreta che non c’è più, che agli aspetti deontologici e morali, i quali possono essere generalizzati e continuano a risuonare nelle coscienze.

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Un eccezionale papiro greco d’ Egitto conosciuto sotto il nome di Anonimo di Londra, città dov’ è oggi conservato, scritto nel primo secolo della nostra era, compila delle liste nelle quali è sottolineata l’origine dei medici nella Grecia delle piccole città. Per Ippocrate, niente, come se la cosa fosse ovvia; ma tra i suoi contemporanei: la Grecia propriamente detta, Egimio d’Elide e Petronio di Egina; Kos, Polibo già citato, Dessippo; Cnido, Euryphon ed il suo discepolo Alcamene d’Abydos, Erodico; l’Italia, Filistione di Locri, Filolao di Crotone, più filosofo che medico, Ippone di Crotone, Timoteo di  Metaponto.

Ma guai a questi nuovi venuti, che potevano divenire pericolosi; Galeno stesso, secondo una leggenda medievale, doveva essere un giorno assassinato da Ippocrate nel suo giardino dei semplici perché ne sapeva più di lui, almeno in botanica medicinale! (Fig. 5). Galeno ne sapeva ovviamente di più in parecchi campi; mi piace in particolare segnalare certe lussazioni della spalla non viste da Ippocrate, come egli dice nel suo De humero iis modis prolapso quos Hippocrates non vidit, di fatto un estratto del suo Hippocrates de articulis liber et Galeni in eum commentarii quatuor, I 3 (K XVIII A 307), problema che potrebbe essere stato ben inquadrato prima di lui a Cirene.

Ma dobbiamo noi allora affermare che la scuola di Kos non è una realtà? Che la scuola di Kos è un mito? In effetti essa non è né un mito né una realtà, ma in gran parte una costruzione storica che si spiega da un lato con il fondamento ideologico che è il triangolo ippocratico formato dal malato, dal suo medico e dalla malattia, senza considerare gli dei (la cui esistenza non è negata, al contrario). E che si spiega d’altro lato anche con ciò che accadde nel tempo, in diverse tappe, alla medicina occidentale, antica e moderna.

Soffermiamoci sulla tappa alessandrina: ad Alessandria, a partire dal terzo secolo, si apre un “museo”, si lancia il concetto di corsi di studi stabilendo in quale ordine debbano venire letti gli scritti ippocratici; la creazione di una biblioteca richiede il raggruppamento dei manoscritti esistenti tanto di medicina che degli altri ambiti del sapere, e così si verrà ad accentuare la preminenza di Ippocrate e di Kos. I medici vi si riuniscono e discutono, e lo stesso Galeno vi trascorrerà anni di studio. Una nuova forma di condivisione medica prende corpo, senza tuttavia escludere segretezze e gelosie. Dopo la città di Alessandria altre imboccheranno anch’esse questa strada: Efeso si doterà ad esempio di un museo ove i medici si potessero riunire in corporazione, con una certa gerarchia professionale e dei concorsi i cui vincitori vedevano affluire la clientela, sempre in un quadro di organizzazione senza diploma; essa assocerà Asclepio ed i medici organizzando grandi Asclepieia.

Dai tempi di Galeno altri due fenomeni contribuiscono a rafforzare la nozione di scuola medica: è l’epoca delle “sette”, gruppi di medici che sceglievano un maestro, aderivano ad un corpo di dottrine e si vantavano di questa appartenenza; Galeno combatte particolarmente la setta metodica, che disprezza e tenta di ridicolizzare. Ed il maestro di Pergamo concepisce ed attua il concetto di progresso educativo, scrivendo trattati per i principianti, come appunto De sectis ad eos qui introducuntur, e ad tirones De musculorum dissectione, De ossibus, De pulsibus.

Ma, tralasciando parecchie tappe, soffermiamoci sul XIX secolo, che fissa la scuola di Kos come una sorta di verità sacrosanta. Scegliamo tre responsabili: Salvatore de Renzi, studioso napoletano, con i suoi lavori sulla scuola di Salerno; Charles Daremberg, che si è occupato di Galeno; Emile Littré, studioso di Parigi che ha lavorato su Ippocrate. Nato nel 1801, intraprende anch’egli gli studi di medicina, ma non prosegue fino alla fine del corso, rifiuta di fare una tesi e si identifica in qualche sorta con Ippocrate: un Ippocrate rivisitato, illuminato da ciò che accade nelle scuole del suo tempo ed in particolare a Montpellier, città dove si insegnava la medicina ippocratica e dove il patriota greco in esilio Adamantios Korais (nato a Smirne e non nella Grecia propriamente detta) ha fatto i suoi studi tardivi, pubblicando nel 1800 a Parigi, da perfetto francofono e da fedele lettore di Montesquieu, il De aere, aquis et locis di Ippocrate, che conoscerà un grandissimo successo, ben oltre il mondo dei filologi e delle accademie (Fig. 6).

Schermata 2017-01-31 alle 16.26.16Littré dà del Giuramento una interpretazione idealizzata, non prestando forse sufficiente attenzione alla differenza tra il giuramento (orale) ed il contratto (scritto), ma dando del termine la traduzione di “impegno”, interpretazione moralizzante che pesa ancor oggi sui nostri medici.

La scuola di Kos, più che una realtà precisa, è dunque una costruzione dello spirito allo stesso tempo progressiva e retrospettiva, grazie a riesami successivi condotti secondo il metro della situazione contemporanea dell’insegnamento medico, basata essa stessa sulla storia generale e sulla storia politica.

 

Bibliografia

1) Fioranelli, P. Zullino, Io, Ippocrate di Kos, Laterza, Roma-Bari, 2008 (presentazione di Giorgio Cosmacini)

2) D. Gourevitch, «Daremberg, his friend Littré and positivist medical history», in Frank Huisman e John Harley Warner ed. Locating Medical History: The Stories and Their Meanings, Baltimore – London, the Johns Hopkins Press, 2004, chapter three, p. 53-73

3) Yves Grandjean, François Salviat, Guide de Thasos, EFA, Athènes, 2000

4) Jacques Jouanna, Hippocrate. Pour une archéologie de l’école de Cnide, Les Belles Lettres, Paris, 20042

5) Jacques Jouanna, Hippocrate, Fayard, Paris, 19952 Ippocrate, trad. it. della prima ed., Torino, SEI, 1994

6) Jacques Jouanna, “Place et rôle de Coray dans l’édition du traité hippocratique des Airs, Eaux, Lieux”, in D. Gourevitch (éd.), Médecins érudits de Coray à Sigerist, De Boccard, Paris, 1995, 7-24.

Cita questo articolo

Gourevitch D., Ippocrate e la Scuola di Kos, Medicina e Chirurgia, 72: 3295-3298, 2016. DOI:  10.4487/medchir2016-72-5

3a dispensa – Il Codice Etico di Comportamento del Docente e dello Studente in Medicina e Chirurgian.71, 2016, pp. 3283-3286

Il Gruppo di Studio Innovazione Pedagogica, in occasione della 104a riunione della Conferenza Permanente dei Presidenti di Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia, tenutasi a Parma il 19 Novembre 2011, tenne un “Atelier Pedagogico” su un argomento di grande importanza, quello dell’etica della docenza. All’atelier pedagogico fecero seguito una “Pillola Pedagogica” e un “Forum” allargato a esperienze concrete su iniziative riferite da diversi Corsi di Laurea. Da questi eventi ne originò Il Codice Etico di comportamento del Docente e dello Studente in Medicina e Chirurgia, che è stato formalmente approvato dalla Conferenza Permanente dei Presidenti di Corso di Laurea In Medicina e Chirurgia a Padova, il 12 Aprile 2012, e dalla Conferenza Permanente dei Presidi/Presidenti delle Facoltà/Scuole di Medicina e Chirurgia a Roma, il 19 Aprile 2012 (Med Chir 54: 2383-2391, 2012; Med. Chir. 55: 2465-2474, 2012). Ancora oggi, il Codice Etico appare un documento attuale e se ne auspica la sua applicazione e soprattutto il suo rispetto nei Corsi di laurea magistrale in Medicina e Chirurgia Italiani, allo scopo di promuovere un vero raggiungimento della “consapevolezza della professionalità” nei nostri studenti, alla laurea.

Stefania Basili

  1. Premessa

Un reale rinnovamento curriculare e organizzativo del Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia non può prescindere da un impegno forte e costante dei docenti e degli studenti, all’interno di una vera e propria comunità educante che sappia condividere uno spirito di piena collaborazione nell’interesse superiore del doversi prendere cura di una persona e del suo pieno benessere psico-fisico e sociale. Docenti e studenti, insieme, debbono pertanto condividere intenti, valori e doveri nello svolgimento delle attività tutoriali condotte all’interno delle strutture assistenziali e del territorio.

  1. I fondamenti etici

L’etica come base di azione del Docente e dello Studente

La comunità accademica si dovrà avvalere di docenti che siano consapevoli della loro missione ed osservino nel loro comportamento professionale l’etica dell’impegno, l’etica della responsabilità, l’etica della comunicazione e l’etica della relazione; la dialettica tra le forme etiche troverà il giusto baricentro nella responsabilità, per poter essere organicamente costruttiva.

L’etica dell’impegno consisterà nell’assunzione di un compito formativo, nel partecipare attivamente a un processo che deve coinvolgere il docente e l’allievo. Impegnarsi significa collaborare, pianificare obiettivi e darsi compiti.

L’etica della responsabilità vedrà il docente disponibile, efficiente, valutabile, una risorsa per lo studente e per il suo futuro.

L’etica della comunicazione dovrà essere intesa come capacità di ascolto, dialogo, argomentazione, conversazione, che sono la dimensione tipica dell’insegnare.

L’etica della relazione parte dal rispetto e dalla conferma dell’altro come interlocutore paritario (partner). I docenti devono essere testimoni di una relazione costruttiva e rispettosa con gli altri docenti, con tutti i professionisti della salute che collaborano al benessere del paziente, con gli studenti (evitando qualsiasi forma di “didattica per umiliazione”), e con i pazienti. I docenti devono mostrare e insegnare rispetto per il paziente, per la sua persona, e insegnare a vedere in lui un interlocutore competente del processo di cura. I docenti devono presentare gli studenti ai pazienti come futuri membri della professione medica, e responsabilizzarli a collaborare nel loro processo formativo. Gli studenti devono sviluppare una relazione positiva e rispettosa con gli altri studenti (apprendimento cooperativo), con i docenti e i professionisti della salute ed, evidentemente, con i pazienti.

Il Rapporto con il Paziente: norme di etica “essenziale”

Nei rapporti con i pazienti, sia gli studenti che i docenti saranno ispirati ai diritti irrinunciabili dei pazienti stessi. Questi comprendono non solo la salute come diritto umano fondamentale e l’equa distribuzione di tale diritto pianificata dal Governo Nazionale, Regionale e dalle Istituzioni Universitarie e Ospedaliere, ma anche e soprattutto il rapporto individuale con il professionista che sia basato sui principi della beneficenza, della non maleficenza, del rispetto dell’autonomia del paziente e secondo le norme del codice deontologico e quelle più importanti dell’etica sociale.

Questi principi dovranno essere quindi insegnati agli studenti da docenti che dovranno essere modello di comportamento professionale nell’evidenziare, oltre il corretto agire clinico, i diritti dei pazienti con particolare riferimento ai rischi di perdita della dignità personale o della fiducia, soprattutto quando il paziente è confinato all’interno di un reparto di degenza.

Il tirocinio clinico, pertanto, oltre al raggiungimento degli obiettivi clinici specifici del “saper fare” previsti nel core curriculum, assicurerà anche le basi del “saper essere” attraverso una pratica clinica che sappia mettere in evidenza i diritti fondamentali dei pazienti in termini di:

– dignità della persona come riconoscimento dei valori individuali di ogni singolo paziente;

– rispetto del paziente soprattutto in considerazione della vulnerabilità che accompagna l’uomo ammalato diminuendone l’autonomia, specie all’interno di un ambiente spersonalizzato come il contesto ospedaliero;

– impegno ad agire nell’interesse del paziente, come base fondante della professionalità medica;

– corretta informazione del paziente, come base irrinunciabile di ogni decisione di cura della salute, sia per il medico sia per il paziente;

– fiducia del paziente, come fiducia nella competenza, integrità, abilità e cortesia del medico e dello studente.

  1. Aspetti didattici e pedagogici

Competenza e responsabilità crescenti

Gli studenti iscritti al corso di laurea magistrale in Medicina e Chirurgia, nel loro percorso formativo e sotto la guida attenta del docente tutore, debbono essere in grado di assumersi un livello crescente di responsabilità di cura del paziente, in accordo con l’accrescersi del loro livello di preparazione teorica e della loro abilità clinica. Gli studenti non possono, in ogni caso, assumersi dirette responsabilità cliniche che eccedano il loro grado di autonomia, così come previsto nell’ordinamento didattico, né sostituirsi impropriamente in azioni cliniche di competenza dei docenti di ruolo o altro personale sanitario del SSN.

Contemporaneamente alle opportunità legate all’incremento delle loro abilità cliniche e di competenza professionale, gli studenti debbono poter avere ampie opportunità di consolidare le loro conoscenze attraverso la concessione di un tempo adeguato per la revisione critica di quanto appreso (il fine del CL è quello di formare un professionista riflessivo), per lo studio autonomo, e per la preparazione delle prove di esame, nonché del giusto tempo libero da dedicare alle attività extrauniversitarie ed alla cura della propria persona.

Obblighi di frequenza

Gli studenti sono tenuti alla frequenza delle attività cliniche per le ore pianificate dal Consiglio di Corso di Laurea. Essi sono inoltre tenuti a rispettare la loro assegnazione ai docenti tutor clinici, così come previsto nell’Ordine degli Studi. L’osservanza della puntualità agli impegni clinici pianificati è obbligatoria per studenti e docenti, ed eventuali eccezioni, da parte di studenti, debbono essere limitate e avere il carattere della circostanza unica o essere seriamente giustificate. Eccezioni da parte dei docenti debbono essere comunicate agli organi di coordinamento del corso ed agli stessi studenti interessati con anticipo, rispetto al calendario degli incontri previsti. L’impegno orario complessivo, pianificato settimanalmente, deve essere congruo con quanto previsto nell’Ordinamento didattico.

  1. Per un Codice di condotta dello Studente

Gli studenti dovranno, durante la loro frequenza clinica e sotto la guida del docente tutor, sviluppare le capacità per saper condurre una relazione “medico-paziente” competente, che sappia riflettere il livello di pari dignità tra l’uno e l’altro, tenendo conto della naturale asimmetria, sia sul piano della competenza professionale che su quello del diverso coinvolgimento emotivo ed esistenziale. Al termine del loro percorso di formazione clinica, gli studenti dovranno quindi raggiungere la consapevolezza che nel rapporto medico-paziente il nucleo centrale dell’alleanza terapeutica è rappresentato da due elementi fondamentali: competenza scientifico-professionale e disponibilità umana del medico, che dimostra di essere in grado di suscitare la fiducia del paziente, che quindi gli riconosce capacità di cura (cure) e volontà di prendersi cura di lui e della sua malattia (care).

Gli studenti dovranno dar prova del livello di competenza e consapevolezza professionale raggiunto nell’intero periodo della formazione clinica, attraverso la discussione delle esperienze raccolte nel portfolio, una prova pratica che sia oggettiva, strutturata e ripetibile (uso di pazienti simulati e standardizzati, prove bedside, esame clinico strutturato – OSCE), e l’esame orale.

Nel periodo della formazione clinica gli studenti sono pertanto tenuti al rispetto delle seguenti norme di condotta generale:

Saper rispettare il paziente e l’équipe sanitaria. Lo studente avrà rispetto per gli “altri attori della relazione didattica e di cura”: pazienti, professionisti della salute, docenti e altri studenti. Ogni studente è tenuto a trattare i pazienti con considerazione e pieno rispetto del loro punto di vista, della loro privacy e della loro dignità. In tutte le attività riguardanti la relazione con i pazienti, i colleghi e i docenti, gli studenti agiranno senza alcuna discriminazione che possa riguardare l’identità di genere, l’età, la nazionalità, le etnie, lo stato socio-economico, la razza, l’orientamento sessuale, il credo religioso, la disabilità, la malattia.

Saper essere un efficace e attento comunicatore. Lo studente dovrà sempre tenere bene a mente di essere uno studente e non un medico abilitato alla professione. Dovrà pertanto essere consapevole delle proprie limitazioni e non eccedere dalle proprie prerogative quando si forniscono informazioni ai pazienti. Lo studente accetterà e osserverà strettamente il principio della confidenzialità dei dati che riguardano i pazienti. Lo studente non discuterà dei pazienti con altri studenti o professionisti, al di fuori del proprio reparto clinico, se non in forma del tutto anonima.

Saper osservare e rispettare i regolamenti, le procedure e le linee guida. Lo studente dovrà essere a conoscenza, osservandone il pieno rispetto, dei regolamenti e delle procedure prescritte dall’Università e dall’Azienda Ospedaliera. In particolare, conoscerà le norme e le procedure riguardanti la sicurezza, osserverà gli obblighi sulle prescrizioni vaccinali, e si sottometterà, quando prescritto, alle procedure di accertamento da parte del Medico Competente.

Acquisire un comportamento aperto, chiaro ed onesto. Lo studente non infrangerà la legge per alcun motivo, non avrà per nessun motivo atteggiamenti violenti, o userà la violenza contro altri o agirà disonestamente. Sono assolutamente esecrabili anche i comportamenti truffaldini durante gli esami, che non sono degni della professione medica.

Aver cura del proprio aspetto. Lo studente dovrà avere cura del proprio aspetto, della propria igiene personale e del proprio comportamento che dovrà essere improntato alla modestia, alla sobrietà e ai costumi correnti. L’aspetto dello studente, così come quello del docente, dovrà essere tale da non influire negativamente sulla fiducia del paziente.

Saper agire con prontezza in risposta a qualsiasi problema. Lo studente dovrà immediatamente informare il Responsabile medico del Reparto e/o il docente tutor cui è affidato su qualsiasi tipo di problema personale o del paziente che possa presentarsi e che sia tale da mettere a rischio la propria salute e quella del paziente stesso. Lo studente è tenuto inoltre a riferire e chiedere consiglio al proprio docente tutor se pensa che altri studenti o medici non abbiano agito correttamente.

Non abusare di alcolici; non assumere sostanze stupefacenti, evitare il fumo di sigaretta. L’abuso di alcolici come pure l’assunzione di sostanze stupefacenti, da parte di docenti e studenti, può comportare rischio grave per i pazienti; le problematiche legate a tali abusi ed ai comportamenti aggressivi e scorretti che ne conseguono possono essere tali da compromettere la futura carriera professionale. Si osserveranno scrupolosamente, parimenti, le leggi vigenti sul divieto di fumo all’interno dell’Ospedale. Anche se non espressamente vietato dalla legge, sarebbe auspicabile evitare il fumo di sigaretta anche negli spazi aperti interni all’Ospedale, nel rispetto dei pazienti che transitano in questi luoghi.

  1. Aspetti normativi finali

Si auspica che il presente Codice di condotta, approvato dalla Conferenza Permanente dei Presidenti di CLM in Medicina e Chirurgia, e dalla Conferenza Permanente dei Presidi/Presidenti delle Facoltà/Scuole di Medicina e Chirurgia, divenga parte integrante del Regolamento Didattico dei CLM in Medicina e Chirurgia.

Leadership efficace nel lavoro di gruppon.72, 2016, pp. 3280-3294, DOI: 10.4487/medchir2016-72-4

“Il gruppo è qualcosa di più e di diverso dalla somma dei suoi membri: ha una struttura propria, fini peculiari e relazioni particolari con gli altri gruppi. Può definirsi come una totalità dinamica” (Lewin, 1948)

Abstract

A group is a complex system, characterized by organizational structures, hierarchies and rules that often vary over time. The differences between individual and collective expectations, goals and needs easily trigger interpersonal conflicts which, if not properly managed, can gradually hinder the achievement of organization’s goals and lead to the fragmentation of the group itself. Many researches on group decision-making show that group’s communication style and leadership style, are very important in the group’s ability to overcome conflicts. A supportive leadership can effectively increase both the group performance and group’s members satisfaction. Effective leadership requires specific personal and interpersonal abilities in attention, communication and regulation also of group’s emotional and social issues.

Keywords: leadership e group dynamics, team work, group dinamic e medical education

Parole chiave: leadership e group dynamics, pedagogia medica, dinamiche di gruppo e faculty development

Articolo

  1. Osservare i gruppi

La psicologia sociale e delle organizzazioni studia da decenni i meccanismi e i processi di costruzione, funzionamento, mantenimento e dissoluzione dei gruppi, definendone strutture e processi e analizzando i diversi livelli a cui l’esperienza umana di essere insieme è oggetto di ricerca scientifica. Gli esseri umani sono animali sociali e le ricerche di psicologia evoluzionistica ci mostrano come, fin dall’inizio della nostra storia evolutiva, si siano sviluppate e organizzate – radicate nella nostra biologia – competenze essenziali per la gestione delle interazioni sociali, dalle più semplici alle più complesse, tutte quelle che utilizziamo per gestire adeguatamente le molteplici tipologie di eventi sociali (DeWaal , 2005; Tomasello, 2008, 2009; Maestripieri, 2012). Queste competenze, che vanno dalla comprensione della teoria della mente dell’altro, al riconoscimento e regolazione delle emozioni, alla gestione dello spazio interpersonale, all’attivazione e disattivazione degli schemi cooperativi o agonistici, è uno dei livelli di osservazione di quanto quotidianamente può accadere in un gruppo di lavoro. La complessità della nostra specie, in particolare la nostra capacità di descrivere il reale attraverso il linguaggio e la complessità di ciò che può essere oggetto del lavoro di gruppo, rende possibili molti altri livelli a cui osservare il funzionamento di un gruppo: i gruppi hanno una loro storia e la raccontano costruendo una realtà condivisa nella quale i singoli individui si possono riconoscere; un gruppo vive molte e diverse esperienze e costruisce di queste un significato condiviso; e attraverso questa condivisione di significati si sviluppa per il singolo il senso della propria appartenenza al gruppo, ma anche il senso della propria identità proprio in quanto “appartenente” a quel gruppo.

Un gruppo è un insieme di individui connessi da una qualche forma di relazione; il numero minimo per poter parlare di gruppo, secondo gli esperti, è tre; un piccolo gruppo ha una  numerosità variabile da quattro  a  circa dodici partecipanti; fino a trenta persone parliamo di gruppo mediano, che facilmente tende – con il tempo e in funzione delle attività o degli obiettivi –  a frammentarsi in più sotto-unità, al di sopra di trenta individui parliamo di grande gruppo. Un gruppo può essere caratterizzato in base a diversi parametri: finalità per cui il gruppo è stato costituito, ampiezza, organizzazione e livello di coesione interna (la struttura del gruppo), grado di interdipendenza degli individui che del gruppo fanno parte e processi di interazione reciproca in cui sono coinvolte le persone che fanno parte del gruppo (le dinamiche di gruppo). La finalità del gruppo è caratterizzata dagli obiettivi, dalle modalità e dai mezzi usati per raggiungere gli obiettivi; la struttura del gruppo è determinata dai ruoli che vengono attribuiti alle singole persone, dalle regole e dalle norme implicite ed esplicite che guidano le sue attività, dalla rete di comunicazione che lo caratterizza, dal modo in cui è gestita la leadership, il controllo, ma anche dal processo di costituzione ed evoluzione del gruppo – la sua storia appunto – e dalle caratteristiche individuali delle persone che lo compongono; la dinamica del gruppo emerge dall’interazione tra i due aspetti sopra indicati e dai processi relazionali e comunicativi tra gli individui che si attivano nel corso delle interazioni (dalle relazioni di status tra i componenti, ai livelli di affettività reciproca).

Quando classifichiamo i gruppi in base al tipo di relazione, differenziamo tra gruppo primario (c’è interazione diretta tra i membri, che non sono eccessivamente numerosi, sono legati tra loro da vincoli affettivi ed hanno frequenti interazioni dirette, un alto livello di coesione, solidarietà reciproca, chiara identificazione di ciascuno come appartenente in modo forte al gruppo – sono la famiglia, i gruppi di amici stretti, le gang giovanili) e gruppo secondario (il gruppo è più numeroso, i componenti sono meno intimi tra loro e i rapporti prevalentemente impersonali e primariamente determinati dalla necessità di perseguire scopi pratici, come nel caso dei gruppi di lavoro). Questa distinzione, tuttavia, non è assolutamente rigida o stabile nel tempo: sovente, i gruppi secondari (o parte di essi) possono evolvere in gruppi primari, come quando iniziamo a stringere relazioni e a uscire a cena o andare in vacanza con i nostri colleghi.

Secondo il modello di Arrow e coll. (2000) è più utile distinguere i gruppi in due grandi categorie: quelli che sono il risultato di una pianificazione intenzionale – sia che venga operata dall’esterno o dai superiori in gerarchia,  sia per effetto di processi di auto-organizzazione – nei quali  l’aspetto chiave è la pianificazione in funzione di uno o più scopi; la seconda categoria sono invece i gruppi che  emergono spontaneamente per il semplice effetto di una interazione ripetuta nel tempo fra un certo insieme di persone, possono essere semplicemente circostanziali – come una fila di persone in attesa – o il risultato di un progressivo allineamento reciproco tra le persone che iniziano a cooperare tra loro in modo interdipendente, come i gruppi di studio che si formano spontaneamente  tra gli studenti che frequentano lo stesso anno di corso.

  1. Strutture e dinamiche di gruppo

Struttura e dinamica di un gruppo sono strettamente interdipendenti tra loro: un cambiamento sul piano strutturale/organizzativo può innescare significativi cambiamenti nei processi di comunicazione all’interno del gruppo, un particolare tipo di conduzione può facilitare o inibire la capacità dei componenti del gruppo nel raggiungere i loro obiettivi. Ad esempio una comunicazione gerarchica unidirezionale influisce in modo importante (per lo più in modo negativo) sul grado di partecipazione e coesione del gruppo stesso. Le strutture organizzative, (come la posizione, le competenze, il ruolo dei vari membri), le strutture gerarchiche (primo fra tutte il tipo di leadership) e le strutture normative (come la presenza di regole e norme più, o meno, definite e condivise) determinano il modo in cui il gruppo funziona. Tutti questi aspetti possono ovviamente cambiare nel tempo, con effetti a cascata sulla qualità delle interazioni, coesione, comunicazione, clima, motivazione, partecipazione al gruppo, vale a dire sul piano delle relazioni affettive che caratterizzano il gruppo stesso. Le dinamiche all’interno di un gruppo sono spesso caratterizzate da vincoli e conflitti: conflitti tra le aspettative individuali e le aspettative  collettive, tra il bisogno di autonomia delle singole persone e la necessità invece del  coordinamento reciproco, tra le esigenze di stabilità del gruppo e la spinta al cambiamento del singolo o del gruppo nel suo insieme. Lo studio delle dinamiche di gruppo ha mostrato che i gruppi non sono in grado di funzionare in modo efficace, a meno che non vi sia un livello abbastanza alto di integrazione sociale tra i membri. La coesione favorisce e incoraggia la cooperazione, facilitando il prevalere degli obiettivi comuni su quelli individuali. La coesione rende più facile trattenere i membri più validi all’interno del gruppo, arginando le spinte centrifughe e aiuta gli individui ad affrontare meglio le difficoltà che si possono presentare. I gruppi coesi tendono ad esercitare meccanismi di controllo sociale più efficaci, funzionano in modo più ordinato e stabiliscono norme condivise e seguite più volentieri dai componenti del gruppo. L’ordine e la stabilità sono i presupposti per la formazione e il mantenimento di un gruppo coeso. Appare chiaro, di conseguenza, quanto sia importante una chiara definizione di ruoli e norme del gruppo, perché questo possa funzionare al meglio.

I ruoli all’interno dei gruppi di lavoro rappresentano le parti assegnate a ciascuno in funzione del riconoscimento esplicito (o implicito) delle specificità dei singoli individui; il ruolo, e le sue attribuzioni, veicolano le aspettative condivise circa i comportamenti che ciascuno dovrebbe tenere, in funzione della propria posizione all’interno del gruppo. Il ruolo viene espresso in due modi: (i)  dal punto di vista normativo, cioè come sistema di obblighi che la persona deve assolvere e aspettative che gli altri hanno nei suoi confronti, basate su regole implicite ed esplicite, (ii) dal punto di vista interattivo, come risultato delle azioni reciproche (es. richieste e risposte) contribuendo a definire il significato relazionale delle azioni di ciascun componente del gruppo di lavoro. La differenziazione dei ruoli se da un lato facilita l’ordine e la prevedibilità del gruppo, in modo funzionale al raggiungimento degli obiettivi comuni, dall’altro può generare due tipi di difficoltà: (i) conflitti intrapersonali, quali la percezione della non compatibilità tra ruoli diversi che una stessa persona potrebbe ricoprire, o il senso di inadeguatezza soggettivamente avvertito rispetto al ruolo assegnato, così come lo scollamento tra ruolo ricoperto e motivazioni individuali; (ii) conflitti interpersonali e relazionali, quali il disaccordo rispetto al posizionamento gerarchico, alla distribuzione delle mansioni oppure ai gradi di libertà attesi e legati al ruolo professionale ricoperto. Questo tipo di dinamiche contribuisce a spiegare il cambiamento nella relazione individuo-gruppo che spesso è possibile osservare nel corso del tempo nei gruppi di lavoro (Moreland e Levine, 1982). Ad esempio le riorganizzazioni dei processi di lavoro all’interno di un sistema complesso come l’Università – es. l’implementazione negli Atenei dei cambiamenti richiesti dall’applicazione della legge 240/2010 (bilancio unico e separazione fra attività didattica e scientifica ed attività gestionale) – possono avere costituito in diversi casi  un significativo momento di criticità proprio per gli aspetti sopra indicati.

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L’efficacia nel lavoro e il buon funzionamento di un gruppo dipendono da molteplici fattori:  un gruppo che abbia  la necessità di coordinarsi deve riuscire a costruire un terreno comune di valori, assunti, prefigurazioni, attribuzioni di senso, che sia chiaramente ed esplicitamente riconducibile alla sua cultura di gruppo e che sia tale da garantire il suo adeguato funzionamento. A questo servono le norme che scandiscono le regole di funzionamento del gruppo. Le norme o regole del gruppo si definiscono come standard condivisi che determinano le aspettative e le credenze comuni sui modi adeguati di agire a seconda della situazione. Le norme aumentano la prevedibilità, la stabilità e il senso di sicurezza del gruppo. Come si formano le norme? Ovviamente alcune regole di funzionamento o di operatività possono essere determinate a priori o a monte della costituzione del gruppo in quanto legate a parametri e vincoli istituzionali, molte altre però – e solitamente sono le più importanti nei processi di lavoro – sono il risultato di un processo che nasce dall’insieme dai comportamenti dei membri del gruppo, comportamenti generati da un’implicita (non-intenzionale) co-regolazione tra i membri del gruppo e che, nel corso del tempo e attraverso le interazioni reciproche, vengono osservati,  valutati, preferiti e accettati. Tipicamente legate agli obiettivi – impliciti o espliciti – del gruppo, le regole vengono acquisite per appartenenza e sono di due tipi: palesi (overt), cioè indicazioni e prescrizioni chiaramente indicate, descritte, codificate, disponibili, chiare a tutti i partecipanti, esplicitamente e intenzionalmente trasmesse ai nuovi componenti del gruppo al loro ingresso; il secondo tipo di norme sono le norme occulte (covert), vale a dire quelle regole di comportamento che si palesano solo nel momento in cui, per lo più inavvertitamente, un elemento del gruppo le viola. Un’altra distinzione va tracciata tra le core rules, vale a dire le norme che  fondano l’attività, la coesione e il funzionamento del  gruppo e la cui violazione porta alla rottura del gruppo o alla sanzione (o espulsione) di chi ha commesso la violazione, e le cosiddette norme periferiche, per lo più marginali, la cui violazione non compromette il  gruppo ed il suo funzionamento, né l’appartenenza al gruppo stesso per chi commette la violazione, ne implica sanzioni. Le regole di un gruppo non sono universali e cristallizzate, ma – in un gruppo sano – sono flessibili a sufficienza da garantire  l’adattamento del gruppo quando il contesto esterno o esteso – il sistema più ampio in cui il gruppo di lavoro è inserito – si modificano. Nel processo di cambiamento delle norme il gruppo passa da uno stato di disequilibrio (unfreezing) ad uno di equilibrio modificato (refreezing) quando le vecchie norme sono state sostituite dalle nuove, passando attraverso una fase di cambiamento che può essere più o meno faticosa,  complicata e confusa (Lewin, 1948). È molto importante per tutti i componenti del gruppo avere consapevolezza di come sono e come si muovono queste regole, ma è soprattutto chi conduce che dovrebbe essere attento ad individuarle per potersi meglio orientare nella gestione del gruppo stesso.

Perché un gruppo funzioni e sia longevo, è di fondamentale importanza l’efficacia della comunicazione tra i suoi membri. Lo stile della comunicazione, infatti, è strettamente intrecciato alla struttura del gruppo, che ne determina vincoli e possibilità, e può essere utilizzato per osservarne i processi. La qualità della comunicazione all’interno di un gruppo è data dal tipo di rete di comunicazione che caratterizza il gruppo (vedi tabella 1) e dal rapporto tra questa e lo stile relazionale dei suoi membri e al loro ruolo. È una relazione molto delicata: in reti più centralizzate – cioè nelle reti in cui ogni comunicazione passa attraverso una sola persona, che quindi esercita contemporaneamente potere e controllo –  l’efficienza è sicuramente maggiore, ma i gradi di libertà dei singoli sicuramente molto ridotti, come ridotta la possibilità di comunicazioni indipendenti e la trasparenza delle informazioni, con una ovvia  minore soddisfazione dei membri ai margini della rete di comunicazione e una minore (se non nulla possibilità) possibilità di costruire in modo condiviso una cultura e un senso di appartenenza al gruppo. Di contro, reti non-centralizzate si sono dimostrate tendenzialmente più efficaci nel favorire la creatività, la libertà individuale e la trasparenza, ma si sono dimostrate meno efficienti nel processo di soluzione dei problemi (Faucheux e Moscovici, 1960).

  1. Stili individuali

Gli scambi di informazioni nel gruppo sono però condizionati anche dallo stile relazionale di ciascun membro e non solo dalla struttura della rete di comunicazione. Ogni individuo, infatti, presenta diverse modalità di entrare in relazione con gli altri nelle diverse situazioni e nei diversi contesti sociali; ogni persona tende ad usare in modo preferenziale alcuni atteggiamenti rispetto ad altri, mettendo in atto comportamenti e assumendo atteggiamenti selezionati nel corso della propria storia di vita. Non solo, ma dietro ai diversi stili di comunicazione ci sono diverse rappresentazioni degli interlocutori, così come diverse rappresentazioni di sé nella relazione con loro. Possiamo vedere gli altri come potenziali aggressori o predatori dai quali guardarsi e verso cui essere prevalentemente sospettosi, oppure possiamo vedere gli altri come individui bisognosi verso i quali entrare in relazione con una disposizione al prendersene cura; per alcuni gli altri vengono tendenzialmente visti come potenziali protettori o comunque persone più forti e affidabili da cui farsi seguire e proteggere, per altri invece entrare in relazione con qualcuno è guidato dal tentativo in ogni occasione di valutare se si tratti di individui più competenti e abili dai quali raccogliere informazioni da usare a proprio vantaggio; altri ancora entrano in relazione con la tendenza a percepire gli altri  per lo più come individui più potenti o autorevoli da compiacere e con i quali cercare di instaurare una relazione privilegiata per averne vantaggi. In tutti questi casi lo stile di comunicazione, il modo in cui viene approcciato l’interlocutore, i toni e i modi del linguaggio e del discorso sono diversi e, ovviamente, innescano negli interlocutori e negli osservatori reazioni molto diverse. Inoltre le nostre rappresentazioni mentali, i nostri pensieri e i nostri giudizi sui fatti generano o amplificano stati emotivi a volte disfunzionali o disregolati: paura, senso di colpa, vulnerabilità, debolezza, rabbia, ostilità, vergogna, disprezzo. Questi stati emotivi a loro volta guidano i nostri comportamenti innescando cicli interpersonali che impediscono di cooperare adeguatamente, privilegiando la sfida, la competizione inutile, l’evitamento dei problemi, la squalifica dell’interlocutore, la finta compiacenza, la passività. La chiave per una comunicazione efficace sta nella consapevolezza del proprio stile comunicativo e nella capacità di modularsi adeguatamente su quello delle persone con cui si è in relazione imparando a disattivare le rappresentazioni disfunzionali. È un processo che può essere difficile ed emotivamente dispendioso, ma che certamente conduce ad un miglioramento della comunicazione.

Gli stili relazionali individuali si caratterizzano prevalentemente per la loro maggiore o minore direttività, analiticità, flessibilità, riflessività (Rezzonico, Strepparava, 2004; Zorzi, Strepparava, 2013) che si declina diversamente a seconda della posizione e del ruolo che l’individuo assume o riceve all’interno del gruppo. Gli individui più direttivi e volitivi tendono a cercare di mantenere il controllo in ogni situazione, si aspettano molto dagli altri, ma anche da sé stessi. Il disagio che provano quando le situazioni non sono adeguatamente definite li spinge a prendere rapidamente decisioni e a mal tollerare l’incertezza; sono particolarmente autosufficienti, di solito a proprio agio nel correre dei rischi, e sono prevalentemente orientati sui risultati. Risultano spesso dei capi validi, pragmatici, diretti all’obiettivo. Sono percepiti dall’esterno come molto determinati, esigenti, poco pazienti e con ridotte capacità di ascolto attivo. La competitività a volte tende ad essere eccessiva e spesso l’obiettivo principale all’interno delle dinamiche di gruppo  è il raggiungimento dei ruoli di potere e controllo. La relazione con queste persone è facilitata da un atteggiamento il più possibile diretto, mettendo al centro sempre i fatti e non la persona. Le persone con uno stile più analitico tendono a essere molto attente ai dati, prediligendo ordine e processualità. Nel fare le cose hanno uno stile accurato, coscienzioso, preciso. Hanno bisogno di un tempo più lungo per prendere decisioni, agendo solo a partire da informazioni certe e ben vagliate, faticano a prendere una decisione importante, soprattutto sotto la pressione del tempo, ed in generale nei processi decisionali sono tendenzialmente lenti per un eccesso di verifica di tutti i dettagli e le norme. Solitamente sono riluttanti ad assumersi dei rischi e tendono a vedere le conseguenze negative e catastrofiche più degli esiti positivi; l’attenzione ai dettagli a volte li porta a perdere il quadro generale o a trascurare macroelementi di rilievo. Sono capaci di grande perseveranza, rispetto al raggiungimento di un obiettivo, lavorano con grande attenzione alla qualità ed hanno un fortissimo senso di  appartenenza al gruppo. Sono tendenzialmente controllati rispetto alle proprie emozioni, anche se si possono disregolare emotivamente sotto la spinta dell’ansia e il dubbio di avere commesso un errore.  Essere preparati e a conoscenza dei fatti, utilizzare i dati specifici in forma analitica, far ricorso a degli esempi e lasciare il tempo per il processo di elaborazione e di decisione sono alcune strategie di accomodamento a questo stile di funzionamento personale e relazionale. La creatività nasce dalla capacità di rompere schemi preesistenti, non tenere conto dei confini dati e muoversi in modo flessibile. La flessibilità è accompagnata spesso da curiosità, sensibilità interpersonale e un alto grado di reattività emozionale; si tratta di persone capaci di essere molto  motivanti, energizzanti, estroverse.  Altre caratteristiche distintive includono la generosità, la capacità di influenzare gli altri e la centralità delle relazioni sociali. Sono persone che possono talvolta essere viste come “teatrali”, eccessivamente emotive e impulsive. Tengono molto in considerazione l’ambiente e i giudizio altrui, e si fanno guidare più dalla risonanza emotiva, dal modo in cui “sentono” le cose, che da considerazioni logiche e non sempre è facile per loro disaccoppiare i dati di realtà dalla loro reazione emotiva ad essi; spesso rischiano di prendere decisioni sulla base di spinte emotive piuttosto che sulla base di valutazioni ponderate. La relazione con questa tipologia di persone è facilitata quando si investe del tempo con loro, attraverso la partecipazione emotiva, incentivandole e motivandole dentro una relazione calda e connotata affettivamente. Gli individui con uno stile primariamente riflessivo si caratterizzano per un elevato senso di responsabilità personale e la tendenza a farsi carico in prima persona delle cose, delle situazioni e delle persone. Sono tendenzialmente persone attente a includere gli altri, sono sensibili ai temi relativi all’esclusione e all’isolamento, che cercano di evitare all’interno del gruppo, sono pazienti, solidali e premurosi. Sono estremamente affidabili e nel gruppo cercano di favorire un clima di accordo, cercando di tenere conto dei punti di vista di tutti e cercando sempre la mediazione  tra le posizioni diverse.  Si preoccupano per la squadra, che monitorano costantemente e tendono a valutare le opinioni di tutti.  La relazione può essere facilitata dal mostrare preoccupazione per gli altri, dal favorire un ambiente supportivo, che dia valore a suggerimenti e indicazioni da parte degli altri.

  1. Processi decisionali nel gruppo

I processi decisionali (decision-making) di gruppo costituiscono un processo collettivo in cui più persone analizzano problemi o situazioni, considerano e valutano diversi possibili atteggiamenti e scelgono tra diverse possibili soluzioni alternative ad uno o più problemi comuni. La presenza in un gruppo di diversi stili di personalità che, come precedentemente evidenziato, veicolano differenti atteggiamenti di fronte ai problemi e alle possibili soluzioni, innesca dinamiche e cicli interpersonali che possono essere più o meno facilitanti rispetto al processo decisionale, al clima di gruppo e alla risoluzione dei conflitti (De Dreu, Gelfand 2008).

In situazioni ottimali, ad esempio, il gruppo può funzionare come una “sala degli specchi”, in cui i membri costituiscono vicendevolmente lo schema di riferimento con cui mettere a confronto il proprio comportamento. In questo tipo di gruppo si osservano diversi fenomeni: la socializzazione del linguaggio, nel senso che le persone tendono a esprimersi con il “noi;  l’ interdipendenza reciproca, nel senso che è irrilevante chi propone qualcosa, mentre è centrale il contenuto proposto; l’accettazione delle differenze individuali, che vengono riconosciute e accolte, utilizzando le diversità in modo costruttivo. Quando però si innescano cicli interpersonali disfunzionali, possono emergere importanti ostacoli e resistenze:  (I) fenomeni di accoppiamento, nel senso che le interazioni di gruppo si sbriciolano in interazioni diadiche; (ii) uso della fuga nel passato, con il pensiero di tutti concentrato prevalentemente o esclusivamente  sul  passato o elementi legati al passato, sul “come eravamo…” e la squalifica distruttiva del presente e delle sue difficoltà, che chiude alla possibilità di individuare le soluzioni del problema; (iii) fuga all’esterno, quando a turno i componenti del gruppo spostano costantemente il focus delle discussioni su argomenti non inerenti al gruppo o ai suoi obiettivi, precludendo un lavoro costruttivo di analisi e discussione delle criticità attuali; (iv) fuga in avanti, con l’emergere di fantasie proiettate troppo avanti nel futuro, che distraggono  dalle criticità del presente senza costituire delle reali progettualità; (v) provocazione protettiva, attraverso  continue richieste di aiuto che hanno l’effetto di bloccare lo sviluppo del gruppo; (vi) confusione di ruolo, nel senso che gli individui tendono ad alternarsi nell’assumere la conduzione del gruppo senza esplicita richiesta, delegittimando chi riveste i ruoli e bloccando le attività; gli ultimi due meccanismi sono particolarmente critici: è la (vii)  personalizzazione dei conflitti, quando le difficoltà decisionali tecniche passano in subordine rispetto al prevalere dei conflitti personali oppure (viii) l’emergere di capri espiatori, uno o pochi individui nel gruppo, verso i quali  l’aggressività di tutti può concentrarsi senza il rischio di venire sanzionati e di nuovo bloccando la ricerca a l’analisi delle reali criticità. Quando il gruppo non riesce a risolvere i conflitti che nascono da queste dinamiche, il rischio maggiore è la frammentazione e la formazione di sotto-gruppi, esposti, con il tempo, al rischio di entrare in conflitto tra loro. È importante quindi anticipare il conflitto, sapere come si sia generato e costruire strategie personali e di squadra per farvi fronte. Da un punto di vista ambientale e contestuale, i principali antecedenti dei conflitti hanno principalmente a che fare con i carichi di lavoro inadeguati, ambiguità di ruoli e di responsabilità, scarsa chiarezza rispetto agli obiettivi generali del gruppo. La condivisione quindi degli obiettivi, oltre che degli aspetti valoriali del gruppo di lavoro favorisce il buon funzionamento di un gruppo.

Le ricerche mostrano come lo stile di gestione del conflitto abbia un importante effetto sul modo in cui  il livello di conflittualità viene percepito dai membri di un gruppo. Ad esempio, uno stile accomodante, aperto all’integrazione delle diverse prospettive e collaborativo favorisce la percezione che l’intensità del conflitto sia bassa, contrariamente a quanto viene percepito dagli individui esposti ad uno stile di gestione del conflitto caratterizzato da evitamento delle difficoltà o dominanza attraverso interventi calati dall’alto (Friedman et al., 2000). Una recente revisione della letteratura (Almost et al, 2016) ha cercato di fare luce sulle principali determinanti dei conflitti nei gruppi, con particolare attenzione ai contesti di cura e promozione della salute, e sugli aspetti che sembrano essere più centrali nella gestione dei conflitti all’interno dei gruppi di lavoro. Emerge un quadro in cui le caratteristiche individuali – quali l’intelligenza emotiva (Caruso, & Salovey, 2004), la core self-evaluation (Judge, 1997) e alcuni tratti di personalità – siano precursori importanti della conflittualità o, al contrario, fattori protettivi. Centrale per un’adeguata capacità di gestire le situazioni conflittuali è la promozione della capacità di auto-riflessività: è necessario che i membri del gruppo sviluppino la  consapevolezza di quanto siano importanti motivazioni e bisogni personali, rispetto alla genesi e alla risoluzione dei conflitti perché sia più semplice affrontare e trovare vie di soluzione ai problemi. Chi conduce un gruppo deve creare degli spazi per raccogliere e conoscere motivazioni e bisogni del suo gruppo di lavoro perché solo in questo modo viene favorita la comprensione più profonda delle problematiche del gruppo e si apre una maggiore possibilità di valutare quali cambiamenti potrebbero essere implementati perché il conflitto si avvii verso una positiva risoluzione. Le persone, quando hanno fiducia nel fatto che le proprie azioni possono davvero essere efficaci e cambiare la realtà, più facilmente si relazionano in modo cooperativo e convergono verso gli obiettivi comuni superando ostacoli e conflitti. La risoluzione dei conflitti all’interno del gruppo è, al contrario,  grandemente ostacolata quando i membri del gruppo percepiscono che le proprie preoccupazioni o i propri dubbi vengono svalutati e non inclusi tra gli elementi rilevanti nel processo di decision-making.

Un altro elemento cruciale per prevenire l’emergenza di conflittualità intra-gruppo è la promozione della capacità di ascolto in tutti coloro che del gruppo fanno parte. L’ascolto è un’abilità che coinvolge aspetti cognitivi e verbali, emotivi, posturali e percettivi. Non è una capacità innata e può essere sviluppata ed educata. Non può prescindere dal mantenimento del contatto oculare con l’altro, dal porre attenzione al proprio linguaggio del corpo e, più in generale, al proprio comportamento non verbale: una postura aggressiva o un tono di voce squalificante sono molto più potenti di mille parole nel generare interazioni disfunzionali. Richiede, inoltre, che si approcci l’esperienza di ascolto da uno stato di calma, ponendo attenzione alla presenza nella propria mente di pregiudizi, preconcetti e/o aspettative negative nei confronti del proprio interlocutore: l’ascolto non giudicante, infatti, permette di separare più facilmente i dati di fatto dalle opinioni, di facilitare l’attivazione delle strategie di autoregolazione emotiva, favorendo  un clima relazionale cooperativo che, a sua volta, facilita il mantenimento dell’attenzione del gruppo sul raggiungimento degli obiettivi comuni (Dekeyser et al., 2008; Chowdhury & Kalu, 2004). Dal punto di vista relazionale, quindi, una buona comunicazione, soprattutto da parte di coloro che rivestono il ruolo di leader, è essenziale per facilitare la risoluzione dei conflitti, ma questo si basa sulla capacità delle persone di essere consapevoli di quanto possono aver contribuito al nascere del conflitto e avere la volontà di trovare soluzioni condivise (Brown et al., 2011). È importante inoltre stabilire e mantenere la coesione all’interno del gruppo, promuovendo la fiducia reciproca; la fiducia a sua volta, riducendo la tendenza a giudicare malevolmente i colleghi, si riverbera in più efficaci strategie comunicative.

  1. “La macchina del capo …”: la leadership

Nel suo lavoro del 1973 Mintzberg pone tra le caratteristiche chiave per l’efficacia nella gestione di un gruppo alcune specifiche competenze relazionali, quali: la capacità di stabilire e mantenere le reti sociali, la capacità di trattare con i subordinati, la capacità di entrare in empatia con i leader di alto livello. Anche precedentemente, i ricercatori hanno sottolineato il ruolo di più ampie competenze interpersonali (empatia, abilità sociali e tatto) come predittori dell’emergenza e dell’efficacia della leadership (Bass, 1990). Manager, dirigenti, professionisti delle risorse umane e, più in generale, coloro che abitualmente svolgono il proprio lavoro in equipe possono verificare quotidianamente il valore delle competenze relazionali. Diventa quindi necessario costruire un quadro teorico che metta in relazione le abilità emotive e sociali con l’efficacia della leadership, per guidare ricerca, valutazione, formazione e sviluppo dei leader delle organizzazioni. La leadership, infatti, costituisce lo “snodo” tra le variabili strutturali (obiettivo, metodo, ruoli) e le variabili processuali (clima, comunicazione, sviluppo).

L’esercizio della leadership si esprime attraverso aspetti gestionali e organizzativi: la capacità di  pianificare nelle diverse prospettive temporali, saper organizzare il lavoro, individuando anche le personalità più adatte per i diversi ruoli, la capacità di controllo e monitoraggio delle diverse  attività/obiettivi. Si tratta di competenze che solo in parte implicano il coinvolgimento diretto degli altri membri del gruppo; a queste si affiancano le competenze che più direttamente implicano la relazione: gestione delle attività comunicative, di decision making e di problem solving, che hanno luogo all’interno delle relazioni interpersonali (McCartney & Campbell, 2006; De Vries et al., 2010). Per quanto riguarda questi aspetti, diversi studi hanno mostrato la maggiore efficacia di uno stile comunicativo supportivo rispetto a uno dominante/controllante. È cosa nota che, nell’ambito della comunicazione medico-paziente, vi è maggiore soddisfazione dei pazienti di fronte ad un atteggiamento cordiale e attento (Buller e Buller 1987), mentre uno stile dominante è associato non solo a minore soddisfazione tra i pazienti, ma anche a esiti clinici sfavorevoli e a malpractice (Ambady et al 2002; Burgoon et al. 1987; Levinson et al. 1997). Risultati analoghi sono stati riscontrati anche in ambito formativo e pedagogico, in cui uno stile comunicativo supportivo è associato a maggiore soddisfazione degli studenti (Prisbell 1994) e uno dominante a minore motivazione (Noels et al. 1999). E nei gruppi di lavoro? Uno stile comunicativo dominante/controllante può portare – nelle situazioni in cui i componenti del gruppo sono in una posizione di eccessiva dipendenza da chi conduce – ad un peggioramento delle prestazioni individuali e della performance del gruppo nel suo complesso. Se teniamo conto del fatto che la performance di un gruppo di lavoro è favorita dalla condivisione delle conoscenze (Srivastava et al., 2006), vale a dire da quel processo di scambio reciproco di informazioni e conoscenze (implicite ed esplicite), che consente la contestuale creazione di una nuova conoscenza condivisa (Van den Hooff e De Ridder 2004), ci rendiamo facilmente conto che se alla guida di un gruppo c’è qualcuno che non favorisce scambio e relazione, ben presto tutti si troveranno in serie difficoltà.

Appare evidente, quindi, come la promozione di competenze emotive e sociali è di fondamentale importanza per la formazione alla leadership e, di riflesso, per un suo più efficace esercizio (Riggio, 2008; Zaccaro, 2002). Per competenza emotiva si fa riferimento in particolare alle capacità di lettura, decodifica ed espressione delle emozioni sia proprie, che delle persone con cui si è in relazione (Caruso & Salovey 2004). Il che vuol dire – in concreto – essere sempre guidati nelle proprie azioni dalla consapevolezza che, per tutte le persone, sentirsi nella mente dell’altro è un fattore profondamente motivante e promotore di benessere; una adeguata sensibilità ai segnali altrui (distress, fatica, noia, disequilibrio emotivo) rende possibile una migliore lettura dello stato mentale dell’ interlocutore e quindi una migliore scelta dei comportamenti da mettere in atto.

Le principali abilità sociali legate alla leadership efficace sono le capacità di esprimere autenticamente se stessi nelle interazioni con gli altri e di “leggere” (e capire) le dinamiche sociali che vengono messe in campo.  Per un buon leader, uno stile comunicativo efficace richiede abilità di espressione sia emotiva che sociale, consente più facilmente di parlare ad un pubblico e di assumere il ruolo di coach, ispirando e motivando gli altri (Groves, 2006) e trasmettendo emozioni positive (Bono e Ilies, 2006). Comunicare bene richiede sensibilità e attenzione, sia agli aspetti di contesto (ruoli, norme, situazioni), sia agli atti comunicativi verbali e non verbali degli altri membri del gruppo. Una buona sensibilità emotiva e sociale è fondamentale quindi per favorire l’ascolto attivo e per la comprensione delle esigenze e delle emozioni dei componenti un gruppo di lavoro. Infine, l’efficacia della leadership è favorita dalla capacità di autocontrollo, inteso come la capacità di saper regolare e modulare opportunamente l’espressione delle proprie emozioni, in funzione della situazione. E’ anche importante e utile avere una buona consapevolezza dell’effetto che i propri atteggiamenti (dalla postura al tono della voce) hanno sulle altre persone e dell’impatto sociale che tali comportamenti implicano.

  1. Tecniche comunicative per la gestione delle situazioni difficili

Una delle prime cose da fare nelle situazioni difficili dal punto di vista relazionale, è focalizzare la propria attenzione sugli aspetti che permettono di centrarsi in modo sicuro e stabilizzato sul proprio ruolo e la propria funzione; disattivare i fattori di disturbo, essere pienamente presenti, disinnescare gli elementi che ostacolano l’ascolto non giudicante, sono interventi che favoriscono la lucidità relazionale. In molte situazioni critiche l’ostacolo maggiore è dato dall’emergere di schemi interpersonali agonistico-conflittuali che rendono difficile lavorare sui contenuti perché ci distraggono sul piano relazionale.  Fondamentale in questi casi è mettere in atto una o più strategie per gestire cicli interpersonali conflittuali (McKay et al., 2007):

a – Validazione reciproca. Uno dei principali ostacoli ad una costruttiva discussione di gruppo sono gli interventi che tendono a squalificare  e invalidare quanto viene detto  da uno o più partecipanti. La mancata validazione può essere mediata sia dai termini del linguaggio che vengono usati per rispondere o commentare le affermazioni altrui, sia, spesso, dal tono e dal modo (lo stile non verbale) che accompagnano la comunicazione  con un atteggiamento squalificante. Spesso questa esperienza si accompagna alla percezione di sentire sotto giudizio le nostre parole, azioni o caratteristiche personali e sentirle valutate come “sbagliate”, “cattive” o “stupide”. In questo caso si possono attivare due reazioni opposte e ugualmente disfunzionali: da un lato l’emozione della vergogna, del disagio e di una sorta di sconfitta personale, che porta per lo più a ritirarsi dall’interazione sottraendosi all’attiva partecipazione ai processi (salvo poi sabotare passivamente quello che viene deciso dal gruppo); oppure possono emergere rabbia e frustrazione, emozioni che facilitano un’escalation di aggressività e opposizione. In entrambi i casi si rompe l’assetto cooperativo all’interno del gruppo. Inoltre, se non adeguatamente intercettati, questi cicli interpersonali spesso si saldano con le alleanze trasversali che di solito sono presenti (radicate in conflitti puramente funzionali o legati alle differenze di personalità) tra i membri del gruppo. Questo tipo di criticità può essere sensibilmente ridotta attraverso la validazione reciproca che, come l’accettazione delle posizioni dell’altro, non significa necessariamente approvazione o accordo. Gli interventi di validazione permettono all’altro di sentirsi capito nei suoi bisogni, necessità, desideri, obiettivi e nelle emozioni connesse a questi elementi. Alcune formule linguistiche che accompagnano gli interventi di validazione consentono inoltre di esprimere più facilmente il proprio punto di vista, anche quando è del tutto o in parte divergente da quello altrui:  “Capisco il tuo punto di vista …ma dalla mia prospettiva…”; “Mi rendo conto che per te …. Però secondo i dati del nucleo di valutazione ….”.  E’ importante, quando si fa un intervento di validazione, segnalare adeguatamente se ciò che si sta dicendo è solo la propria posizione/opinione  oppure se si sta riferendo un fatto osservabile; i due piani non vanno mai confusi nella comunicazione, altrimenti si corre il rischio che il messaggio venga percepito come una mistificazione e la mossa di validazione risulti del tutto vana.

b – Disco rotto. Quando sembra che un messaggio non sia stato recepito dall’interlocutore, può essere importante modificare la forma in cui il messaggio stesso viene comunicato, ad esempio formulando una frase concisa, specifica e chiara rispetto a ciò che si vuole esprimere. Se le argomentazioni a sostegno della propria posizione sono già state esposte e dettagliate per quanto serve e l’interlocutore continua comunque a contrastare il punto in oggetto, la strategia del disco rotto prevede che, omettendo dettagli, spiegazioni ed eventuali scusanti, si ripeta la frase, con pacatezza e tono piano, evitando ogni elemento vocale, tonale o posturale che possa essere avvertito come agonistico (tono secco, sguardo sprezzante o squalificante, contatto oculare prolungato eccessivamente, in quanto primario segnale di sfida) fin quando sia necessario. Qui il punto essenziale è evitare di cadere in dibattiti e argomentazioni sul piano logico-razionale, si tratta invece di non rispondere alle richieste di spiegazioni o dettagli o alla presentazione di contro argomentazioni, ma semplicemente replicare ribadendo il proprio punto:  “In ogni caso ci viene chiesto di …” “Capisco, ma preferisco che…”, “Mi rendo conto, ma la posizione è …”.

c- Indagine. Quando nel gruppo di lavoro uno o più dei partecipanti prende una posizione di opposizione o contrasto rispetto alla linea che si sta seguendo, a volte le ragioni sono chiare altre volte sono invece confuse o mal presentate. Molto spesso, in prima battuta, vere ragioni di una opposizione tendono a non emergere. Si tratta allora di aiutare a portare alla luce questi motivi, che a volte le persone non sono molto disposte a discutere. Una facilitazione al processo di condivisione si basa sulla domanda che fa riferimento alle ragioni della preoccupazione sul punto in oggetto. Per quanto riguarda questa tecnica, l’espressione principale è: “Cosa ti preoccupa rispetto a…”, continuando l’esplorazione finché non emergano informazioni utili alla risoluzione del conflitto. L’uso del termine “preoccupare” è scelto perché: è relativamente neutro (molto più di “cosa ti disturba” o “cosa non ti va bene”), rende la domanda non inquisitoria, né accusatoria, evitando quindi l’attivazione immediata di un atteggiamento difensivo,  trasmette all’interlocutore il senso di un autentico interessamento alla posizione dell’interlocutore (e aiuta chi pone la domanda ad entrare in un assetto di autentica curiosità verso le ragioni dell’altro).  Può essere particolarmente utile quando l’origine dei contrasti è vaga o non sufficientemente chiara.

d –Offuscamento. Consiste nell’esprimere un accordo parziale con l’altro, senza tuttavia accettarne totalmente la posizione. Questa mossa consente di solito di riportare il clima relazionale alla calma e di disinnescare eventuali competizioni per la supremazia o conflitti di rango. Questa tecnica si attua cercando nel discorso dell’interlocutore un aspetto con cui si possa concordare e utilizzarlo come punto di partenza per cercare una convergenza. Importante evitare termini che veicolino assolutezza, come “sempre”, “mai”, “tutto”, “niente”.

e – Ritardo assertivo. Quando emerge un conflitto, le persone tendono a mettersi vicendevolmente sotto pressione, in modo da costringere l’altro a prendere una decisione o a concordare con una strategia nel minor tempo possibile. Questa tecnica consiste invece nel creare uno spazio temporale (da pochi minuti fino a qualche ora) prima di dare la risposta richiesta. In questo modo è più facile tranquillizzarsi, tornare a uno stato emotivo meno attivato, considerare quanto già stato detto e fatto con calma e formulare risposte il più possibile appropriate (“Prendiamoci un’ora per pensarci su. Ciò che è stato detto è molto importante per me e vorrei pensarci con calma, prima di pronunciarmi ulteriormente sulla questione”). È importante ricordare che abbiamo sempre il diritto di prendere tempo, soprattutto quando si tratta di decisioni importanti.

f – Cambiare rappresentazioni. Le reazioni emotive sono guidate in larga misura anche dal modo in cui viene rappresentato l’interlocutore; il processo con cui ci costruiamo degli stereotipi mentali può richiedere tempo o essere rapidissimo: abbiamo tutti vissuto l’esperienza di essere in fila ad aspettare qualcosa e avere in pochi secondi la sensazione che la persona accanto a noi era una terribile rompiscatole presuntuosa o maleducata a seconda dei casi, collocandola immediatamente in uno schema, e da quel momento in poi l’interazione è stata implicitamente guidata da questa rappresentazione il nostro tono di voce, linguaggio e atteggiamento si sono modificati di conseguenza. È possibile però applicare in modo controllato il processo. La rabbia che ci nasce naturalmente davanti a una persona che giudichiamo aggressiva di solito viene in parte disinnescata quando riusciamo a dirci che si tratta di una persona che è molto in difficoltà (cambiamo rappresentazione) e l’irritazione davanti ad un interlocutore polemico che si sta fissando su dettagli a nostro avviso inutili, può disinnescarsi se pensiamo che è una persona molto spaventata perché pensa di non saperne abbastanza. Quando riusciamo a pensare che le persone stanno facendo fatica, sono spaventate, sono a disagio, sono in difficoltà siamo anche più capaci di regolare le nostre emozioni disfunzionali.

g – Focalizzare l’attenzione sul respiro. Sempre e comunque quando avvertiamo i segnali di un’attivazione emotiva intensa in una situazione di gestione di gruppo, concentrarsi sul flusso del respiro anche solo per pochi secondi, ha il potere di interrompere il meccanismo di reattività emotiva automatica e ci consente di riprendere la lucidità che ci è necessaria.

Conclusioni

Il gruppo è un’entità molto complessa in continuo movimento, regolato da processi che non sono solo espressione della somma delle caratteristiche individuali di ciascun membro. In un gruppo, specialmente di lavoro, sono costantemente in atto dinamiche che veicolano l’espressione di norme, ruoli sociali, obiettivi organizzativi che possono essere in contrasto – qualche volta in opposizione – con le caratteristiche di personalità, le motivazioni e gli scopi individuali. Se non opportunamente gestite, queste dinamiche possono portare alla formazione di conflitti individuali, sottogruppi a loro volta in contrasto tra loro o anche al loro interno, ostacolando il raggiungimento di obiettivi e risultati o inficiandone la loro qualità. La ricerca ha mostrato sempre più consistentemente quanto sia importante, per impedire o ridurre la conflittualità all’interno di un gruppo, il monitoraggio e la gestione del clima relazionale e della qualità degli scambi comunicativi tra i suoi membri. In quest’ottica, appare chiara l’importanza dello stile comunicativo della leadership del gruppo che, per essere efficace, non può prescindere dall’attenzione agli aspetti emotivi e relazionali e sociali che si esprimono nelle relazioni interpersonali all’interno del gruppo. È necessario quindi promuovere, nella formazione alla leadership (Cegala & Lenzmeier Broz, 2002), sia le competenze emotive (regolazione, espressione, tatto) sia le abilità sociali e comunicative (sensibilità sociale, validazione, ascolto, sospensione del giudizio). Questo facilita la riduzione di atteggiamenti dominanti, in favore di uno stile di leadership più supportivo e attento, riducendo gli errori, migliorando la performance e favorendo la soddisfazione di tutti i membri del gruppo.

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Cita questo articolo

Zorzi F., Strepparava M.G., Leadership efficace nel lavoro di gruppo, Medicina e Chirurgia, 72: 3280-3294, 2016. DOI:  10.4487/medchir2016-72-4

La leadership nel lavoro di gruppon.72, 2016, pp. 3276-3279, DOI: 10.4487/medchir2016-72-3.

Maria Grazia Strepparava (Milano Bicocca), Federico Zorzi (Milano Bicocca), Pietro Gallo(Sapienza, Università di Roma), Davide Festi (Bologna), Oliviero Riggio (Sapienza, Università di Roma), Isabella Barajon (Milano Humanitas), Tiziana Bellini (Ferrara), Fabrizio Consorti (Sapienza, Università di Roma), Carlo Della Rocca (Sapienza, Università di Roma), Giuseppe Familiari (Sapienza, Università di Roma), Bruno Moncharmont (Molise), Giustino Morlino (S.I.S.M., Laura Recchia (Molise) e Maurizia Valli (Pavia).

Gruppo di Lavoro Innovazione Pedagogica della Conferenza Permanente dei Presidenti di Corso di Laurea Magistrale in Medicina

Abstract

Leadership in teamwork

The present article reports the structure, organization and outcome of the Educational Workshop on Leadership in Teamwork, held in Messina on 16th September 2016 during a meeting of the Italian Permanent Conference of the Presidents of Undergraduate Curricula in Medicine. Using the critical incident scheme, and the role play method, the ‘educational innovation’ Working Group has focused on making the Presidents of the Undergraduate Curricula more aware of some relational mechanisms that may underlie the difficulties in managing a working group.

Parole chiave: pedagogia medica, leadership, dinamiche di gruppo

Keywords: medical education, leadership, group dynamics

Articolo

Il panorama internazionale

Le ricerche pioneristiche di Yvonne Steinert (2009) hanno portato lo staff development e l’educazione alla leadership all’attenzione della letteratura internazionale in tema di Pedagogia Medica (McKimm e Swanwick, 2010; Wilkerson e Doyle , 2011) “Effective leaders (…) engage in activities that are adaptive. Change in academic medical centres is a mixture of the norms, values, history, social conditions, and institutional culture (…). Experience teaches us that the role of leadership is critical during change and innovation in medical education”.(Mennin, 2009).

Il panorama italiano

Il recente riassetto legislativo degli Atenei Italiani, che ha spostato il fulcro organizzativo dalle Facoltà ai Dipartimenti, ha causato non poche difficoltà ai Corsi di Laurea in Medicina (CLM), e ai loro Presidenti, visto che legare questi Corsi ad un singolo Dipartimento rappresenta nient’altro che un mero artificio. Il Presidente del CLM si è così trovato ad essere gravato di pesanti responsabilità organizzative senza avere a disposizione né un centro di costo autonomo né lo staff amministrativo che si è aggregato per decenni intorno alle Facoltà. Questo repentino mutamento di prospettive ha costretto il Presidente del CLM a esercitare una leadership non solo nel campo della pedagogia medica, ma anche in quello organizzativo-amministrativo.

Il Miniatelier “La leadership nel lavoro di gruppo”

Il Gruppo di Lavoro Innovazione Pedagogica della Conferenza Permanente dei Presidenti di CLM organizza da numerosi anni delle attività di formazione permanente dei Presidenti di CLM (Gallo et al. 2014). In questo contesto, il Gruppo di Lavoro si è prefissato l’obiettivo di organizzare una serie di eventi formativi sul tema dell’educazione alla leadership. L’ultimo di questi è stato un miniatelier pedagogico dal titolo “la leadership nel lavoro di gruppo” che si è svolto durante la riunione della Conferenza che si è tenuta a Messina il 16 Settembre 2016.

Obiettivi del Miniatelier

Il Gruppo di Lavoro è partito dalla constatazione che il Presidente di CLM si trova ad esprimere la propria leadership per lo più nell’ambito di piccoli gruppi di lavoro: dalla Commissione Didattica di Facoltà/Scuola, alla Commissione Paritetica, alla Commissione Tecnica di Programmazione didattico-pedagogica (CTP), al gruppo VRQ, allo stesso Consiglio di CLM. Si è così deciso di finalizzare l’atelier a far prendere coscienza ai Presidenti della necessità di imparare a gestire un piccolo gruppo di lavoro come strumento essenziale dell’esercizio della propria leadership. Certamente eravamo consapevoli dell’impossibilità di formare i Presidenti alla gestione del piccolo gruppo nel breve spazio di un atelier, ma è prevalsa la volontà di dare ai Presidenti uno spunto, anche solo per rendere palese un bisogno che potrebbe non essere stato avvertito pienamente.

Gli obiettivi dichiarati dell’iniziativa erano due:

  • stimolare i Presidenti ad apprendere come esercitare consapevolmente la propria leadership all’interno di un piccolo gruppo;
  • invitare i Presidenti a formare i formatori, ovvero a farsi a loro volta promotori, nella propria Sede, di eventi formativi destinati all’educazione alla leadership dei propri collaboratori, come i Coordinatori di anno/semestre.

Formato del Miniatelier

Avremmo potuto impostare l’atelier sulla illustrazione di alcune strategie comportamentali utili nella gestione di un piccolo gruppo, ma abbiamo preferito privilegiare la strategia dell’esercizio svolto, con lo schema dell’incidente critico e con il metodo del gioco di ruolo.

Dopo una brevissima presentazione dell’atelier (da parte di Pietro Gallo) e un’introduzione al tema (da parte di Maria Grazia Strepparava), i Presidenti che hanno partecipato all’atelier sono stati suddivisi in due gruppi bilanciati (per l’anzianità di servizio come Presidenti). A ogni gruppo è stato dato il compito di simulare una riunione di CTP sul tema della revisione di regolamento didattico da approvare in vista di un futuro esame di laurea con abilitazione. In ognuno dei due gruppi era presente un osservatore (Maria Grazia Strepparava e Federico Zorzi) che ha iniziato il suo compito distribuendo a tutti i partecipanti un mandato specifico, relativo al “ruolo da giocare” all’interno del gruppo. Per due dei partecipanti il mandato era esplicito (impersonare il Presidente e il Vicepresidente del CLM e, quindi, gestire la riunione); per gli altri era riservato, e suddiviso in due categorie di mandati: uno funzionale (ad esempio: perorare la causa del coinvolgimento degli studenti nel processo decisionale) ed uno relazionale (ad esempio: schierarsi sempre a favore del Presidente). Lo scopo del gioco di ruolo era triplice:

  • far acquisire ai Presidenti la consapevolezza della differenza esistente tra un mandato funzionale (esplicito) e un mandato relazionale (spesso non esplicitato);
  • aiutare i Presidenti a mettere in atto e acquisire tecniche e strategie per gestire l’interazione all’interno di un piccolo gruppo;
  • insegnare a mediare tra posizioni differenti.

Coerenza tra l’obiettivo di far conoscere

ai Presidenti alcuni strumenti comunicativi per

la leadership di gruppo e formato utilizzato per l’atelier

Nella fase di progettazione dell’Atelier si era ampiamente discusso su quale poteva essere il formato del gioco di ruolo che fosse più efficace nel trasmettere ai Presidenti la percezione di quanto la dimensione relazionale possa condizionare la prestazione del gruppo di lavoro e come il monitoraggio adeguato di questo aspetto sia il timone che consente di raggiungere i risultati attesi. Un aspetto delicato era identificare il tipo di scenario da utilizzare: scegliere una situazione realistica o una astratta, lontana dalla quotidianità del lavoro del presidente? Entrambe le soluzioni avevano pregi e criticità: lo scenario realistico facilita la traduzione di quanto vissuto nella quotidianità, cogliendone immediatamente l’utilità, ma la quotidianità del problema rischia di bloccare l’attenzione sui contenuti e rendere eccessivamente opachi gli aspetti relazionali; nello scenario non-realistico si rischia di non far cogliere l’applicabilità di quanto sperimentato alla pratica quotidiana, ma proprio la non rilevanza dei contenuti rende più agevole far emergere chiaramente gli aspetti relazionali. La scelta di una situazione non attuale, ma percepita come possibile a breve, ha consentito di mediare adeguatamente tra i due aspetti.

Assegnare a ogni partecipante un mandato chiuso in una busta ha creato l’aspettativa che tutti avessero ricevuto specifiche indicazioni comportamentali e di atteggiamento, creando nella mente dei partecipanti uno sfondo di ipotesi sulle cause del comportamento altrui, come di fatto avviene normalmente  in un gruppo di lavoro: in modo del tutto naturale il ruolo e lo status di ciascuno dei partecipanti generano nei presenti un insieme di aspettative che in breve – a partire dalla dinamica e dalla qualità percepita degli scambi relazionali – si arricchiscono con gli aspetti caratteriali di ciascuno generando schemi interpretativi sempre più articolati.  Anche i mandati esclusivamente di contenuto hanno generato pattern relazionali: difendere un obiettivo porta spesso ad interazioni che dall’esterno possono essere facilmente interpretate come posizioni conflittuali personali. Tra i mandati relazionali, alcuni erano stati tenuti volutamente semplici e facilmente riconoscibili, altri erano più trasversali e complessi, per far agire la complessità delle intenzioni e far emergere la non linearità della relazione tra quanto è percepito e l’intenzione sottostante. I mandati che più di tutti hanno permesso di far emergere i processi di costruzione del significato e il potere delle rappresentazioni mentali nel guidare le nostre azioni e reazioni emotive, sono stati i biglietti segreti su cui era scritto ….. “niente”. Anche quando non sono state date indicazioni di comportamento o atteggiamento, infatti, il gruppo  ha rapidamente costruito una chiave di lettura per spiegare il comportamento di questi partecipanti,  schemi interpretativi che sono poi emersi in modo articolato (e disorientante per le persone che scoprivano cosa gli altri avevano loro attribuito) durante la fase di discussione.

Il potere di questo tipo di esercizio sta proprio nella possibilità – a differenza di quanto solitamente avviene nella vita reale – di scoprire “cosa c’è nella mente dell’altro” e lavorare sui punti di vista di tutti i partecipanti, mettendo in relazione le intenzioni con gli agiti, con le emozioni che si sono attivate e con l’effetto delle nostre azioni sugli stati mentali altrui, in modo trasparente. Il debriefing su questi aspetti permette di incrementare il grado di consapevolezza dei processi, mostrando l’utilità di saper osservare a più livelli. L’esperienza in vivo di gestire il gruppo, avendo poi uno spazio di discussione sulle dinamiche appena sperimentate, consente di lavorare sui cicli interpersonali disfunzionali appena vissuti e sull’intreccio tra comportamenti e reazioni emotive.

La presenza degli osservatori esperti ha tre funzioni: osservare i processi e integrare quanto detto dai partecipanti, quando alcune criticità delle interazioni non vengono notate o riportate; mantenere stabile nel gruppo l’atteggiamento non-giudicante, di accettazione e cooperazione nel corso della fase di rielaborazione; effettuare un modelling implicito sulle strategie comunicative a partire dalle scelte linguistiche e terminologiche dei loro interventi di rielaborazione. Nella fase di rielaborazione è stato importante portare l’attenzione dei presenti sulle diverse forme e modi del linguaggio usato durante l’esercizio (e anche nel corso della discussione) per evidenziare l’impatto e le valenze che le parole scelte hanno sul singolo e sul gruppo. Anche questa sensibilità linguistica è una competenza preziosa nella gestione di un gruppo di lavoro.

Risultati: le dinamiche agite nel primo            laboratorio

Il primo gruppo di lavoro ha incontrato diverse difficoltà nel procedere verso gli obiettivi prefissati ed è riuscito solo in parte a portare a termine il compito. I mandati relazionali hanno dato luogo a cicli interpersonali disfunzionali e a interazioni che hanno amplificato le risposte emotive individuali e collettive, soprattutto a matrice agonistica. Sono emersi più volte nel corso dell’esercizio sia vissuti di iperattivazione rabbiosa sia, all’opposto, vissuti di impotenza e di ritiro dal gruppo e dal compito. In ogni gruppo era stato attribuito il ruolo del “mediatore”, ma per le dinamiche che si sono create l’azione del mediatore (che pure era un esperto) non si è potuta pienamente dispiegare e spesso è stata bloccata. È stato quindi pienamente evidente a tutti – sia in vivo che successivamente nel debriefing – l’impatto degli aspetti relazionali sul gruppo di lavoro e come la criticità delle situazioni di scacco relazionale zavorrino il lavoro collettivo.

Il gruppo tuttavia ha avuto un importante momento formativo proprio durante quelli che sembravano irrisolvibili momenti di impasse: per più di una volta nel corso dell’esercizio diverse persone sono “uscite dal ruolo” sia con degli agiti fisici – ad esempio ridere o fare interventi eccessivamente amplificati ad arte ed evidentemente artificiosi – sia  commentando in vario modo che si stava facendo un gioco di ruolo o il fatto che il gioco di ruolo stava venendo molto male. A prima vista quando un partecipante esce dal ruolo si enfatizza l’aspetto dell’ “as if”  dell’esercizio e viene dai più vissuto come un segno di fallimento dell’esperienza. In realtà proprio questa rottura di schema ha permesso, in fase di debriefing, un prezioso intervento di ricodifica da parte dell’osservatore: ricostruendo, con tutto il gruppo e in particolare con chi aveva agito le rotture, i momenti specifici in cui si erano verificate, è emerso che si trattava dei momenti di maggiore criticità relazionale e di maggior attivazione emotiva. La situazione era così critica da essere intollerabile e quindi per tornare a una comfort zone emotiva era meglio uscire dal gioco. Nelle situazioni reali non c’è però un gioco da cui poter uscire. E allora? In realtà anche nelle situazioni reali si può uscire dai giochi relazionali o dai cicli interpersonali disfunzionali e dalle situazioni di difficoltà metacomunicando, vale a dire comunicando con il gruppo su ciò che si percepisce sta avvenendo in quel momento, sul senso dei messaggi che vengono scambiati, sul proprio stato emotivo o sulle proprie reazioni. Ed è buona norma farlo partendo dal proprio stato di disagio o di difficoltà, utilizzando un tono di voce e un modo piano, pacato e tranquillo, evitando accuratamente formulazioni e affermazioni giudicanti e/o squalificanti sul gruppo o sui singoli, non usando generalizzazioni,  non confondendo il comportamento (“sono state presentate cinque opzioni, ma dici che non ne scegli nessuna. Questo è un problema perché non riesco a vedere altre ipotesi percorribili”) con le caratteristiche della persona (”sei il solito che fa obiezione su tutto e non ti va mai bene nulla”). Solo rispettando questi parametri la metacomunicazione è un intervento efficace. Proprio la condivisione delle emozioni negative e del disagio vissuto, attraverso i meccanismi di rispecchiamento reciproco e il parlarne insieme, ha reso possibile ai partecipanti ritrovarsi allineati come gruppo al termine dell’esperienza.

Risultati: le dinamiche agite nel secondo laboratorio

Diverso è stato invece l’andamento nel secondo gruppo. L’attività è durata un’ora, la discussione finale circa 20 minuti. Il gruppo ha lavorato efficacemente fin dai primi scambi, consentendo di giungere ad alcune decisioni condivise (raggiunte a maggioranza, per alzata di mano) rispetto alle modalità di lavoro della futura assemblea, nonostante alcuni membri del gruppo avessero dei mandati relazionali e funzionali che ostacolavano il processo di decision-making. I conduttori hanno mostrato particolare sensibilità alle dinamiche in corso e sono riusciti a mantenere per la maggior parte del tempo un assetto relazionale non giudicante, di sostegno ai singoli interventi, orientando la discussione sempre sul merito degli argomenti portati e impedendo che questa si spostasse sul piano personale. I conduttori hanno fatto spesso interventi  per ridurre gli agiti aggressivi e competitivi. In questo modo è stato possibile per il gruppo rimanere a lungo in un assetto relazionale cooperativo. Quando è stato necessario, il Presidente ha esercitato la sua autorevolezza, senza tuttavia fare interventi autoritari. Nessuno dei partecipanti è rimasto escluso dalla discussione e tutti si sono sentiti ascoltati. Anche questo elemento dimostra come il buon clima relazionale abbia  favorito la coesione di gruppo; ciò ha permesso che gli obiettivi di lavoro comuni diventassero, man mano che la discussione procedeva, primari rispetto agli obiettivi personali.

Conclusioni

Uno degli aspetti più interessanti e probabilmente formativi del miniatelier nasce dal fatto che il compito da eseguire, la numerosità del gruppo, i ruoli espliciti e i mandati impliciti erano assolutamente identici, ma l’esito è stato radicalmente diverso ed ha portato, in un caso alla risoluzione del compito, nell’altro a uno stato di blocco parziale e al mancato raggiungimento dell’obiettivo. A essere differenti nei due gruppi sono state le dinamiche relazionali che si sono attivate nel corso dell’esercizio e  il modo in cui i diversi ruoli sono stati tradotti concretamente in atteggiamenti, azioni e intenzioni da parte di chi li stava  rivestendo; simulati o reali che siano, i ruoli veicolano aspettative condivise sui comportamenti che ciascuno deve tenere sulla base degli obblighi attribuiti e attesi, ma sono sempre calati nella realtà concreta di individui specifici, con le loro caratteristiche individuali, vulnerabilità e punti di forza che possono trasformare in direzioni anche opposte il ruolo stesso.

Non si ribadisce mai a sufficienza l’importanza dei fattori ambientali e spaziali quando si lavora in gruppo e i diversi esiti dei due gruppi di lavoro lo confermano pienamente: mentre il primo gruppo si è seduto intorno a un tavolo rettangolare, con il Presidente al centro e Vicepresidente accanto,  nel secondo gruppo le persone  hanno scelto liberamente dove sedersi in un cerchio di sedie, una organizzazione spaziale che solitamente  facilita lo scambio e la comunicazione e riduce la percezione di un assetto autoritario tra i partecipanti. Una nota finale: lavorare insieme, condividere pensieri ed emozioni facilita l’integrazione; parlare di relazioni, se fatto nel modo giusto, con un tono adeguato e non-giudicante, crea condivisione; la sensazione di avere raggiunto qualcosa insieme attiva la percezione di un sistema che coopera. Così è stato, secondo noi, per tutti coloro che hanno partecipato ai lavori. Mangiare insieme, condividendo emozioni positive  – complici il paesaggio di luna e di mare e i profumi della sera – è stata la chiusura adeguata della giornata che ha trasmesso a tutti la percezione di essere parte di uno stesso più grande, cooperativo e coeso gruppo.

Un’analisi più articolata ed esauriente delle dinamiche disfunzionali che possono intralciare il lavoro di gruppo, e cimentare la leadership del Presidente di CLM, appare nell’articolo di Federico Zorzi e Maria Grazia Strepparava (Leadership efficace nel lavoro di gruppo) che verrà pubblicato più oltre in questo numero di Medicina e Chirurgia.  

Bibliografia

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Cita questo articolo

Gruppo di Lavoro Innovazione Pedagogica della Conferenza Permanente dei Presidenti di Corso di Laurea Magistrale in Medicina, La leadership nel lavoro di gruppo, Medicina e Chirurgia, 72: 3276-3279, 2016. DOI:  10.4487/medchir2016-72-3

MD-PhDn.72, 2016, pp. 3274-3275

Marco Krengli (Piemonte Orientale, Novara), Daniele Santini (Roma, Campus Biomedico), Francesco Curcio (Udine), Luciano Daliento (Padova), Antonio Moschetta (Bari), Raffaella Muraro (Chieti), Paolo Remondelli (Salerno).

Componenti esperti esterni alla Conferenza: Antonella Calogero (Roma, La Sapienza-Polo Pontino), Calogero Caruso (Palermo), Riccardo Zucchi (Pisa), Mauro Tognon (Ferrara), Massimiliano Corsi Romanelli (Milano, Statale).

 

Il percorso di dottorato di ricerca si colloca in Italia in una fase successiva alla laurea e spesso, in ambito medico, addirittura dopo la specializzazione e quindi dopo un precedente periodo di 10-11 anni di studi universitari. Questo fa sì che l’accesso sia limitato a pochissimi “scientists” che accettano di investire nello studio una buona parte della propria vita professionale, e probabilmente, quella potenzialmente più produttiva dal punto di vista scientifico. Questo si traduce in un numero esiguo di medici che si formano in attività di ricerca soprattutto traslazionale, che è quella che meglio può tradurre nella pratica clinica i risultati di sperimentazioni che nascono nei laboratori dedicati alla ricerca di base.

L’istituzione di un percorso integrato MD-PhD consentirebbe un accesso precoce al dottorato di ricerca in modo da raccogliere le vocazioni di coloro che durante gli studi di Medicina e Chirurgia potrebbero indirizzare la propria formazione alla ricerca, creando i presupposti per una futura attività da svolgere in ambito accademico o in istituti di ricerca.

Obiettivo del Gruppo di Lavoro è quindi quello di formulare una proposta di percorso MD-PhD, utile alla redazione di un documento della Conferenza e che fornisca indicazioni per la stesura di una normativa ministeriale. Dovranno quindi essere definite le principali caratteristiche del percorso MD-PhD in termini di accesso, svolgimento e integrazione nell’ambito del corso di laurea in Medicina e Chirurgia.

Per lo svolgimento della propria attività, il gruppo di lavoro della Conferenza ha stabilito di effettuare due survey preliminari volte a descrivere i percorsi di eccellenza esistenti nelle varie sedi universitarie a livello nazionale e a raccogliere le principali informazioni relative ai percorsi MD-PhD presenti nei principali Paesi Europei ed extra-Europei. I risultati di queste survey sono già stati descritti in precedenti reports. Sulla base di tali survey, presentate e discusse in varie riunioni della Conferenza, è a questo punto possibile formulare alcune considerazioni.

Nella stesura della proposta di percorso MD-PhD si dovrà tener conto dei seguenti aspetti principali:

1) tempo di accesso;

2) modalità e requisiti di accesso;

3) strutturazione del percorso con acquisizione simultanea o sequenziale dei titoli MD e PhD;

4) benefits da prevedere;

5) collaborazione fra più sedi universitarie.

Tempo di accesso

Nei programmi USA l’inizio dell’attività PhD è collocata al 3° anno anche se la scelta avviene di norma al 2° anno. Nei programmi Europei l’inizio varia dal 3° al 5° anno. A tale proposito l’accesso ai percorsi di eccellenza in Italia varia dal 2° al 4° anno. In generale un accesso dopo almeno una parte di corsi pre-clinici può aiutare a una scelta più consapevole da parte degli studenti, tuttavia un accesso tardivo oltre il 3° anno determina una concentrazione di attività dedicata al parcorso PhD che può risultare eccessiva anche in rapporto al concomitante carico di studio e di attività professionalizzante nelle discipline cliniche.

Modalità e requisiti di accesso

Una selezione è prevista in tutti i percorsi MD-PhD attivi ed è basata sulla valutazione del precedente curriculum e delle attitudini e aspirazioni dei candidati. Tali aspetti possono essere valutati sia con criteri basati sulla media dei voti e sui crediti acquisiti/esami superati, sia con un colloquio che, a seconda di come è strutturato, può essere orientativo o selettivo.

Strutturazione del percorso con acquisizione simultanea o sequenziale dei titoli MD e PhD

L’integrazione fra MD e PhD è in generale strutturata in modo differente in Nordamerica e in Europa.

In Nordamerica lo studente, superati i primi due anni, di solito preclinici, si dedica completamente alla attività di ricerca (PhD) per un periodo fino a 4 anni, proseguendo solo successivamente il percorso MD con la maggior parte delle attività cliniche per altri 2 anni. I due titoli MD e PhD possono quindi essere conseguiti simultaneamente al termine degli studi.

 

In Europa l’integrazione fra MD e PhD varia da sede a sede senza però una netta divisione fra periodi in cui viene svolta sola attività di ricerca e periodi di studio di materie precliniche e cliniche. I titoli di studio, inoltre, sono acquisiti in modo sequenziale, di solito MD dopo 6 anni e PhD dopo ulteriori 2-3 anni. Nei due modelli descritti vi sono vantaggi e svantaggi. Il principale vantaggio del modello Nordamericano è legato alla possibilità di dedicarsi completamente alle singole attività e in particolare quella di ricerca, mentre il principale vantaggio del modello Europeo può risiedere nella flessibilità di modulazione delle attività di studio, tirocinio e ricerca con la possibilità di conseguire il primo titolo di studio (MD) dopo 6 anni.

Benefits da prevedere

Tutti i percorsi MD-PhD prevedono dei benefits che hanno lo scopo di rendere più accessibile e interessante un percorso di studio e ricerca che ha una durata non inferiore a 8 anni. Generalmente consistono in borse di studio, esenzione dalle tasse e facilitazioni logistiche.

Collaborazione fra più sedi universitarie

In uno scenario in cui i programmi di scambio a livello internazionale e nazionale vengono sempre più incentivati sembra del tutto logico prevedere una collaborazione fra più sedi universitarie che consenta agli studenti di effettuare rotazioni per attività di studio e ricerca e ai docenti di condividere programmi didattici e di promuovere quelli che sono le peculiarità di ricerca delle singole sedi.

E’ da prevedere un programma di scambio anche a livello internazionale  con adesione a indicazioni e linee guida europee (ORPHEUS, ESF-ALLEA, ESF European Review Guide. Al fine di completare le informazioni utili alla stesura della proposta di percorso MD-PhD può essere opportuno prevedere anche contatti con la componente studentesca e in particolare con la “European MD/PhD Association (EMPA)” (http://www.eumdphd.com/empa-2/) che riunisce studenti inseriti nei percorsi MD/PhD.

L’Arte dell’osservazione, dall’opera artistica alla diagnosi Le prime esperienze in Sapienza Università di Roma, a Medicina e Chirurgian.72, 2016, pp. 3269-3273, DOI: 10.4487/medchir2016-72-2

Abstract

This study describes how Visual Thinking Strategies (VTS) as a methodological practice can help medical students learn and acquire analytical ability. This ability, capable of improving observational acumen and generally acquired only after years of clinical experience, may be achieved also by recourse to the systematic and reasoned examination of the visual arts, in particular paintings.

Students attending the third year Medicine and Surgery degree-course, within the ambit of the faculty’s integrated  medical-scientific and humanities teaching-learning activities, followed an elective course which began with a preparatory-explanatory lecture on the analytical methodologies applied to the study of art, followed by a practical workshop held at Rome’s Galleria Borghese and ended with a third and final lecture where the students themselves provided the teachers who conducted the course with direct feedback regarding the three phases of the course.

The students’ appraisal of the experiences was positive; the experiment is on-going and has been extended to embrace other courses held by the Sapienza University.

Further observations are needed at present to validate the effectiveness to medical training of this kind of course in the long term, even though the limited number of experiments carried out in other countries, whose historical and artistic heritages are undoubtedly not so rich as Italy’s, attest to their undeniable usefulness to students of medicine and surgery at both analytical and, no less important, humanistic-educational level.

Parole chiave: Strategie di pensiero visivo, arte e medicina, medicina narrativa, scienze umane

Keywords: Visual thinking strategies, art and medicine, narrative medicine, medical humanities

Articolo

Introduzione

A partire dagli anni sessanta si sviluppa la disciplina delle Medical Humanities, dall’esigenza di arricchire gli studi nelle scienze mediche con le discipline umanistiche (Polianski, 2012). Nella convinzione che la medicina sia qualcosa di più che un insieme di conoscenze e di abilità tecniche, gli educatori medici hanno ritenuto importante inserire materie umanistiche come arte, letteratura, filosofia, etica e storia, nel curriculum formativo di un buon medico (Familiari et al., 2001; Binetti e Terranova, 2005; Snelgrove et al., 2009; Familiari et al., 2010a, b; Binetti, 2011a, b; Tonnarini e Gazzaniga, 2011; Vettore, 2014).

Uno degli elementi alla base del processo decisionale medico è l’osservazione, intesa come percezione ed identificazione  di aspetti e segni rilevanti, utile per la loro interpretazione in chiave diagnostica. Purtroppo con l’introduzione di test diagnostici strumentali e di laboratorio avvenuta alla fine degli anni settanta si è assistito alla graduale perdita dell’esercizio dei cinque sensi da parte del medico ai fini diagnostici e dello spirito critico per l’interpretazione delle possibili correlazioni con il contesto ambientale del paziente (Braverman, 2011).

Per affinare l’acuità di osservazione, generalmente acquisita solo dopo anni di esperienza clinica, periodicamente i formatori hanno sperimentato l’utilizzo dell’arte per insegnare tale abilità mediante la visione sistematica di dipinti (Dolev et al., 2001). In questo contesto si inserisce l’utilizzo del metodo della Visual Thinking Strategies da parte di alcune Facoltà di Medicina per il miglioramento delle competenze diagnostiche.

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L’Arte dell’Osservazione

Quando ci si confronta con l’arte, nell’intelletto si costituiscono pensieri e giudizi in ragione del sorgere di emozioni e sensazioni che portano ad un’interpretazione soggettiva. Importante in questo ambito è la ricerca di Rudolf Arnheim, che spiega in modo convincente la connessione tra la percezione visiva e il pensiero. Identificare ciò che vediamo, secondo Arnheim, è un atto di conoscenza. Quando si guarda qualcosa, si attuano rapidamente dei meccanismi di comprensione per riconoscere e afferrare il senso di ciò che ci viene messo dinanzi agli occhi. Inoltre grazie agli stimoli visivi si mettono in moto automaticamente pensieri e abilità atti a risolvere problemi (Arnheim,  1974).

A metà degli anni settanta, negli Stati Uniti, Abigail Housen, psicologa cognitivista, figlia di una psicologa e di uno storico dell’arte, dà inizio ad un importante studio basato sui comportamenti dei visitatori in un museo e incentrato sui pensieri che vengono stimolati di fronte ad un’opera d’arte.

Housen adotta come strumento d’indagine un’intervista indiretta con la quale i fruitori del museo sono invitati a raccontare ciò che vedono nell’opera e i pensieri che questa gli suscita. Le domande sono aperte e sono volte a non influenzare lo spettatore. Nel corso del tempo, questo strumento d’indagine, chiamato Aesthetic Development Interviews (ADI), permette alla Housen di raccogliere un ampio campione di dati e di avere una panoramica complessa sulle idee di molte persone di fronte a un’opera (Housen, 2002).

La complessità del pensiero che l’arte è in grado di suscitare fa notare alla Housen che, comunque, anche lo spettatore meno abituato alla fruizione dell’arte, utilizza una serie di meccanismi psichici per trarre conclusioni che sono fondamentali per la comprensione e l’apprendimento. Questi meccanismi vengono generati da associazioni, ricordi, fatti e sentimenti che l’immagine è capace di far emergere in modo inconsapevole dall’osservazione.

Dai risultati dei sui studi e dal confronto con altre ricerche su questo tema, la Housen inizia a sviluppare una strategia didattica interamente basata sulla forza della comunicazione visiva e mette a punto il metodo della Visual Thinking Strategies (VTS), capace di aiutare concretamente gli studenti nell’apprendimento e nell’acquisizione di capacità di analisi. Tale metodo, come strumento conoscitivo per sviluppare la capacità di osservazione e descrizione, viene applicato per la prima volta in un corso di laurea in medicina e chirurgia all’università di Harvard nell’anno accademico 2003-2004 agli studenti del 3° anno, con un corso elettivo di 9 settimane dal titolo Training the eye (Shapiro et al.,  2006).

Negli anni successivi, tale strategia è stata adottata da altre Università statunitensi come ad esempio la University of Texas (Klugman et al., 2011) o l’esperienza del Dipartimento di Dermatologia di Dallas e il museo d’arte della città che hanno inaugurato un corso in cui gli studenti divisi in piccoli gruppi di discussione vengono messi di fronte ad opere d’arte e vengono guidati nel focalizzare la loro attenzione sull’osservazione e la descrizione dell’opera, nonché a discutere insieme con l’aiuto di un facilitatore (Stutzman e Wickless, 2014). Seguendo la linea di pensiero della VTS della Housen, è stata ideata una rubrica del pensiero critico per guidare l’analisi delle opere, chiamata ODIP, acronimo di “Osservare, Descrivere, Interpretare, Provare” presso l’Università dell’Ohio in collaborazione con il museo d’arte di Colombo (Jacques et al.,  2012).

L’arte, mediante le attività di osservazione, analisi, confronto e discussione date dalla VTS, consente allo studente di medicina di acquisire un metodo da applicare anche nell’attività clinica, migliorando le competenze nell’esame obiettivo del paziente, implementando le capacità di problem solving e pensiero critico, abituandosi al lavoro di gruppo, coltivando l’empatia verso il paziente e il rispetto dell’altro (Jacques et al., 2012).

Ritenendo l’approccio VTS interessante, è stata avviata, nell’anno accademico 2014-2015, una attività di sperimentazione di tale pratica nell’ambito del Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia della Facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università “La Sapienza” in collaborazione con la Galleria Borghese di Roma. Tale metodo è stato inserito nelle attività elettive collegate al corso integrato di Metodologia Medico-Scientifica e Scienze Umane,  per gli studenti del 3° anno di corso.

Nell’ambito della sperimentazione è stato realizzato uno studio qualitativo, con l’obiettivo di valutare il gradimento e la percezione dell’utilità di tale metodica da parte degli studenti per la loro formazione clinica.

Metodo di studio e analisi dei dati

Tutti gli studenti del 3°anno di medicina sono stati invitati a partecipare ad una attività didattica elettiva dal titolo “L’arte dell’osservazione: dall’osservazione dell’opera artistica alla diagnosi” inserita nel corso integrato di Metodologia Medico-Scientifica e Scienze Umane, nel secondo semestre del terzo anno di corso dell’anno accademico 2014-2015.

Hanno scelto di partecipare 41 studenti.

Il corso è stato complessivamente strutturato in 2 lezioni in aula e in un pomeriggio di pratica laboratoriale svolta all’interno della Galleria Borghese di Roma.

 

Prima dell’inizio del corso è stato somministrato un questionario per la valutazione della capacità di osservazione ed analisi di immagini mediche.

Nell’ambito della prima lezione è stato introdotto il tema della relazione tra Arte e Medicina nei secoli, citando alcune applicazioni contemporanee; è stato introdotto il metodo VTS e, con una esperienza in aula, mediante la visione dell’opera “Susanna e i Vecchioni” di Tintoretto (Fig. 1), è stato applicato il metodo ODIP. Si è infatti ritenuto utile attivare la pratica di osservazione, di descrizione e successiva interpretazione e prova nell’ambiente museale per lasciare maggiore autonomia agli studenti. Tale approccio permette di simulare maggiormente i processi relazionali del team medico con la possibilità di migliorare non solo le capacità di osservazione ma anche quelle di rispetto del pensiero altrui e di collaborazione per la soluzione di un problema comune.

L’attività all’interno della Galleria Borghese ha compreso la visita guidata, una pratica laboratoriale con un facilitatore e un’attività laboratoriale autonoma individuale a a piccolo gruppo degli studenti.

Per la pratica laboratoriale al Museo gli studenti sono stati suddivisi in gruppi di 4-6 persone per un totale di 9 gruppi; le visite presso il Museo sono state svolte in diversi giorni.

Ad ogni gruppo è stata assegnata un’opera della Galleria Borghese per attivare la pratica dell’ODIP, consegnando un questionario (Scheda A) che gli studenti hanno compilato individualmente davanti all’opera, per un tempo di osservazione di 20 minuti e successivamente in modo collettivo discutendone con il gruppo alla presenza di un facilitatore (Figs. 2, 3).

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La seconda pratica laboratoriale autonoma è stata denominata “Caccia all’Opera”. Ogni gruppo è tornato autonomamente al Museo per rintracciare un’opera con evidenti segni patognomonici, guidato da una scheda appositamente strutturata (Scheda B). Affiancando alle evidenze riscontrate nell’opera le evidenze cliniche atte a dimostrare la presunta diagnosi, durante la lezione conclusiva in aula, ogni gruppo di studenti ha presentato in modo autonomo i dati raccolti.

Durante la lezione conclusiva, oltre alla presentazione delle relazioni di ogni gruppo, la specialista di storia dell’arte ha esposto l’analisi storico-artistica delle opere assegnate agli studenti.

Durante l’ultima lezione è stato somministrato agli studenti un questionario di gradimento, in forma anonima, integrato da domande utili al fine di valutare la percezione dell’approccio proposto e il feedback degli stessi. Le domande erano sia a risposta multipla che aperte, consentendo la raccolta di osservazioni e commenti liberi.

La scheda A, la scheda B e il questionario di valutazione non sono descritti per brevità, ma sono a disposizione dei lettori.

Risultati

Hanno partecipato alla compilazione del questionario 31 studenti, sui 41 aderenti al corso.

Sono state quindi analizzate le risposte alle domande qualitative.

Per il 93,5% degli studenti, la VTS ha contribuito a migliorare la loro capacità di osservazione clinica.

La maggior parte degli studenti ha espresso giudizio positivo nei riguardi del corso (96,7%), indicando in particolare la visita al Museo (32,3%), la pratica laboratoriale legata alla sperimentazione di iconodiagnostica (“caccia all’opera”) (34,5%) e l’integrazione tra arte e medicina come interessanti e utili ai fini della formazione medica e alcune volte addirittura sorprendenti (29,0%).

Gli studenti hanno anche apprezzato il metodo di insegnamento proposto, indicando come innovative e stimolanti:

– la modalità di lavoro in equipe;

– il confronto tra i componenti del gruppo;

– il coinvolgimento attivo degli studenti anche durante la lezione in aula;

– l’autonomia dell’apprendimento  durante le attività proposte al museo;

– la molteplicità di interpretazioni che possono emergere da un’opera d’arte e il lavoro di sintesi da parte del gruppo.

Gli studenti, in relazione alle opere da loro scelte con segni patognomonici, hanno poi presentato in aula le opere, la “presunta” patologia e le evidenze mediche, attraverso immagini atte a dimostrare le loro ipotesi. Tale attività è stata ritenuta interessante e stimolante (96,7%) e tale da costituire utile esercizio per lo sviluppo delle abilità di problem solving (64,5%) e del pensiero critico utile al ragionamento clinico (25,8%).

Discussione e Conclusioni

I primi risultati di questa sperimentazione, così come si evidenzia dai commenti degli studenti, sembrano confermare le abilità implementate dall’approccio VTS come lavoro in Team, capacità di ascolto e rispetto reciproco tra colleghi, di pensiero critico e di problem solving emerse in precedenti simili esperienze di formazione medica (Reilly et al., 2005).

Oltre all’apprezzamento dell’approccio VTS e in generale dell’inserimento della conoscenza dell’arte all’interno di un corso di Medicina, gli studenti hanno apprezzato il metodo d’insegnamento basato sull’approccio “learner centered” (Harden e Laidlaw, 2017) e che ha posto lo studente come protagonista del processo di apprendimento.

E’ proprio in questa chiave che è stata scelta la strategia ODIP, che fornisce gli strumenti di osservazione ed analisi di un’opera mediante una scheda, rendendo il gruppo di studenti autonomo durante l’attività al Museo. L’esperto mantiene il ruolo di facilitatore durante la discussione successiva all’osservazione dell’opera, incoraggiando un ambiente sicuro in cui lo studente si sente incentivato e “libero” di esprimere il proprio pensiero.

Tale processo può essere paragonato alle attività che un team di medici è chiamato a svolgere durante la pratica clinica. In gruppo si osserva il paziente già esaminato singolarmente e ogni membro del team può esprimere la propria opinione con il medico esperto che ha un ruolo di facilitatore nel guidare il team alla sintesi e alla formulazione di una ipotesi comune. Il limite di questo studio iniziale è legato alla mancanza di un gruppo di controllo e alla tipologia puramente qualitativa dei dati relativi al questionario di gradimento.

Per quanto riguarda il questionario di valutazione dell’impatto dell’esperienza del corso sulle capacità di osservazione, non sono disponibili al momento i dati relativi alla somministrazione successiva alle attività. Il consenso ricevuto dagli studenti ha posto l’attenzione sulla necessità di proseguire nell’utilizzo dell’approccio sperimentato. Altri studi (Klugman et al., 2015) e gli stessi studenti suggeriscono di ripetere l’esperienza legata all’osservazione dell’arte più volte durante il corso di studi per aumentare il miglioramento delle capacità legate all’arte medica.

Tale metodica, utilizzata in Sapienza inizialmente nel Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia della Facoltà di Medicina e Psicologia, è oggi utilizzata anche nel Corso di Laurea “C” della Facoltà di Medicina e Odontoiatria dello stesso Ateneo, allo scopo di implementarne e perfezionarne l’utilizzo a beneficio degli studenti, ottenere dati più consistenti per uno studio prospettico che renda ulteriori evidenze sui risultati ottenibili nella formazione degli studenti di medicina e chirurgia e infine calibrarne le migliori modalità attuazione.

Ringraziamenti

Si ringrazia la Dott.ssa Anna Coliva, Direttrice del Museo Galleria Borghese di Roma, per aver concesso le visite degli studenti e l’uso delle aule didattiche del museo che hanno consentito la discussione ai piccoli gruppi di studenti.

Bibliografia

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18) Snelgrove H., Familiari G., Gallo P., Gaudio E., Lenzi A., Ziparo V., Frati L. The challenge of reform: 10 years of curricula change in Italian medical schools. Med Teach. 2009; 31:1047-55.

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Cita questo articolo

Ferrara V., De Santis S., Giuliani C., et al., L’Arte dell’osservazione, dall’opera artistica alla diagnosi Le prime esperienze in Sapienza Università di Roma, a Medicina e Chirurgia, Medicina e Chirurgia, 72: 3269-3273, 2016. DOI: 10.4487/medchir2016-72-2.

Evoluzione della funzione di coordinamento delle attività formative professionalizzanti dei Corsi di Laurea delle Professioni sanitarie. Indagine nazionalen.72, 2016, pp.3263-3268 DOI:10.4487/medchir2016-72-1

Abstract

Since the transition of the healthcare professions education from the Regional Schools to University, the role of Coordinator of the clinical learning activities has been reinforced and has became increasingly important in the governance of the degree programs. However, to date, the professionals holding this function have expressed disappointment for their position within the organization and the instability of their role. Aiming at developing a stabilization policy of this role, a National survey was conducted to describe the functions, recruitment criteria, term of office and development of Coordinators of the clinical learning  activities of the 22 Healthcare Professions Degree Programs’ campuses. Two hundred and twenty nine Directors/Coordinators out of 425 eligible (53.8%) participated in the study; they represented 16 out of the 22 Healthcare Professions. The 41.9% of the respondents were named as Coordinators and the 42.4% as Directors. More than 85% of the interviewees were ˃ 41 years old, had a Master degree and a three-years renewable contract; the 70% worked for the National Health Service, the 23.6% for the University and the remaining 6% were freelance professionals.  Two third of them had a full time position. All the respondents worked as Coordinator for at least three years and the 36.7% of them for more than 11 years; the 50% of them had a salary equal to a Charge Nurse. More than 90% of the respondents perceived themselves autonomous in the organization and evaluation of the students’ clinical placements, while they reported a reduced autonomy in the supervision of Courses schedules and in the Tutors’selection. Starting from these results, the CPCLPS may hypothesize possible developments for the coming years.

Parole chiave: Atitvità formativa professionalizzante – Ruolo del coordinatore – Professioni sanitarie
Keywords: Clinical learning activities – Role of Coordinator – Healthcare professions

Articolo

Introduzione

La formazione universitaria delle professioni sanitarie compie venti anni, la funzione di coordinamento professionale si è consolidata ed ha assunto un ruolo sempre più importante nella governance dei corsi di laurea. Tuttavia nell’ambito della Conferenza Permanente emerge da tempo la necessità di riflettere sul   ruolo dei professionisti che hanno assunto questa funzione  perché esprimono disagio per la collocazione istituzionale e l’instabilità del loro ruolo.

I corsi di laurea delle professioni sanitarie essendo abilitanti  devono  sviluppare  competenze professionali   attraverso una formazione teorica e pratica che includa anche esperienze  nel contesto lavorativo specifico di ogni profilo, così da garantire, al termine del percorso formativo, la piena padronanza delle  competenze di base per una loro spendibilità nell’ambiente di lavoro.

I piani didattici infatti prevedono l’articolazione dei 180 CFU in 96 CFU di attività formative teoriche, 21 CFU per tesi, attività elettive, informatica e inglese,  e 60 CFU per esperienze di tirocinio in contesti reali e infine 3 CFU per attività di laboratorio pre-post clinici. Nell’ambito dei 96 CFU, ai quali concorrono i settori scientifici disciplinari previsti dagli ordinamenti didattici, da un minimo di 15 a 30 CFU sono dedicati agli insegnamenti relativi allo specifico ambito disciplinare (es. infermieristica, fisioterapia, logopedia.).

La finalità abilitante di questi Corsi di Laurea prevede negli Organi del Corso di Laurea (CL), oltre al Presidente e Collegio Docenti, anche una figura che assume la funzione di Coordinatore delle attività formative professionalizzanti, prevista nei  vari decreti e documenti che si sono susseguiti in questi 20 anni. Cosa si intenda con attività formative professionalizzanti non è ancora condiviso e univoco, tuttavia l’interpretazione più diffusa ritiene che comprendano il  tirocinio e le integrazioni con le docenze teoriche, in particolare con  quelle di specifico ambito professionale, oltre a tutte le attività di preparazione e rielaborazione del tirocinio  (es. briefing, debriefing, laboratori, simulazioni, sessioni di discussione casi).

Tale funzione di coordinamento venne introdotta con il D.M. del 24 luglio 1996(1) recante gli ordinamenti didattici universitari dei corsi di diploma universitario dell’area sanitaria (art.1.8) che tra gli Organi del corso   prevedeva un Coordinatore dell’insegnamento tecnico-pratico e di tirocinio, nominato dal Consiglio di Corso di D.U. tra coloro in servizio presso la struttura sede del Corso, sulla base del curriculum che tiene conto del livello formativo nell’ambito dello specifico profilo professionale, cui corrisponde il Corso. Inoltre precisava la durata del mandato per tre anni  e le assegnava la responsabilità dei seguenti processi:  insegnamenti tecnico-pratici e loro coordinamento con gli insegnamenti teorico-scientifici, organizzazione delle attività complementari, assegnazione e supervisione dei tutori, garantire l’accesso degli studenti alle strutture qualificate come sede di insegnamenti tecnico-pratici. Il Consiglio di Corso di Diploma individuava un coordinatore didattico per ciascun anno di corso e forme di tutorato per la formazione tecnico-pratica.

Con il decreto del 24 settembre 1997(2) vennero poi definiti i requisiti di idoneità delle strutture per i diplomi universitari dell’area medica, nel quale si stabilì che per ogni corso di Diploma Universitario dovesse esserci un coordinatore tecnico-pratico dello specifico profilo professionale.

Il D.M. del 2 aprile 2001(3) che trasformò i diplomi universitari in corsi di laurea per le 22 professioni sanitarie ribadiva che  “particolare rilievo, come parte integrante e qualificante della formazione professionale, riveste l’attività formativa pratica e di tirocinio clinico, svolta con la supervisione e la guida di tutori professionali appositamente assegnati, coordinata da un docente appartenente al più elevato livello formativo previsto per ciascun profilo professionale e corrispondente alle norme definite a livello europeo ove esistenti”.

Nel 2012 (4) la Conferenza Permanente dei Corsi di Laurea delle Professioni Sanitarie ha dedicato una Consensus Conference alla formazione professionalizzante. In tale occasione è emersa l’ambiguità   della denominazione “coordinatore” e la conseguente debolezza e non chiarezza di mandato. Emerse la proposta  di  chiamarlo  “Direttore della Didattica Professionale” (ex Coordinatore delle attività pratiche di tirocinio) con la responsabilità di assicurare l’integrazione tra gli insegnamenti teorici e il tirocinio, favorire la conformità degli insegnamenti professionali agli standard di competenza definiti e dirigere i tutor professionali. La Consensus raccomandava che l’assegnazione dell’incarico fosse formalizzata dal Collegio Didattico  e che il professionista scelto venisse assegnato a tale funzione a tempo pieno.

Negli anni successivi la problematica è stata oggetto di mozioni dell’ANVUR (5), dell’Osservatorio delle Professioni Sanitarie e del MIUR.  Un parere dell’ANVUR del 18 ottobre 2011, volto a chiarire i requisiti della docenza nei corsi di laurea delle professioni sanitarie, affermò la necessità di assicurare questo ruolo e di definirlo  in modo unitario, attribuendogli la denominazione di “Direttore delle attività didattiche” e superando la disomogeneità di  denominazioni  quali “Coordinatore delle attività didattiche, Coordinatore delle attività tecnico-pratiche e di tirocinio, Responsabile delle attività didattiche professionali. Inoltre esplicitò i requisiti per accedere a questo ruolo  analoghi a quelli richiesti alla docenza, ovvero laurea magistrale nella classe della professione sanitaria di riferimento, almeno 3 anni di esperienza di coordinamento didattico (coordinamento di anno, di insegnamento, di corso integrato) e 5 anni di titolarità di insegnamento in discipline professionalizzanti nello specifico profilo professionale in corsi universitari. In una  successiva Mozione (6) (8 maggio 2013) dell’Osservatorio Nazionale per le Professioni Sanitarie si ribadì come requisito obbligatorio dei Corsi di Laurea la presenza di un docente responsabile della formazione professionalizzanti rinforzando e recependo la denominazione “Direttore delle attività didattiche” prevista dall’ANVUR. Pur condividendo i requisiti per accedere a questo ruolo l’Osservatorio  propose  una deroga, in via transitoria e ad esaurimento, che per 5 anni potessero essere incaricati anche in regime di part-time “in convenzione” liberi professionisti in possesso di Laurea del profilo specifico ma non della Laurea Magistrale per i Corsi di Audioprotesista, Igienista Dentale, Podologo e Tecnico Ortopedico

Nel maggio 2012 (4) la Conferenza prese posizione con una mozione sollecitata da molte Università che, in fase di  applicazione del  DM 270/2004, avevano attribuito nei loro  Statuti  al  “Presidente del Corso di Laurea” la denominazione  di “Coordinatore del Corso di Laurea” e segnalavano una confusione nell’identificare i ruoli e responsabilità  dei CL.  Tale Mozione, condivisa anche con la Conferenza dei Presidi e dei Presidenti dei CLM di Medicina e Chirurgia, proponeva  di  nominare i 2 ruoli  “Presidente del Corso di Laurea” e “Direttore delle attività didattiche professionalizzanti”. Rispetto alle precedenti definizioni dell’ANVUR e  dell’Osservatorio, si ritenne opportuno aggiungere il termine “Direttore delle attività formative professionalizzanti”per fedeltà alla mission con cui era stato creato questo ruolo ma anche per non limitare le responsabilità dei Docenti e del Presidente.

Questo excursus storico, pur nelle sue contraddizioni, ha rinforzato e formalizzato sul piano legislativo la peculiarità  dei corsi di laurea abilitanti. Dopo 20 anni di formazione delle Professioni Sanitarie in ambito accademico sta emergendo l’esigenza di stabilizzare questo ruolo, ma prima di elaborare linee strategiche, la Conferenza ha ritenuto necessario fotografare la situazione del coordinamento professionale a livello nazionale.

Materiali e metodi

E’ stato predisposto un questionario per rilevare le diverse denominazioni, il profillo degli attuali Coordinatori (età, esperienza professionale e formativa, appartenenza istituzionale), durata e modalità di assegnazione dell’incarico, effettuazione di tale ruolo  in regime di tempo pieno o part-time, partecipazione agli Organi del Corso e alla commissioni di esame, funzioni realmente svolte e grado di autonomia percepita, problemi e criticità. È stato inviato a tutte le sedi dei 22 Corsi di Laurea attraverso i Vicepresidenti di ciascuna Commissione.

Risultati

Su un totale di 425 sedi di Corso di Laurea, hanno partecipato allo studio 229 sedi (53.8%), afferenti a 16 delle 22 professioni sanitarie e a 40 Università, non hanno risposto le Università di Sassari e Foggia (Tabella 1).

 

Corso di Laurea QuestionariN (%) N. sedi
Infermieristica 50 (56) 88
Infermieristica Pediatrica 2 (20) 10
Ostetricia 15 (43) 35
Fisioterapia 30 (77) 39
Logopedia 18 (72) 25
Igiene Dentale 22 (85) 26
Dietistica 13 (54) 24
Tecniche Sanitarie di Radiologia Medica 22 (59) 37
Tecniche di Neurofisiopatologia 8 (73) 11
Tecniche Ortopediche 4 (36) 10
Tecniche di Laboratorio Biomedico 10 (28) 36
Tecniche di Fisiopatologia Cardiocircolatoria e Perfusione Cardiovascolare 5 (36) 14
Assistenza Sanitaria 7 (63) 11
Tecniche della Prevenzione nell‘Ambiente e nei Luoghi di Lavoro 8 (30) 27
Ortottica 7 (35) 20
Tecniche Neuro e Psicomotricità infantile 8  (67) 12
Totale 229 (53.8) 425

Tab. 1 – Tasso di risposta al questionario per ciascun Corso di Laurea.

Per quanto riguarda la denominazione di questa figura, emerge che il 42,4% è denominato dalle Università come Direttore, declinato con le  seguenti specificazioni: Direttore didattico, Direttore delle attività formative, della didattica professionale, delle attività formative pratiche e di tirocinio; il 41,9% è nominato come Coordinatore, con le seguenti specificazioni: della didattica professionale, del corso di laurea, delle attività formative professionalizzanti, didattico, tecnico-pratico, delle attività formative aziendali. Per il restante 9,6% è chiamato genericamente Responsabile dell’attività didattica professionalizzante e di tirocinio o delle attività formative (Figura 1).

Schermata 2017-01-31 alle 15.30.31Il profilo che emerge dall’indagine (229 Coordinatori) è di un professionista con più di 41 anni (204; 89%) e in possesso del titolo di Laurea Magistrale (106; 46,3%) o Laurea Magistrale più Master, Dottorato o altra Laurea (103; 44,8%) (Figura 2). Per quanto riguarda l’appartenenza istituzionale, il 70% dei Coordinatori è dipendente del Servizio Sanitario Nazionale messo a disposizione dell’Università, il 23,6 % è dipendente dell’Università con profilo tecnico, professionale o di ricercatore, e il 6 % è in regime di libera professione.

Nei due terzi dei Corsi di Laurea i Coordinatori sono dedicati a questa funzione a tempo pieno e un terzo a tempo parziale. Dei 146 Coordinatori/Direttori dedicati a tempo pieno, 113 appartengono al Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e 33 all’Università. I 76 dedicati a tempo parziale a questa funzione appartengono al SSN (44), all’Università (18) e 14 sono liberi professionisti distribuiti su tutti i corsi di laurea (Figura 3).

L’incarico di Coordinatore/Direttore è ricoperto per il 36,7% da più di 11 anni, per il 26,6% da 6 a 10 anni e il 19,6% da 3 a 5 anni (Figura 4).  L’incarico è stato assegnato con differenti modalità, nel 49% dei corsi con nomina del Collegio Docenti, nel 40% con bando aziendale e/o in accordo con l’Università, e nel 3,9% con concorso pubblico. Come definito nei Decreti Ministeriali del 24 luglio 1996 e del 19 febbraio 2009, la durata dell’incarico di tre anni e rinnovabile è rispettata nell’85% dei corsi e solo nel 7% è un incarico stabile e definitivo. Circa il 50% dei Coordinatori/Direttori gode di un inquadramento funzionale ed economico equivalente al livello di coordinamento delle unità operative dei servizi sanitari. Per i Corsi di Laurea con piccoli numeri di studenti dove il coordinatore è un libero professionista, presta tale collaborazione in forma gratuita o con tariffe orarie a forfait e di modesta entità.

Schermata 2017-01-31 alle 15.32.49

I Coordinatori/Direttori partecipano agli Organi Collegiali del Corso di Studio con diversi gradi di coinvolgimento: il 79% partecipa al Consiglio di Corso (CdC) con diritto di voto, e il 13% non partecipa, il 7% partecipa senza diritto di voto; quest’ultima situazione sembra essere una scelta di singolo Corso di Laurea e non omogenea per gli altri Corsi di Laurea della stessa Università. Anche la loro partecipazione al Comitato per la Didattica è variabile, solo la metà partecipa come componente effettivo. Partecipano, invece, sempre alle Commissioni di Esame di Stato e di tirocinio, con il ruolo di coordinatore o di docente (Figura 5). Sono molto coinvolti nel gruppo di riesame e nei  processi di autovalutazione.

Il tirocinio e le attività formative professionalizzanti rappresentano l’ambito di maggior responsabilità dei Coordinatori/Direttori. Emerge, infatti, la loro percezione di godere di elevata autonomia nella programmazione dei tirocini, supervisione dei sistemi di valutazione, scelta delle sedi di tirocinio e rapporti con le aziende e gli enti che accolgono gli studenti, gestione del percorso di tirocinio degli studenti, di progetti innovativi e del tutorato; percepiscono una autonomia più limitata, invece, nella possibilità di orientare e supervisionare i programmi e la qualità delle docenze professionali e nello scegliere i tutor (Figura 6).

Schermata 2017-01-31 alle 15.34.31 I Coordinatori/Direttori oltre alle attività prima descritte e che  sono coerenti con la loro mission,  assumono anche  attività che potrebbero afferire al Presidente, a  docenti-coordinatori didattici, alle segreterie. Per esempio  coordinano  le docenze non professionali, promuovono incontri per favorire le integrazioni verticali e orizzontali tra gli insegnamenti, promuovono le relazioni internazionali, organizzano e coordinano i calendari delle lezioni, gli esami teorici  e l’esame finale di stato  nell’elaborazione dei verbali delle varie commissioni.

Conclusioni

I risultati fotografano la situazione della metà delle sedi di Corso di Laurea delle Professioni Sanitarie, seppur distribuite su tutto il territorio nazionale. Per alcuni Corsi di Laurea (fisioterapisti, logopedisti, igienisti dentali) hanno aderito più dei 2/3 delle sedi. Tra  le sedi che non hanno partecipato allo studio  è probabile che molte non siano state raggiunte perché l’avvicendamento di Presidenti e Coordinatori e l’apertura e la chiusura di sedi periferiche ha reso  difficoltoso aggiornare i loro indirizzi e recapiti.

Emerge un profilo di coordinatore/direttore con un buon livello formativo, appartenente al profilo professionale del corso, la maggior parte dichiara di avere  un incarico triennale rinnovabile come prevede la normativa, tuttavia un terzo ricopre l’incarico da più di 11 anni e sembra configurare un’assegnazione definitiva. L’intento della normativa era quello di far seguire al Coordinatore la stessa durata di mandato del Presidente, ipotizzando un ruolo fiduciario. In realtà questo non è avvenuto ma è anche comprensibile, perché se il Coordinatore è stato scelto sulla base della competenza professionale e pedagogica è importante che abbia la possibilità di esprimere le proprie funzioni almeno per 2-3  incarichi , quindi 6-9 anni. Una rotazione programmata può essere necessaria per portare idee nuove e innovazioni oltre che nuove energie al corso di laurea, anche se non è semplice questa entrata ed uscita dall’ente di appartenenza  sia servizio sanitario che università.

Emerge una notevole disomogeneità sulla denominazione e sulle modalità di reclutamento e formalizzazione dell’incarico.  Il coinvolgimento negli organi collegiali del CdS, pur essendo diffuso, non è ancora garantito a tutti, con il rischio  di separare la componente universitaria dei docenti dalla componente professionale. In questo non è stata di aiuto la recente normativa (270/2004)7 recepita restrittivamente da molti Atenei che non hanno ritenuto componenti di diritto del Consiglio di Corso  i docenti a contratto e quindi anche il Coordinatore e i Tutor Professionali.

I Coordinatori intervistati ritengono di svolgere le funzioni  previste dalla normativa, dichiarano di gestire con elevata autonomia e responsabilità la programmazione dei tirocini, la supervisione dei sistemi di valutazione, la scelta delle sedi di tirocinio, i rapporti con le aziende e gli enti che accolgono gli studenti  e la  gestione delle diverse forme di tutorato; percepiscono una autonomia più limitata, invece, nella possibilità di orientare e supervisionare i programmi e la qualità delle docenze professionali e nella scelta dei Tutor professionali.

Accanto a queste responsabilità segnalano  che nella loro attività quotidiana, soprattutto quando sono dedicati a tempo pieno, frequentemente compensano attività che competono ad altri ruoli come al Presidente8, ai docenti coordinatori di insegnamento o di anno e al personale amministrativo.

Il loro disagio più rilevante è l’appartenenza istituzionale, infatti si sentono poco considerati  dall’Azienda Sanitaria da cui dipendono, perché li percepisce una risorsa “persa” a disposizione dell’Università e spesso non li considera nei loro bisogni di sviluppo economico e di carriera, ma anche dall’Università  che li considera “estranei” al sistema universitario anche quando ne coglie il ruolo determinante della governance del corso di laurea.

Ora si aprono molte ipotesi li lavoro per la Conferenza al fine di disegnare possibili sviluppi  per i prossimi anni. Se l’assegnazione di un ruolo di coordinamento a termine comporta alcuni vantaggi sopra descritti , ne rende contestualmente debole la posizione e può non incentivare a crescere nelle competenze pedagogiche e scientifiche. Inoltre il ruolo di coordinamento deve essere rivalutato anche alla luce della costruzione di un corpo docente strutturato in ambito accademico e appartenente ai settori scientifico disciplinari delle professioni sanitarie (Ricercatori, Associati, Ordinari).

Nel frattempo sarà impegno della Conferenza portare sui tavoli dell’Osservatorio, dell’Anvur, dei due Ministeri interessati la necessità di elaborare linee di indirizzo affinché Regioni e Università, attraverso i protocolli di intesa, regolarizzino questa figura e soprattutto la prevedano per quelle sedi che sono ancora affidate a collaborazioni volontarie o a Direttori dei Servizi delle Professioni Sanitarie che assumono questa funzione, sovrapponendo due ruoli che hanno necessità di competenze, logiche e tempi diversi.

 Le funzioni del Direttore della Didattica Professionale

Una proposta condivisa nell’ambito della Conferenza (9)

  • Realizzare la programmazione e gestione delle attività di tirocinio considerando criteri formativi, organizzativi e clinici dei servizi, nonché le linee di indirizzo degli organi universitari e professionali
  • progettare, gestire e valutare le attività didattiche professionalizzanti avvalendosi per il tirocinio e i laboratori di tutori dedicati e/o dei servizi
  • promuovere il coordinamento degli insegnamenti disciplinari specifici facilitando l’integrazione degli insegnamenti teorici con quelli professionali assicurando la pertinenza formativa agli specifici profili professionali
  • gestire reclutamento, inserimento e sviluppo formativo dei tutor assegnati
  • fornire consulenza pedagogica e attività di orientamento agli studenti, attraverso colloqui ed incontri programmati
  • gestire le risorse in allineamento alle risorse di budget della struttura sanitaria in cui ha sede il Corso di laurea
  • promuovere strategie di integrazione con i referenti dei servizi sanitari per facilitare e migliorare la qualità dei percorsi formativi
  • garantire la sicurezza e gli adempimenti della normativa specifica
  • produrre report e audit rispetto all’attività formativa professionale realizzata
  • promuovere sperimentazioni e ricerca pedagogica nell’ambito delle attività professionalizzanti
  • certificare le competenze professionali in conformità agli standard professionali definiti

 

Bibliografia

1) Decreto Ministeriale 24 luglio 1996 Gazzetta Ufficiale del 14 ottobre 1996, n. 241  Approvazione della tabella XVIII-TER recante gli ordinamenti didattici universitari dei corsi di diploma universitario dell’area sanitaria, in adeguamento dell’art.9 legge 19 novembre 1990, n.341

2) Decreto del 24 settembre 1997 Requisiti d’idoneità delle strutture per i Diplomi universitari dell’area medica.

3) Decreto interministeriale 2 aprile 2001 Determinazione delle classi delle lauree universitarie delle professioni sanitarie

4) Conferenza Permanente delle Classi di Laurea delle Professioni sanitarie. Denominazione Ruoli e Funzioni CdL/CLM delle professioni sanitarie. Mozione  19 maggio 2012.

5) ANVUR Parere n. 14/18 ottobre 2011, Requisiti di docenza per le classi riguardanti i corsi di studio relativi alle professioni sanitarie, al servizio sociale, alle scienze motorie, alla mediazione linguistica e alla traduzione e interpretariato.

6) Osservatorio Nazionale per le Professioni sanitarie. Requisiti di docenza per i corsi di laurea delle professioni sanitarie. Mozione  8 maggio 2013 recepita dal MIUR con  Lettera Prot.10937.

7) Decreto 22 ottobre 2004, n.270 Modifiche al regolamento recante norme concernenti l’autonomia didattica degli atenei, approvato con decreto del Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica 3 novembre 1999, n. 509.

8) Basili S.  Il ruolo del Presidente di Corso di Laurea tra quello istituzionale e quello pedagogico. Med Chir. 70: 3187-3190,2017.

9) Saiani L, Bielli S, Marognolli O, Brugnolli A. Documento di indirizzo su standard e principi del tirocinio nei CL delle Professioni Sanitarie. Med Chir. 47, 2036-2045, 2009.

Si ringraziano i colleghi che hanno collaborato alla rilevazione:  Paola Ferri, Anna Persico, Daniela Zavarise, Elisabetta Losi, Michela Rossini, Gabriella Buti, Mauro Curzel, Silvia Guidi, Giorgio Bettarelli, Debora Castellani, Alessandro Macedonio, Bruno Mario Troia, Maria Teresa Rebecchi, Fiorenza Broggi.

Cita questo articolo

Bielli S., Canzan F., Mastrillo A., et al., Evoluzione della funzione di coordinamento delle attività formative professionalizzanti dei Corsi di Laurea delle Professioni sanitarie. Indagine nazionale, Medicina e Chirurgia, 72: 3263-3268, 2016. DOI: 10.4487/medchir2016-72-1

Il saluton.72, 2016, pp.3262

Schermata 2017-01-31 alle 14.59.23Nella seconda metà degli anni Ottanta veniva avvertita in tutte le facoltà di Medicina del nostro Paese, così come in quelle di tutta Europa,  l’esigenza di un rinnovamento globale dei processi formativi. In realtà – è una citazione storica, ma la ripeto volentieri –  in quegli anni  la formazione in medicina seguiva ancora i principi contenuti nella Riforma Gentile, nella quale le discipline oggetto di  prove di verifica erano  elencate in quella che nel testo appariva come tabella diciottesima, divenuta poi tabella diciotto nel linguaggio corrente.

Iniziava in quegli anni un acceso dibattito che doveva successivamente portare ad alcune importanti innovazioni nei corsi di laurea. Cito tra queste: istituzione dei semestri, tempo pieno e definito per lo studente, riduzione spiccata della didattica frontale in favore di quella pratica e del tirocinio ospedaliero, fusione delle discipline in corsi integrati, core curriculum, strumenti diversi di valutazione dell’efficacia didattica.

Ora la tabella diciotto è stata superata dal nuovo Ordinamento, ma per molti anni fu al centro dei lavori della Conferenza dei Presidenti dei corsi di laurea in Medicina, che dapprima ne curò l’applicazione coerente al testo, in un secondo tempo e sulla base dell’esperienza vissuta ne fece oggetto di critica e quindi di proposte migliorative.

In questo grande fervore di studi, in questo ritrovato entusiasmo per la formazione medica, nacquero i Quaderni, voluti da Luigi Frati all’epoca nostro straordinario Presidente, per far giungere a tutti i corsi di laurea i suggerimenti che la Conferenza forniva con il fine di ottenere un armonico sviluppo della formazione in tutte le sedi. Venivano prodotti in realtà, sotto la spinta di Luigi Frati e attraverso l’opera di gruppi di lavoro, più documenti che presentavano risultati di ricerche, inchieste, proposte di modelli didattici innovativi, raccomandazioni periodiche, guide alla corretta lettura ed applicazione del nuovo Ordinamento didattico. Quest’opera di informazione e allo stesso tempo di formazione continuò sotto le presidenze di Luciano Vettore, Guido Coggi e di chi scrive, mentre la rivista espandeva le proprie radici divenendo nel contempo anche il periodico della Conferenza dei Presidi, della Conferenza dei corsi di laurea in Odontoiatria e, appena  istituiti, dei corsi di laurea delle Professioni sanitarie. Assumeva infine  nell’anno 2000 l’attuale veste tipografica.

Si è assistito poi, con la presidenza di Andrea Lenzi,  ad una fase di ulteriore crescita della Conferenza e, in parallelo, dei Quaderni che si sono arricchiti di nuove rubriche ed hanno visto la definizione delle nuove norme editoriali, periodicità trimestrale, acquisizione dell’ISSN,  sommario e riassunti in lingua inglese, edizione on line della rivista. Accogliendo poi in apposite rubriche gli interventi in Conferenza di esperti della formazione in medicina o di personalità della Sanità o di altri settori il nostro periodico  è progressivamente divenuto la sede di un proficuo dibattito inter-istituzionale.

Ora per me  è il momento di lasciare la rivista dopo circa trent’anni, lasciare con la serenità di chi sente di aver svolto il  compito con la passione che mi proviene dalla terra d’origine ed il metodo di lavoro che ho appreso dal mio Maestro; lasciare facendo mie le parole di San Paolo a Timoteo, Bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi.  Lasciare ringraziando ex abundantia cordis Luigi ed Andrea che mi hanno concesso il privilegio della loro amicizia, del loro affetto e della loro stima e l’opportunità di condividere con Loro in letizia e lealtà trent’anni per me esaltanti di impegno per una Università migliore; mi hanno fornito il modello di uomini che vivono nell’Istituzione per l’Istituzione e non li dimenticherò mai. Ringrazio infine, con affetto, riconoscenza e commozione, tutti gli amici Colleghi che mi hanno offerto con grande generosità quella preziosa collaborazione senza la quale tutto quello che per la rivista è stato fatto non si sarebbe realizzato.

Giovanni