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- Osservare i gruppi
La psicologia sociale e delle organizzazioni studia da decenni i meccanismi e i processi di costruzione, funzionamento, mantenimento e dissoluzione dei gruppi, definendone strutture e processi e analizzando i diversi livelli a cui l’esperienza umana di essere insieme è oggetto di ricerca scientifica. Gli esseri umani sono animali sociali e le ricerche di psicologia evoluzionistica ci mostrano come, fin dall’inizio della nostra storia evolutiva, si siano sviluppate e organizzate – radicate nella nostra biologia – competenze essenziali per la gestione delle interazioni sociali, dalle più semplici alle più complesse, tutte quelle che utilizziamo per gestire adeguatamente le molteplici tipologie di eventi sociali (DeWaal , 2005; Tomasello, 2008, 2009; Maestripieri, 2012). Queste competenze, che vanno dalla comprensione della teoria della mente dell’altro, al riconoscimento e regolazione delle emozioni, alla gestione dello spazio interpersonale, all’attivazione e disattivazione degli schemi cooperativi o agonistici, è uno dei livelli di osservazione di quanto quotidianamente può accadere in un gruppo di lavoro. La complessità della nostra specie, in particolare la nostra capacità di descrivere il reale attraverso il linguaggio e la complessità di ciò che può essere oggetto del lavoro di gruppo, rende possibili molti altri livelli a cui osservare il funzionamento di un gruppo: i gruppi hanno una loro storia e la raccontano costruendo una realtà condivisa nella quale i singoli individui si possono riconoscere; un gruppo vive molte e diverse esperienze e costruisce di queste un significato condiviso; e attraverso questa condivisione di significati si sviluppa per il singolo il senso della propria appartenenza al gruppo, ma anche il senso della propria identità proprio in quanto “appartenente” a quel gruppo.
Un gruppo è un insieme di individui connessi da una qualche forma di relazione; il numero minimo per poter parlare di gruppo, secondo gli esperti, è tre; un piccolo gruppo ha una numerosità variabile da quattro a circa dodici partecipanti; fino a trenta persone parliamo di gruppo mediano, che facilmente tende – con il tempo e in funzione delle attività o degli obiettivi – a frammentarsi in più sotto-unità, al di sopra di trenta individui parliamo di grande gruppo. Un gruppo può essere caratterizzato in base a diversi parametri: finalità per cui il gruppo è stato costituito, ampiezza, organizzazione e livello di coesione interna (la struttura del gruppo), grado di interdipendenza degli individui che del gruppo fanno parte e processi di interazione reciproca in cui sono coinvolte le persone che fanno parte del gruppo (le dinamiche di gruppo). La finalità del gruppo è caratterizzata dagli obiettivi, dalle modalità e dai mezzi usati per raggiungere gli obiettivi; la struttura del gruppo è determinata dai ruoli che vengono attribuiti alle singole persone, dalle regole e dalle norme implicite ed esplicite che guidano le sue attività, dalla rete di comunicazione che lo caratterizza, dal modo in cui è gestita la leadership, il controllo, ma anche dal processo di costituzione ed evoluzione del gruppo – la sua storia appunto – e dalle caratteristiche individuali delle persone che lo compongono; la dinamica del gruppo emerge dall’interazione tra i due aspetti sopra indicati e dai processi relazionali e comunicativi tra gli individui che si attivano nel corso delle interazioni (dalle relazioni di status tra i componenti, ai livelli di affettività reciproca).
Quando classifichiamo i gruppi in base al tipo di relazione, differenziamo tra gruppo primario (c’è interazione diretta tra i membri, che non sono eccessivamente numerosi, sono legati tra loro da vincoli affettivi ed hanno frequenti interazioni dirette, un alto livello di coesione, solidarietà reciproca, chiara identificazione di ciascuno come appartenente in modo forte al gruppo – sono la famiglia, i gruppi di amici stretti, le gang giovanili) e gruppo secondario (il gruppo è più numeroso, i componenti sono meno intimi tra loro e i rapporti prevalentemente impersonali e primariamente determinati dalla necessità di perseguire scopi pratici, come nel caso dei gruppi di lavoro). Questa distinzione, tuttavia, non è assolutamente rigida o stabile nel tempo: sovente, i gruppi secondari (o parte di essi) possono evolvere in gruppi primari, come quando iniziamo a stringere relazioni e a uscire a cena o andare in vacanza con i nostri colleghi.
Secondo il modello di Arrow e coll. (2000) è più utile distinguere i gruppi in due grandi categorie: quelli che sono il risultato di una pianificazione intenzionale – sia che venga operata dall’esterno o dai superiori in gerarchia, sia per effetto di processi di auto-organizzazione – nei quali l’aspetto chiave è la pianificazione in funzione di uno o più scopi; la seconda categoria sono invece i gruppi che emergono spontaneamente per il semplice effetto di una interazione ripetuta nel tempo fra un certo insieme di persone, possono essere semplicemente circostanziali – come una fila di persone in attesa – o il risultato di un progressivo allineamento reciproco tra le persone che iniziano a cooperare tra loro in modo interdipendente, come i gruppi di studio che si formano spontaneamente tra gli studenti che frequentano lo stesso anno di corso.
- Strutture e dinamiche di gruppo
Struttura e dinamica di un gruppo sono strettamente interdipendenti tra loro: un cambiamento sul piano strutturale/organizzativo può innescare significativi cambiamenti nei processi di comunicazione all’interno del gruppo, un particolare tipo di conduzione può facilitare o inibire la capacità dei componenti del gruppo nel raggiungere i loro obiettivi. Ad esempio una comunicazione gerarchica unidirezionale influisce in modo importante (per lo più in modo negativo) sul grado di partecipazione e coesione del gruppo stesso. Le strutture organizzative, (come la posizione, le competenze, il ruolo dei vari membri), le strutture gerarchiche (primo fra tutte il tipo di leadership) e le strutture normative (come la presenza di regole e norme più, o meno, definite e condivise) determinano il modo in cui il gruppo funziona. Tutti questi aspetti possono ovviamente cambiare nel tempo, con effetti a cascata sulla qualità delle interazioni, coesione, comunicazione, clima, motivazione, partecipazione al gruppo, vale a dire sul piano delle relazioni affettive che caratterizzano il gruppo stesso. Le dinamiche all’interno di un gruppo sono spesso caratterizzate da vincoli e conflitti: conflitti tra le aspettative individuali e le aspettative collettive, tra il bisogno di autonomia delle singole persone e la necessità invece del coordinamento reciproco, tra le esigenze di stabilità del gruppo e la spinta al cambiamento del singolo o del gruppo nel suo insieme. Lo studio delle dinamiche di gruppo ha mostrato che i gruppi non sono in grado di funzionare in modo efficace, a meno che non vi sia un livello abbastanza alto di integrazione sociale tra i membri. La coesione favorisce e incoraggia la cooperazione, facilitando il prevalere degli obiettivi comuni su quelli individuali. La coesione rende più facile trattenere i membri più validi all’interno del gruppo, arginando le spinte centrifughe e aiuta gli individui ad affrontare meglio le difficoltà che si possono presentare. I gruppi coesi tendono ad esercitare meccanismi di controllo sociale più efficaci, funzionano in modo più ordinato e stabiliscono norme condivise e seguite più volentieri dai componenti del gruppo. L’ordine e la stabilità sono i presupposti per la formazione e il mantenimento di un gruppo coeso. Appare chiaro, di conseguenza, quanto sia importante una chiara definizione di ruoli e norme del gruppo, perché questo possa funzionare al meglio.
I ruoli all’interno dei gruppi di lavoro rappresentano le parti assegnate a ciascuno in funzione del riconoscimento esplicito (o implicito) delle specificità dei singoli individui; il ruolo, e le sue attribuzioni, veicolano le aspettative condivise circa i comportamenti che ciascuno dovrebbe tenere, in funzione della propria posizione all’interno del gruppo. Il ruolo viene espresso in due modi: (i) dal punto di vista normativo, cioè come sistema di obblighi che la persona deve assolvere e aspettative che gli altri hanno nei suoi confronti, basate su regole implicite ed esplicite, (ii) dal punto di vista interattivo, come risultato delle azioni reciproche (es. richieste e risposte) contribuendo a definire il significato relazionale delle azioni di ciascun componente del gruppo di lavoro. La differenziazione dei ruoli se da un lato facilita l’ordine e la prevedibilità del gruppo, in modo funzionale al raggiungimento degli obiettivi comuni, dall’altro può generare due tipi di difficoltà: (i) conflitti intrapersonali, quali la percezione della non compatibilità tra ruoli diversi che una stessa persona potrebbe ricoprire, o il senso di inadeguatezza soggettivamente avvertito rispetto al ruolo assegnato, così come lo scollamento tra ruolo ricoperto e motivazioni individuali; (ii) conflitti interpersonali e relazionali, quali il disaccordo rispetto al posizionamento gerarchico, alla distribuzione delle mansioni oppure ai gradi di libertà attesi e legati al ruolo professionale ricoperto. Questo tipo di dinamiche contribuisce a spiegare il cambiamento nella relazione individuo-gruppo che spesso è possibile osservare nel corso del tempo nei gruppi di lavoro (Moreland e Levine, 1982). Ad esempio le riorganizzazioni dei processi di lavoro all’interno di un sistema complesso come l’Università – es. l’implementazione negli Atenei dei cambiamenti richiesti dall’applicazione della legge 240/2010 (bilancio unico e separazione fra attività didattica e scientifica ed attività gestionale) – possono avere costituito in diversi casi un significativo momento di criticità proprio per gli aspetti sopra indicati.
L’efficacia nel lavoro e il buon funzionamento di un gruppo dipendono da molteplici fattori: un gruppo che abbia la necessità di coordinarsi deve riuscire a costruire un terreno comune di valori, assunti, prefigurazioni, attribuzioni di senso, che sia chiaramente ed esplicitamente riconducibile alla sua cultura di gruppo e che sia tale da garantire il suo adeguato funzionamento. A questo servono le norme che scandiscono le regole di funzionamento del gruppo. Le norme o regole del gruppo si definiscono come standard condivisi che determinano le aspettative e le credenze comuni sui modi adeguati di agire a seconda della situazione. Le norme aumentano la prevedibilità, la stabilità e il senso di sicurezza del gruppo. Come si formano le norme? Ovviamente alcune regole di funzionamento o di operatività possono essere determinate a priori o a monte della costituzione del gruppo in quanto legate a parametri e vincoli istituzionali, molte altre però – e solitamente sono le più importanti nei processi di lavoro – sono il risultato di un processo che nasce dall’insieme dai comportamenti dei membri del gruppo, comportamenti generati da un’implicita (non-intenzionale) co-regolazione tra i membri del gruppo e che, nel corso del tempo e attraverso le interazioni reciproche, vengono osservati, valutati, preferiti e accettati. Tipicamente legate agli obiettivi – impliciti o espliciti – del gruppo, le regole vengono acquisite per appartenenza e sono di due tipi: palesi (overt), cioè indicazioni e prescrizioni chiaramente indicate, descritte, codificate, disponibili, chiare a tutti i partecipanti, esplicitamente e intenzionalmente trasmesse ai nuovi componenti del gruppo al loro ingresso; il secondo tipo di norme sono le norme occulte (covert), vale a dire quelle regole di comportamento che si palesano solo nel momento in cui, per lo più inavvertitamente, un elemento del gruppo le viola. Un’altra distinzione va tracciata tra le core rules, vale a dire le norme che fondano l’attività, la coesione e il funzionamento del gruppo e la cui violazione porta alla rottura del gruppo o alla sanzione (o espulsione) di chi ha commesso la violazione, e le cosiddette norme periferiche, per lo più marginali, la cui violazione non compromette il gruppo ed il suo funzionamento, né l’appartenenza al gruppo stesso per chi commette la violazione, ne implica sanzioni. Le regole di un gruppo non sono universali e cristallizzate, ma – in un gruppo sano – sono flessibili a sufficienza da garantire l’adattamento del gruppo quando il contesto esterno o esteso – il sistema più ampio in cui il gruppo di lavoro è inserito – si modificano. Nel processo di cambiamento delle norme il gruppo passa da uno stato di disequilibrio (unfreezing) ad uno di equilibrio modificato (refreezing) quando le vecchie norme sono state sostituite dalle nuove, passando attraverso una fase di cambiamento che può essere più o meno faticosa, complicata e confusa (Lewin, 1948). È molto importante per tutti i componenti del gruppo avere consapevolezza di come sono e come si muovono queste regole, ma è soprattutto chi conduce che dovrebbe essere attento ad individuarle per potersi meglio orientare nella gestione del gruppo stesso.
Perché un gruppo funzioni e sia longevo, è di fondamentale importanza l’efficacia della comunicazione tra i suoi membri. Lo stile della comunicazione, infatti, è strettamente intrecciato alla struttura del gruppo, che ne determina vincoli e possibilità, e può essere utilizzato per osservarne i processi. La qualità della comunicazione all’interno di un gruppo è data dal tipo di rete di comunicazione che caratterizza il gruppo (vedi tabella 1) e dal rapporto tra questa e lo stile relazionale dei suoi membri e al loro ruolo. È una relazione molto delicata: in reti più centralizzate – cioè nelle reti in cui ogni comunicazione passa attraverso una sola persona, che quindi esercita contemporaneamente potere e controllo – l’efficienza è sicuramente maggiore, ma i gradi di libertà dei singoli sicuramente molto ridotti, come ridotta la possibilità di comunicazioni indipendenti e la trasparenza delle informazioni, con una ovvia minore soddisfazione dei membri ai margini della rete di comunicazione e una minore (se non nulla possibilità) possibilità di costruire in modo condiviso una cultura e un senso di appartenenza al gruppo. Di contro, reti non-centralizzate si sono dimostrate tendenzialmente più efficaci nel favorire la creatività, la libertà individuale e la trasparenza, ma si sono dimostrate meno efficienti nel processo di soluzione dei problemi (Faucheux e Moscovici, 1960).
- Stili individuali
Gli scambi di informazioni nel gruppo sono però condizionati anche dallo stile relazionale di ciascun membro e non solo dalla struttura della rete di comunicazione. Ogni individuo, infatti, presenta diverse modalità di entrare in relazione con gli altri nelle diverse situazioni e nei diversi contesti sociali; ogni persona tende ad usare in modo preferenziale alcuni atteggiamenti rispetto ad altri, mettendo in atto comportamenti e assumendo atteggiamenti selezionati nel corso della propria storia di vita. Non solo, ma dietro ai diversi stili di comunicazione ci sono diverse rappresentazioni degli interlocutori, così come diverse rappresentazioni di sé nella relazione con loro. Possiamo vedere gli altri come potenziali aggressori o predatori dai quali guardarsi e verso cui essere prevalentemente sospettosi, oppure possiamo vedere gli altri come individui bisognosi verso i quali entrare in relazione con una disposizione al prendersene cura; per alcuni gli altri vengono tendenzialmente visti come potenziali protettori o comunque persone più forti e affidabili da cui farsi seguire e proteggere, per altri invece entrare in relazione con qualcuno è guidato dal tentativo in ogni occasione di valutare se si tratti di individui più competenti e abili dai quali raccogliere informazioni da usare a proprio vantaggio; altri ancora entrano in relazione con la tendenza a percepire gli altri per lo più come individui più potenti o autorevoli da compiacere e con i quali cercare di instaurare una relazione privilegiata per averne vantaggi. In tutti questi casi lo stile di comunicazione, il modo in cui viene approcciato l’interlocutore, i toni e i modi del linguaggio e del discorso sono diversi e, ovviamente, innescano negli interlocutori e negli osservatori reazioni molto diverse. Inoltre le nostre rappresentazioni mentali, i nostri pensieri e i nostri giudizi sui fatti generano o amplificano stati emotivi a volte disfunzionali o disregolati: paura, senso di colpa, vulnerabilità, debolezza, rabbia, ostilità, vergogna, disprezzo. Questi stati emotivi a loro volta guidano i nostri comportamenti innescando cicli interpersonali che impediscono di cooperare adeguatamente, privilegiando la sfida, la competizione inutile, l’evitamento dei problemi, la squalifica dell’interlocutore, la finta compiacenza, la passività. La chiave per una comunicazione efficace sta nella consapevolezza del proprio stile comunicativo e nella capacità di modularsi adeguatamente su quello delle persone con cui si è in relazione imparando a disattivare le rappresentazioni disfunzionali. È un processo che può essere difficile ed emotivamente dispendioso, ma che certamente conduce ad un miglioramento della comunicazione.
Gli stili relazionali individuali si caratterizzano prevalentemente per la loro maggiore o minore direttività, analiticità, flessibilità, riflessività (Rezzonico, Strepparava, 2004; Zorzi, Strepparava, 2013) che si declina diversamente a seconda della posizione e del ruolo che l’individuo assume o riceve all’interno del gruppo. Gli individui più direttivi e volitivi tendono a cercare di mantenere il controllo in ogni situazione, si aspettano molto dagli altri, ma anche da sé stessi. Il disagio che provano quando le situazioni non sono adeguatamente definite li spinge a prendere rapidamente decisioni e a mal tollerare l’incertezza; sono particolarmente autosufficienti, di solito a proprio agio nel correre dei rischi, e sono prevalentemente orientati sui risultati. Risultano spesso dei capi validi, pragmatici, diretti all’obiettivo. Sono percepiti dall’esterno come molto determinati, esigenti, poco pazienti e con ridotte capacità di ascolto attivo. La competitività a volte tende ad essere eccessiva e spesso l’obiettivo principale all’interno delle dinamiche di gruppo è il raggiungimento dei ruoli di potere e controllo. La relazione con queste persone è facilitata da un atteggiamento il più possibile diretto, mettendo al centro sempre i fatti e non la persona. Le persone con uno stile più analitico tendono a essere molto attente ai dati, prediligendo ordine e processualità. Nel fare le cose hanno uno stile accurato, coscienzioso, preciso. Hanno bisogno di un tempo più lungo per prendere decisioni, agendo solo a partire da informazioni certe e ben vagliate, faticano a prendere una decisione importante, soprattutto sotto la pressione del tempo, ed in generale nei processi decisionali sono tendenzialmente lenti per un eccesso di verifica di tutti i dettagli e le norme. Solitamente sono riluttanti ad assumersi dei rischi e tendono a vedere le conseguenze negative e catastrofiche più degli esiti positivi; l’attenzione ai dettagli a volte li porta a perdere il quadro generale o a trascurare macroelementi di rilievo. Sono capaci di grande perseveranza, rispetto al raggiungimento di un obiettivo, lavorano con grande attenzione alla qualità ed hanno un fortissimo senso di appartenenza al gruppo. Sono tendenzialmente controllati rispetto alle proprie emozioni, anche se si possono disregolare emotivamente sotto la spinta dell’ansia e il dubbio di avere commesso un errore. Essere preparati e a conoscenza dei fatti, utilizzare i dati specifici in forma analitica, far ricorso a degli esempi e lasciare il tempo per il processo di elaborazione e di decisione sono alcune strategie di accomodamento a questo stile di funzionamento personale e relazionale. La creatività nasce dalla capacità di rompere schemi preesistenti, non tenere conto dei confini dati e muoversi in modo flessibile. La flessibilità è accompagnata spesso da curiosità, sensibilità interpersonale e un alto grado di reattività emozionale; si tratta di persone capaci di essere molto motivanti, energizzanti, estroverse. Altre caratteristiche distintive includono la generosità, la capacità di influenzare gli altri e la centralità delle relazioni sociali. Sono persone che possono talvolta essere viste come “teatrali”, eccessivamente emotive e impulsive. Tengono molto in considerazione l’ambiente e i giudizio altrui, e si fanno guidare più dalla risonanza emotiva, dal modo in cui “sentono” le cose, che da considerazioni logiche e non sempre è facile per loro disaccoppiare i dati di realtà dalla loro reazione emotiva ad essi; spesso rischiano di prendere decisioni sulla base di spinte emotive piuttosto che sulla base di valutazioni ponderate. La relazione con questa tipologia di persone è facilitata quando si investe del tempo con loro, attraverso la partecipazione emotiva, incentivandole e motivandole dentro una relazione calda e connotata affettivamente. Gli individui con uno stile primariamente riflessivo si caratterizzano per un elevato senso di responsabilità personale e la tendenza a farsi carico in prima persona delle cose, delle situazioni e delle persone. Sono tendenzialmente persone attente a includere gli altri, sono sensibili ai temi relativi all’esclusione e all’isolamento, che cercano di evitare all’interno del gruppo, sono pazienti, solidali e premurosi. Sono estremamente affidabili e nel gruppo cercano di favorire un clima di accordo, cercando di tenere conto dei punti di vista di tutti e cercando sempre la mediazione tra le posizioni diverse. Si preoccupano per la squadra, che monitorano costantemente e tendono a valutare le opinioni di tutti. La relazione può essere facilitata dal mostrare preoccupazione per gli altri, dal favorire un ambiente supportivo, che dia valore a suggerimenti e indicazioni da parte degli altri.
- Processi decisionali nel gruppo
I processi decisionali (decision-making) di gruppo costituiscono un processo collettivo in cui più persone analizzano problemi o situazioni, considerano e valutano diversi possibili atteggiamenti e scelgono tra diverse possibili soluzioni alternative ad uno o più problemi comuni. La presenza in un gruppo di diversi stili di personalità che, come precedentemente evidenziato, veicolano differenti atteggiamenti di fronte ai problemi e alle possibili soluzioni, innesca dinamiche e cicli interpersonali che possono essere più o meno facilitanti rispetto al processo decisionale, al clima di gruppo e alla risoluzione dei conflitti (De Dreu, Gelfand 2008).
In situazioni ottimali, ad esempio, il gruppo può funzionare come una “sala degli specchi”, in cui i membri costituiscono vicendevolmente lo schema di riferimento con cui mettere a confronto il proprio comportamento. In questo tipo di gruppo si osservano diversi fenomeni: la socializzazione del linguaggio, nel senso che le persone tendono a esprimersi con il “noi; l’ interdipendenza reciproca, nel senso che è irrilevante chi propone qualcosa, mentre è centrale il contenuto proposto; l’accettazione delle differenze individuali, che vengono riconosciute e accolte, utilizzando le diversità in modo costruttivo. Quando però si innescano cicli interpersonali disfunzionali, possono emergere importanti ostacoli e resistenze: (I) fenomeni di accoppiamento, nel senso che le interazioni di gruppo si sbriciolano in interazioni diadiche; (ii) uso della fuga nel passato, con il pensiero di tutti concentrato prevalentemente o esclusivamente sul passato o elementi legati al passato, sul “come eravamo…” e la squalifica distruttiva del presente e delle sue difficoltà, che chiude alla possibilità di individuare le soluzioni del problema; (iii) fuga all’esterno, quando a turno i componenti del gruppo spostano costantemente il focus delle discussioni su argomenti non inerenti al gruppo o ai suoi obiettivi, precludendo un lavoro costruttivo di analisi e discussione delle criticità attuali; (iv) fuga in avanti, con l’emergere di fantasie proiettate troppo avanti nel futuro, che distraggono dalle criticità del presente senza costituire delle reali progettualità; (v) provocazione protettiva, attraverso continue richieste di aiuto che hanno l’effetto di bloccare lo sviluppo del gruppo; (vi) confusione di ruolo, nel senso che gli individui tendono ad alternarsi nell’assumere la conduzione del gruppo senza esplicita richiesta, delegittimando chi riveste i ruoli e bloccando le attività; gli ultimi due meccanismi sono particolarmente critici: è la (vii) personalizzazione dei conflitti, quando le difficoltà decisionali tecniche passano in subordine rispetto al prevalere dei conflitti personali oppure (viii) l’emergere di capri espiatori, uno o pochi individui nel gruppo, verso i quali l’aggressività di tutti può concentrarsi senza il rischio di venire sanzionati e di nuovo bloccando la ricerca a l’analisi delle reali criticità. Quando il gruppo non riesce a risolvere i conflitti che nascono da queste dinamiche, il rischio maggiore è la frammentazione e la formazione di sotto-gruppi, esposti, con il tempo, al rischio di entrare in conflitto tra loro. È importante quindi anticipare il conflitto, sapere come si sia generato e costruire strategie personali e di squadra per farvi fronte. Da un punto di vista ambientale e contestuale, i principali antecedenti dei conflitti hanno principalmente a che fare con i carichi di lavoro inadeguati, ambiguità di ruoli e di responsabilità, scarsa chiarezza rispetto agli obiettivi generali del gruppo. La condivisione quindi degli obiettivi, oltre che degli aspetti valoriali del gruppo di lavoro favorisce il buon funzionamento di un gruppo.
Le ricerche mostrano come lo stile di gestione del conflitto abbia un importante effetto sul modo in cui il livello di conflittualità viene percepito dai membri di un gruppo. Ad esempio, uno stile accomodante, aperto all’integrazione delle diverse prospettive e collaborativo favorisce la percezione che l’intensità del conflitto sia bassa, contrariamente a quanto viene percepito dagli individui esposti ad uno stile di gestione del conflitto caratterizzato da evitamento delle difficoltà o dominanza attraverso interventi calati dall’alto (Friedman et al., 2000). Una recente revisione della letteratura (Almost et al, 2016) ha cercato di fare luce sulle principali determinanti dei conflitti nei gruppi, con particolare attenzione ai contesti di cura e promozione della salute, e sugli aspetti che sembrano essere più centrali nella gestione dei conflitti all’interno dei gruppi di lavoro. Emerge un quadro in cui le caratteristiche individuali – quali l’intelligenza emotiva (Caruso, & Salovey, 2004), la core self-evaluation (Judge, 1997) e alcuni tratti di personalità – siano precursori importanti della conflittualità o, al contrario, fattori protettivi. Centrale per un’adeguata capacità di gestire le situazioni conflittuali è la promozione della capacità di auto-riflessività: è necessario che i membri del gruppo sviluppino la consapevolezza di quanto siano importanti motivazioni e bisogni personali, rispetto alla genesi e alla risoluzione dei conflitti perché sia più semplice affrontare e trovare vie di soluzione ai problemi. Chi conduce un gruppo deve creare degli spazi per raccogliere e conoscere motivazioni e bisogni del suo gruppo di lavoro perché solo in questo modo viene favorita la comprensione più profonda delle problematiche del gruppo e si apre una maggiore possibilità di valutare quali cambiamenti potrebbero essere implementati perché il conflitto si avvii verso una positiva risoluzione. Le persone, quando hanno fiducia nel fatto che le proprie azioni possono davvero essere efficaci e cambiare la realtà, più facilmente si relazionano in modo cooperativo e convergono verso gli obiettivi comuni superando ostacoli e conflitti. La risoluzione dei conflitti all’interno del gruppo è, al contrario, grandemente ostacolata quando i membri del gruppo percepiscono che le proprie preoccupazioni o i propri dubbi vengono svalutati e non inclusi tra gli elementi rilevanti nel processo di decision-making.
Un altro elemento cruciale per prevenire l’emergenza di conflittualità intra-gruppo è la promozione della capacità di ascolto in tutti coloro che del gruppo fanno parte. L’ascolto è un’abilità che coinvolge aspetti cognitivi e verbali, emotivi, posturali e percettivi. Non è una capacità innata e può essere sviluppata ed educata. Non può prescindere dal mantenimento del contatto oculare con l’altro, dal porre attenzione al proprio linguaggio del corpo e, più in generale, al proprio comportamento non verbale: una postura aggressiva o un tono di voce squalificante sono molto più potenti di mille parole nel generare interazioni disfunzionali. Richiede, inoltre, che si approcci l’esperienza di ascolto da uno stato di calma, ponendo attenzione alla presenza nella propria mente di pregiudizi, preconcetti e/o aspettative negative nei confronti del proprio interlocutore: l’ascolto non giudicante, infatti, permette di separare più facilmente i dati di fatto dalle opinioni, di facilitare l’attivazione delle strategie di autoregolazione emotiva, favorendo un clima relazionale cooperativo che, a sua volta, facilita il mantenimento dell’attenzione del gruppo sul raggiungimento degli obiettivi comuni (Dekeyser et al., 2008; Chowdhury & Kalu, 2004). Dal punto di vista relazionale, quindi, una buona comunicazione, soprattutto da parte di coloro che rivestono il ruolo di leader, è essenziale per facilitare la risoluzione dei conflitti, ma questo si basa sulla capacità delle persone di essere consapevoli di quanto possono aver contribuito al nascere del conflitto e avere la volontà di trovare soluzioni condivise (Brown et al., 2011). È importante inoltre stabilire e mantenere la coesione all’interno del gruppo, promuovendo la fiducia reciproca; la fiducia a sua volta, riducendo la tendenza a giudicare malevolmente i colleghi, si riverbera in più efficaci strategie comunicative.
- “La macchina del capo …”: la leadership
Nel suo lavoro del 1973 Mintzberg pone tra le caratteristiche chiave per l’efficacia nella gestione di un gruppo alcune specifiche competenze relazionali, quali: la capacità di stabilire e mantenere le reti sociali, la capacità di trattare con i subordinati, la capacità di entrare in empatia con i leader di alto livello. Anche precedentemente, i ricercatori hanno sottolineato il ruolo di più ampie competenze interpersonali (empatia, abilità sociali e tatto) come predittori dell’emergenza e dell’efficacia della leadership (Bass, 1990). Manager, dirigenti, professionisti delle risorse umane e, più in generale, coloro che abitualmente svolgono il proprio lavoro in equipe possono verificare quotidianamente il valore delle competenze relazionali. Diventa quindi necessario costruire un quadro teorico che metta in relazione le abilità emotive e sociali con l’efficacia della leadership, per guidare ricerca, valutazione, formazione e sviluppo dei leader delle organizzazioni. La leadership, infatti, costituisce lo “snodo” tra le variabili strutturali (obiettivo, metodo, ruoli) e le variabili processuali (clima, comunicazione, sviluppo).
L’esercizio della leadership si esprime attraverso aspetti gestionali e organizzativi: la capacità di pianificare nelle diverse prospettive temporali, saper organizzare il lavoro, individuando anche le personalità più adatte per i diversi ruoli, la capacità di controllo e monitoraggio delle diverse attività/obiettivi. Si tratta di competenze che solo in parte implicano il coinvolgimento diretto degli altri membri del gruppo; a queste si affiancano le competenze che più direttamente implicano la relazione: gestione delle attività comunicative, di decision making e di problem solving, che hanno luogo all’interno delle relazioni interpersonali (McCartney & Campbell, 2006; De Vries et al., 2010). Per quanto riguarda questi aspetti, diversi studi hanno mostrato la maggiore efficacia di uno stile comunicativo supportivo rispetto a uno dominante/controllante. È cosa nota che, nell’ambito della comunicazione medico-paziente, vi è maggiore soddisfazione dei pazienti di fronte ad un atteggiamento cordiale e attento (Buller e Buller 1987), mentre uno stile dominante è associato non solo a minore soddisfazione tra i pazienti, ma anche a esiti clinici sfavorevoli e a malpractice (Ambady et al 2002; Burgoon et al. 1987; Levinson et al. 1997). Risultati analoghi sono stati riscontrati anche in ambito formativo e pedagogico, in cui uno stile comunicativo supportivo è associato a maggiore soddisfazione degli studenti (Prisbell 1994) e uno dominante a minore motivazione (Noels et al. 1999). E nei gruppi di lavoro? Uno stile comunicativo dominante/controllante può portare – nelle situazioni in cui i componenti del gruppo sono in una posizione di eccessiva dipendenza da chi conduce – ad un peggioramento delle prestazioni individuali e della performance del gruppo nel suo complesso. Se teniamo conto del fatto che la performance di un gruppo di lavoro è favorita dalla condivisione delle conoscenze (Srivastava et al., 2006), vale a dire da quel processo di scambio reciproco di informazioni e conoscenze (implicite ed esplicite), che consente la contestuale creazione di una nuova conoscenza condivisa (Van den Hooff e De Ridder 2004), ci rendiamo facilmente conto che se alla guida di un gruppo c’è qualcuno che non favorisce scambio e relazione, ben presto tutti si troveranno in serie difficoltà.
Appare evidente, quindi, come la promozione di competenze emotive e sociali è di fondamentale importanza per la formazione alla leadership e, di riflesso, per un suo più efficace esercizio (Riggio, 2008; Zaccaro, 2002). Per competenza emotiva si fa riferimento in particolare alle capacità di lettura, decodifica ed espressione delle emozioni sia proprie, che delle persone con cui si è in relazione (Caruso & Salovey 2004). Il che vuol dire – in concreto – essere sempre guidati nelle proprie azioni dalla consapevolezza che, per tutte le persone, sentirsi nella mente dell’altro è un fattore profondamente motivante e promotore di benessere; una adeguata sensibilità ai segnali altrui (distress, fatica, noia, disequilibrio emotivo) rende possibile una migliore lettura dello stato mentale dell’ interlocutore e quindi una migliore scelta dei comportamenti da mettere in atto.
Le principali abilità sociali legate alla leadership efficace sono le capacità di esprimere autenticamente se stessi nelle interazioni con gli altri e di “leggere” (e capire) le dinamiche sociali che vengono messe in campo. Per un buon leader, uno stile comunicativo efficace richiede abilità di espressione sia emotiva che sociale, consente più facilmente di parlare ad un pubblico e di assumere il ruolo di coach, ispirando e motivando gli altri (Groves, 2006) e trasmettendo emozioni positive (Bono e Ilies, 2006). Comunicare bene richiede sensibilità e attenzione, sia agli aspetti di contesto (ruoli, norme, situazioni), sia agli atti comunicativi verbali e non verbali degli altri membri del gruppo. Una buona sensibilità emotiva e sociale è fondamentale quindi per favorire l’ascolto attivo e per la comprensione delle esigenze e delle emozioni dei componenti un gruppo di lavoro. Infine, l’efficacia della leadership è favorita dalla capacità di autocontrollo, inteso come la capacità di saper regolare e modulare opportunamente l’espressione delle proprie emozioni, in funzione della situazione. E’ anche importante e utile avere una buona consapevolezza dell’effetto che i propri atteggiamenti (dalla postura al tono della voce) hanno sulle altre persone e dell’impatto sociale che tali comportamenti implicano.
- Tecniche comunicative per la gestione delle situazioni difficili
Una delle prime cose da fare nelle situazioni difficili dal punto di vista relazionale, è focalizzare la propria attenzione sugli aspetti che permettono di centrarsi in modo sicuro e stabilizzato sul proprio ruolo e la propria funzione; disattivare i fattori di disturbo, essere pienamente presenti, disinnescare gli elementi che ostacolano l’ascolto non giudicante, sono interventi che favoriscono la lucidità relazionale. In molte situazioni critiche l’ostacolo maggiore è dato dall’emergere di schemi interpersonali agonistico-conflittuali che rendono difficile lavorare sui contenuti perché ci distraggono sul piano relazionale. Fondamentale in questi casi è mettere in atto una o più strategie per gestire cicli interpersonali conflittuali (McKay et al., 2007):
a – Validazione reciproca. Uno dei principali ostacoli ad una costruttiva discussione di gruppo sono gli interventi che tendono a squalificare e invalidare quanto viene detto da uno o più partecipanti. La mancata validazione può essere mediata sia dai termini del linguaggio che vengono usati per rispondere o commentare le affermazioni altrui, sia, spesso, dal tono e dal modo (lo stile non verbale) che accompagnano la comunicazione con un atteggiamento squalificante. Spesso questa esperienza si accompagna alla percezione di sentire sotto giudizio le nostre parole, azioni o caratteristiche personali e sentirle valutate come “sbagliate”, “cattive” o “stupide”. In questo caso si possono attivare due reazioni opposte e ugualmente disfunzionali: da un lato l’emozione della vergogna, del disagio e di una sorta di sconfitta personale, che porta per lo più a ritirarsi dall’interazione sottraendosi all’attiva partecipazione ai processi (salvo poi sabotare passivamente quello che viene deciso dal gruppo); oppure possono emergere rabbia e frustrazione, emozioni che facilitano un’escalation di aggressività e opposizione. In entrambi i casi si rompe l’assetto cooperativo all’interno del gruppo. Inoltre, se non adeguatamente intercettati, questi cicli interpersonali spesso si saldano con le alleanze trasversali che di solito sono presenti (radicate in conflitti puramente funzionali o legati alle differenze di personalità) tra i membri del gruppo. Questo tipo di criticità può essere sensibilmente ridotta attraverso la validazione reciproca che, come l’accettazione delle posizioni dell’altro, non significa necessariamente approvazione o accordo. Gli interventi di validazione permettono all’altro di sentirsi capito nei suoi bisogni, necessità, desideri, obiettivi e nelle emozioni connesse a questi elementi. Alcune formule linguistiche che accompagnano gli interventi di validazione consentono inoltre di esprimere più facilmente il proprio punto di vista, anche quando è del tutto o in parte divergente da quello altrui: “Capisco il tuo punto di vista …ma dalla mia prospettiva…”; “Mi rendo conto che per te …. Però secondo i dati del nucleo di valutazione ….”. E’ importante, quando si fa un intervento di validazione, segnalare adeguatamente se ciò che si sta dicendo è solo la propria posizione/opinione oppure se si sta riferendo un fatto osservabile; i due piani non vanno mai confusi nella comunicazione, altrimenti si corre il rischio che il messaggio venga percepito come una mistificazione e la mossa di validazione risulti del tutto vana.
b – Disco rotto. Quando sembra che un messaggio non sia stato recepito dall’interlocutore, può essere importante modificare la forma in cui il messaggio stesso viene comunicato, ad esempio formulando una frase concisa, specifica e chiara rispetto a ciò che si vuole esprimere. Se le argomentazioni a sostegno della propria posizione sono già state esposte e dettagliate per quanto serve e l’interlocutore continua comunque a contrastare il punto in oggetto, la strategia del disco rotto prevede che, omettendo dettagli, spiegazioni ed eventuali scusanti, si ripeta la frase, con pacatezza e tono piano, evitando ogni elemento vocale, tonale o posturale che possa essere avvertito come agonistico (tono secco, sguardo sprezzante o squalificante, contatto oculare prolungato eccessivamente, in quanto primario segnale di sfida) fin quando sia necessario. Qui il punto essenziale è evitare di cadere in dibattiti e argomentazioni sul piano logico-razionale, si tratta invece di non rispondere alle richieste di spiegazioni o dettagli o alla presentazione di contro argomentazioni, ma semplicemente replicare ribadendo il proprio punto: “In ogni caso ci viene chiesto di …” “Capisco, ma preferisco che…”, “Mi rendo conto, ma la posizione è …”.
c- Indagine. Quando nel gruppo di lavoro uno o più dei partecipanti prende una posizione di opposizione o contrasto rispetto alla linea che si sta seguendo, a volte le ragioni sono chiare altre volte sono invece confuse o mal presentate. Molto spesso, in prima battuta, vere ragioni di una opposizione tendono a non emergere. Si tratta allora di aiutare a portare alla luce questi motivi, che a volte le persone non sono molto disposte a discutere. Una facilitazione al processo di condivisione si basa sulla domanda che fa riferimento alle ragioni della preoccupazione sul punto in oggetto. Per quanto riguarda questa tecnica, l’espressione principale è: “Cosa ti preoccupa rispetto a…”, continuando l’esplorazione finché non emergano informazioni utili alla risoluzione del conflitto. L’uso del termine “preoccupare” è scelto perché: è relativamente neutro (molto più di “cosa ti disturba” o “cosa non ti va bene”), rende la domanda non inquisitoria, né accusatoria, evitando quindi l’attivazione immediata di un atteggiamento difensivo, trasmette all’interlocutore il senso di un autentico interessamento alla posizione dell’interlocutore (e aiuta chi pone la domanda ad entrare in un assetto di autentica curiosità verso le ragioni dell’altro). Può essere particolarmente utile quando l’origine dei contrasti è vaga o non sufficientemente chiara.
d –Offuscamento. Consiste nell’esprimere un accordo parziale con l’altro, senza tuttavia accettarne totalmente la posizione. Questa mossa consente di solito di riportare il clima relazionale alla calma e di disinnescare eventuali competizioni per la supremazia o conflitti di rango. Questa tecnica si attua cercando nel discorso dell’interlocutore un aspetto con cui si possa concordare e utilizzarlo come punto di partenza per cercare una convergenza. Importante evitare termini che veicolino assolutezza, come “sempre”, “mai”, “tutto”, “niente”.
e – Ritardo assertivo. Quando emerge un conflitto, le persone tendono a mettersi vicendevolmente sotto pressione, in modo da costringere l’altro a prendere una decisione o a concordare con una strategia nel minor tempo possibile. Questa tecnica consiste invece nel creare uno spazio temporale (da pochi minuti fino a qualche ora) prima di dare la risposta richiesta. In questo modo è più facile tranquillizzarsi, tornare a uno stato emotivo meno attivato, considerare quanto già stato detto e fatto con calma e formulare risposte il più possibile appropriate (“Prendiamoci un’ora per pensarci su. Ciò che è stato detto è molto importante per me e vorrei pensarci con calma, prima di pronunciarmi ulteriormente sulla questione”). È importante ricordare che abbiamo sempre il diritto di prendere tempo, soprattutto quando si tratta di decisioni importanti.
f – Cambiare rappresentazioni. Le reazioni emotive sono guidate in larga misura anche dal modo in cui viene rappresentato l’interlocutore; il processo con cui ci costruiamo degli stereotipi mentali può richiedere tempo o essere rapidissimo: abbiamo tutti vissuto l’esperienza di essere in fila ad aspettare qualcosa e avere in pochi secondi la sensazione che la persona accanto a noi era una terribile rompiscatole presuntuosa o maleducata a seconda dei casi, collocandola immediatamente in uno schema, e da quel momento in poi l’interazione è stata implicitamente guidata da questa rappresentazione il nostro tono di voce, linguaggio e atteggiamento si sono modificati di conseguenza. È possibile però applicare in modo controllato il processo. La rabbia che ci nasce naturalmente davanti a una persona che giudichiamo aggressiva di solito viene in parte disinnescata quando riusciamo a dirci che si tratta di una persona che è molto in difficoltà (cambiamo rappresentazione) e l’irritazione davanti ad un interlocutore polemico che si sta fissando su dettagli a nostro avviso inutili, può disinnescarsi se pensiamo che è una persona molto spaventata perché pensa di non saperne abbastanza. Quando riusciamo a pensare che le persone stanno facendo fatica, sono spaventate, sono a disagio, sono in difficoltà siamo anche più capaci di regolare le nostre emozioni disfunzionali.
g – Focalizzare l’attenzione sul respiro. Sempre e comunque quando avvertiamo i segnali di un’attivazione emotiva intensa in una situazione di gestione di gruppo, concentrarsi sul flusso del respiro anche solo per pochi secondi, ha il potere di interrompere il meccanismo di reattività emotiva automatica e ci consente di riprendere la lucidità che ci è necessaria.
Conclusioni
Il gruppo è un’entità molto complessa in continuo movimento, regolato da processi che non sono solo espressione della somma delle caratteristiche individuali di ciascun membro. In un gruppo, specialmente di lavoro, sono costantemente in atto dinamiche che veicolano l’espressione di norme, ruoli sociali, obiettivi organizzativi che possono essere in contrasto – qualche volta in opposizione – con le caratteristiche di personalità, le motivazioni e gli scopi individuali. Se non opportunamente gestite, queste dinamiche possono portare alla formazione di conflitti individuali, sottogruppi a loro volta in contrasto tra loro o anche al loro interno, ostacolando il raggiungimento di obiettivi e risultati o inficiandone la loro qualità. La ricerca ha mostrato sempre più consistentemente quanto sia importante, per impedire o ridurre la conflittualità all’interno di un gruppo, il monitoraggio e la gestione del clima relazionale e della qualità degli scambi comunicativi tra i suoi membri. In quest’ottica, appare chiara l’importanza dello stile comunicativo della leadership del gruppo che, per essere efficace, non può prescindere dall’attenzione agli aspetti emotivi e relazionali e sociali che si esprimono nelle relazioni interpersonali all’interno del gruppo. È necessario quindi promuovere, nella formazione alla leadership (Cegala & Lenzmeier Broz, 2002), sia le competenze emotive (regolazione, espressione, tatto) sia le abilità sociali e comunicative (sensibilità sociale, validazione, ascolto, sospensione del giudizio). Questo facilita la riduzione di atteggiamenti dominanti, in favore di uno stile di leadership più supportivo e attento, riducendo gli errori, migliorando la performance e favorendo la soddisfazione di tutti i membri del gruppo.
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