Leadership efficace nel lavoro di gruppon.72, 2016, pp. 3280-3294, DOI: 10.4487/medchir2016-72-4

“Il gruppo è qualcosa di più e di diverso dalla somma dei suoi membri: ha una struttura propria, fini peculiari e relazioni particolari con gli altri gruppi. Può definirsi come una totalità dinamica” (Lewin, 1948)

Abstract

A group is a complex system, characterized by organizational structures, hierarchies and rules that often vary over time. The differences between individual and collective expectations, goals and needs easily trigger interpersonal conflicts which, if not properly managed, can gradually hinder the achievement of organization’s goals and lead to the fragmentation of the group itself. Many researches on group decision-making show that group’s communication style and leadership style, are very important in the group’s ability to overcome conflicts. A supportive leadership can effectively increase both the group performance and group’s members satisfaction. Effective leadership requires specific personal and interpersonal abilities in attention, communication and regulation also of group’s emotional and social issues.

Keywords: leadership e group dynamics, team work, group dinamic e medical education

Parole chiave: leadership e group dynamics, pedagogia medica, dinamiche di gruppo e faculty development

Articolo

  1. Osservare i gruppi

La psicologia sociale e delle organizzazioni studia da decenni i meccanismi e i processi di costruzione, funzionamento, mantenimento e dissoluzione dei gruppi, definendone strutture e processi e analizzando i diversi livelli a cui l’esperienza umana di essere insieme è oggetto di ricerca scientifica. Gli esseri umani sono animali sociali e le ricerche di psicologia evoluzionistica ci mostrano come, fin dall’inizio della nostra storia evolutiva, si siano sviluppate e organizzate – radicate nella nostra biologia – competenze essenziali per la gestione delle interazioni sociali, dalle più semplici alle più complesse, tutte quelle che utilizziamo per gestire adeguatamente le molteplici tipologie di eventi sociali (DeWaal , 2005; Tomasello, 2008, 2009; Maestripieri, 2012). Queste competenze, che vanno dalla comprensione della teoria della mente dell’altro, al riconoscimento e regolazione delle emozioni, alla gestione dello spazio interpersonale, all’attivazione e disattivazione degli schemi cooperativi o agonistici, è uno dei livelli di osservazione di quanto quotidianamente può accadere in un gruppo di lavoro. La complessità della nostra specie, in particolare la nostra capacità di descrivere il reale attraverso il linguaggio e la complessità di ciò che può essere oggetto del lavoro di gruppo, rende possibili molti altri livelli a cui osservare il funzionamento di un gruppo: i gruppi hanno una loro storia e la raccontano costruendo una realtà condivisa nella quale i singoli individui si possono riconoscere; un gruppo vive molte e diverse esperienze e costruisce di queste un significato condiviso; e attraverso questa condivisione di significati si sviluppa per il singolo il senso della propria appartenenza al gruppo, ma anche il senso della propria identità proprio in quanto “appartenente” a quel gruppo.

Un gruppo è un insieme di individui connessi da una qualche forma di relazione; il numero minimo per poter parlare di gruppo, secondo gli esperti, è tre; un piccolo gruppo ha una  numerosità variabile da quattro  a  circa dodici partecipanti; fino a trenta persone parliamo di gruppo mediano, che facilmente tende – con il tempo e in funzione delle attività o degli obiettivi –  a frammentarsi in più sotto-unità, al di sopra di trenta individui parliamo di grande gruppo. Un gruppo può essere caratterizzato in base a diversi parametri: finalità per cui il gruppo è stato costituito, ampiezza, organizzazione e livello di coesione interna (la struttura del gruppo), grado di interdipendenza degli individui che del gruppo fanno parte e processi di interazione reciproca in cui sono coinvolte le persone che fanno parte del gruppo (le dinamiche di gruppo). La finalità del gruppo è caratterizzata dagli obiettivi, dalle modalità e dai mezzi usati per raggiungere gli obiettivi; la struttura del gruppo è determinata dai ruoli che vengono attribuiti alle singole persone, dalle regole e dalle norme implicite ed esplicite che guidano le sue attività, dalla rete di comunicazione che lo caratterizza, dal modo in cui è gestita la leadership, il controllo, ma anche dal processo di costituzione ed evoluzione del gruppo – la sua storia appunto – e dalle caratteristiche individuali delle persone che lo compongono; la dinamica del gruppo emerge dall’interazione tra i due aspetti sopra indicati e dai processi relazionali e comunicativi tra gli individui che si attivano nel corso delle interazioni (dalle relazioni di status tra i componenti, ai livelli di affettività reciproca).

Quando classifichiamo i gruppi in base al tipo di relazione, differenziamo tra gruppo primario (c’è interazione diretta tra i membri, che non sono eccessivamente numerosi, sono legati tra loro da vincoli affettivi ed hanno frequenti interazioni dirette, un alto livello di coesione, solidarietà reciproca, chiara identificazione di ciascuno come appartenente in modo forte al gruppo – sono la famiglia, i gruppi di amici stretti, le gang giovanili) e gruppo secondario (il gruppo è più numeroso, i componenti sono meno intimi tra loro e i rapporti prevalentemente impersonali e primariamente determinati dalla necessità di perseguire scopi pratici, come nel caso dei gruppi di lavoro). Questa distinzione, tuttavia, non è assolutamente rigida o stabile nel tempo: sovente, i gruppi secondari (o parte di essi) possono evolvere in gruppi primari, come quando iniziamo a stringere relazioni e a uscire a cena o andare in vacanza con i nostri colleghi.

Secondo il modello di Arrow e coll. (2000) è più utile distinguere i gruppi in due grandi categorie: quelli che sono il risultato di una pianificazione intenzionale – sia che venga operata dall’esterno o dai superiori in gerarchia,  sia per effetto di processi di auto-organizzazione – nei quali  l’aspetto chiave è la pianificazione in funzione di uno o più scopi; la seconda categoria sono invece i gruppi che  emergono spontaneamente per il semplice effetto di una interazione ripetuta nel tempo fra un certo insieme di persone, possono essere semplicemente circostanziali – come una fila di persone in attesa – o il risultato di un progressivo allineamento reciproco tra le persone che iniziano a cooperare tra loro in modo interdipendente, come i gruppi di studio che si formano spontaneamente  tra gli studenti che frequentano lo stesso anno di corso.

  1. Strutture e dinamiche di gruppo

Struttura e dinamica di un gruppo sono strettamente interdipendenti tra loro: un cambiamento sul piano strutturale/organizzativo può innescare significativi cambiamenti nei processi di comunicazione all’interno del gruppo, un particolare tipo di conduzione può facilitare o inibire la capacità dei componenti del gruppo nel raggiungere i loro obiettivi. Ad esempio una comunicazione gerarchica unidirezionale influisce in modo importante (per lo più in modo negativo) sul grado di partecipazione e coesione del gruppo stesso. Le strutture organizzative, (come la posizione, le competenze, il ruolo dei vari membri), le strutture gerarchiche (primo fra tutte il tipo di leadership) e le strutture normative (come la presenza di regole e norme più, o meno, definite e condivise) determinano il modo in cui il gruppo funziona. Tutti questi aspetti possono ovviamente cambiare nel tempo, con effetti a cascata sulla qualità delle interazioni, coesione, comunicazione, clima, motivazione, partecipazione al gruppo, vale a dire sul piano delle relazioni affettive che caratterizzano il gruppo stesso. Le dinamiche all’interno di un gruppo sono spesso caratterizzate da vincoli e conflitti: conflitti tra le aspettative individuali e le aspettative  collettive, tra il bisogno di autonomia delle singole persone e la necessità invece del  coordinamento reciproco, tra le esigenze di stabilità del gruppo e la spinta al cambiamento del singolo o del gruppo nel suo insieme. Lo studio delle dinamiche di gruppo ha mostrato che i gruppi non sono in grado di funzionare in modo efficace, a meno che non vi sia un livello abbastanza alto di integrazione sociale tra i membri. La coesione favorisce e incoraggia la cooperazione, facilitando il prevalere degli obiettivi comuni su quelli individuali. La coesione rende più facile trattenere i membri più validi all’interno del gruppo, arginando le spinte centrifughe e aiuta gli individui ad affrontare meglio le difficoltà che si possono presentare. I gruppi coesi tendono ad esercitare meccanismi di controllo sociale più efficaci, funzionano in modo più ordinato e stabiliscono norme condivise e seguite più volentieri dai componenti del gruppo. L’ordine e la stabilità sono i presupposti per la formazione e il mantenimento di un gruppo coeso. Appare chiaro, di conseguenza, quanto sia importante una chiara definizione di ruoli e norme del gruppo, perché questo possa funzionare al meglio.

I ruoli all’interno dei gruppi di lavoro rappresentano le parti assegnate a ciascuno in funzione del riconoscimento esplicito (o implicito) delle specificità dei singoli individui; il ruolo, e le sue attribuzioni, veicolano le aspettative condivise circa i comportamenti che ciascuno dovrebbe tenere, in funzione della propria posizione all’interno del gruppo. Il ruolo viene espresso in due modi: (i)  dal punto di vista normativo, cioè come sistema di obblighi che la persona deve assolvere e aspettative che gli altri hanno nei suoi confronti, basate su regole implicite ed esplicite, (ii) dal punto di vista interattivo, come risultato delle azioni reciproche (es. richieste e risposte) contribuendo a definire il significato relazionale delle azioni di ciascun componente del gruppo di lavoro. La differenziazione dei ruoli se da un lato facilita l’ordine e la prevedibilità del gruppo, in modo funzionale al raggiungimento degli obiettivi comuni, dall’altro può generare due tipi di difficoltà: (i) conflitti intrapersonali, quali la percezione della non compatibilità tra ruoli diversi che una stessa persona potrebbe ricoprire, o il senso di inadeguatezza soggettivamente avvertito rispetto al ruolo assegnato, così come lo scollamento tra ruolo ricoperto e motivazioni individuali; (ii) conflitti interpersonali e relazionali, quali il disaccordo rispetto al posizionamento gerarchico, alla distribuzione delle mansioni oppure ai gradi di libertà attesi e legati al ruolo professionale ricoperto. Questo tipo di dinamiche contribuisce a spiegare il cambiamento nella relazione individuo-gruppo che spesso è possibile osservare nel corso del tempo nei gruppi di lavoro (Moreland e Levine, 1982). Ad esempio le riorganizzazioni dei processi di lavoro all’interno di un sistema complesso come l’Università – es. l’implementazione negli Atenei dei cambiamenti richiesti dall’applicazione della legge 240/2010 (bilancio unico e separazione fra attività didattica e scientifica ed attività gestionale) – possono avere costituito in diversi casi  un significativo momento di criticità proprio per gli aspetti sopra indicati.

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L’efficacia nel lavoro e il buon funzionamento di un gruppo dipendono da molteplici fattori:  un gruppo che abbia  la necessità di coordinarsi deve riuscire a costruire un terreno comune di valori, assunti, prefigurazioni, attribuzioni di senso, che sia chiaramente ed esplicitamente riconducibile alla sua cultura di gruppo e che sia tale da garantire il suo adeguato funzionamento. A questo servono le norme che scandiscono le regole di funzionamento del gruppo. Le norme o regole del gruppo si definiscono come standard condivisi che determinano le aspettative e le credenze comuni sui modi adeguati di agire a seconda della situazione. Le norme aumentano la prevedibilità, la stabilità e il senso di sicurezza del gruppo. Come si formano le norme? Ovviamente alcune regole di funzionamento o di operatività possono essere determinate a priori o a monte della costituzione del gruppo in quanto legate a parametri e vincoli istituzionali, molte altre però – e solitamente sono le più importanti nei processi di lavoro – sono il risultato di un processo che nasce dall’insieme dai comportamenti dei membri del gruppo, comportamenti generati da un’implicita (non-intenzionale) co-regolazione tra i membri del gruppo e che, nel corso del tempo e attraverso le interazioni reciproche, vengono osservati,  valutati, preferiti e accettati. Tipicamente legate agli obiettivi – impliciti o espliciti – del gruppo, le regole vengono acquisite per appartenenza e sono di due tipi: palesi (overt), cioè indicazioni e prescrizioni chiaramente indicate, descritte, codificate, disponibili, chiare a tutti i partecipanti, esplicitamente e intenzionalmente trasmesse ai nuovi componenti del gruppo al loro ingresso; il secondo tipo di norme sono le norme occulte (covert), vale a dire quelle regole di comportamento che si palesano solo nel momento in cui, per lo più inavvertitamente, un elemento del gruppo le viola. Un’altra distinzione va tracciata tra le core rules, vale a dire le norme che  fondano l’attività, la coesione e il funzionamento del  gruppo e la cui violazione porta alla rottura del gruppo o alla sanzione (o espulsione) di chi ha commesso la violazione, e le cosiddette norme periferiche, per lo più marginali, la cui violazione non compromette il  gruppo ed il suo funzionamento, né l’appartenenza al gruppo stesso per chi commette la violazione, ne implica sanzioni. Le regole di un gruppo non sono universali e cristallizzate, ma – in un gruppo sano – sono flessibili a sufficienza da garantire  l’adattamento del gruppo quando il contesto esterno o esteso – il sistema più ampio in cui il gruppo di lavoro è inserito – si modificano. Nel processo di cambiamento delle norme il gruppo passa da uno stato di disequilibrio (unfreezing) ad uno di equilibrio modificato (refreezing) quando le vecchie norme sono state sostituite dalle nuove, passando attraverso una fase di cambiamento che può essere più o meno faticosa,  complicata e confusa (Lewin, 1948). È molto importante per tutti i componenti del gruppo avere consapevolezza di come sono e come si muovono queste regole, ma è soprattutto chi conduce che dovrebbe essere attento ad individuarle per potersi meglio orientare nella gestione del gruppo stesso.

Perché un gruppo funzioni e sia longevo, è di fondamentale importanza l’efficacia della comunicazione tra i suoi membri. Lo stile della comunicazione, infatti, è strettamente intrecciato alla struttura del gruppo, che ne determina vincoli e possibilità, e può essere utilizzato per osservarne i processi. La qualità della comunicazione all’interno di un gruppo è data dal tipo di rete di comunicazione che caratterizza il gruppo (vedi tabella 1) e dal rapporto tra questa e lo stile relazionale dei suoi membri e al loro ruolo. È una relazione molto delicata: in reti più centralizzate – cioè nelle reti in cui ogni comunicazione passa attraverso una sola persona, che quindi esercita contemporaneamente potere e controllo –  l’efficienza è sicuramente maggiore, ma i gradi di libertà dei singoli sicuramente molto ridotti, come ridotta la possibilità di comunicazioni indipendenti e la trasparenza delle informazioni, con una ovvia  minore soddisfazione dei membri ai margini della rete di comunicazione e una minore (se non nulla possibilità) possibilità di costruire in modo condiviso una cultura e un senso di appartenenza al gruppo. Di contro, reti non-centralizzate si sono dimostrate tendenzialmente più efficaci nel favorire la creatività, la libertà individuale e la trasparenza, ma si sono dimostrate meno efficienti nel processo di soluzione dei problemi (Faucheux e Moscovici, 1960).

  1. Stili individuali

Gli scambi di informazioni nel gruppo sono però condizionati anche dallo stile relazionale di ciascun membro e non solo dalla struttura della rete di comunicazione. Ogni individuo, infatti, presenta diverse modalità di entrare in relazione con gli altri nelle diverse situazioni e nei diversi contesti sociali; ogni persona tende ad usare in modo preferenziale alcuni atteggiamenti rispetto ad altri, mettendo in atto comportamenti e assumendo atteggiamenti selezionati nel corso della propria storia di vita. Non solo, ma dietro ai diversi stili di comunicazione ci sono diverse rappresentazioni degli interlocutori, così come diverse rappresentazioni di sé nella relazione con loro. Possiamo vedere gli altri come potenziali aggressori o predatori dai quali guardarsi e verso cui essere prevalentemente sospettosi, oppure possiamo vedere gli altri come individui bisognosi verso i quali entrare in relazione con una disposizione al prendersene cura; per alcuni gli altri vengono tendenzialmente visti come potenziali protettori o comunque persone più forti e affidabili da cui farsi seguire e proteggere, per altri invece entrare in relazione con qualcuno è guidato dal tentativo in ogni occasione di valutare se si tratti di individui più competenti e abili dai quali raccogliere informazioni da usare a proprio vantaggio; altri ancora entrano in relazione con la tendenza a percepire gli altri  per lo più come individui più potenti o autorevoli da compiacere e con i quali cercare di instaurare una relazione privilegiata per averne vantaggi. In tutti questi casi lo stile di comunicazione, il modo in cui viene approcciato l’interlocutore, i toni e i modi del linguaggio e del discorso sono diversi e, ovviamente, innescano negli interlocutori e negli osservatori reazioni molto diverse. Inoltre le nostre rappresentazioni mentali, i nostri pensieri e i nostri giudizi sui fatti generano o amplificano stati emotivi a volte disfunzionali o disregolati: paura, senso di colpa, vulnerabilità, debolezza, rabbia, ostilità, vergogna, disprezzo. Questi stati emotivi a loro volta guidano i nostri comportamenti innescando cicli interpersonali che impediscono di cooperare adeguatamente, privilegiando la sfida, la competizione inutile, l’evitamento dei problemi, la squalifica dell’interlocutore, la finta compiacenza, la passività. La chiave per una comunicazione efficace sta nella consapevolezza del proprio stile comunicativo e nella capacità di modularsi adeguatamente su quello delle persone con cui si è in relazione imparando a disattivare le rappresentazioni disfunzionali. È un processo che può essere difficile ed emotivamente dispendioso, ma che certamente conduce ad un miglioramento della comunicazione.

Gli stili relazionali individuali si caratterizzano prevalentemente per la loro maggiore o minore direttività, analiticità, flessibilità, riflessività (Rezzonico, Strepparava, 2004; Zorzi, Strepparava, 2013) che si declina diversamente a seconda della posizione e del ruolo che l’individuo assume o riceve all’interno del gruppo. Gli individui più direttivi e volitivi tendono a cercare di mantenere il controllo in ogni situazione, si aspettano molto dagli altri, ma anche da sé stessi. Il disagio che provano quando le situazioni non sono adeguatamente definite li spinge a prendere rapidamente decisioni e a mal tollerare l’incertezza; sono particolarmente autosufficienti, di solito a proprio agio nel correre dei rischi, e sono prevalentemente orientati sui risultati. Risultano spesso dei capi validi, pragmatici, diretti all’obiettivo. Sono percepiti dall’esterno come molto determinati, esigenti, poco pazienti e con ridotte capacità di ascolto attivo. La competitività a volte tende ad essere eccessiva e spesso l’obiettivo principale all’interno delle dinamiche di gruppo  è il raggiungimento dei ruoli di potere e controllo. La relazione con queste persone è facilitata da un atteggiamento il più possibile diretto, mettendo al centro sempre i fatti e non la persona. Le persone con uno stile più analitico tendono a essere molto attente ai dati, prediligendo ordine e processualità. Nel fare le cose hanno uno stile accurato, coscienzioso, preciso. Hanno bisogno di un tempo più lungo per prendere decisioni, agendo solo a partire da informazioni certe e ben vagliate, faticano a prendere una decisione importante, soprattutto sotto la pressione del tempo, ed in generale nei processi decisionali sono tendenzialmente lenti per un eccesso di verifica di tutti i dettagli e le norme. Solitamente sono riluttanti ad assumersi dei rischi e tendono a vedere le conseguenze negative e catastrofiche più degli esiti positivi; l’attenzione ai dettagli a volte li porta a perdere il quadro generale o a trascurare macroelementi di rilievo. Sono capaci di grande perseveranza, rispetto al raggiungimento di un obiettivo, lavorano con grande attenzione alla qualità ed hanno un fortissimo senso di  appartenenza al gruppo. Sono tendenzialmente controllati rispetto alle proprie emozioni, anche se si possono disregolare emotivamente sotto la spinta dell’ansia e il dubbio di avere commesso un errore.  Essere preparati e a conoscenza dei fatti, utilizzare i dati specifici in forma analitica, far ricorso a degli esempi e lasciare il tempo per il processo di elaborazione e di decisione sono alcune strategie di accomodamento a questo stile di funzionamento personale e relazionale. La creatività nasce dalla capacità di rompere schemi preesistenti, non tenere conto dei confini dati e muoversi in modo flessibile. La flessibilità è accompagnata spesso da curiosità, sensibilità interpersonale e un alto grado di reattività emozionale; si tratta di persone capaci di essere molto  motivanti, energizzanti, estroverse.  Altre caratteristiche distintive includono la generosità, la capacità di influenzare gli altri e la centralità delle relazioni sociali. Sono persone che possono talvolta essere viste come “teatrali”, eccessivamente emotive e impulsive. Tengono molto in considerazione l’ambiente e i giudizio altrui, e si fanno guidare più dalla risonanza emotiva, dal modo in cui “sentono” le cose, che da considerazioni logiche e non sempre è facile per loro disaccoppiare i dati di realtà dalla loro reazione emotiva ad essi; spesso rischiano di prendere decisioni sulla base di spinte emotive piuttosto che sulla base di valutazioni ponderate. La relazione con questa tipologia di persone è facilitata quando si investe del tempo con loro, attraverso la partecipazione emotiva, incentivandole e motivandole dentro una relazione calda e connotata affettivamente. Gli individui con uno stile primariamente riflessivo si caratterizzano per un elevato senso di responsabilità personale e la tendenza a farsi carico in prima persona delle cose, delle situazioni e delle persone. Sono tendenzialmente persone attente a includere gli altri, sono sensibili ai temi relativi all’esclusione e all’isolamento, che cercano di evitare all’interno del gruppo, sono pazienti, solidali e premurosi. Sono estremamente affidabili e nel gruppo cercano di favorire un clima di accordo, cercando di tenere conto dei punti di vista di tutti e cercando sempre la mediazione  tra le posizioni diverse.  Si preoccupano per la squadra, che monitorano costantemente e tendono a valutare le opinioni di tutti.  La relazione può essere facilitata dal mostrare preoccupazione per gli altri, dal favorire un ambiente supportivo, che dia valore a suggerimenti e indicazioni da parte degli altri.

  1. Processi decisionali nel gruppo

I processi decisionali (decision-making) di gruppo costituiscono un processo collettivo in cui più persone analizzano problemi o situazioni, considerano e valutano diversi possibili atteggiamenti e scelgono tra diverse possibili soluzioni alternative ad uno o più problemi comuni. La presenza in un gruppo di diversi stili di personalità che, come precedentemente evidenziato, veicolano differenti atteggiamenti di fronte ai problemi e alle possibili soluzioni, innesca dinamiche e cicli interpersonali che possono essere più o meno facilitanti rispetto al processo decisionale, al clima di gruppo e alla risoluzione dei conflitti (De Dreu, Gelfand 2008).

In situazioni ottimali, ad esempio, il gruppo può funzionare come una “sala degli specchi”, in cui i membri costituiscono vicendevolmente lo schema di riferimento con cui mettere a confronto il proprio comportamento. In questo tipo di gruppo si osservano diversi fenomeni: la socializzazione del linguaggio, nel senso che le persone tendono a esprimersi con il “noi;  l’ interdipendenza reciproca, nel senso che è irrilevante chi propone qualcosa, mentre è centrale il contenuto proposto; l’accettazione delle differenze individuali, che vengono riconosciute e accolte, utilizzando le diversità in modo costruttivo. Quando però si innescano cicli interpersonali disfunzionali, possono emergere importanti ostacoli e resistenze:  (I) fenomeni di accoppiamento, nel senso che le interazioni di gruppo si sbriciolano in interazioni diadiche; (ii) uso della fuga nel passato, con il pensiero di tutti concentrato prevalentemente o esclusivamente  sul  passato o elementi legati al passato, sul “come eravamo…” e la squalifica distruttiva del presente e delle sue difficoltà, che chiude alla possibilità di individuare le soluzioni del problema; (iii) fuga all’esterno, quando a turno i componenti del gruppo spostano costantemente il focus delle discussioni su argomenti non inerenti al gruppo o ai suoi obiettivi, precludendo un lavoro costruttivo di analisi e discussione delle criticità attuali; (iv) fuga in avanti, con l’emergere di fantasie proiettate troppo avanti nel futuro, che distraggono  dalle criticità del presente senza costituire delle reali progettualità; (v) provocazione protettiva, attraverso  continue richieste di aiuto che hanno l’effetto di bloccare lo sviluppo del gruppo; (vi) confusione di ruolo, nel senso che gli individui tendono ad alternarsi nell’assumere la conduzione del gruppo senza esplicita richiesta, delegittimando chi riveste i ruoli e bloccando le attività; gli ultimi due meccanismi sono particolarmente critici: è la (vii)  personalizzazione dei conflitti, quando le difficoltà decisionali tecniche passano in subordine rispetto al prevalere dei conflitti personali oppure (viii) l’emergere di capri espiatori, uno o pochi individui nel gruppo, verso i quali  l’aggressività di tutti può concentrarsi senza il rischio di venire sanzionati e di nuovo bloccando la ricerca a l’analisi delle reali criticità. Quando il gruppo non riesce a risolvere i conflitti che nascono da queste dinamiche, il rischio maggiore è la frammentazione e la formazione di sotto-gruppi, esposti, con il tempo, al rischio di entrare in conflitto tra loro. È importante quindi anticipare il conflitto, sapere come si sia generato e costruire strategie personali e di squadra per farvi fronte. Da un punto di vista ambientale e contestuale, i principali antecedenti dei conflitti hanno principalmente a che fare con i carichi di lavoro inadeguati, ambiguità di ruoli e di responsabilità, scarsa chiarezza rispetto agli obiettivi generali del gruppo. La condivisione quindi degli obiettivi, oltre che degli aspetti valoriali del gruppo di lavoro favorisce il buon funzionamento di un gruppo.

Le ricerche mostrano come lo stile di gestione del conflitto abbia un importante effetto sul modo in cui  il livello di conflittualità viene percepito dai membri di un gruppo. Ad esempio, uno stile accomodante, aperto all’integrazione delle diverse prospettive e collaborativo favorisce la percezione che l’intensità del conflitto sia bassa, contrariamente a quanto viene percepito dagli individui esposti ad uno stile di gestione del conflitto caratterizzato da evitamento delle difficoltà o dominanza attraverso interventi calati dall’alto (Friedman et al., 2000). Una recente revisione della letteratura (Almost et al, 2016) ha cercato di fare luce sulle principali determinanti dei conflitti nei gruppi, con particolare attenzione ai contesti di cura e promozione della salute, e sugli aspetti che sembrano essere più centrali nella gestione dei conflitti all’interno dei gruppi di lavoro. Emerge un quadro in cui le caratteristiche individuali – quali l’intelligenza emotiva (Caruso, & Salovey, 2004), la core self-evaluation (Judge, 1997) e alcuni tratti di personalità – siano precursori importanti della conflittualità o, al contrario, fattori protettivi. Centrale per un’adeguata capacità di gestire le situazioni conflittuali è la promozione della capacità di auto-riflessività: è necessario che i membri del gruppo sviluppino la  consapevolezza di quanto siano importanti motivazioni e bisogni personali, rispetto alla genesi e alla risoluzione dei conflitti perché sia più semplice affrontare e trovare vie di soluzione ai problemi. Chi conduce un gruppo deve creare degli spazi per raccogliere e conoscere motivazioni e bisogni del suo gruppo di lavoro perché solo in questo modo viene favorita la comprensione più profonda delle problematiche del gruppo e si apre una maggiore possibilità di valutare quali cambiamenti potrebbero essere implementati perché il conflitto si avvii verso una positiva risoluzione. Le persone, quando hanno fiducia nel fatto che le proprie azioni possono davvero essere efficaci e cambiare la realtà, più facilmente si relazionano in modo cooperativo e convergono verso gli obiettivi comuni superando ostacoli e conflitti. La risoluzione dei conflitti all’interno del gruppo è, al contrario,  grandemente ostacolata quando i membri del gruppo percepiscono che le proprie preoccupazioni o i propri dubbi vengono svalutati e non inclusi tra gli elementi rilevanti nel processo di decision-making.

Un altro elemento cruciale per prevenire l’emergenza di conflittualità intra-gruppo è la promozione della capacità di ascolto in tutti coloro che del gruppo fanno parte. L’ascolto è un’abilità che coinvolge aspetti cognitivi e verbali, emotivi, posturali e percettivi. Non è una capacità innata e può essere sviluppata ed educata. Non può prescindere dal mantenimento del contatto oculare con l’altro, dal porre attenzione al proprio linguaggio del corpo e, più in generale, al proprio comportamento non verbale: una postura aggressiva o un tono di voce squalificante sono molto più potenti di mille parole nel generare interazioni disfunzionali. Richiede, inoltre, che si approcci l’esperienza di ascolto da uno stato di calma, ponendo attenzione alla presenza nella propria mente di pregiudizi, preconcetti e/o aspettative negative nei confronti del proprio interlocutore: l’ascolto non giudicante, infatti, permette di separare più facilmente i dati di fatto dalle opinioni, di facilitare l’attivazione delle strategie di autoregolazione emotiva, favorendo  un clima relazionale cooperativo che, a sua volta, facilita il mantenimento dell’attenzione del gruppo sul raggiungimento degli obiettivi comuni (Dekeyser et al., 2008; Chowdhury & Kalu, 2004). Dal punto di vista relazionale, quindi, una buona comunicazione, soprattutto da parte di coloro che rivestono il ruolo di leader, è essenziale per facilitare la risoluzione dei conflitti, ma questo si basa sulla capacità delle persone di essere consapevoli di quanto possono aver contribuito al nascere del conflitto e avere la volontà di trovare soluzioni condivise (Brown et al., 2011). È importante inoltre stabilire e mantenere la coesione all’interno del gruppo, promuovendo la fiducia reciproca; la fiducia a sua volta, riducendo la tendenza a giudicare malevolmente i colleghi, si riverbera in più efficaci strategie comunicative.

  1. “La macchina del capo …”: la leadership

Nel suo lavoro del 1973 Mintzberg pone tra le caratteristiche chiave per l’efficacia nella gestione di un gruppo alcune specifiche competenze relazionali, quali: la capacità di stabilire e mantenere le reti sociali, la capacità di trattare con i subordinati, la capacità di entrare in empatia con i leader di alto livello. Anche precedentemente, i ricercatori hanno sottolineato il ruolo di più ampie competenze interpersonali (empatia, abilità sociali e tatto) come predittori dell’emergenza e dell’efficacia della leadership (Bass, 1990). Manager, dirigenti, professionisti delle risorse umane e, più in generale, coloro che abitualmente svolgono il proprio lavoro in equipe possono verificare quotidianamente il valore delle competenze relazionali. Diventa quindi necessario costruire un quadro teorico che metta in relazione le abilità emotive e sociali con l’efficacia della leadership, per guidare ricerca, valutazione, formazione e sviluppo dei leader delle organizzazioni. La leadership, infatti, costituisce lo “snodo” tra le variabili strutturali (obiettivo, metodo, ruoli) e le variabili processuali (clima, comunicazione, sviluppo).

L’esercizio della leadership si esprime attraverso aspetti gestionali e organizzativi: la capacità di  pianificare nelle diverse prospettive temporali, saper organizzare il lavoro, individuando anche le personalità più adatte per i diversi ruoli, la capacità di controllo e monitoraggio delle diverse  attività/obiettivi. Si tratta di competenze che solo in parte implicano il coinvolgimento diretto degli altri membri del gruppo; a queste si affiancano le competenze che più direttamente implicano la relazione: gestione delle attività comunicative, di decision making e di problem solving, che hanno luogo all’interno delle relazioni interpersonali (McCartney & Campbell, 2006; De Vries et al., 2010). Per quanto riguarda questi aspetti, diversi studi hanno mostrato la maggiore efficacia di uno stile comunicativo supportivo rispetto a uno dominante/controllante. È cosa nota che, nell’ambito della comunicazione medico-paziente, vi è maggiore soddisfazione dei pazienti di fronte ad un atteggiamento cordiale e attento (Buller e Buller 1987), mentre uno stile dominante è associato non solo a minore soddisfazione tra i pazienti, ma anche a esiti clinici sfavorevoli e a malpractice (Ambady et al 2002; Burgoon et al. 1987; Levinson et al. 1997). Risultati analoghi sono stati riscontrati anche in ambito formativo e pedagogico, in cui uno stile comunicativo supportivo è associato a maggiore soddisfazione degli studenti (Prisbell 1994) e uno dominante a minore motivazione (Noels et al. 1999). E nei gruppi di lavoro? Uno stile comunicativo dominante/controllante può portare – nelle situazioni in cui i componenti del gruppo sono in una posizione di eccessiva dipendenza da chi conduce – ad un peggioramento delle prestazioni individuali e della performance del gruppo nel suo complesso. Se teniamo conto del fatto che la performance di un gruppo di lavoro è favorita dalla condivisione delle conoscenze (Srivastava et al., 2006), vale a dire da quel processo di scambio reciproco di informazioni e conoscenze (implicite ed esplicite), che consente la contestuale creazione di una nuova conoscenza condivisa (Van den Hooff e De Ridder 2004), ci rendiamo facilmente conto che se alla guida di un gruppo c’è qualcuno che non favorisce scambio e relazione, ben presto tutti si troveranno in serie difficoltà.

Appare evidente, quindi, come la promozione di competenze emotive e sociali è di fondamentale importanza per la formazione alla leadership e, di riflesso, per un suo più efficace esercizio (Riggio, 2008; Zaccaro, 2002). Per competenza emotiva si fa riferimento in particolare alle capacità di lettura, decodifica ed espressione delle emozioni sia proprie, che delle persone con cui si è in relazione (Caruso & Salovey 2004). Il che vuol dire – in concreto – essere sempre guidati nelle proprie azioni dalla consapevolezza che, per tutte le persone, sentirsi nella mente dell’altro è un fattore profondamente motivante e promotore di benessere; una adeguata sensibilità ai segnali altrui (distress, fatica, noia, disequilibrio emotivo) rende possibile una migliore lettura dello stato mentale dell’ interlocutore e quindi una migliore scelta dei comportamenti da mettere in atto.

Le principali abilità sociali legate alla leadership efficace sono le capacità di esprimere autenticamente se stessi nelle interazioni con gli altri e di “leggere” (e capire) le dinamiche sociali che vengono messe in campo.  Per un buon leader, uno stile comunicativo efficace richiede abilità di espressione sia emotiva che sociale, consente più facilmente di parlare ad un pubblico e di assumere il ruolo di coach, ispirando e motivando gli altri (Groves, 2006) e trasmettendo emozioni positive (Bono e Ilies, 2006). Comunicare bene richiede sensibilità e attenzione, sia agli aspetti di contesto (ruoli, norme, situazioni), sia agli atti comunicativi verbali e non verbali degli altri membri del gruppo. Una buona sensibilità emotiva e sociale è fondamentale quindi per favorire l’ascolto attivo e per la comprensione delle esigenze e delle emozioni dei componenti un gruppo di lavoro. Infine, l’efficacia della leadership è favorita dalla capacità di autocontrollo, inteso come la capacità di saper regolare e modulare opportunamente l’espressione delle proprie emozioni, in funzione della situazione. E’ anche importante e utile avere una buona consapevolezza dell’effetto che i propri atteggiamenti (dalla postura al tono della voce) hanno sulle altre persone e dell’impatto sociale che tali comportamenti implicano.

  1. Tecniche comunicative per la gestione delle situazioni difficili

Una delle prime cose da fare nelle situazioni difficili dal punto di vista relazionale, è focalizzare la propria attenzione sugli aspetti che permettono di centrarsi in modo sicuro e stabilizzato sul proprio ruolo e la propria funzione; disattivare i fattori di disturbo, essere pienamente presenti, disinnescare gli elementi che ostacolano l’ascolto non giudicante, sono interventi che favoriscono la lucidità relazionale. In molte situazioni critiche l’ostacolo maggiore è dato dall’emergere di schemi interpersonali agonistico-conflittuali che rendono difficile lavorare sui contenuti perché ci distraggono sul piano relazionale.  Fondamentale in questi casi è mettere in atto una o più strategie per gestire cicli interpersonali conflittuali (McKay et al., 2007):

a – Validazione reciproca. Uno dei principali ostacoli ad una costruttiva discussione di gruppo sono gli interventi che tendono a squalificare  e invalidare quanto viene detto  da uno o più partecipanti. La mancata validazione può essere mediata sia dai termini del linguaggio che vengono usati per rispondere o commentare le affermazioni altrui, sia, spesso, dal tono e dal modo (lo stile non verbale) che accompagnano la comunicazione  con un atteggiamento squalificante. Spesso questa esperienza si accompagna alla percezione di sentire sotto giudizio le nostre parole, azioni o caratteristiche personali e sentirle valutate come “sbagliate”, “cattive” o “stupide”. In questo caso si possono attivare due reazioni opposte e ugualmente disfunzionali: da un lato l’emozione della vergogna, del disagio e di una sorta di sconfitta personale, che porta per lo più a ritirarsi dall’interazione sottraendosi all’attiva partecipazione ai processi (salvo poi sabotare passivamente quello che viene deciso dal gruppo); oppure possono emergere rabbia e frustrazione, emozioni che facilitano un’escalation di aggressività e opposizione. In entrambi i casi si rompe l’assetto cooperativo all’interno del gruppo. Inoltre, se non adeguatamente intercettati, questi cicli interpersonali spesso si saldano con le alleanze trasversali che di solito sono presenti (radicate in conflitti puramente funzionali o legati alle differenze di personalità) tra i membri del gruppo. Questo tipo di criticità può essere sensibilmente ridotta attraverso la validazione reciproca che, come l’accettazione delle posizioni dell’altro, non significa necessariamente approvazione o accordo. Gli interventi di validazione permettono all’altro di sentirsi capito nei suoi bisogni, necessità, desideri, obiettivi e nelle emozioni connesse a questi elementi. Alcune formule linguistiche che accompagnano gli interventi di validazione consentono inoltre di esprimere più facilmente il proprio punto di vista, anche quando è del tutto o in parte divergente da quello altrui:  “Capisco il tuo punto di vista …ma dalla mia prospettiva…”; “Mi rendo conto che per te …. Però secondo i dati del nucleo di valutazione ….”.  E’ importante, quando si fa un intervento di validazione, segnalare adeguatamente se ciò che si sta dicendo è solo la propria posizione/opinione  oppure se si sta riferendo un fatto osservabile; i due piani non vanno mai confusi nella comunicazione, altrimenti si corre il rischio che il messaggio venga percepito come una mistificazione e la mossa di validazione risulti del tutto vana.

b – Disco rotto. Quando sembra che un messaggio non sia stato recepito dall’interlocutore, può essere importante modificare la forma in cui il messaggio stesso viene comunicato, ad esempio formulando una frase concisa, specifica e chiara rispetto a ciò che si vuole esprimere. Se le argomentazioni a sostegno della propria posizione sono già state esposte e dettagliate per quanto serve e l’interlocutore continua comunque a contrastare il punto in oggetto, la strategia del disco rotto prevede che, omettendo dettagli, spiegazioni ed eventuali scusanti, si ripeta la frase, con pacatezza e tono piano, evitando ogni elemento vocale, tonale o posturale che possa essere avvertito come agonistico (tono secco, sguardo sprezzante o squalificante, contatto oculare prolungato eccessivamente, in quanto primario segnale di sfida) fin quando sia necessario. Qui il punto essenziale è evitare di cadere in dibattiti e argomentazioni sul piano logico-razionale, si tratta invece di non rispondere alle richieste di spiegazioni o dettagli o alla presentazione di contro argomentazioni, ma semplicemente replicare ribadendo il proprio punto:  “In ogni caso ci viene chiesto di …” “Capisco, ma preferisco che…”, “Mi rendo conto, ma la posizione è …”.

c- Indagine. Quando nel gruppo di lavoro uno o più dei partecipanti prende una posizione di opposizione o contrasto rispetto alla linea che si sta seguendo, a volte le ragioni sono chiare altre volte sono invece confuse o mal presentate. Molto spesso, in prima battuta, vere ragioni di una opposizione tendono a non emergere. Si tratta allora di aiutare a portare alla luce questi motivi, che a volte le persone non sono molto disposte a discutere. Una facilitazione al processo di condivisione si basa sulla domanda che fa riferimento alle ragioni della preoccupazione sul punto in oggetto. Per quanto riguarda questa tecnica, l’espressione principale è: “Cosa ti preoccupa rispetto a…”, continuando l’esplorazione finché non emergano informazioni utili alla risoluzione del conflitto. L’uso del termine “preoccupare” è scelto perché: è relativamente neutro (molto più di “cosa ti disturba” o “cosa non ti va bene”), rende la domanda non inquisitoria, né accusatoria, evitando quindi l’attivazione immediata di un atteggiamento difensivo,  trasmette all’interlocutore il senso di un autentico interessamento alla posizione dell’interlocutore (e aiuta chi pone la domanda ad entrare in un assetto di autentica curiosità verso le ragioni dell’altro).  Può essere particolarmente utile quando l’origine dei contrasti è vaga o non sufficientemente chiara.

d –Offuscamento. Consiste nell’esprimere un accordo parziale con l’altro, senza tuttavia accettarne totalmente la posizione. Questa mossa consente di solito di riportare il clima relazionale alla calma e di disinnescare eventuali competizioni per la supremazia o conflitti di rango. Questa tecnica si attua cercando nel discorso dell’interlocutore un aspetto con cui si possa concordare e utilizzarlo come punto di partenza per cercare una convergenza. Importante evitare termini che veicolino assolutezza, come “sempre”, “mai”, “tutto”, “niente”.

e – Ritardo assertivo. Quando emerge un conflitto, le persone tendono a mettersi vicendevolmente sotto pressione, in modo da costringere l’altro a prendere una decisione o a concordare con una strategia nel minor tempo possibile. Questa tecnica consiste invece nel creare uno spazio temporale (da pochi minuti fino a qualche ora) prima di dare la risposta richiesta. In questo modo è più facile tranquillizzarsi, tornare a uno stato emotivo meno attivato, considerare quanto già stato detto e fatto con calma e formulare risposte il più possibile appropriate (“Prendiamoci un’ora per pensarci su. Ciò che è stato detto è molto importante per me e vorrei pensarci con calma, prima di pronunciarmi ulteriormente sulla questione”). È importante ricordare che abbiamo sempre il diritto di prendere tempo, soprattutto quando si tratta di decisioni importanti.

f – Cambiare rappresentazioni. Le reazioni emotive sono guidate in larga misura anche dal modo in cui viene rappresentato l’interlocutore; il processo con cui ci costruiamo degli stereotipi mentali può richiedere tempo o essere rapidissimo: abbiamo tutti vissuto l’esperienza di essere in fila ad aspettare qualcosa e avere in pochi secondi la sensazione che la persona accanto a noi era una terribile rompiscatole presuntuosa o maleducata a seconda dei casi, collocandola immediatamente in uno schema, e da quel momento in poi l’interazione è stata implicitamente guidata da questa rappresentazione il nostro tono di voce, linguaggio e atteggiamento si sono modificati di conseguenza. È possibile però applicare in modo controllato il processo. La rabbia che ci nasce naturalmente davanti a una persona che giudichiamo aggressiva di solito viene in parte disinnescata quando riusciamo a dirci che si tratta di una persona che è molto in difficoltà (cambiamo rappresentazione) e l’irritazione davanti ad un interlocutore polemico che si sta fissando su dettagli a nostro avviso inutili, può disinnescarsi se pensiamo che è una persona molto spaventata perché pensa di non saperne abbastanza. Quando riusciamo a pensare che le persone stanno facendo fatica, sono spaventate, sono a disagio, sono in difficoltà siamo anche più capaci di regolare le nostre emozioni disfunzionali.

g – Focalizzare l’attenzione sul respiro. Sempre e comunque quando avvertiamo i segnali di un’attivazione emotiva intensa in una situazione di gestione di gruppo, concentrarsi sul flusso del respiro anche solo per pochi secondi, ha il potere di interrompere il meccanismo di reattività emotiva automatica e ci consente di riprendere la lucidità che ci è necessaria.

Conclusioni

Il gruppo è un’entità molto complessa in continuo movimento, regolato da processi che non sono solo espressione della somma delle caratteristiche individuali di ciascun membro. In un gruppo, specialmente di lavoro, sono costantemente in atto dinamiche che veicolano l’espressione di norme, ruoli sociali, obiettivi organizzativi che possono essere in contrasto – qualche volta in opposizione – con le caratteristiche di personalità, le motivazioni e gli scopi individuali. Se non opportunamente gestite, queste dinamiche possono portare alla formazione di conflitti individuali, sottogruppi a loro volta in contrasto tra loro o anche al loro interno, ostacolando il raggiungimento di obiettivi e risultati o inficiandone la loro qualità. La ricerca ha mostrato sempre più consistentemente quanto sia importante, per impedire o ridurre la conflittualità all’interno di un gruppo, il monitoraggio e la gestione del clima relazionale e della qualità degli scambi comunicativi tra i suoi membri. In quest’ottica, appare chiara l’importanza dello stile comunicativo della leadership del gruppo che, per essere efficace, non può prescindere dall’attenzione agli aspetti emotivi e relazionali e sociali che si esprimono nelle relazioni interpersonali all’interno del gruppo. È necessario quindi promuovere, nella formazione alla leadership (Cegala & Lenzmeier Broz, 2002), sia le competenze emotive (regolazione, espressione, tatto) sia le abilità sociali e comunicative (sensibilità sociale, validazione, ascolto, sospensione del giudizio). Questo facilita la riduzione di atteggiamenti dominanti, in favore di uno stile di leadership più supportivo e attento, riducendo gli errori, migliorando la performance e favorendo la soddisfazione di tutti i membri del gruppo.

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Cita questo articolo

Zorzi F., Strepparava M.G., Leadership efficace nel lavoro di gruppo, Medicina e Chirurgia, 72: 3280-3294, 2016. DOI:  10.4487/medchir2016-72-4

La leadership nel lavoro di gruppon.72, 2016, pp. 3276-3279, DOI: 10.4487/medchir2016-72-3.

Maria Grazia Strepparava (Milano Bicocca), Federico Zorzi (Milano Bicocca), Pietro Gallo(Sapienza, Università di Roma), Davide Festi (Bologna), Oliviero Riggio (Sapienza, Università di Roma), Isabella Barajon (Milano Humanitas), Tiziana Bellini (Ferrara), Fabrizio Consorti (Sapienza, Università di Roma), Carlo Della Rocca (Sapienza, Università di Roma), Giuseppe Familiari (Sapienza, Università di Roma), Bruno Moncharmont (Molise), Giustino Morlino (S.I.S.M., Laura Recchia (Molise) e Maurizia Valli (Pavia).

Gruppo di Lavoro Innovazione Pedagogica della Conferenza Permanente dei Presidenti di Corso di Laurea Magistrale in Medicina

Abstract

Leadership in teamwork

The present article reports the structure, organization and outcome of the Educational Workshop on Leadership in Teamwork, held in Messina on 16th September 2016 during a meeting of the Italian Permanent Conference of the Presidents of Undergraduate Curricula in Medicine. Using the critical incident scheme, and the role play method, the ‘educational innovation’ Working Group has focused on making the Presidents of the Undergraduate Curricula more aware of some relational mechanisms that may underlie the difficulties in managing a working group.

Parole chiave: pedagogia medica, leadership, dinamiche di gruppo

Keywords: medical education, leadership, group dynamics

Articolo

Il panorama internazionale

Le ricerche pioneristiche di Yvonne Steinert (2009) hanno portato lo staff development e l’educazione alla leadership all’attenzione della letteratura internazionale in tema di Pedagogia Medica (McKimm e Swanwick, 2010; Wilkerson e Doyle , 2011) “Effective leaders (…) engage in activities that are adaptive. Change in academic medical centres is a mixture of the norms, values, history, social conditions, and institutional culture (…). Experience teaches us that the role of leadership is critical during change and innovation in medical education”.(Mennin, 2009).

Il panorama italiano

Il recente riassetto legislativo degli Atenei Italiani, che ha spostato il fulcro organizzativo dalle Facoltà ai Dipartimenti, ha causato non poche difficoltà ai Corsi di Laurea in Medicina (CLM), e ai loro Presidenti, visto che legare questi Corsi ad un singolo Dipartimento rappresenta nient’altro che un mero artificio. Il Presidente del CLM si è così trovato ad essere gravato di pesanti responsabilità organizzative senza avere a disposizione né un centro di costo autonomo né lo staff amministrativo che si è aggregato per decenni intorno alle Facoltà. Questo repentino mutamento di prospettive ha costretto il Presidente del CLM a esercitare una leadership non solo nel campo della pedagogia medica, ma anche in quello organizzativo-amministrativo.

Il Miniatelier “La leadership nel lavoro di gruppo”

Il Gruppo di Lavoro Innovazione Pedagogica della Conferenza Permanente dei Presidenti di CLM organizza da numerosi anni delle attività di formazione permanente dei Presidenti di CLM (Gallo et al. 2014). In questo contesto, il Gruppo di Lavoro si è prefissato l’obiettivo di organizzare una serie di eventi formativi sul tema dell’educazione alla leadership. L’ultimo di questi è stato un miniatelier pedagogico dal titolo “la leadership nel lavoro di gruppo” che si è svolto durante la riunione della Conferenza che si è tenuta a Messina il 16 Settembre 2016.

Obiettivi del Miniatelier

Il Gruppo di Lavoro è partito dalla constatazione che il Presidente di CLM si trova ad esprimere la propria leadership per lo più nell’ambito di piccoli gruppi di lavoro: dalla Commissione Didattica di Facoltà/Scuola, alla Commissione Paritetica, alla Commissione Tecnica di Programmazione didattico-pedagogica (CTP), al gruppo VRQ, allo stesso Consiglio di CLM. Si è così deciso di finalizzare l’atelier a far prendere coscienza ai Presidenti della necessità di imparare a gestire un piccolo gruppo di lavoro come strumento essenziale dell’esercizio della propria leadership. Certamente eravamo consapevoli dell’impossibilità di formare i Presidenti alla gestione del piccolo gruppo nel breve spazio di un atelier, ma è prevalsa la volontà di dare ai Presidenti uno spunto, anche solo per rendere palese un bisogno che potrebbe non essere stato avvertito pienamente.

Gli obiettivi dichiarati dell’iniziativa erano due:

  • stimolare i Presidenti ad apprendere come esercitare consapevolmente la propria leadership all’interno di un piccolo gruppo;
  • invitare i Presidenti a formare i formatori, ovvero a farsi a loro volta promotori, nella propria Sede, di eventi formativi destinati all’educazione alla leadership dei propri collaboratori, come i Coordinatori di anno/semestre.

Formato del Miniatelier

Avremmo potuto impostare l’atelier sulla illustrazione di alcune strategie comportamentali utili nella gestione di un piccolo gruppo, ma abbiamo preferito privilegiare la strategia dell’esercizio svolto, con lo schema dell’incidente critico e con il metodo del gioco di ruolo.

Dopo una brevissima presentazione dell’atelier (da parte di Pietro Gallo) e un’introduzione al tema (da parte di Maria Grazia Strepparava), i Presidenti che hanno partecipato all’atelier sono stati suddivisi in due gruppi bilanciati (per l’anzianità di servizio come Presidenti). A ogni gruppo è stato dato il compito di simulare una riunione di CTP sul tema della revisione di regolamento didattico da approvare in vista di un futuro esame di laurea con abilitazione. In ognuno dei due gruppi era presente un osservatore (Maria Grazia Strepparava e Federico Zorzi) che ha iniziato il suo compito distribuendo a tutti i partecipanti un mandato specifico, relativo al “ruolo da giocare” all’interno del gruppo. Per due dei partecipanti il mandato era esplicito (impersonare il Presidente e il Vicepresidente del CLM e, quindi, gestire la riunione); per gli altri era riservato, e suddiviso in due categorie di mandati: uno funzionale (ad esempio: perorare la causa del coinvolgimento degli studenti nel processo decisionale) ed uno relazionale (ad esempio: schierarsi sempre a favore del Presidente). Lo scopo del gioco di ruolo era triplice:

  • far acquisire ai Presidenti la consapevolezza della differenza esistente tra un mandato funzionale (esplicito) e un mandato relazionale (spesso non esplicitato);
  • aiutare i Presidenti a mettere in atto e acquisire tecniche e strategie per gestire l’interazione all’interno di un piccolo gruppo;
  • insegnare a mediare tra posizioni differenti.

Coerenza tra l’obiettivo di far conoscere

ai Presidenti alcuni strumenti comunicativi per

la leadership di gruppo e formato utilizzato per l’atelier

Nella fase di progettazione dell’Atelier si era ampiamente discusso su quale poteva essere il formato del gioco di ruolo che fosse più efficace nel trasmettere ai Presidenti la percezione di quanto la dimensione relazionale possa condizionare la prestazione del gruppo di lavoro e come il monitoraggio adeguato di questo aspetto sia il timone che consente di raggiungere i risultati attesi. Un aspetto delicato era identificare il tipo di scenario da utilizzare: scegliere una situazione realistica o una astratta, lontana dalla quotidianità del lavoro del presidente? Entrambe le soluzioni avevano pregi e criticità: lo scenario realistico facilita la traduzione di quanto vissuto nella quotidianità, cogliendone immediatamente l’utilità, ma la quotidianità del problema rischia di bloccare l’attenzione sui contenuti e rendere eccessivamente opachi gli aspetti relazionali; nello scenario non-realistico si rischia di non far cogliere l’applicabilità di quanto sperimentato alla pratica quotidiana, ma proprio la non rilevanza dei contenuti rende più agevole far emergere chiaramente gli aspetti relazionali. La scelta di una situazione non attuale, ma percepita come possibile a breve, ha consentito di mediare adeguatamente tra i due aspetti.

Assegnare a ogni partecipante un mandato chiuso in una busta ha creato l’aspettativa che tutti avessero ricevuto specifiche indicazioni comportamentali e di atteggiamento, creando nella mente dei partecipanti uno sfondo di ipotesi sulle cause del comportamento altrui, come di fatto avviene normalmente  in un gruppo di lavoro: in modo del tutto naturale il ruolo e lo status di ciascuno dei partecipanti generano nei presenti un insieme di aspettative che in breve – a partire dalla dinamica e dalla qualità percepita degli scambi relazionali – si arricchiscono con gli aspetti caratteriali di ciascuno generando schemi interpretativi sempre più articolati.  Anche i mandati esclusivamente di contenuto hanno generato pattern relazionali: difendere un obiettivo porta spesso ad interazioni che dall’esterno possono essere facilmente interpretate come posizioni conflittuali personali. Tra i mandati relazionali, alcuni erano stati tenuti volutamente semplici e facilmente riconoscibili, altri erano più trasversali e complessi, per far agire la complessità delle intenzioni e far emergere la non linearità della relazione tra quanto è percepito e l’intenzione sottostante. I mandati che più di tutti hanno permesso di far emergere i processi di costruzione del significato e il potere delle rappresentazioni mentali nel guidare le nostre azioni e reazioni emotive, sono stati i biglietti segreti su cui era scritto ….. “niente”. Anche quando non sono state date indicazioni di comportamento o atteggiamento, infatti, il gruppo  ha rapidamente costruito una chiave di lettura per spiegare il comportamento di questi partecipanti,  schemi interpretativi che sono poi emersi in modo articolato (e disorientante per le persone che scoprivano cosa gli altri avevano loro attribuito) durante la fase di discussione.

Il potere di questo tipo di esercizio sta proprio nella possibilità – a differenza di quanto solitamente avviene nella vita reale – di scoprire “cosa c’è nella mente dell’altro” e lavorare sui punti di vista di tutti i partecipanti, mettendo in relazione le intenzioni con gli agiti, con le emozioni che si sono attivate e con l’effetto delle nostre azioni sugli stati mentali altrui, in modo trasparente. Il debriefing su questi aspetti permette di incrementare il grado di consapevolezza dei processi, mostrando l’utilità di saper osservare a più livelli. L’esperienza in vivo di gestire il gruppo, avendo poi uno spazio di discussione sulle dinamiche appena sperimentate, consente di lavorare sui cicli interpersonali disfunzionali appena vissuti e sull’intreccio tra comportamenti e reazioni emotive.

La presenza degli osservatori esperti ha tre funzioni: osservare i processi e integrare quanto detto dai partecipanti, quando alcune criticità delle interazioni non vengono notate o riportate; mantenere stabile nel gruppo l’atteggiamento non-giudicante, di accettazione e cooperazione nel corso della fase di rielaborazione; effettuare un modelling implicito sulle strategie comunicative a partire dalle scelte linguistiche e terminologiche dei loro interventi di rielaborazione. Nella fase di rielaborazione è stato importante portare l’attenzione dei presenti sulle diverse forme e modi del linguaggio usato durante l’esercizio (e anche nel corso della discussione) per evidenziare l’impatto e le valenze che le parole scelte hanno sul singolo e sul gruppo. Anche questa sensibilità linguistica è una competenza preziosa nella gestione di un gruppo di lavoro.

Risultati: le dinamiche agite nel primo            laboratorio

Il primo gruppo di lavoro ha incontrato diverse difficoltà nel procedere verso gli obiettivi prefissati ed è riuscito solo in parte a portare a termine il compito. I mandati relazionali hanno dato luogo a cicli interpersonali disfunzionali e a interazioni che hanno amplificato le risposte emotive individuali e collettive, soprattutto a matrice agonistica. Sono emersi più volte nel corso dell’esercizio sia vissuti di iperattivazione rabbiosa sia, all’opposto, vissuti di impotenza e di ritiro dal gruppo e dal compito. In ogni gruppo era stato attribuito il ruolo del “mediatore”, ma per le dinamiche che si sono create l’azione del mediatore (che pure era un esperto) non si è potuta pienamente dispiegare e spesso è stata bloccata. È stato quindi pienamente evidente a tutti – sia in vivo che successivamente nel debriefing – l’impatto degli aspetti relazionali sul gruppo di lavoro e come la criticità delle situazioni di scacco relazionale zavorrino il lavoro collettivo.

Il gruppo tuttavia ha avuto un importante momento formativo proprio durante quelli che sembravano irrisolvibili momenti di impasse: per più di una volta nel corso dell’esercizio diverse persone sono “uscite dal ruolo” sia con degli agiti fisici – ad esempio ridere o fare interventi eccessivamente amplificati ad arte ed evidentemente artificiosi – sia  commentando in vario modo che si stava facendo un gioco di ruolo o il fatto che il gioco di ruolo stava venendo molto male. A prima vista quando un partecipante esce dal ruolo si enfatizza l’aspetto dell’ “as if”  dell’esercizio e viene dai più vissuto come un segno di fallimento dell’esperienza. In realtà proprio questa rottura di schema ha permesso, in fase di debriefing, un prezioso intervento di ricodifica da parte dell’osservatore: ricostruendo, con tutto il gruppo e in particolare con chi aveva agito le rotture, i momenti specifici in cui si erano verificate, è emerso che si trattava dei momenti di maggiore criticità relazionale e di maggior attivazione emotiva. La situazione era così critica da essere intollerabile e quindi per tornare a una comfort zone emotiva era meglio uscire dal gioco. Nelle situazioni reali non c’è però un gioco da cui poter uscire. E allora? In realtà anche nelle situazioni reali si può uscire dai giochi relazionali o dai cicli interpersonali disfunzionali e dalle situazioni di difficoltà metacomunicando, vale a dire comunicando con il gruppo su ciò che si percepisce sta avvenendo in quel momento, sul senso dei messaggi che vengono scambiati, sul proprio stato emotivo o sulle proprie reazioni. Ed è buona norma farlo partendo dal proprio stato di disagio o di difficoltà, utilizzando un tono di voce e un modo piano, pacato e tranquillo, evitando accuratamente formulazioni e affermazioni giudicanti e/o squalificanti sul gruppo o sui singoli, non usando generalizzazioni,  non confondendo il comportamento (“sono state presentate cinque opzioni, ma dici che non ne scegli nessuna. Questo è un problema perché non riesco a vedere altre ipotesi percorribili”) con le caratteristiche della persona (”sei il solito che fa obiezione su tutto e non ti va mai bene nulla”). Solo rispettando questi parametri la metacomunicazione è un intervento efficace. Proprio la condivisione delle emozioni negative e del disagio vissuto, attraverso i meccanismi di rispecchiamento reciproco e il parlarne insieme, ha reso possibile ai partecipanti ritrovarsi allineati come gruppo al termine dell’esperienza.

Risultati: le dinamiche agite nel secondo laboratorio

Diverso è stato invece l’andamento nel secondo gruppo. L’attività è durata un’ora, la discussione finale circa 20 minuti. Il gruppo ha lavorato efficacemente fin dai primi scambi, consentendo di giungere ad alcune decisioni condivise (raggiunte a maggioranza, per alzata di mano) rispetto alle modalità di lavoro della futura assemblea, nonostante alcuni membri del gruppo avessero dei mandati relazionali e funzionali che ostacolavano il processo di decision-making. I conduttori hanno mostrato particolare sensibilità alle dinamiche in corso e sono riusciti a mantenere per la maggior parte del tempo un assetto relazionale non giudicante, di sostegno ai singoli interventi, orientando la discussione sempre sul merito degli argomenti portati e impedendo che questa si spostasse sul piano personale. I conduttori hanno fatto spesso interventi  per ridurre gli agiti aggressivi e competitivi. In questo modo è stato possibile per il gruppo rimanere a lungo in un assetto relazionale cooperativo. Quando è stato necessario, il Presidente ha esercitato la sua autorevolezza, senza tuttavia fare interventi autoritari. Nessuno dei partecipanti è rimasto escluso dalla discussione e tutti si sono sentiti ascoltati. Anche questo elemento dimostra come il buon clima relazionale abbia  favorito la coesione di gruppo; ciò ha permesso che gli obiettivi di lavoro comuni diventassero, man mano che la discussione procedeva, primari rispetto agli obiettivi personali.

Conclusioni

Uno degli aspetti più interessanti e probabilmente formativi del miniatelier nasce dal fatto che il compito da eseguire, la numerosità del gruppo, i ruoli espliciti e i mandati impliciti erano assolutamente identici, ma l’esito è stato radicalmente diverso ed ha portato, in un caso alla risoluzione del compito, nell’altro a uno stato di blocco parziale e al mancato raggiungimento dell’obiettivo. A essere differenti nei due gruppi sono state le dinamiche relazionali che si sono attivate nel corso dell’esercizio e  il modo in cui i diversi ruoli sono stati tradotti concretamente in atteggiamenti, azioni e intenzioni da parte di chi li stava  rivestendo; simulati o reali che siano, i ruoli veicolano aspettative condivise sui comportamenti che ciascuno deve tenere sulla base degli obblighi attribuiti e attesi, ma sono sempre calati nella realtà concreta di individui specifici, con le loro caratteristiche individuali, vulnerabilità e punti di forza che possono trasformare in direzioni anche opposte il ruolo stesso.

Non si ribadisce mai a sufficienza l’importanza dei fattori ambientali e spaziali quando si lavora in gruppo e i diversi esiti dei due gruppi di lavoro lo confermano pienamente: mentre il primo gruppo si è seduto intorno a un tavolo rettangolare, con il Presidente al centro e Vicepresidente accanto,  nel secondo gruppo le persone  hanno scelto liberamente dove sedersi in un cerchio di sedie, una organizzazione spaziale che solitamente  facilita lo scambio e la comunicazione e riduce la percezione di un assetto autoritario tra i partecipanti. Una nota finale: lavorare insieme, condividere pensieri ed emozioni facilita l’integrazione; parlare di relazioni, se fatto nel modo giusto, con un tono adeguato e non-giudicante, crea condivisione; la sensazione di avere raggiunto qualcosa insieme attiva la percezione di un sistema che coopera. Così è stato, secondo noi, per tutti coloro che hanno partecipato ai lavori. Mangiare insieme, condividendo emozioni positive  – complici il paesaggio di luna e di mare e i profumi della sera – è stata la chiusura adeguata della giornata che ha trasmesso a tutti la percezione di essere parte di uno stesso più grande, cooperativo e coeso gruppo.

Un’analisi più articolata ed esauriente delle dinamiche disfunzionali che possono intralciare il lavoro di gruppo, e cimentare la leadership del Presidente di CLM, appare nell’articolo di Federico Zorzi e Maria Grazia Strepparava (Leadership efficace nel lavoro di gruppo) che verrà pubblicato più oltre in questo numero di Medicina e Chirurgia.  

Bibliografia

1) Gallo P, Consorti F, Della Rocca C, Familiari G, Valanzano R, Vantini I, Nicolazzi M (2014):  Il Gruppo di Lavoro Innovazione Pedagogica. Stato dell’arte a tutto il 2013. Med. Chir. 61: 2735.

2) McKimm J, Swanwick T (2010): Educational leadership. In: Swanwick T (ed): Understanding Medical Education. Evidence, Theory and Practice. Wiley-Blackwell, Cichester.

Mennin SP (2009): Academic standards and scholarship. In: Dent JA, Harden RM (eds): A practical guide for medical teachers. Churchill Livingstone, Edinburgh.

3) Steinert Y (2009): Staff development. In: Dent JA, Harden RM (eds): A practical guide for medical teachers. Churchill Livingstone, Edinburgh.

4) Wilkerson LA, Doyle LH (2011): Developing teachers and developing learners. In: Dornan T, Mann K, Scherpbier A, Spencer J (eds): Medical Education. Theory and Practice. Churchill Livingstone, Edinburgh.

Cita questo articolo

Gruppo di Lavoro Innovazione Pedagogica della Conferenza Permanente dei Presidenti di Corso di Laurea Magistrale in Medicina, La leadership nel lavoro di gruppo, Medicina e Chirurgia, 72: 3276-3279, 2016. DOI:  10.4487/medchir2016-72-3

Esperienze di lavoro di gruppon.71, 2016, pp. 3242-3250, DOI: 10.4487/medchir2016-71-6

Abstract

This Forum is a part of the tetralogy of educational events devoted to “Training of teachers, supervisors and students to leadership and teamwork”. In a tetralogy the so called “Pedagogical pills” are mini-lectures, the workshops are based on experiential learning, forums are the privileged environment in which the Conference co-constructs its shared knowledge, since they are small group activities focused on sharing and discussion of real life experience.

In this forum we identified some critical situations in which teamwork asks for a special attention, specially when the team is inter-professional. The following articles report on the most significant and common elements emerged from the discussion. The considered environments were the team of teachers of an integrated course, the relationship between teachers and administrative- technical personnel dn the inter-professional collaboration, probably the most challenging context in the near future.

Parole chiave: lavoro a piccoli gruppi – corsi integrati – collaborazione interprofessionale

Key Words: small group activities – integrated course – inter-professional collaboration

Articolo

  1. Introduzione

Questo Forum è parte della tetralogia di eventi formativi dedicati a “Formazione dei docenti, dei tutor e degli studenti alla leadership e al lavoro di gruppo”. Se le “pillole pedagogiche” sono  mini-letture informative-formative  e gli atelier sono attività di apprendimento esperienziale, i forum sono il luogo privilegiato in cui la Conferenza co-costruisce la sua conoscenza condivisa, essendo attività per piccolo gruppo centrate sulla condivisione e discussione di esperienze reali.

In questo caso abbiamo individuato alcuni ambiti critici in cui il team work esige attenzione, specie quando il team è interprofessionale. Gli articoli che seguono riportano gli elementi  più significativi emersi a fattore comune dalle discussioni e condivisioni delle esperienze. Gli ambiti considerati sono stati il team di docenti di un corso integrato, la relazione tra docenti e personale tecnico-amministrativo e il lavoro di gruppo inter-professionale, forse il più sfidante contesto del prossimo futuro.

Fabrizio Consorti

  1. Lavoro di gruppo nella gestione del corso integrato

Giuseppe Familiari (Conduttore), Licia Montagna, Roberta Misasi e Maria Filomena Caiaffa

Premessa

Il lavoro di gruppo nella gestione del corso integrato (CI) riveste un aspetto cruciale per il corretto svolgimento del CI, soprattutto quando debbano essere integrate in modo efficace competenze multidisciplinari, interdisciplinari e transdisciplinari. Esso deve essere calibrato in relazione ai modelli organizzativi diversi dei CI dell’intero Corso di Laurea, soprattutto in riguardo alla fase iniziale (scienze di base), alla fase intermedia (fase pre-clinica) e alla fase finale del percorso formativo (fase clinica).

Debbono essere inoltre tenuti presenti i diversi modelli organizzativi dei CI nei confronti dell’organizzazione generale del Corso di Laurea, che può essere di tipo “tradizionale”, con maggiore attenzione all’integrazione orizzontale o di tipo “innovativo” con maggiore attenzione all’integrazione verticale. Deve ancora essere fatto riferimento ai modelli organizzativi diversi di integrazione nelle attività teoriche in aula, in relazione maggiormente con il sapere dello studente (Knowledge) e nelle attività pratiche a piccoli gruppi, molto più importanti, in relazione al saper fare e al saper essere dello studente (Competence, Performance, Action, Identity).

Asse centrale, nel gioco delle relazioni interpersonali in contesti complessi come quello medico, è senza dubbio la gestione del core curriculum del corso integrato, in riferimento a quei contenuti dell’apprendimento che debbono condurre alle abilità e alle competenze richieste alla laurea, con raggiungimento di un buon livello di professionalità (professionalism) o identità professionale (professional identity).

La gestione del core curriculum del CI deve infine rispettare due paradigmi importanti, deve cioè concordare, in relazione all’assetto generale specifico di ogni Corso di Laurea, con:

L’assetto verticale del curriculum, concordato come presupposto formativo dei CI in sequenza temporale, in riferimento al metodo scientifico, alla rilevanza fisio-patologica, al ragionamento clinico, alla consapevolezza del proprio ruolo;

L’assetto orizzontale del curriculum, inteso come sub-analisi del curriculum verticale, in relazione ai contenuti, alle propedeuticità, alle competenze dei docenti, alla progressione nei semestri, agli approfondimenti concordati.

Una integrazione efficace del core curriculum è alla base ed è basata sulla effettiva collaborazione tra docenti e studenti, presupposto irrinunciabile per condurre alla costruzione dell’ identità professionale di questi ultimi.

E’ importante sottolineare come il lavoro di gruppo all’interno del singolo CI, in piena sintonia con gli Studenti, debba essere condotto sui principi di collaborazione franca e leale con gli Studenti, utilizzando i principi di base della pedagogia (FAIR):

Feedback: monitorizzare la progressione degli Studenti sull’effettivo raggiungimento degli obiettivi formativi;

Activity: lavorare “con” gli Studenti per un apprendimento attivo e non passivo;

Individualization: porre attenzione ai bisogni individuali di ogni singolo Studente, in relazione al raggiungimento degli obiettivi didattici;

Relevance: rendere l’insegnamento strettamente correlato agli obiettivi generali di apprendimento/competenze del Corso di Laurea.

Ovviamente, anche i rapporti tra i Docenti del CI debbono essere pienamente funzionali e basati sul rispetto, la lealtà e la correttezza reciproca, utilizzando i principi del modello SPICES di Harden, là dove la scala dell’integrazione (The integration ladder) prevede che vi sia: “greater central planning, greater communication between teachers, less emphasis on disciplines”.

La gestione di un CI è obbligatoriamente non facile e tale da richiedere grande attenzione; la sintesi dei punti fondamentali per una gestione di qualità deve prevedere:

– La pianificazione del CI, partendo dalle unità didattiche elementari (UDE), che sia davvero integrato (copresenza, correlazione pianificata in anticipo, ecc.);

– La pianificazione delle modalità di esame e valutazione coerente con gli obiettivi formativi del corso (esame veramente integrato e non prove singole, modalità di esame congrue con le conoscenze, le abilità e le competenze definite nel core curriculum,ecc.);

– Il ruolo centrale del coordinatore del CI che deve essere affidato a un Docente fortemente motivato (non è un notaio che prende atto dell’orario nell’aula, ma rende fattiva e possibile l’integrazione vera delle UDE, scioglie i contrasti, pianifica e concorda le copresenze, ecc.).

Le esperienze delle sedi

Nell’ambito del Laboratorio Pedagogico, sono state presentate e discusse le esperienze di tre sedi, che sono qui di seguito riassunte.

“Sapienza” Università di Roma, Corso di Laurea “C”

E’ stata presentata una interessante esperienza di lavoro di gruppo nella ristrutturazione del biennio clinico a maggiore caratterizzazione professionalizzante, per lo sviluppo della competenza medica.

L’idea è nata da una esigenza di dare un senso maggiormente compiuto alla struttura delle Medicine e Chirurgie I, II, III, CI del quinto/sesto anno di corso; Medicina e Chirurgia I integrata con l’Oncologia, Medicina e Chirurgia II con le Patologie Geriatriche, Medicina e Chirurgia III comprendente tutto il resto ma senza un programma ed un’organizzazione definiti.

In una serie di riunioni nella Commissione Tecnico Pedagogica è stato costruito un percorso di formazione per competenze, utile a garantire, a tutti gli studenti, un periodo di internato in medicina, chirurgia, medicina generale.

Vi sono state due fasi, una prima, dedicata al lavoro di gruppo in CTP per organizzare i CI e una seconda fase di lavoro di gruppo fra i docenti coinvolti nella realizzazione delle diverse attività. Sono state individuate la metodologia per l’attività frontale, la suddivisione dei problemi clinici essenziali, i metodi didattici specifici, la metodologia dell’attività pratica, i compiti dei tutor clinici, i compiti degli studenti.

Tra le attività di programmazione svolte debbono essere citati: lo studio in simulazione dei problemi clinici essenziali; la pianificazione in aula di metodologie didattiche specifiche, con discussione e metodologie di tipo professionalizzante; la raccolta  di casi clinici visti nei vari reparti frequentati durante il biennio clinico inclusa la frequenza dal MMG; la raccolta di schede narrative e brevi racconti di episodi vissuti durante il biennio clinico particolarmente significativi per quanto riguarda lo sviluppo della professionalità medica; l’acquisizione in autonomia delle abilità essenziali previste dal libretto delle attività pratiche.

Il lavoro iniziale di reclutamento dei docenti è stato lungo e faticoso, in quanto essi dovevano avere disponibilità di reparto, conoscenze, passioni e attitudini diverse, voglia di partecipare. Malgrado le continue riunioni, continua però ad essere difficile mantenere una rigida distribuzione di compiti che eviti sovrapposizioni ed inutili ripetizioni.

Milano Humanitas, Corso internazionale in lingua inglese

L’esperienza presentata si riferisce alla ristrutturazione del corso, in riguardo alla organizzazione integrata del primo anno di corso. Viene, nello specifico presentato il lavoro svolto nella organizzazione di due CI.

Nel CI Body at Work (Fisica, Anatomia Umana, Biochimica, Fisiologia) è stato in particolare istituito un CdCI; vi è stata piena condivisione dei contenuti e dei metodi del corso, condivisione dei temi longitudinali del Priority Presenting Problems Portfolio (PPPP), la stesura di un syllabus, la definizione delle modalità d’esame.

I CI sono stati migliorati estendendo  la condivisione dei temi longitudinali del PPPP agli altri CI, lavorando sulla stesura di un syllabus integrato anche sugli altri corsi.

Grande lavoro di gruppo è stato fatto sulle modalità d’esame, prevedendo, sempre per lo stesso corso in esempio, un esame scritto tramite multiple choice test, il cui superamento garantisce l’accesso all’esame orale con i docenti, la revisione del compito e la discussione di un argomento del PPPP.

In questo processo di rinnovamento è stata data particolare enfasi al ruolo del coordinatore di CI, che condivide i principi e i metodi didattici del corso, sa costruire committment tra i colleghi e si confronta con il presidente del CDL e l’ Office for medical Education, supervisiona il syllabus, lavora a stretto contatto con il responsabile della pianificazione e con i colleghi del CI durante la pianificazione, supervisiona le domande d’esame, redige la prova d’esame finale, è referente diretto per gli studenti (domande, chiarimenti ecc..), riceve la valutazione del corso e si fa promotore di modifiche e miglioramenti.

Ateneo di Foggia, Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia

L’esperienza presentata per il CLM di Foggia fa riferimento soprattutto alla situazione attuale e agli sforzi che il Presidente del Corso di Laurea sta mettendo in atto per il suo miglioramento. L’Università di Foggia è un Ateneo di media dimensione, con 16 Corsi di Studio di Area Medica (5 decentrati), 56 professori e 57 ricercatori/prof aggregati. Al Corso di Laurea di Medicina e Chirurgia frequentano 80 studenti per anno. I CI sono organizzati sulla base di un modello tradizionale con «integrazione orizzontale».

Dall’analisi SWOT della situazione attuale emergono dei punti di forza, caratterizzati dalla omogeneità nell’organizzazione dei CI della fase iniziale, intermedia e finale; da una buona pianificazione dei CI e chiari obiettivi formativi; una evoluzione positiva del ruolo dei coordinatori di CI; l’integrazione dei contenuti e dei programmi dei CI in via di miglioramento; alcune criticità evidenziate anche dalla site-visit della CPCLMMC 2014, sono state obiettivo di miglioramento del Rapporto di Riesame annuale e ciclico 2016.

La stessa analisi SWOT evidenzia delle criticità quali le modalità di esame da migliorare (nell’integrazione); l’approccio individualistico nell’insegnamento della disciplina in alcuni moduli didattici; difficoltà a gestire la co-presenza dei docenti a lezione, in relazione al numero limitato di docenti con carico didattico importante nei diversi CdL.

E’ stata pertanto ribadita l’utilità reale del rapporto del riesame annuale e ciclico, da interpretare correttamente non come impegno burocratico, ma come effettivo strumento per il miglioramento della qualità didattica.

  1. Lavoro di gruppo interprofessionale

Davide Festi, (Conduttore), Maria Grazia De Marinis, Lorenza Garrino, Paolo Leombruni, Daniele Santini. Erano inoltre presenti: Fabrizio Consorti, Pietro Gallo e Rappresentati del SISM.

Dopo una breve introduzione incentrata  sulle definizioni di educazione interprofessionale, sia quella dell’OMS del 1988 che quelle del  CAIPE del 1997 e del 2006, sulla normativa  esistente  e sulle scarse evidenze scientifiche disponibili relative all’impatto della educazione interprofessionale sugli esiti clinici, sono state riportate alcune esperienze effettuate a Roma ed a Torino.

Maria Grazia De Marinis e Daniele Santini, del Campus Biomedico di Roma hanno presentato una esperienza di didattica simulata interprofessionale, che ha coinvolto studenti di Medicina e Chirurgia e studenti di Infermieristica, con l’obbiettivo  di esplorare i differenti ruoli professionali; valorizzare le diverse competenze, incoraggiare la comunicazione e la fiducia  tra i membri del gruppo; imparare ad esprimere emozioni, stati d’animo e necessità di aiuto nel gruppo; riflettere sulle difficoltà a ricevere e riferire commenti/apprezzamenti sul proprio lavoro.

Il seminario si è svolto attraverso le seguenti fasi:

  1. Analisi di un incidente critico: con l’obiettivo di offrire ai ragazzi la possibilità di riflettere, in gruppi di 6 persone, su una situazione di interprofessionalità in cui direttamente o indirettamente hanno partecipato nel loro tirocinio.

Gli è stato chiesto di descrivere una situazione ritenuta critica, che pensavano potesse essere gestita diversamente, attraverso la ricostruzione di emozioni, azioni, clima e modalità di lavoro, fornendo esempi chiari e concreti di comportamenti o parole osservate e di spiegare perché  dal loro punto di vista la situazione è stata ritenuta critica.

  1. Scrittura della trama per il Role Playing: il gruppo ha ricevuto l’invito a definire una semplice trama, utilizzando il contenuto dell’incidente critico e stabilendo cosa doveva essere detto e fatto  dai personaggi. In particolare, la trama richiedeva la descrizione di: dove accade; quando accade; a chi accade; che rapporti ci sono tra queste persone (relazione); di cosa si tratta (problema).
  2. c) Realizzazione del Role Play in quattro fasi:

due studenti hanno interpretato rispettivamente il ruolo del medico e dell’infermiere cercando di risolvere la situazione critica, così come descritto preliminarmente nella trama

“inversione dei ruoli”: il ragazzo che prima ha interpretato il medico ha poi interpretato l’infermiere e viceversa;

introduzione  dell’”io ausiliare”: è servito per suggerire ai due protagonisti nuovi punti di vista e nuovi comportamenti;

“sostituzione” dei ruoli: due nuovi ragazzi interpretano la scena per cercare di affrontare il problema con dinamiche differenti dalla precedente.

  1. d) Il feedback: è stata analizzata la registrazione della scena, sono stati raccolti i feedback dei partecipanti, si sono confrontate le differenti prospettive di analisi e i vari punti di vista conclusivi.

Da parte degli studenti è emerso: un’indicazione ad una comunicazione più chiara e diretta tra le diverse figure professionali; una considerazione sulle capacità di mettersi nei panni dell’altro per comprenderlo meglio;  la necessità di ri-conoscere il proprio ruolo e quello dell’altro e  di non essere intimoriti nel chiedere aiuto quando si sta gestendo una situazione critica.

La seconda realtà discussa all’interno del Laboratorio ha riguardato l’esperienza maturata in questi ultimi anni presso l’Università di Torino.

Lorenza Garrino e Paolo Leombruni hanno presentato alcune iniziative promosse dalla SIPeM sezione Piemonte  e VdA e realizzate come prima ricaduta del Congresso Nazionale svoltosi a Torino nel Maggio 2010. Sono stati tenuti, nel corso di più anni, workshop volti ad analizzare l’importanza dello sviluppo di una collaborazione interarea tra le varie figure sanitarie con simulazioni volte a stimolare il lavoro di gruppo e una maggiore consapevolezza delle capacità e responsabilità del proprio ruolo al fine di riuscire nella risoluzione di situazioni critiche. In particolare sono state organizzate due giornate di studio e lavoro, il 24 settembre 2010 e 11 settembre 2011, dal titolo ”Formazione alla interprofessionalità nei corsi di base della Facoltà di Medicina” alla quale hanno partecipato più di sessanta docenti universitari  e professionisti delle aree socio-sanitarie ed educative. Ai partecipanti sono stati proposti gruppi di studio interprofessionali da sperimentare nelle sedi appropriate, con la finalità anche di realizzare un percorso  triennale all’interno del corso di Medicina.  Obiettivi del percorso, partendo dai bisogni evidenziati, erano quelli di rendere lo studente in grado di descrivere le regole della comunicazione (grammatica della comunicazione, ascolto attivo); negoziare nel gruppo soluzioni condivise; utilizzare strumenti comunicativi efficaci. Una ulteriore iniziativa sull’interprofessionalità  ha riguardato la realizzazione di laboratori gesti o skill lab, gestiti da tutor infermieristici ai quali partecipano gli studenti di Medicina del primo triennio. A partire dall’Anno Accademico 2011-2012 è stata realizzata presso i corsi di laurea delle professioni sanitarie e il corso di laurea in medicina una attività elettiva interprofessionale  dal titolo “ Il caregiver : l’alleanza terapeutica nell’assistenza domiciliare in una prospettiva interprofessionale”, indirizzata alle professioni infermieristica, medica, riabilitative (fisioterapista, logopedista) ed agli educatori professionali.

Una ulteriore esperienza riguarda la collaborazione tra il corso di laurea in infermieristica di Torino e l’Università  Modena –Reggio, nata all’interno del master “Metodi e strumenti per l’insegnamento clinico della medicina generale nelle cure primarie” relativa alla partecipazione del paziente esperto nella formazione e nelle cure, in una ottica di interprofessionalità. Il presupposto è la sempre maggiore valorizzazione dell’esperienza che il paziente porta con sé quando arriva al professionista,  delle sue preoccupazioni, dei suoi desideri, delle sue conoscenze e della sua consapevolezza sulla sua situazione. IN un tale approccio il paziente diventa alleato, partner e viene valorizzata la sua esperienza nel percorso di cura ed a una migliore qualità di vita nelle diverse fasi di malattia.

L’esperienza fatta a Torino consente di concludere e prospettare la necessità di:

– implementare la formazione interprofessionale nei corsi di base per migliorare la comunicazione interprofessionale;

– una progettazione formativa interprofessionale attraverso l’identificazione di interventi mirati a favorire la conoscenza degli altri professionisti, la realizzazione di percorsi di tirocinio comune tra studenti di discipline diverse, incontri per favorire la comunicazione interprofessionale ed il confronto

– valorizzare e sviluppare il partenariato con i pazienti ed i care giver nella formazione e nelle cure.

In ultimo il gruppo di lavoro, rispondendo alla richiesta fatta dalla Presidenza, ha identificato:

1)  le cinque parole  relative al buon funzionamento dei gruppi: comunicazione, affiatamento, definizione dei ruoli, inclinazione alla leadership, sperimentazione.

2) le cinque parole relative alla criticità dei gruppi: necessità di una valutazione delle esperienze realizzate, numerosità (difficoltà nel rendere queste esperienze accessibili a più studenti dei corsi di laurea, valutazione della possibilità di inserire anche dei corsi ADE nel piano di studi, strutturati su più anni al fine di permettere in base alle competenze sviluppate dagli studenti analisi di problemi differenti); diffidenza (tra le figure in questione);

3) le cose da NON fare: mettere in un’aula tutti gli studenti; chiamare una lezione frontale “lezione sull’interprofessionalità”;

4) le cose da fare: necessità di esperienze di simulazione condivise; identificare gli spazi più idonei (es. tavoli tondi dove più studenti possono lavorare insieme); identificare le strategie di collaborazione più idonee e concrete; conoscenza dei valori reciproci delle diverse figure sanitarie.

  1. Lavoro di gruppo con il personale tecnico-amministrativo

Bruno Moncharmont (Conduttore), Maurizia Valli, Tiziana Bellini ed Anna Bossi

I normali processi di progettazione e gestione dei corsi di studi prevedono numerosi interazioni tra i docenti con ruoli di responsabilità (presidente del corso di studio, componenti della commissione tecnico pedagogica, gruppi per l’assicurazione della qualità) e tra il personale tecnico amministrativo della segreteria didattica, della segreteria studenti e degli altri uffici centrali dell’ateneo. Lo svolgimento armonico dei processi implica, però, frequenti e fondamentali interazioni tra i docenti e personale tecnico amministrativo. L’esperienza ci mostra che tale interazioni sono quasi sempre estreme: in alcuni casi armoniche, perfettamente funzionali e collaborative in altri disastrose, con il risultato di creare sovente ingiustificati ritardi nei processi. Il mandato del laboratorio era quello di comprendere, attraverso una analisi delle esperienze riferite da alcune sedi, quali erano gli elementi che costituivano un ostacolo all’instaurarsi di un rapporto operativo di gruppo tra docenti con ruoli di responsabilità nella gestione del corso di studi ed il personale tecnico amministrativo coinvolto nei processi di progettazione e gestione delle attività didattiche.

Maurizia Valli presidente del CL M di Pavia ha presentato le esperienze con la Segreteria studenti, Tiziana Bellini, presidente del CLM di Ferrara, quelle con la Segreteria didattica, con una particolare enfasi sull’importanza della funzione del manager didattico, ed infine Anna Bossi presidente del CLM di Milano statale-polo centrale quelle con Ufficio statistico di ateneo. Dalla animata discussione con gli altri partecipanti al laboratorio è emerso che una parte delle principali cause che ostacolano l’armonico sviluppo delle interazioni in un lavoro di gruppo sono di tipo strutturale-organizzativo:

– difficoltà di accesso ai dati (tipologie differenti di database ed aggiornamento non sincrono)

– scarsa integrazione tra sistemi software;

– rigidità nell’utilizzo delle applicazioni per la mancanza di manuali utente e per una insufficiente o inadeguata formazione;

– linguaggio utilizzato nella gestione degli aspetti didattici non sempre corrispondente a quello utilizzato per gli aspetti amministrativi;

– poca formalizzazione delle procedure e prevalente ricorso alla memoria storica;

– sostituzione di ruoli tra docenti e PTA su particolari aspetti.

L’altra parte delle criticità sono da annoverarsi sul lato relazionale:

– input e/o richieste antitetiche al personale tecnico amministrativo da parte del corso di studi e della struttura amministrativa;

– prevalenza della dimensione relazionale rispetto a quella organizzativa;

– formale divisione scientifica del lavoro;

– personalizzazione delle priorità lavorative;

– pregressi ed irrisolti conflitti intragruppo e di categoria;

– conflitti personali di relazione (componenti emozionali ed affettive) ed incompatibilità caratteriale;

– ambivalenza del peso dell’anzianità nella posizione;

– utilizzo del know-how talvolta capzioso e strumentale;

– rigidità nella sostituibilità professionale delle risorse disponibili;

– mancanza di strumenti premiali o punitivi.

Sebbene la durata limitata del laboratorio non abbia consentito di analizzare tutti questi aspetti con il dovuto approfondimento, è comunque chiaramente emerso che alcune semplici azioni (sottoelencate) potrebbero consentire di sfruttare al meglio le opportunità che lavoro di gruppo può offrire (conoscenza dei problemi degli altri, condivisione delle criticità, configurazione di soluzione ottimale);

– analisi puntuale dei processi, con definizione di procedure che indichino chiaramente tempi, strumenti e responsabilità;

– formazione ed aggiornamento contestuale del personale tecnico amministrativo e dei docenti con ruoli di responsabilità sugli strumenti di gestione della didattica e di assicurazione della qualità (ad esempio procedura esse3, SUA-csa).

  1. Considerazioni conclusive

Maria Grazia Strepparava (Milano Bicocca)

I lavori pomeridiani sulle dinamiche di gruppo sono stati pensati con uno scopo esplicito ed uno implicito. Lo scopo esplicito, ed esplicitato, ai partecipanti era innescare la riflessione condivisa sui diversi ambiti in cui i Presidenti si trovano a utilizzare il lavoro di gruppo. Lo scopo implicito, meno facile da trattare e soprattutto più complesso da trasformare in un oggetto di lavoro, era portare all’evidenza dei partecipanti l’importanza e la centralità che gli aspetti di comunicazione, interazione e relazione hanno nel facilitare, rallentare, ostacolare o promuovere il lavoro di  un  gruppo di persone.

Nella fase di progettazione di queste attività è stato immediatamente evidente che non sarebbe stato eccessivamente difficile aiutare i partecipanti ad individuare e portare poi alla discussione in plenaria gli aspetti relativi  al tipo e ai contenuti delle attività svolte in gruppo nei diversi luoghi del sistema formativo universitario: gli “oggetti” intorno ai quali si strutturano le diverse situazioni in cui si lavora in gruppo sono ben definibili e si va dallo sviluppo delle pratiche interprofessionali nella formazione e nel lavoro clinico, al lavoro di gruppo per la gestione di tutto ciò che entra nel campo di attività della CTP, ai molteplici oggetti di lavoro che portano la componente universitaria a interfacciarsi con il personale tecnico e amministrativo, per arrivare al lavoro collettivo dei docenti intorno alla progettazione dei corsi integrati. Altrettanto chiaro era che ben più complesso e poco ovvio sarebbe stato facilitare l’emergere delle rappresentazioni individuali che sono lo sfondo delle pratiche condivise (Wenger, 1996) del lavoro in gruppo: il modo in cui ciascuno – docente, studente o tecnico – pensa al proprio ruolo, ai propri compiti, ai propri obiettivi a breve e a lungo termine e agli obiettivi dell’istituzione stessa, è un sistema di immagini che orienta l’agire quotidiano di ognuno. Ugualmente nascoste sullo sfondo sono le caratteristiche dell’interazione e della relazione che si imposta e progressivamente si sviluppa tra persone che lavorano insieme. Queste dinamiche sono determinate dalle rappresentazioni di sé e dell’altro, dalle aspettative sui comportamenti altrui e propri, dal clima emotivo che si crea nel gruppo di lavoro e dai meccanismi individuali e collettivi di regolazione affettiva, in poche parole costituiscono il profilo relazionale del gruppo stesso e determinano lo stile di lavoro del sistema (Wenger, 1998).

Per favorire il lavoro sugli aspetti della conoscenza tacita, meno immediatamente accessibili alla riflessione individuale e condivisa, si è deciso di utilizzare stimoli che spostassero l’attenzione dalle rappresentazioni cristallizzate e consapevoli, facilitando l’accesso anche alla qualità emotiva dell’esperienza: come ci si sente nel trovarsi in una data situazione o nel vivere una certa esperienza. È stato così dato mandato ai quattro conduttori – dopo aver dedicato agli aspetti espliciti la parte iniziale del tempo a disposizione – di proporre al gruppo le domande sotto elencate.

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Pensando alle situazioni di lavoro che avete trattato nel vostro gruppo (CTP; Corso Integrato; Interprofessionalità; Personale tecnico-amministrativo) individuate:

– quali sono le cinque parole per definire le criticità,

– quali sono le cinque parole per definire il  “buon lavorare”

– quale immagine descrive quando le cose “vanno male” nel lavoro di gruppo

– quale immagine descrive quando il gruppo “funziona bene”

– quali sono le tre cose da NON fare

– quali sono le tre cose da fare

Alla base queste richieste ci sono alcune considerazioni: le parole sono etichette linguistiche che usiamo per condensare esperienze complesse e sono rappresentate in modo distribuito nella mente (Barsalou, 2008; Lakoff, Johnson, 1999); i termini del linguaggio o le metafore e le analogie che usiamo nel discorso evidenziano le dimensioni per noi salienti di ciò a cui ci riferiamo, il senso dell’esperienza (Lakoff, 1987) e le parole corrispondono a stati mentali e alla loro controparte fisica di cui spesso non siamo del tutto consapevoli, ma che orientano le nostre reazioni alle diverse situazioni in modo implicito (Gallagher, Hutto, 2008): un conto è “parlare degli aspetti del lavoro in gruppo con il personale tecnico-amministrativo” e un altro e ben diverso conto è “parlare dei problemi del lavoro in gruppo con il personale tecnico-amministrativo”: la rappresentazione costruita nella mente di chi parla e nella mente di chi ascolta è differente; non sempre chi parla e seleziona i termini del linguaggio, è consapevole delle sfumature che la sua scelta linguistica ha e dell’effetto sugli altri. Le parole da un certo punto di vista sono dei “punti di vista” sul mondo, possono chiudere o aprire prospettive, definire percezioni, far emergere in trasparenza modi di sentire, sono alla base della nostra costruzione della realtà .

Associare un’immagine a un concetto è un’altra strategia per avere accesso alle nostre conoscenze tacite – sempre sulla base dei principi del modello della embodied cognition, o grounded cognition per spiegare la rappresentazione della conoscenza (Varela, Thompson, Rosh, 1991; Damasio 1999; Gallagher, 2007). La richiesta di visualizzare specifiche azioni ha l’obiettivo di spostare l’attenzione dal piano semantico, astratto, al piano della memoria episodica, che è appunto memoria che integra, contestualizzandola, percezione e azione, facilitando l’accesso alla ricostruzione soggettiva dell’esperienza.

Nella tabella 1 sono riportate le sintesi delle risposte dei quattro gruppi. È facile vedere che vi sono alcune parole che ricorrono trasversalmente tra tutti i quattro gruppi di lavoro, permettendo di individuare alcuni campi semantici condivisi. Ugualmente però ogni gruppo presenta una sorta di filo rosso, di trama di significato che in un certo senso ne costituisce il profilo.

Un sistema di termini che ricorre in tutte le risposte ha per core il concetto di “condivisione”, sia concettuale (concertare, programma condiviso, conoscenza reciproca, strategie di collaborazione), sia fisico/emotiva (affiancamento, contatto quotidiano, condividere, senso di appartenenza, partecipazione):  partecipare non è solo mettere insieme le cose, ma agire insieme e nell’agire sentirsi insieme.

Un altro tema ricorrente, solo all’apparenza contrapposto al sentirsi-con con è la delimitazione dei ruoli, il mantenimento del senso della propria identità e della propria funzione dentro la percezione collettiva. I gruppi vivono anche della delicata dinamica tra il senso di appartenenza e, di fusione collettiva, di mancanza di confini, e la definizione di sé e il mantenimento della propria identità: per un buon funzionamento gruppale i processi intragruppo (io nel gruppo in relazione con gli altri componenti del gruppo) e intergruppo (noi in quanto gruppo verso altri gruppi o altri individui),  devono essere in equilibrio dinamico. L’identità di ruolo emerge come un aspetto costitutivo della percezione professionale di sé, aprendo alla domanda se vi sia e quale sia il legame tra l’assunzione di ruolo e il potere, cui non è certo possibile dare qui una risposta.

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Ancora più interessante rispetto alle riflessioni sul linguaggio, le considerazioni che possiamo fare sulla scelta delle immagini. La prima, e più evidente, è che tra i moltissimi quadri possibili ben due gruppi su quattro hanno scelto esattamente la stessa immagine (l’Urlo di Munch, Fig. 1) per rappresentare “quando il gruppo va male”. La formulazione della frase è stata lasciata volutamente ambigua, generale e fatta in uno stile colloquiale, per dare ai partecipanti quanti più gradi di libertà possibili. Sarebbe interessante chiedere ai componenti dei gruppi come sono giunti a questa scelta, a cosa hanno associato l’immagine (disperazione o impotenza davanti al conflitto? sconforto per l’impossibilità di raggiungere gli obiettivi? assoluta mancanza di senso davanti alla confusione? pura emozione?), ma certamente la convergenza ci dice che c’è un tessuto di esperienza condivisa e significativa. In fondo anche nell’immagine del manicomio c’è la mancanza di senso, il caos, la disperazione, l’impotenza. Più variegate le immagini del gruppo ben funzionante: il popolo unito, un ingranaggio che funziona senza intoppi, qualcosa in cui ogni parte ha un posto ed è al suo posto. In alcune immagini c’è movimento e azione, in altre un quadro statico e organizzato. Stasi e movimento che ritroviamo nelle parole che ciascun gruppo ha scelto e nelle azioni indicate: il puzzle si accompagna alle parole integrazione, pianificazione, programma, riproducibilità; il meccanismo a funzioni, organizzazione, comunicazione, ruoli. Un ingranaggio è un sistema di parti che si muovono con sincronia, fisicamente connesse, e questo è proprio il gruppo che fa riferimento alla presenza e vicinanza fisica. Nel gruppo che ha scelto il Quarto Stato (Fig. 2), e la Battaglia di Anghiari (Fig. 3) il campo semantico delle azioni ci porta invece alla contrapposizione tra partecipazione/concertazione e accentramento/sopraffazione, che bene riflette il senso della lotta di popolo delle due immagini.

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Si potrebbe proseguire ancora nell’identificare i rimandi che legano parole concetti e immagini, ad esempio il filo dell’agire sperimentante (ricerca, sperimentazione, strategie, azione collettiva) che caratterizza la rappresentazione che sta sullo sfondo della riflessione di uno dei gruppi. Ma non dobbiamo dimenticare un punto essenziale: se ci poniamo nell’orizzonte filosofico e concettuale  del costruttivismo (Von Glaserfeld, 1984) ogni descrizione di un fenomeno avviene da una specifica prospettiva, è fatto da un lettore/narratore, parte da un certo punto vista: non esiste una sola verità assoluta, ma molteplici prospettive e la conoscenza quel sistema complesso che integra prospettive differenti, nessuna più vera di un’altra.

Il mio invito quindi ai lettori è guardare le griglie dal loro punto di vista e vedere quale rete di rimandi si delinea nella loro mente. Buon divertimento.

Bibliografia

1) Barsalou L., 2008, Grounded Cognition, W. Annu. Rev. Psychol. . 59:617–45

2) Damasio A. R., 1999, The Feeling of What Happens. Body and Emotion in the Making of Consciousness [trad. it. Emozione e coscienza, Adelphi, Milano 2000].

3) Gallagher S.,  Hutto D. 2008, Understanding Others through Primary Interaction and Narrative Practice, in J. Zlatev, T. Racine, C. Sinha e E. Itkonen (a cura di), The Shared Mind: Perspectives on Intersubjectivity, John Benjamins, Amsterdam, pp. 17-38.

4) Gallagher S. , 2007, Phenomenological and Experimental Research on Embodied Experience, in T. Ziemke, J. Zlatev, R. Frank e R. Dirven (a cura di), Body, Language and Mind, vol. I, Mouton de Gruyter, Berlin, pp. 241- 63.

5) Lakoff, G. , 1987,. Women, fire and dangerous things: what categories reveal about the mind. Chicago and London: The University of Chicago Press.

6) Lakoff, George. Johnson Mark., 1999. Philosophy in the flesh. The embodied mind and its challenge to Western thought. New York: Basic Books.

7) Varela FJ, Thompson E, Rosh E. 1991. The Embodied Mind. Cognitive Science and Human Experience, MIT press, Cambridge, Mass.

8) Von Glaserfeld, E., An introduction to radical constructivism, in p. watzlawick, the invented reality, Norton, New York, 1984, pp 17-40 (tr.it. La realtà inventata, Feltrinelli, Milano, 1987).

9) Wenger E. Communities of practice: learning, meaning and identity, Cambridge University Press, New York 1998; tr. it. Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Raffaello Cortina, Milano 2006

10) Wenger E., 1996, Communities of practice: the social fabric of a learning organization,

11) Wenger E., 1996. How we learn. Communities of practice. The social fabric of a learning organization. Healthc Forum J. 1996 Jul-Aug;39(4):20-6.

Cita questo articolo

Consorti F., Familiari G., Festi D., et al., Esperienze di lavoro di gruppo, Medicina e Chirurgia, 71: 3242-3250, 2016. DOI:  10.4487/medchir2016-71-6

Il lavoro di gruppon.70, 2016, pp. 3185-3186; 3191-3199, DOI: 10.4487/medchir2016-70-6

Abstract

Small group activities are widely used in medical education for teaching practical skills and multilevel complex knowledge. Small group is a learning environment where student are involved both from the cognitive and the relational point of view. Not only what is delivered, but also how the learning contents are transmitted and the teaching strategies, have a deep influence on the learning processes and on thier efficacy. Tutorship style is a primary variable in creating the adequate background for improving the learning process and in making the students’ experience fruitful. Structure, processes and problems of small group teaching and basic group dynamics principles will be presented in the paper. A set of suggestion concerning the within group members relational problems and some principles of mindfulness co-working will be described.

Articolo

1. Introduzione

La formazione alla professione medica è un processo complesso che richiede l’attivazione di strategie integrate e multilivello, sia nella pianificazione del curriculum formativo, sia nella sua implementazione. Molte sono le ricerche sul processo formativo,  sulle tecniche didattiche più adeguate o relative ai contenuti e alla valutazione della formazione. Diverse riviste sono specificatamente dedicate a questi aspetti pedagogici: Medical Teacher, Medical Education o Accademic Medicine.  Un ambito interessante ed in costante evoluzione, sono i lavori sulla didattica a piccolo gruppo ed il suo utilizzo nelle diverse situazioni e declinazioni formative.  Due sono i macro-ambiti in cui il lavoro di gruppo , le sue caratteristiche e le sue dinamiche hanno un ruolo centrale in medical education: il lavoro di gruppo con e per gli studenti, “Small Group Teaching” e il lavoro di gruppo nelle attività congiunte dei docenti per l’impostazione, lo sviluppo e l’implementazione del progetto formativo, vale a dire le attività che sottendono al processo di Faculty Development. Nelle pagine che seguono sono presentati gli aspetti strutturali, procedurali ed i principi generali che caratterizzano le attività del lavoro in piccolo gruppo, applicabili – ovviamente con adattamenti – sia al lavoro con gli studenti, sia al lavoro tra i docenti.

La didattica a piccolo gruppo ha acquisito, nell’ambito della medical education, sempre maggiore importanza. I motivi alla base della popolarità crescente di questa scelta didattica sono svariati: ricordiamo che solo il 5% di quanto viene insegnato nelle lezioni frontali è memorizzato sul medio-lungo termine (McCrorie, 2014) e per lo più si tratta di nozioni che potrebbero senza difficoltà essere efficacemente acquisite con la semplice lettura di un testo. Molti altri sono i vantaggi della didattica a piccolo gruppo, anche se solo in tempi relativamente recenti sono stati messi a fuoco con chiarezza i meccanismi che lo rendono un prezioso meccanismo pedagogico nella formazione dei professionisti della cura.

La  collaborazione tra i partecipanti ad un piccolo gruppo didattico è – per diverse discipline e per differenti fasce di età – un elemento che potenzia l’apprendimento (Cohen 1994; Johnson et al. 2007; Roseth et al. 2008); non sempre tuttavia vi è accordo tra i ricercatori sulle spiegazioni teoriche dei meccanismi che rendono possibile questo fenomeno (Slavin et al. 2003). Per quanto riguarda l’ apprendimento collaborativo si distinguono due prospettive teoriche principali: per l’approccio socio-comportamentale lavorare in gruppo agisce  sui processi motivazionali dell’apprendimento e quindi potenzia la spinta ad apprendere, per l’effetto (imitazione, cooperazione, sostegno reciproco) delle dinamiche relazionali che si attivano tra i partecipanti, ma non implica l’attivazione di specifici processi cognitivi; secondo la prospettiva cognitiva, nel lavoro di gruppo invece possono emergere più articolati e complessi processi di elaborazione cognitiva (quali il riferimento all’esperienza concreta o una migliore integrazione delle conoscenze pregresse), che consentono una rielaborazione del materiale da apprendere più profonda e stabile (O’Donnell, 2006). Ricerche recenti secondo questa prospettiva hanno dimostrato come la quantità e la qualità dell’elaborazione necessaria per attivare e condurre la riflessione e la discussione congiunta e per spiegare ai propri compagni il materiale oggetto di studio (comunicazione collaborativa ed esplorativa), favoriscono la memorizzazione sul lungo periodo dei concetti affrontati (Van Blankenstein et al., 2011). Le attività svolte nel piccolo gruppo hanno effetti positivi sia sull’apprendimento, che risulta molto più attivo e auto diretto rispetto ad altre situazioni di apprendimento, quali le lezioni frontali o le attività svolte in grande gruppo, sia sulle prestazioni. Quindi, sul piano cognitivo lavorare in gruppo facilita i processi di elaborazione concettuale, l’utilizzo delle capacità riflessive (meta cognizione), rende più fluido l’accesso e il riferimento all’esperienza e alle conoscenze già acquisite, mentre dal punto di vista comportamentale e sociale promuove la motivazione di chi apprende, generando coesione sociale, favorendo l’autenticità, facilitando l’attivazione emozionale (Durning, Conran, 2013).

L’apprendimento in un piccolo gruppo è un processo altamente interattivo, la cui direzione, qualità ed efficacia  sono determinate sia dalle caratteristiche del gruppo nel suo complesso, che  dalla qualità delle interazioni del gruppo con il/i conduttori. La progettazione della didattica in gruppo richiede perciò: (i) di identificare e definire adeguati contenuti, (ii) di valutare e implementare adeguatamente articolate strategie per regolare il flusso della comunicazione e delle interazioni tra i partecipanti e tra i partecipanti e il conduttore. Nell’analisi dei processi di funzionamento di un piccolo gruppo di lavoro è necessario quindi differenziare gli aspetti di struttura e gli aspetti di processo. Degli  aspetti strutturali fanno parte: la numerosità del gruppo, la qualità dell’ambiente di lavoro, gli ambiti di possibile applicazione del lavoro a piccoli gruppi, il tipo di attività e di strumenti che devono essere usati nel lavoro a piccolo gruppo. Degli  aspetti processuali fanno parte: il flusso della comunicazione all’interno del gruppo, la dinamica del gruppo, le caratteristiche del conduttore e gli stili di conduzione.

2. Aspetti strutturali del piccolo gruppo

2.1 Numerosità

Quanto “piccolo” è un piccolo gruppo? La letteratura in questo senso fornisce riferimenti discordanti, sia per quanto riguarda la formazione in generale, sia nell’applicazione di questo dispositivo formativo alla formazione medica. In senso stretto la numerosità di un piccolo gruppo varia tra due e dieci componenti (Springer, Stanne, Donovan, 1999), ma c’è generale accordo che il numero ottimale vada collocato tra cinque e otto persone (Gibbs, 1992), anche perché in un gruppo con meno di cinque componenti la diversità e varietà delle interazioni interpersonali diminuisce, impoverendo l’attività che è possibile svolgere (Dennicka, Exley, 1998). Se, al contrario, ci si sposta sopra gli otto/dieci elementi, è facile che alcune persone non partecipino pienamente alle attività o si tengano decisamente fuori, che altre, pur volendo partecipare, fatichino a farsi sentire perché la dimensione del gruppo impedisce loro di esprimere il proprio punto di vista (McCrorie, 2014).

Secondo altri autori, al contrario, non ha senso dare indicazioni rigide sul numero di partecipanti, perché il numero ottimale di studenti dipende molto dal tipo di attività svolta e dalla competenza ed esperienza del conduttore: un conduttore esperto è in grado di monitorare, gestire e regolare le interazioni di un gruppo più numeroso, rispetto a quanto riesca a fare un conduttore con meno o poca esperienza; tanto più si è esperti di lavoro di gruppo, tanto più facilmente si possiedono le abilità necessarie a monitorare il gruppo e a coinvolgere tutti i partecipanti anche se numerosi, facendo sì che nessuno resti escluso dal flusso delle attività (Durning, Conran, 2013). In generale, comunque, i parametri di base che possiamo utilizzare per stabilire la numerosità del gruppo sono:

– l’obiettivo formativo dell’attività erogata

– la complessità e la difficoltà del contenuto,  valutata in relazione al grado di preparazione e alla tipologia degli studenti

– l’esperienza del conduttore

La sfida per un formatore è identificare la dimensione del gruppo che può maggiormente facilitare lo scambio delle idee, l’emergere delle più diverse prospettive possibili, consentire la partecipazione attiva di tutti i discenti. Nelle attività che utilizzano il Problem-Based Learning (PBL), ad esempio, la dimensione del gruppo tutoriale raramente supera gli otto elementi, altrimenti il processo potrebbe facilmente risultare frammentario ed eccessivamente disorganizzato. Da una recente indagine condotta con diverse scuole di medicina che, nel mondo, utilizzano il PBL, è emerso che il numero medio di studenti in un gruppo PBL è otto, anche se in alcune scuole si lavora anche con gruppi di venti persone; solitamente un numero così elevato viene utilizzato nelle attività che possono essere svolte nel formato del workshop, in cui il gruppo per svolgere le attività si divide in sottogruppi e in cui è prevista una fase iniziale e una finale con tutto il gruppo (McCrorie, 2014). In fondo, per decidere sia il numero dei componenti del gruppo, che il tipo di attività da svolgere nel gruppo, basta ripensare alla definizione di “insegnamento centrato sul discente”: si ha un approccio autenticamente learner centred  quando tutti i partecipanti hanno in partenza le stesse opportunità e le stesse possibilità di apprendimento e di partecipazione;  quando lo studente è messo nelle condizioni di poter riflettere adeguatamente sul contenuto dell’insegnamento e di costruire attivamente la propria comprensione dell’argomento (Blumberg, 2009). Il calcolo della dimensione del gruppo deve quindi essere fatto in modo strettamente correlato al tipo di attività che viene svolta in modo che sia assicurato a tutti un’uguale possibilità e quantità di partecipazione e di interazione.

2.2 Ambiente

Non sempre è facile essere consapevoli di quanto lo spazio disponibile e la sua organizzazione condizionino le attività e le dinamiche  di un gruppo di lavoro, ma lo studio di queste relazioni nella Medical Education è forse uno degli aspetti che sono emersi come tra i più rilevanti degli ultimi anni. Nordquist e Laing (2014; 2015) osservano quanto lo spazio fisico abbia impatto sul grado di successo dell’apprendimento: la formazione medica è a tutt’oggi erogata in spazi di apprendimento e didattici tradizionali, mentre le nuove tecnologie offrono possibilità e flessibilità che con questi spazi sono incompatibili o quantomeno scarsamente fruibili. Gli autori utilizzano il termine learning landscape  per indicare il complesso insieme di modificazioni strutturali e ambientali  che sarebbe necessario introdurre nelle nostre università per rendere implementabili i cambiamenti nel curriculum medico, in modo che la formazione possa realmente utilizzare le nuove tecnologie e, soprattutto, il nuovo stile di relazione che il grado di interconnessione o la disponibilità degli ambienti virtuali e digitali oggi ci offre.

Restando nei vincoli strutturali dei nostri ambienti di apprendimento, ci sono alcuni accorgimenti essenziali da seguire nell’organizzare lo spazio per le diverse attività formative. Nel caso del PBL, ad esempio, è importante che le persone, compreso il tutore, prendano posto intorno a un tavolo, rotondo o ovale, ampio a sufficienza per stare comodi e con lavagne a  fogli mobili o simili sulle pareti circostanti (Fig. 1). Per un’attività di gruppo in cui l’aspetto principale non è recuperare, organizzare e analizzare congiuntamente delle informazioni, ma dibattere all’interno del gruppo un tema o un problema, portando prospettive e argomentazioni differenti, la soluzione più adeguata è il circolo di sedie, soprattutto quando si vuole facilitare l’emergere dell’esperienza personale o degli atteggiamenti dei partecipanti. Anche in questo caso, per favorire il processo della condivisione dei punti di vista e la discussione e per regolare al meglio il flusso della comunicazione, è essenziale che il conduttore/tutore sieda in mezzo al gruppo, in modo equidistante e paritetico (Fig. 2). Nel caso in cui il gruppo sia più ampio, a partire da 18/20 persone, il formato ottimale è quello di creare diversi gruppi (con o senza tavolo), collocando il conduttore in posizione esterna (Fig.  3); durante lo svolgimento delle attività previste è bene che il conduttore si muova tra i tavoli per poter avere un contatto costante con tutti. È la struttura che si può usare per il TBL, Team-Based Learning (Parmelee, Hudes, Michaelsen, 2013).

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2.3 Caratteristiche dell’attività a piccolo gruppo

Le caratteristiche fondamentali dell’attività a piccolo gruppo sono, secondo Newble e Cannon (2001): la partecipazione attiva, l’attività orientata allo scopo e il contatto face-to-face; solo se questi tre aspetti sono contemporaneamente presenti si ha un’ottimale efficacia didattica. L’elaborazione e la riflessione condivisa sono possibili solo quando ogni partecipante porta attivamente il proprio contributo al discorso e nel contempo la stretta interrelazione tra i partecipanti genera un’attivazione emozionale e relazionale tali da massimizzare il livello di motivazione e partecipazione dei singoli. In un lavoro a piccolo gruppo è più semplice per il tutore ricordare  le criticità dei singoli studenti,  il grado di preparazione e le caratteristiche relazionali di ciascuno,  potendo così implementare nel modo più rapido ed efficace gli interventi correttivi, ad esempio suggerire letture integrative, indicare le carenze nella preparazione precedente,  effettuare gli opportuni chiarimenti sui contenuti o stimolare direttamente i partecipanti ad esprimere le proprie opinioni.  Quanto più il materiale oggetto di apprendimento è complesso, tanto maggiore è l’effetto del grado di conoscenze pregresse o le esperienze precedenti dello studente; ciò implica anche la maggiore necessità di un intervento precoce sulle carenze individuate.

Nel lavoro a piccolo gruppo le possibilità di fornire feedback immediati, precisi e soprattutto individualizzati, è maggiore rispetto ad altre situazioni formative. Il gruppo costituisce inoltre uno spazio di apprendimento in cui è più facile per lo studente avere un riscontro sul proprio grado di conoscenza o esperienza anche dai pari (peer evaluation) e dove vi sono svariati momenti e stimoli che possono innescare i processi riflessivi e di autoconsapevolezza sui diversi aspetti che le attività mettono in gioco.

Nell’identificare le attività formative che possono beneficiare della didattica in gruppo o che non possono che essere svolte in questo format va ricordato che: (i) gli studenti affrontano e svolgono le attività in gruppo a partire dal livello di conoscenza pregressa e sulla base dalle esperienze precedenti, e che quindi questi aspetti devono essere monitorati in fase iniziale; (ii) perché si abbia un’adeguata attivazione personale a motivare e sostenere nel tempo l’impegno del singolo nei lavori di gruppo, ciò che viene proposto deve essere saldamente legato ai bisogni formativi dello studente in quel preciso punto della sua formazione; (iii) deve implicare forme di apprendimento attivo, che implicano un agire pratico del discente; (iv) deve essere focalizzato su problemi specifici. Perché un’attività svolta in gruppo sia davvero efficace deve essere possibile a chi la svolge cogliere in modo visibile ed immediato la relazione con la propria pratica quotidiana e vederne l’applicabilità concreta. È  essenziale, nella progettazione delle attività di gruppo, immaginare cicli di sequenze formative in cui l’esecuzione delle attività si alternino a momenti di rielaborazione riflessiva e discussione su queste stesse attività (De Villiers, Bresick, Mash, 2003).

In un lavoro di gruppo ben funzionante tutti gli studenti partecipano attivamente, vi sono frequenti e adeguate interazioni di gruppo, il gruppo lavora restando aderente e orientato agli obiettivi, le attività hanno sempre una rilevanza dal punto di vista della pratica e favoriscono lo sviluppo del pensiero critico e delle capacità di problem-solving. Deve sempre essere percepibile l’effetto di facilitazione del gruppo sul processo di apprendimento e l’atmosfera di lavoro deve mantenersi il più possibile positiva (Steynert, 2004).

Un gruppo funziona bene quando il conduttore è in grado di monitorare costantemente  tutti gli aspetti sopra elencati, regolandoli adeguatamente in funzione sia del raggiungimento dell’obiettivo, che del mantenimento di un flusso ottimale di esperienza per il gruppo stesso. Si richiede perciò al conduttore di avere adeguata sensibilità per rispondere sempre in modo costruttivo alle dinamiche che possono generarsi nel gruppo; a volte può essere necessario, per rispondere adeguatamente alle eventuali criticità (vedi 4.4), ri-orientare in corso d’opera le attività e talvolta è necessario mettere il raggiungimento dell’obiettivo didattico prefissato in subordine alla risoluzione delle criticità emerse nel gruppo.

2.4 Contenuti

Identificare quali sono i contenuti formativi che, nel curriculum,  si prestano ad una didattica in piccolo gruppo non è sempre agevole: una parte considerevole della didattica è, attualmente, erogata con lezioni frontali, lasciando per lo più al tirocinio pratico o ad alcune esercitazioni basate sulla simulazione, il compito di far acquisire le competenze cliniche e le abilità pratiche. In realtà molti sono gli argomenti e i temi che possono essere insegnati attraverso le attività del piccolo gruppo, il cambiamento però richiede una rivisitazione di contenuti e strategie che non sempre è facile. Proviamo a vedere i parametri che ci possono essere utili per individuare i contenuti che meglio si prestano per la didattica a piccolo gruppo:

– contenuti non troppo semplici

– conoscenze teoriche che è necessario calare nella pratica clinica

– contenuti che richiedono un monitoraggio più stretto del processo e dell’esito dell’apprendimento, perché più vulnerabili ad un’errata o disfunzionale organizzazione delle conoscenze nella mente dello studente

– contenuti complessi o condizionati in modo importante da una possibile disomogeneità delle conoscenze pregresse degli studenti e che quindi hanno bisogno che vi sia ampio spazio per le domande di chiarimento degli studenti

– contenuti che richiedono un importante lavoro di integrazione con altri contenuti che lo studente sta apprendendo in parallelo

– contenuti, come l’acquisizione di abilità pratiche, che richiedono un costante monitoraggio e più frequenti feedback

– contenuti che, per le loro caratteristiche o complessità, richiedono che si debba aggiustare spesso il tiro

– attitudini e/o atteggiamenti che è necessario monitorare e modificare

– aree o contenuti per i quali è essenziale sviluppare il ragionamento critico

– aree o contenuti per i quali è essenziale sviluppare la capacità di lavorare in team

2.5 Format di insegnamento

Vi sono diversi format di insegnamento in piccolo gruppo ormai consolidati nella pratica didattica in ambito medico : Problem-based learning [PBL], Case-based learning [CBL] e Team-based learning [TBL].

Nel PBL l’apprendimento avviene attraverso il processo di risoluzione di un problema aperto, vengono apprese sia strategie di ragionamento che contenuti relativi a un dato dominio di conoscenza, per favorire anche l’acquisizione di abilità di problem-solving, competenze di lavoro in gruppo e una conoscenza fortemente orientata alla pratica. Lavorando in gruppo gli studenti identificano le conoscenze che già possiedono, le informazioni che devono recuperare e dove e come trovarle per risolvere il problema proposto. Il lavoro avviene in fasi: un momento comune in cui viene presentato il problema e durante il quale la discussione tra gli studenti ha lo scopo di far emergere le conoscenze già possedute relative all’argomento proposto; nel corso della discussione il gruppo sviluppa possibili teorie o ipotesi e i partecipanti costruiscono insieme un possibile modello concettuale esplicativo. Segue una fase di lavoro individuale di approfondimento auto-organizzato e da ultimo una fase di nuovo di lavoro collettivo per discutere quanto trovato individualmente e mettere così a punto il modello finale.

Nel CBL vengono usati dei casi clinici (trigger) per far lavorare un gruppo alla ricerca della soluzione. I partecipanti hanno il compito di approfondire e integrare altre conoscenze allo scopo di trovare la soluzione in un arco di tempo variabile (anche un paio di settimane) in cui organizzano come meglio credono le loro attività. La restituzione avviene sotto la supervisione di un tutore in un gruppo di lavoro. A differenza del PBL, nel CBL viene enfatizzata soprattutto la dimensione clinica e l’applicazione alla pratica di quanto appreso.

Nel TBL gli studenti, dopo una fase iniziale in cui devono approfondire una serie di informazioni e letture di preparazione, si trovano a lavorare insieme, di solito con una composizione del gruppo multi professionale, su uno specifico caso clinico.

Uno degli aspetti che maggiormente differenzia tra loro questi format di lavoro in gruppo è il ruolo e la funzione del conduttore: nel caso del PBL svolge sostanzialmente il ruolo di facilitatore, non deve necessariamente essere esperto del contenuto specifico oggetto del PBL, mentre deve essere molto competente come facilitatore del lavoro di gruppo; nel caso del CBL, invece, il tutore deve essere un esperto del settore. Il suo compito è commentare adeguatamente dal punto di vista dei contenuti le attività svolte dagli studenti e i loro risultati, deve essere in grado di riassumere i punti salienti del problema e poter fornire spiegazioni tecniche al grado di dettaglio che è funzionale all’apprendimento.  Nel TBL infine, il ruolo del conduttore è una combinazione dei primi due: deve essere nello stesso tempo esperto della materia per guidare concettualmente in modo adeguato gli studenti, fornendo loro le informazioni e le indicazioni di contenuto iniziali e i feedback tecnici nel corso delle attività, e nello stesso tempo deve svolgere la funzione di facilitatore nei diversi momenti del lavoro in gruppo.

2.6 Durata e altri aspetti strutturali

Qual è il tempo giusto per un lavoro di gruppo? Ovviamente dipende dal tipo di contenuto e di format che è stato scelto, ma in linea di massima il tempo accettabile varia da 45 minuti, per le attività più mirate, alle tre ore (ovviamente con pause).

Nella costituzione e mantenimento del gruppo è importante tenere conto sia del principio di continuità del gruppo, che della necessità di formare gli studenti a saper lavorare in team che possono variare nel tempo. Tipicamente nei gruppi operano sia spinte in senso conservativo (il gruppo che funziona bene cerca di non modificare la sua composizione), sia spinte centrifughe da cui nascono le richieste di cambiare gruppo per motivazioni esterne, esigenze personali, disagio con i compagni. L’indicazione di massima è che un gruppo di lavoro sia mantenuto stabile almeno per un semestre. Quando uno studente chiede di cambiare gruppo cosa è meglio fare? Appurare le ragioni della richiesta è essenziale: se questa nasce unicamente da aspetti relazionali è bene non consentire il cambiamento,  ma cercare di far emergere le criticità, usandole come un momento formativo per la presa di coscienza della dimensione relazionale del lavoro di gruppo. Medici e infermieri dovranno lavorare in team per tutto il resto della loro vita professionale ed è bene che sviluppino il prima possibile le capacità relazionali per gestire le criticità che possono emergere nell’interazione con i colleghi.

In generale è bene che il gruppo di lavoro sia affiancato dal medesimo conduttore per tutta la durata dell’attività formativa (da poche lezioni a un semestre), soprattutto per quelle attività che sono meno strettamente disciplinari e più legate allo sviluppo di competenze trasversali: solo nella continuità della presenza si può sviluppare una relazione costruttiva e soprattutto di fiducia tra gruppo e conduttore. Nel caso in cui siano previste diverse figure di “esperti”che intervengono a guidare le attività del gruppo è necessario che ci sia un tutore  di coordinamento costante nel tempo. A volte può accadere che – per motivi di tempo o disponibilità – più gruppi diversi siano seguiti simultaneamente nelle loro attività da un solo tutore. Si tratta però di una soluzione che limita molto l’efficacia formativa, soprattutto per le attività collocate all’inizio del curriculum degli studi. È altrettanto vero però che con il tempo gli studenti possono sviluppare buone competenze nell’organizzazione e gestione del lavoro di gruppo, al punto da poter essere in grado, verso la fine del percorso formativo, di lavorare in gruppo anche in assenza di un tutore, a patto però che l’obiettivo del lavoro di gruppo sia stato chiaramente definito in precedenza.

3. Processi e strumenti di lavoro

La preparazione di un’attività per il lavoro in gruppo richiede un’attenta pianificazione. L’aspetto più interessante, ma che rende più complesso rispetto all’erogazione della didattica frontale il programmare, implementare, seguire e valutare attività svolte in gruppo, è il fatto che non si tratta solo di fornire contenuti informativi alle persone che partecipano: è l’attività del lavorare insieme ad essere formativa di per sè. Essere in gruppo attiva i partecipanti sia sul piano cognitivo, che sul piano relazionale, che è per sua natura dinamico e processuale, caratterizzato da azioni e reazioni che si svolgono nel tempo e che  generano cambiamenti; per garantire la migliore qualità didattica a questo tipo di esperienza è necessario avere in mente a priori come le attività proposte si integrano tra loro e soprattutto quali effetti generano sul comportamento e le interazioni degli studenti.

3.1 Predisporre l’attività

La fase organizzativa dell’attività a piccolo gruppo richiede per prima cosa di stabilire gli obiettivi di apprendimento sia globalmente, che sessione per sessione, traducendoli in termini di competenze da acquisire: “alla fine di questa sessione gli studenti saranno in grado di …” e “essere riusciti alla fine di questo incontro di gruppo significa …..”. È importante tenere conto che l’attività a piccolo gruppo, come detto poco sopra, è lo spazio ideale per lo sviluppo delle capacità più complesse, dal problem-solving, al ragionamento clinico, allo sviluppo delle competenze riflessive. Un altro aspetto importante nella pianificazione delle attività è avere in mente quale sia fino a quel momento l’esperienza pregressa degli studenti, il livello di formazione che hanno raggiunto, qual è il loro grado di conoscenza degli argomenti che sono oggetto del lavoro in gruppo e così via.

È necessario valutare adeguatamente la complessità o difficoltà del materiale, identificando i concetti o i contenuti più critici. È fondamentale dare precise istruzioni ai propri collaboratori che conducono i gruppi su quali siano e debbano essere i punti chiave dell’insegnamento sessione per sessione. In particolare per le attività CBL e TBL l’efficacia del lavoro con il gruppo è massima quando ai collaboratori sono stati indicati con precisione i key-teaching-points (Durning, Conran, 2014, p. 72). Sostanzialmente si tratta, prima di iniziare, di:

– Definire gli obiettivi didattici

– Individuare i concetti critici

– Definire una “agenda” per il lavoro di gruppo

– Indicare i punti chiave  dell’insegnamento

– Mettere in luce le criticità di quello specifico gruppo di studenti

3.2 Strumenti e Tecniche

La gamma delle tecniche che possono essere utili nel lavoro di gruppo è ampia e articolata. Qui di seguito vediamo alcune delle tecniche più comunemente utilizzate, alcune più adatte per la fase o gli incontri iniziali, altri da usare un po’ più avanti. Una buona strategia adatta alle fasi iniziali per ingaggiare velocemente un gruppo di lavoro nella discussione su un tema è la tecnica detta Snowballing, palla di neve. Agli studenti viene presentata una domanda o una questione e si chiede loro di pensarci su per circa cinque minuti, senza confrontarsi con gli altri. Allo scadere dei cinque minuti viene dato mandato di mettersi in coppia con un compagno e discutere per altri cinque minuti, allo scadere dei quali la coppia si unisce ad un’altra coppia e prosegue nella discussione. Di nuovo dopo cinque minuti il quartetto si unisce ad un altro quartetto e prosegue nel  confronto. In questo modo tutti gli studenti, anche i più evitanti e restii ad esprimere il loro pensiero, finiscono per essere coinvolti. Una variante è la tecnica del mosaico o Jigsaw groups: i partecipanti divisi in gruppi – ad esempio 6 gruppi per 36 partecipanti o 5 gruppi se i partecipanti sono 25 – iniziano la discussione; dopo dieci minuti i gruppi si sciolgono, formandone altri che contengono ciascuno solo uno dei componenti della precedente divisione (Fig .4). Nella tecnica del Brainstorming agli studenti è fornito un problema: un componente del gruppo funge da scriba e trascrive su una lavagna fedelmente e senza alcuna censura tutto ciò che agli altri partecipanti viene in mente e che viene verbalizzato. È fatto divieto a chiunque di giudicare,  censurare, criticare o semplicemente indicare le criticità di ciò che viene proposto in questa fase del lavoro. Solo quando la fase di brainstorming è finita ed inizia la parte di lavoro riflessivo è data ai partecipanti facoltà di valutare, discutere, giudicare l’appropriatezza delle proposte o interpretazioni emerse, lavorando congiuntamente per raggruppare, organizzare o eliminare le diverse opzioni.

La tecnica del Buzz groups può essere usata in qualsiasi momento o contesto, anche nel corso delle lezioni frontali; nei piccoli gruppi viene solitamente utilizzata quando il gruppo è entrato in uno stato di stallo e sta girando intorno al problema, senza vedere alternative: il conduttore propone al gruppo una domanda correlata, ma in modo non troppo evidente, al problema che ha generato lo stallo, facendo discutere i partecipanti a  gruppi di due/tre persone.

Chairing discussion o Formal debate sono due tecniche da usare in fase avanzata, in particolare quando un gruppo si trova davanti ad una contrapposizione tra alternative, assegnando a due persone le tesi contrapposte e oggetto di discussione, ad un altro partecipante il ruolo di chair e facendo esporre i pro e i  contro di ciascuna posizione. Una variante del gruppo di discussione è il Line-ups: in questo caso il tutore esprime un’affermazione controversa sul tema oggetto della discussione; colloca in un angolo della stanza il punto di massimo accordo con l’affermazione stessa e all’estremo opposto la posizione contraria e invita gli studenti ad allinearsi lungo la linea immaginaria che collega i due punti, in base a quanto si sentono vicini all’una o all’altra delle due posizioni. Si può poi far dibattere tra di loro i vicini lungo la linea. Se utilizzata all’inizio e alla fine di un’attività, le variazioni nella distribuzione dei partecipanti sulla linea possono essere utilizzate come indicatore di cambiamento nelle opinioni del gruppo a seguito dell’esercitazione stessa.

4. La conduzione del gruppo

4.1 Il conduttore

Come probabilmente è già emerso nelle pagine precedenti il conduttore ha un ruolo fondamentale nella maggiore o minore efficacia della didattica a piccoli gruppi. In realtà non si tratta solo di essere/non essere didatticamente efficaci, perché, a differenza di quanto avviene con le lezioni frontali,  l’esperienza formativa in un piccolo gruppo può essere buona, neutra, ma anche cattiva o molto cattiva.  Nella lezione ex-cathedra la cosa peggiore che può accadere allo studente è sentirsi annoiato o avere la sensazione di perdere tempo, un’esperienza negativa di lavoro in gruppo, proprio perché investe anche il piano relazionale, può lasciare tracce importanti sul senso del proprio valore o sulla propria autostima. È quindi necessario che chi sceglie questo approccio didattico non solo abbia piena consapevolezza della complessità della formazione, ma abbia anche in mente le strategie più utili per la gestione del gruppo e una adeguata sensibilità interpersonale. Un tutore che riesce a creare un’atmosfera serena, non giudicante o stigmatizzante, che riesce a mantenere il gruppo focalizzato sul mandato del lavoro senza essere percepito come controllante, che lascia e crea spazio per tutti i partecipanti, che riesce a gestire adeguatamente le dinamiche di gruppo creando un clima cooperativo e positivo, ha il potere di generare un ambiente di apprendimento estremamente potente e fruttuoso per i suoi studenti; al contrario un tutore che parla continuamente, che non incoraggia la partecipazione del gruppo, che ha un atteggiamento critico e squalificante verso tutti gli interventi che non ritiene pertinenti, che crea disequilibrio nel gruppo favorendo alcune persone a scapito di altre, non solo crea uno spazio altamente disfunzionale all’apprendimento, ma può innescare cicli interpersonali (segnali in prevalenza non verbali, automatici ed emozionali scambiati nel corso delle interazioni e interpretati dai partecipanti in modo da confermare le loro aspettative sulla qualità buona o cattiva della relazione in corso) estremamente disturbanti, quando  non distruttivi (cfr. Safran, Siegal, 1993).

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Ruoli che può ricoprire il conduttore del gruppo (Rudduck, 1979; McCrorie 2014):

istruttore, quando fornisce informazioni agli studenti

avvocato del diavolo, quando intenzionalmente assume il punto di vista contrario per stimolare la discussione

sedia neutra, quando dirige la discussione senza esprimere alcuna opinione in merito a ciò di cui si discute

consulente, quando non fa parte del gruppo, ma è presente solo per rispondere alle domande degli studenti

facilitatore, quando, con le più diverse strategie, agisce da stimolo e guida alla discussione fornendo spunti, domande e commenti per far progredire l’apprendimento e la formazione.

In realtà un buon conduttore non assume nessuno di questi ruoli stabilmente, ma è in grado di ricoprirli tutti, in modo flessibile, a seconda di ciò che è più necessario per il gruppo in quel momento. Secondo Richmond (1984) il tutore deve essere in grado di fare, nel corso delle attività, diversi tipi di interventi strategici:

– Iniziare e terminare la discussione di gruppo: ricordando ai partecipanti il compito del lavoro di gruppo; riassumendo i risultati/conclusioni raggiunte dal gruppo; indicando, al termine della sessione di lavoro, i compiti futuri

– Regolare adeguatamente il flusso del lavoro. Sia dal punto di vista del discorso vero e proprio che si dipana tra i partecipanti, in modo da evitare che la discussione si incagli o inizi a girare su stessa, sia nel senso di tenere bene a mente la rotta (l’obiettivo) e orientare in quella direzione il gruppo, quando questo sembra avere perso la direzione

– Gestire la dinamica del gruppo, regolando il comportamento dei singoli, agendo da facilitatore per chi tende ad evitare di esporsi e contenendo chi fatica a regolare adeguatamente il  proprio comportamento. È necessario che sia contemporaneamente in grado di monitorare il sistema nel suo complesso e nei suoi processi, leggendo adeguatamente i segnali individuali e collettivi (stanchezza, irritazione, competizione, aggressività manifesta e nascosta, sostegno, giudizio valutativo), sia dei partecipanti tra loro, che verso se stesso e il proprio ruolo

– Facilitare il raggiungimento dell’obiettivo formativo, utilizzando tutte le tecniche e le strategie sopra descritte

– Predisporre e monitorare l’ambiente circostante per far sì che sia sempre nelle migliori condizioni per gli studenti, individuando e riducendo l’effetto degli stimoli distraenti, dai rumori esterni, alla mancanza della strumentazione adeguata

Oltre alla somma di queste abilità e competenze tecniche nella gestione del gruppo, il buon conduttore deve anche possedere quella che Brown (1982) chiama super-skill e che è la capacità di individuare quale skill specifica è necessario usare in quale situazione.

4.2 Il processo di conduzione

Le fasi iniziali di un incontro di gruppo impostano il lavoro che verrà fatto più avanti e hanno la funzione di creare un adeguato clima partecipativo e collaborativo. Una delle strategie più comunemente utilizzate per “rompere il ghiaccio” e facilitare il contatto tra i partecipanti è quella di invitare le persone a presentarsi brevemente a coppie, raccontando qualche cosa di sé, il compagno riferirà poi all’intero gruppo quanto ha saputo. Un po’ più complesso come procedura, ma che velocizza il processo di costruzione di relazioni, è il gioco del ponte che richiede la disponibilità di una quantità adeguata di pezzetti di Lego e un po’ più di tempo.  Ai partecipanti, divisi in due gruppi, viene dato mandato di costruire il più rapidamente possibile un ponte, di dimensioni specifiche, con alcuni vincoli che hanno lo scopo di rendere più complesso il compito (es. un gruppo non può usare i mattoncini blu; un altro gruppo quelli quadrati; chi monta i mattoncini non può sceglierli direttamente ma deve farli selezionare ad un altro che però non può vedere la costruzione, e così via). Chi finisce per primo vince. L’esercizio serve al conduttore non solo a rompere il ghiaccio, ma soprattutto per avere una prima idea delle dinamiche relazionali tra i partecipanti. Una fase di rielaborazione di quanto successo, valutando ad esempio come il gruppo si è strutturato,  lo stile di leadership o di comunicazione, consente un passaggio formativo ulteriore. Sempre nel primo incontro un’azione importante è che il gruppo stesso fissi le “regole del gioco” (ground rules) che regolamentano gli aspetti pratici della partecipazione al gruppo. È importante che non sia il conduttore a imporle dall’esterno, ma che emergano dalla negoziazione tra i partecipanti. Alcuni esempi di ground rules: presentarsi puntuali, finire per tempo, rispettare i turni di parola, non interrompere, criticare o squalificare chi sta parlando, rispettare i punti di vista degli altri, spegnere i cellulari, mantenere il riserbo su quanto avviene nel gruppo. Un aspetto formativo è il fatto che è il gruppo stesso a fissare i correttivi da applicarsi qualora le regole vengano  violate.

4.3 Le dinamiche del gruppo

I gruppi sono come persone: hanno una loro fisionomia, un loro carattere e modi di reagire e la loro personalità è il risultato dell’interazione tra i singoli individui che compongono il gruppo e con il conduttore. La vita di un gruppo attraversa solitamente quattro fasi (Mulholland, 1994; Walton, 1997):

Forming: la fase iniziale in cui i partecipanti iniziano a conoscersi, esplorano i confini dei comportamenti accettabili nel gruppo, mettono alla prova la leadership

Storming: i componenti del gruppo non sono ancora in grado di lavorare insieme, devono “prendersi le misure”, è la fase in cui si definiscono i ruoli all’interno del gruppo, possono essere presenti momenti critici e intense attivazioni emotive. A seconda della storia del gruppo e degli eventi che il gruppo vive, momenti di crisi e riorganizzazione del gruppo possono presentarsi più volte nel corso del tempo

Norming: è la fase in cui il gruppo si assesta, le differenze vengono ammortizzate e, definite le regole di lavoro, il gruppo può concentrarsi sull’obiettivo; la relazione tra i partecipanti diventa maggiormente cooperativa

Performing: in questa fase i componenti del gruppo hanno accettato i punti di forza e le criticità di ciascuno; hanno fiducia reciproca, sono in grado di individuare obiettivi e raggiungerli attraverso il lavoro congiunto, in un clima positivo che amplifica il senso di appartenenza e di fiducia reciproca

Adjourning (o anche Mourning): è la fase conclusiva del lavoro di gruppo, che precede il momento in cui il gruppo si scioglie; prevede la riflessione su quanto è stato fatto insieme, sugli obiettivi che sono stati raggiunti e sul contributo di ciascuno. È importante che il tutore, in modo supportivo,  incoraggiante e non squalificante accompagni questa fase finale di auto-valutazione.

4.4 Situazioni difficili

Una competenza preziosa per un tutore che svolge attività didattica e  formativa con il piccolo gruppo è la capacità di individuare per tempo l’emergere delle criticità relazionali tra i partecipanti, sé compreso. Per gestire adeguatamente questi momenti di difficoltà è importante segnalarle al gruppo in modo non punitivo o giudicante, ma come un fatto che sta accadendo e che può essere affrontato, e intervenire adeguatamente, nel tempo giusto,  per ripristinare una adeguata regolazione interpersonale che consenta lo svolgimento delle attività previste. Nel regolare i propri ed altrui interventi è necessario tenere conto sia dei singoli individui che del gruppo nel suo insieme. Non si tratta di risolvere dall’esterno o con la forza dell’autorità i problemi, ma di far sì che il gruppo stesso, se ne faccia carico e provi a cercare una soluzione. È ovvio che questa è un’abilità che il gruppo nelle sue fasi iniziali non possiede, soprattutto se si sta lavorando con studenti dei primi anni, e che deve essere acquisita e sviluppata attraverso un processo meta cognitivo di riflessione guidata dal conduttore sui processi e le dinamiche del gruppo.

Non è semplice individuare il momento in cui fermare le attività per effettuare un intervento che attivi la riflessione del gruppo e lo porti a far emergere le difficoltà di funzionamento. Spesso i momenti di maggiore criticità per un gruppo sono quelli in cui uno o più elementi intervengono in modo giudicante, valutativo e squalificante nei confronti del comportamento o delle affermazioni fatte da una o più persone, quando vengono utilizzate espressioni linguistiche giudicanti o squalificanti, quando si crea una contrapposizione non legata al contenuto delle idee o delle opinioni espresse,  ma legata alla contrapposizione di potere (in senso ampio) tra chi sostiene le diverse opzioni. Per effettuare questa interruzione riflessiva il conduttore può, ad esempio, fermare le attività e domandare al gruppo “Prendiamoci un momento per pensare. Siete tutti soddisfatti del modo in cui questo gruppo sta lavorando? C’è qualcuno che vuole fare qualche commento su come stiamo procedendo?”. Non sempre il gruppo è in grado in modo autonomo di spostare l’attenzione dai contenuti della discussione al processo relazionale, è quindi compito del conduttore effettuare questo spostamento quando il gruppo non possiede ancora le abilità sufficienti per farlo in modo indipendente, ma molto spesso gli studenti sono più che pronti e disposti a mettersi in gioco su questo piano. È importante che il conduttore, anche quando la situazioni sia diventata critica o irritante anche per lui, non faccia mai interventi che abbiano una connotazione giudicante o valutativa sulle persone coinvolte. La strategia migliore è commentare in modo neutro e fattuale il comportamento osservato, facendo verbalizzare l’effetto che ha avuto sulle persone coinvolte, limitandosi a dirigere il traffico e regolare gli interventi : “… quando il tuo compagno/a XY ha usato l’espressione JZ come ti sei sentito? Cosa hai pensato? “ “Sarebbe stato possibile esprimere questa tua posizione in modo diverso? Come?”. In taluni casi può porsi come modello riformulando i commenti fatti dagli studenti eliminando o modificando le espressioni linguistiche che abbiano un tono critico, giudicante, valutativo o squalificante. Sostanzialmente si tratta di fare sempre interventi con lo scopo di incrementare nei partecipanti la consapevolezza dell’effetto che le proprie azioni o parole hanno sugli stati mentali (pensieri, emozioni, intenzioni) altrui. Possedere un’adeguata teoria della mente per fare inferenze adeguate su cosa c’è nelle mente dei nostri interlocutori e formulare ipotesi pertinenti su come le intenzioni e le emozioni altrui sono legate al comportamento osservabile, è una competenza essenziale per i professionisti della cura: il lavoro in gruppo è uno spazio ideale in cui far crescere e sviluppare queste capacità, preziose dal punto di vista professionale per il lavoro in equipe. È comunque necessario non lasciare mai passare sotto silenzio le criticità che si generano nel gruppo perché raramente passano da sole, mentre possono più spesso amplificarsi con il passare del tempo rendendo l’esperienza di apprendimento molto meno buona di quanto potrebbe essere.

Una situazione frequente nel lavoro in gruppo è l’emergere di comportamenti dominanti da parte di uno o più componenti, ad  esempio monopolizzando una discussione. La conseguenza più immediata è che parte del gruppo si senta irritata, altri si blocchino e non intervengano pur desiderandolo, altri ancora semplicemente abbandonino il gruppo fisicamente o metaforicamente, pensando ad altro. In questo caso si può intervenire su diversi piani: a parte chi è consapevole della propria tendenza a dominare il campo e che accetta solitamente di buon grado la richiesta esplicita di farsi da parte, molti altri non sono consapevoli del loro comportamento. In questi casi attribuire a queste persone un ruolo a servizio del gruppo – ad esempio tenere le note di una discussione – può essere una soluzione per disinnescare il loro comportamento (a patto di monitorare che la persona riporti quanto effettivamente detto dai compagni e non i solo i propri pensieri). Un’altra strategia è chiedere la loro opinione su un punto specifico, per poi intervistare gli altri compagni su altri punti. Anche la posizione può aiutare: quando il tutore siede direttamente in fronte a questo tipo di studenti la loro tendenza a monopolizzare l’attenzione risulta amplificata, mentre viene ridotta se il conduttore si colloca in modo da averli alle spalle, riducendo la quantità possibile di contatto oculare e di interazioni. Assegnare un compito specifico da svolgere nell’interesse del gruppo funziona molto bene anche nel caso degli studenti con uno stile evitante, che faticano ad esporsi e a partecipare attivamente.  Profondamente disfunzionali per una buona atmosfera di gruppo sono gli interventi o i commenti  ironici o eccessivamente scherzosi, al limite dello squalificante, verso il conduttore o i compagni. L’intervento d’elezione in questo caso è fermare il lavoro di gruppo e far riflettere il gruppo sul processo in atto.

5. Mindful co-working: principi di lavoro di gruppo

I concetti di base della mindfulness sono oggi utilizzati come riferimento in diverse discipline, ad esempio nel trattamento di numerose condizioni cliniche, dal dolore cronico (Kabat-Zinn et al.1987), alla depressione (Teasdale et al. 1995), ai disturbi alimentari  (Kristeller et al. 2006) e l’interesse per l’applicazione e gli effetti degli interventi mindfulness-oriented sono presenti in molte aree della psicologia e non solo.  Anche nel campo della Medical Education, interventi basati su questo approccio si sono dimostrati efficaci sul miglioramento della qualità della vita e del benessere nei professionisti della salute (Beckman et al., 2012) e di recente iniziano ad essere studiati anche nell’ambito della formazione medica (Ardenghi et al. 2016) e nel campo della gestione dei gruppi di lavoro (Baim, 2014).

Una delle definizioni di mindfulness più nota si rifà alle ricerche di Kabat-Zinn (1990) ed è in stretta relazione  il concetto di mindfulness della pratica Buddista. La mindfulness è definita come la consapevolezza che emerge attraverso il prestare attenzione allo svolgersi dell’esperienza momento per momento, con intenzione,  nel presente,  in modo non giudicante (Kabat-Zinn 2003) ed anche come osservazione non giudicante dell’incessante flusso degli stimoli interni ed esterni, così come essi arrivano alla coscienza, lasciando da parte i pensieri giudicanti, valutativi e i rimuginii che tendono ad affollare la mente, impedendoci di restare nel presente, nel qui-ed-ora. Curiosità, apertura,  accettazione e gentilezza verso gli altri e verso se stessi, sono le caratteristiche di un atteggiamento mentale autenticamente mindful (Bishop et al., 2004). L’applicazione di questi principi al lavoro di gruppo ha permesso a Baim (2014) di individuare alcuni capisaldi che, applicati al lavoro di gruppo, possono aiutare il buon funzionamento del gruppo stesso, generando un’atmosfera di lavoro autenticamente collaborativa e positiva e che possono essere utili sia che si tratti di lavorare in gruppo con i propri studenti, sia che si tratti di lavoro di gruppo da svolgere con i colleghi. Qui di seguito i cinque principi del Mindful Co-working:

  1. Trattarsi l’un l’altro con rispetto

Avere un genuino rispetto per le altre persone, che nasca da una autentica sensazione dell’importanza e del valore degli altri, così come del nostro, in qualsiasi tipo di attività, ruolo e momento di vita; avere un’attenzione incondizionata per la persona di fronte a noi “in quanto” persona e applicare  una Leadership rispettosa dell’altro, mai inutilmente aggressiva o squalificante, rispettando i confini  (no all’intrusività o alla manipolazione emozionale dell’atro) e utilizzando sempre forme di comunicazione adulte, mai inutilmente critiche o squalificanti: sbagliati sono i comportamenti o le azioni, mai le persone.

  1. Non agire mai in modo oppressivo

Si tratta di accogliere, comprendere e lavorare in modo costruttivo con le differenze, di ogni tipo,  rifiutando ogni forma di pregiudizio. Non si tratta solo di trattare gli altri come vorremmo essere trattati noi, ma di rispettare le esperienze, i valori e i principi delle altre persone, in qualche modo cercando di avvicinarci in modo aperto e comprensivo alla visione del mondo che l’altro ha e che può non coincidere con la nostra. Si tratta di entrare in relazione avendo cura di provare ad assumere la prospettiva dell’altro diverso da noi,  cercando sempre di sentirsi coinvolti in prima persona e non accettare mai atteggiamenti discriminatori od oppressivi.

  1. Usare una comunicazione socialmente e emozionalmente intelligente

Vale a dire cercare in ogni occasione di sentire, riconoscere, nominare e riflettere sulle nostre ed altrui emozioni , riconoscendone l’importanza ed utilizzando la consapevolezza emotiva come una fonte preziosa di informazioni sul mondo, sulle relazioni, sulle interazioni tra noi e gli altri; è l’invito a riconoscere e  regolare i propri comportamenti impulsivi, i propri stati affettivi, le proprie reazioni emozionali, seguendo sempre nel proprio modo di comunicare i principi di trasparenza e autenticità.

  1. Condividere la responsabilità del lavoro

Sentirsi responsabili del proprio lavoro, riconoscendo altresì la propria dipendenza dagli altri come un fattore essenziale per il raggiungimento degli obiettivi; avvertire la condivisione di responsabilità, ma anche il sostegno che viene dalla cooperazione autentica;  riconoscere il valore della fiducia reciproca nel lavorare insieme e del valore dell’affidabilità condivisa. Riconoscere il valore positivo di cooperare e “fare gioco di squadra”.

  1. Aiutarsi reciprocamente nella crescita professionale, fidarsi della relazione condivisa per lavorare insieme

Approcciarsi ai propri colleghi con un atteggiamento di genuina apertura all’esperienza e alla relazione; essere autenticamente interessati  alle competenze, abilità e conoscenze che l’altra persona possiede e dare valore ai feedback che dai compagni di lavoro possono arrivare nelle diverse situazioni, senza interpretarli come un giudizio negativo su di sé.

Tutto questo è reso possibile dall’applicazione di tre abilità che facilitano la condivisione:

  1. trasparenza: i colleghi devono essere il più possibile trasparenti nella condivisione delle proprie opinioni e posizioni , mantenendo sempre un elevato livello di rispetto reciproco, esplicitando in modo non giudicante o valutativo le criticità che si osservano, facendo il più possibile riferimento ai riverberi che le azioni altrui hanno su di noi quando vengono messe in atto, evitando il più possibile il ricorso a principi astratti e scollati dall’esperienza concreta del qui-ed-ora.
  2. uguaglianza : uno stile di comunicazione in cui tutti i partecipanti siano messi nelle condizioni di collaborare in ugual misura, mantenendo sempre il rispetto delle persone, anche quando vi sono differenze di potere o di status
  3. supportarsi reciprocamente anche nelle criticità: rinforzando, non giudicando, osservando con rispetto le scelte altrui

Indicazioni sicuramente non facili da seguire, ma l’importante è provare a tenerle nella mente come un possibile sistema di guidelines.

Bibliografia

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25) Safran, J. e Segal, V.Z. (1993) Il processo interpersonale nella terapia cognitiva, Feltrinelli

26) Slavin, R. E., Hurley, E. A., & Chamberlain, A. (2003). Cooperative learning and achievement: Theory and research. In G. E. Miller & W. M. Reynolds (Eds.), Handbook of psychology: Educational psychology (Vol. 7, pp. 177–198). Hoboken, NJ: Wiley.

27) Springer, L., Stanne, M. E., & Donovan, S. S. (1999). Effects of small-group learning 5 on undergraduates in science, mathematics, engineering, and technology: A metaanalysis. Review of Educational Research, 69, 21–51.

28) Steinert Y, 2004. Student Perceptions of effective small group teaching. Medical Education. 38, 286-93.

29) Teasdale, J. D., Segal, Z. V., & Williams, J. M. G. (1995). How does cognitive therapy prevent depressive relapse and why should attentional control (mindfulness) training help? Behaviour Research and Therapy, 33, 25–39.

30) van Blankenstein FM, Dolmans, D H. J. M. , van der Vleuten C P. M.,  SchmidtH G., 2011. Which cognitive processes support learning during small-group discussion? The role of providing explanations and listening to others. Instr Sci (2011) 39:189–204

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Streppafava M.G., Il lavoro di gruppo, Medicina e Chirurgia, 70: 3185-3186;3191-3199, 2016. DOI:  10.4487/medchir2016-70-6

L’esperienza del servizio tutor in itinere nel CLM in Medicina e Chirurgia dell’Università di Firenze. Un inizio promettenten.69, 2016, pp. 3152-3153, DOI:10.4487/medchir2016-69-6

Abstract

In our School of Medicine, from April 2015 a tutor pool was activated, made of 8 students and 2 PhD students. The main activities were initially promotion of the service, creation of a Facebook page and email box to which students could access for information, questions or requests for help. After this, daily “open access” receptions were established.

At the beginning of the new academic year specific orientation days for freshmen have been realized. The tutors attended orientation day for students of secondary schools (open day 2015). The feedback of this first year of activity, in terms of students’ satisfaction and facilitation, have been largely satisfactory, so we expect an increasingly structured ongoing activity over the next few years.

Articolo

Introduzione

Etimologicamente, il termine tutor trova la sua origine nel verbo latino tuéri, che significa “proteggere, difendere, custodire”1. Era usato nel linguaggio giuridico per indicare chi si prendeva cura di persone considerate socialmente o fisicamente deboli. Poi il termine è diventato consueto soprattutto nel mondo della formazione. In Inghilterra la parola tutor è stata utilizzata a lungo anche come sinonimo di istitutore privato. Si è dunque progressivamente persa la connotazione di tutela, di dipendenza di un soggetto da un altro e il termine è stato sempre più spesso associato a funzioni educative e formative2.

Il significante è stato tramandato nel lessico: ma, dal latino tutor, all’istruttore privato, al tutor nell’accezione moderna, i mutamenti di significato sono evidenti. Permane, comunque, il nucleo semantico di facilitatore, di garante, che nel tempo si è focalizzato sul raggiungimento degli obiettivi formativi degli studenti.

A questo proposito già nel 1990 è stata istituzionalizzata la figura del tutor universitario attraverso l’emanazione della Legge 19 novembre 1990, n. 341, che ha imposto a ciascun Ateneo di istituire un servizio di tutoraggio per “…orientare ed assistere gli studenti lungo tutto il corso degli studi, a renderli attivamente partecipi del processo formativo, a rimuovere gli ostacoli ad una proficua frequenza dei corsi, anche attraverso iniziative rapportate alle necessità, alle attitudini ed alle esigenze dei singoli” (art.13).

Uniformandosi a questi precetti normativi, l’Università degli Studi di Firenze ha indetto (Decreto n. 93247/2014) un bando di concorso finalizzato al reclutamento di tutor dedicati all’attività di supporto, assistenza e ausilio degli studenti iscritti ai Corsi di Laurea Triennali e Magistrali.

In particolare, le funzioni dei tutor sono dettagliatamente richiamate all’art. 5 del Decreto; tra i più significativi compiti troviamo:

– “…individuare i problemi che sono di ostacolo al regolare iter di studio e agevolare la progettazione di percorsi di sostegno volti a colmare criticità emerse anche in relazione a specifici esami”;

– “…predisporre strumenti per il recupero delle lacune di apprendimento”;

– “…collaborare all’attività integrativa di supporto alla didattica”;

– “… fornire supporto agli studenti nel reperimento di informazioni e nell’assolvimento di pratiche di tipo amministrativo”.

Il tutto, con l’obiettivo ultimo di ridurre la dispersione accademica e di favorire il compimento di un regolare percorso di studi.

L’esperienza del Corso di Laurea

Nell’Aprile 2015 è stato attivato un pool di tutor composto da 8 studenti degli ultimi 3 anni del Corso di Laurea e da 2 Dottorande di Ricerca. L’attività è rivolta agli studenti dei primi tre anni di corso.

La promozione del servizio di tutoraggio è avvenuta inizialmente attraverso la pubblicazione di un annuncio ufficiale all’interno del sito Web del Corso di Laurea, è proseguita con la presentazione diretta dei tutor agli studenti durante le lezioni del primo, secondo e terzo anno, ed è stata data ulteriore diffusione attraverso volantini informativi e manifesti pubblicitari affissi nelle aree di maggior frequenza degli studenti (biblioteca, mensa, luoghi di studio).

E’ stata istituita una casella e-mail (tutor.medicina-l@sc-saluteumana) dedicata agli studenti per ricevere richieste di informazioni, quesiti o richieste di aiuto e sono stati organizzati “sportelli aperti” con cadenza giornaliera, a cui gli studenti possono afferire per avere un colloquio diretto, presidiati da due/tre tutor.

Con la funzione di incrementare i livelli di visibilità, diffusione e promozione del servizio, si è ritenuto di non poter fare a meno dei social network, anche in considerazione della giovane età degli studenti: per questo è stata creata una apposita pagina Facebook (www.facebok.com/tutor.med.unifi).

Grazie ai colloqui avuti con gli studenti sono stati evidenziati gli argomenti di maggior interesse e preoccupazione per cui è stata realizzata una lista di Frequently Asked Questions (FAQ), pubblicata sul sito del CdL stesso http://www.medicina.unifi.it/vp-289-faq-come-fare-per.html e sulla pagina Facebook.

All’inizio del nuovo Anno Accademico, particolare attenzione è stata prestata all’accoglienza delle nuove matricole, con presentazione diretta del servizio agli studenti ma soprattutto organizzando delle giornate di orientamento specificatamente dedicate ai nuovi iscritti.

Di particolare interesse è stata la partecipazione all’Open Day 2015 (giornata di orientamento per gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado) del 12 Dicembre 2015, in cui il gruppo tutor ha presentato la propria esperienza in quanto studenti o ex studenti del CdL Medicina e Chirurgia e presentato il servizio di tutor in itinere.

I riscontri finali, al termine di questo primo anno di attività, sono indubbiamente soddisfacenti, considerato che la casella e-mail ha ricevuto oltre 130 contatti, con un tempo medio di risposta che è sempre stato inferiore alle 12 ore. La maggior parte delle richieste di informazioni hanno riguardato modalità di esame, regole di passaggio da un anno di corso all’altro, consigli sul materiale didattico più idoneo.

Ancora più d’impatto è risultato il numero dei “like” sulla pagina Facebook che risultano essere di poco inferiori ai 900, con un alto numero di interazioni ai post pubblicati e soprattutto la ricezione di un considerevole numero di messaggi, oltre 125, con un tempo medio di risposta di circa 18 minuti.

Non ultimo, di grande interesse sono stati i colloqui avuti dai tutor con i Professori coordinatori di semestre per evidenziare e definire le criticità eventualmente presenti nel percorso formativo degli studenti, al fine di discutere eventuali proposte di miglioramento.

Discussione

In un momento in cui gli Atenei temono una flessione delle iscrizioni ai corsi o un incremento del tasso di drop-out fra gli iscritti, è opportuno considerare il ruolo chiave che il tutor gioca nel prevenire l’abbandono da parte degli studenti stimolandone interesse e motivazione e fornendo un supporto che accompagna il discente fino alla conclusione del proprio percorso formativo3.

Le competenze del tutor possono essere molteplici. Secondo la più recente Letteratura in materia4-5, il tutor può ricoprire diverse funzioni, instructor (con funzione di esperto della materia), o facilitator, che fornisce diverse forme di scaffolding (cioè di supporto nel processo d’apprendimento) agli studenti.

Appare tuttavia indispensabile che gli studenti riconoscano come caratteristica fondamentale del tutor la capacità di entrare in empatia, e di cogliere le difficoltà e caratteristiche personali di ogni singolo studente, stabilendo un rapporto idoneo ad aiutare lo studente nel proprio percorso.

È necessario pertanto che il tutor sappia interagire con lo studente in modo da rassicurarlo ed incoraggiarlo facendo attenzione che le comunicazioni ed i feedback siano sempre chiari ed inequivocabili.

In quest’ottica, tra le prospettive in via di sviluppo del servizio tutor in itinere del CdL Medicina e Chirurgia dell’Università di Firenze, è in corso di realizzazione un questionario di gradimento del servizio stesso, la cui valenza appare anche utile ai fini di un controllo di qualità.

Parallelamente verranno in tempi brevi pubblicati i risultati di un questionario, realizzato in collaborazione con il Laboratorio di Psicologia della Salute dell’Università degli Studi di Firenze, proposto agli studenti dei primi tre anni di corso per individuare quegli aspetti psicologici che potrebbero influenzare il drop-out ed il disagio universitario. Quest’ultima iniziativa appare di spiccato interesse accademico e scientifico, poiché rappresenta una novità assoluta nel panorama universitario italiano.

In conclusione quindi, alla luce degli ottimi risultati ottenuti, in termini di soddisfazione degli studenti e facilitazione nei confronti degli stessi in un percorso non per tutti lineare, non c’è che da ritenersi ampiamente soddisfatti di questa prima esperienza del servizio tutor in itinere, auspicando una prosecuzione sempre più strutturata nel corso dei prossimi anni.

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Bibliografia

1) Scandella, O., Approcci teorici e metodologie della tutorship, in Internet:http://win.liceoamaldi.it/formazione/AT2%20Valutazione/Approcci%20teorici%20e%20metodologici%20alla%20tutorship.pdf

2) Scandella, O., Tutorship e apprendimento, Firenze, La Nuova Italia, 1995.

3) Murphy L., Shelley M. A., White C. J., Baumann U., Tutor and student perceptions of what makes an effective distance language teacher, in «Distance Education», vol. 32, n. 3, UK (Oxfordshire), Routledge, 2011, pp. 397-419

4) Calvani A. e Rotta M., Fare formazione in internet, Trento, Erickson, 2000

5) Rotta M. e Ranieri M., E-tutor: identità e competenze, Trento, Erickson, 2005

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Giacomelli E., Lanzi C, Barletti V., et al., L’esperienza del servizio tutor in itinere nel CLM in Medicina e Chirurgia dell’Università di Firenze. Un inizio promettente, Medicina e Chirurgia, 69: 3152-3153, 2016. DOI:10.4487/medchir2016-69-6