Il “Core Curriculum” italiano, storie di ieri e di oggi. Gli inizi, l’evoluzione, le prospettiven.68, 2015, pp3079-3084, DOI: 10.4487/medchir2015-68-1

Abstract

The article tells the history of the birth of the “core curriculum” for the degree course in Medicine, indicates its reasons and recalls the steps – challenging and sometimes troubled – of its evolution. The analysis of how the “core” characteristics have changed over time and of their limits suggests directions for future development of the project, so as to make the “core” ever more responsive both to the teachers expectations and students needs, serving as a valuable tool for the professional training of future doctors.

Articolo

All’inizio del terzo millennio le Facoltà di Medicina italiane avevano fatto già un lungo percorso di rinnovamento: ben tre riforme successive dell’Ordinamento degli Studi – la famigerata Tabella XVIII – e i Decreti d’Area avevano nel tempo cambiato notevolmente i connotati dei Corsi di Laurea (CdL); erano scomparsi i corsi complementari, ma si erano moltiplicati gli esami obbligatori fino ad arrivare a superare la cinquantina; in teoria l’istituzione dei così detti “corsi integrati” avrebbe dovuto limitare le verifiche d’esame a poco più di trenta, ma di fatto l’integrazione di più insegnamenti non si è mai verificata realmente, perché ogni docente ha continuato a insegnare la propria disciplina e a volerne verificare di persona e in modo sostanzialmente autonomo l’apprendimento; ogni docente ha continuato a stabilire altrettanto autonomamente il programma del proprio insegnamento, che era costituito per lo più dai titoli dei capitoli dei libri di testo consigliati.

La scomparsa degli insegnamenti di Patologia speciale medica e chirurgica, sostituite dalle patologie sistematiche di organi e apparati,  rappresenta l’esempio più eclatante di frammentazione disciplinare, sancita dai settori scientifico-disciplinari (SSD); questi, correlati  ai concorsi  a cattedra (cioè alla carriera dei docenti) poco avevano a che vedere con l’apprendimento degli studenti; questi ultimi, per fare tanti esami in poco tempo, si arrabattavano a chiedere e rincorrere appelli d’esame, continuando a spuntarne di straordinari nonostante l’Ordinamento teoricamente non lo consentisse.

Così si perdevano le correlazioni interdisciplinari, si parcellizzava il sapere medico e l’apprendimento degli studenti era simile alla memoria dagli audioregistratori: bisognava memorizzare in breve tempo un po’ di nozioni, anziché “digerirne” parecchie di più in tempi più lunghi (ai miei tempi Patologia medica si preparava in almeno otto mesi); erano nozioni tratte per lo più dagli appunti delle lezioni, che spesso riassumevano il contenuto dei libri di testo; superato un esame, il nastro della memoria rischiava la cancellazione per far posto alle nozioni di un esame successivo; l’attività didattica si espletava con ore e ore di lezioni frontali, perché ogni docente esigeva la porzione di tempo ritenuta irrinunciabile per il proprio insegnamento.

Naturalmente i programmi dei vari esami (spesso anche quelli degli insegnamenti confluenti in un corso integrato) erano del tutto scoordinati e non era un’eccezione se lo stesso argomento veniva insegnato – talvolta con contenuti differenti – da docenti diversi, mentre argomenti anche importanti non venivano insegnati da nessuno perché ciascuno, se non rientrava nei propri interessi di ricerca,  pensava che facesse parte del programma di altri; la cosa comica per non dire drammatica era che tutto ciò non veniva nemmeno percepito dagli studenti, che ovviamente s’impegnavano a memorizzare e a raccontare all’esame – praticamente solo nozionistico – la “verità” il docente del momento aveva proclamato a lezione.

Nonostante fosse scritto a tutte lettere nell’Ordinamento che i crediti formativi dovevano misurare il tempo globale d’impegno dello studente – non solo quello della frequenza, ma anche quello dello studio indipendente – in realtà continuavano a misurare le ore d’insegnamento dei docenti, e la loro quantità ne indicava l’importanza e il prestigio; l’equivoco interpretativo dei crediti era purtroppo rafforzato dall’abitudine burocratica nella programmazione dei corsi di assegnare i crediti ai SSD, nonostante alcuni di noi (in verità pochi) s’intestardissero a ricordarne il significato primigenio.

Insomma, quella sopra descritta era una Facoltà di Medicina sicuramente migliore di quella dei tempi precedenti, e ciò per merito soprattutto dell’impegno dei Presidenti dei Corsi di Laurea nell’applicare le riforme; uno dei sintomi di miglioramento era sicuramente la diminuzione degli studenti fuoricorso, perché la semestralizzazione e la temporizzazione degli esami costringeva gli studenti a mantenere un ritmo serrato, ma in fondo produttivo. Tuttavia non si può certo dire che fosse una Facoltà “student centered”: infatti continuava a essere organizzata per rispettare le esigenze dei docenti, più che i bisogni di apprendimento degli studenti, che avrebbe dovuto finalizzarsi alla formazione professionale e non alla mera erudizione nozionistica.

Gli inizi

In questo contesto l’intuizione e la volontà di Giovanni Danieli, allora Presidente della Conferenza, portava all’attenzione dei Presidenti di CdL la necessità di definire un programma curriculare che eliminasse le ridondanze ed evitasse le omissioni gravi, cioè prendesse in seria considerazione la necessità di un “core curriculum”.

La prima rappresentazione iconica del “core” fu suggerita dal Prof. Aldo Torsoli ([1]), allora Presidente del Corso di Laurea parallelo alla Facoltà medica romana della “Sapienza”: consisteva nelle rappresentazioni successive sempre più semplici ed essenziali del toro di Pablo Picasso (Fig. 1).

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Il punto di partenza non poté che essere la raccolta dei migliori programmi d’insegnamento, nei quali gli argomenti erano espressi nei termini descrittivi dei contenuti delle varie discipline. Su questa notevole mole di dati una prima commissione s’impegnò nel cercare di distinguere le cose importanti dalle meno importanti per la formazione iniziale di medici non specialisti, ma l’impresa fu tutt’altro che facile perché si scontrò con le Società scientifiche delle molte discipline, ciascuna delle quali difendeva a spada tratta il proprio dominio di conoscenze a prescindere dalla loro effettiva utilità per la formazione degli studenti.

Il risultato fu ben diverso da quello rappresentato dalla definizione di “core curriculum” inteso come “il complesso di contenuti essenziali (conoscenze, competenze, abilità e comportamenti) che tutti i neo-laureati debbono acquisire in modo completo e permanente per l’esercizio iniziale della professione, e che saranno le fondamenta della formazione permanente”.

Si trattava sostanzialmente di un vasto elenco di conoscenze teoriche – che certamente non distinguevano competenze, abilità e comportamenti – l’apprendimento permanente delle quali, se mai fosse stato possibile, avrebbe occupato ben più dei sei anni del corso di studi medici. Tuttavia non fu un lavoro inutile perché per lo meno fece un inventario ordinato di argomenti con il consenso univoco sulla loro denominazione, e inoltre indusse una presa di coscienza sulla necessità di classificare questi argomenti nei campi del sapere: sapere, saper fare e saper essere, tentando la distinzione tra l’essenziale e l’accessorio.

Si era ancora lontani dalla trasformazione dei contenuti da insegnare in contenuti da apprendere sotto forma di obiettivi educativi specifici, definibili come “ciò che lo studente deve diventare capace di realizzare grazie all’apporto del corso” e non come ciò che il docente deve insegnare; si cominciò comunque la strada lunga e inizialmente accidentate per la trasformazione dei programmi d’ insegnamento in programmi di apprendimento.

L’evoluzione

La Conferenza dei Presidenti di CdL diede comunque il mandato di proseguire in questa direzione a una  commissione ad hoc, della quale hanno fatto parte per parecchi anni, oltre al sottoscritto, Aldo Tommasi, Eugenio Gaudio, Antonio Gaddi e Giancarlo Torre; e questa commissione s’impegnò a fondo tenendo come modello a cui ispirarsi, ancorché impossibile al momento da realizzare, le Blueprint della Facoltà olandese di medicina di Maastrich ([1]).

Per ovviare alla difficile “digeribilità” degli obiettivi educativi specifici, ci si avvicinò ad essi con la trasformazione dei contenuti dell’apprendimento in unità didattiche elementari (UDE), definite come “particelle del sapere medico con un contenuto tematico circoscrivibile e coerente, caratteristiche didattico-pedagogiche omogenee, descritte in un linguaggio comprensibile in modo univoco dagli studenti e dai docenti e verificabili nel grado di apprendimento”.

Ma se le UDE connotavano di fatto i contenuti da apprendere, dovevano coincidere con un’azione – e quindi con un verbo – che indicava per l’appunto che cosa lo studente doveva dimostrare di aver appreso e quindi di saper realizzare. Tuttavia l’individuazione di questo verbo fu tutt’altro che facile e spesso solo parziale; oltre a ciò i verbi più frequentemente utilizzati furono: descrive, illustrare, indicare, enumerare, ecc., cioè tutte azioni che connotano la memorizzazione di conoscenze teoriche.

In altri termini si era ben lontani dal considerare i livelli tassonomici più “nobili” del sapere, cioè quelli che riguardano l’interpretazione di dati e di fenomeni, l’applicazione delle conoscenze alla soluzione di problemi e l’assunzione motivata di decisioni, cioè quelle competenze che connotano l’esercizio della professione medica.

Inoltre, da una parte restava il collocamento esclusivo nel primo triennio degli insegnamenti pre-clinici, costituiti per lo più da conoscenze teoriche, l’applicazione delle quali sarebbe avvenuta nella migliore delle ipotesi due o tre anni dopo; dall’altra negli insegnamenti clinici persisteva la prevalenza del sapere pure teorico, presente per esempio nelle patologie sistematiche, mentre faticavano a trovare una formalizzazione esplicita la capacità di risolvere problemi e di prendere decisioni, e – in misura ancor maggiore – le abilità pratiche sia gestuali che relazionali.

Questa situazione appariva difficilmente modificabile fino a quando non fossero cambiate le metodologie didattiche, affiancando in modo sostanzioso alla lezione ex cathedra – idonea alla trasmissione di conoscenze teoriche – l’apprendimento in piccoli gruppi assistiti da tutori basato sulla soluzione ragionata di problemi; e fino a quando la verifica dell’ apprendimento continuasse a consistere nell’esame orale con la domanda standard “mi parli di …”, al massimo affiancato da un test scritto con domande a scelta multipla di natura quasi esclusivamente nozionistica.

Questi cambiamenti non si verificano facilmente, e comunque richiedono periodi lunghi. Quindi ciò che potevano realisticamente proporsi le successive “Commissioni per il core curriculum” non era la rivoluzione, bensì dovevano accontentarsi di migliorare l’esistente.

E così alcuni di noi impiegarono una parte cospicua delle ferie estive per riscrivere gran parte delle UDE, in modo che tutte iniziassero con un verbo capace di connotare un’azione verificabile; che il verbo indicasse chiaramente le conoscenze, le competenze e le abilità, e distinguesse per tutte il livello tassonomico e le metodologie didattiche preferenziali, come riportato in Tab. 1.

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Inoltre, gli ambiti disciplinari riferibili ai SSD furono sostituiti dagli ambiti culturali integrati, in ciascuno dei quali venivano raggruppate le UDE che presentavano affinità culturali e quindi erano più facilmente suscettibili di integrazioni reciproche (per lo più di tipo “orizzontale”, ma quando possibile anche “verticale”); la denominazione degli ambiti culturali cercava di evitare le denominazioni disciplinari tradizionali proprio per facilitare le integrazioni dei contenuti, nella prospettiva di costruire una formazione professionalizzante, cioè capace di rispondere ai bisogni prioritari di salute attraverso l’esercizio dei compiti pertinenti allo specifico profilo professionale.

Infine, fu fatto anche un tentativo di quantificazione dell’impegno temporale medio – rispettivamente dei docenti e degli studenti – richiesto da ciascuna UDE, per consentire l’attribuzione corretta dei crediti formativi in funzione del “tempo studente”, come previsto dall’Ordinamento.

Tutte queste modifiche furono rese palesi dall’inserimento del “core” in un data base piuttosto sofisticato, consultabile agevolmente on line dal sito web della Conferenza (presidenti-medicina.it).

Contemporaneamente furono intraprese iniziative di pubblicizzazione del “core” con la sua presentazione ai Consigli di Corso di Laurea che ne facevano richiesta e con la pubblicazione di un numero straordinario di Medicinae e Chirurgia (n. 3) e la comunicazione delle modifiche in articoli periodicamente pubblicati sulla stessa rivista.

Il “core” nazionale restava comunque una proposta esemplificativa, alla quale ogni CdL poteva ispirarsi liberamente nella propria autonomia decisionale, adattando il risultato finale alle caratteristiche peculiari di ogni Sede.

Dal presente verso il futuro

Nonostante l’impegno profuso, alla fine della prima decade di applicazione il “core” aveva ancora – almeno a mio modesto avviso – i seguenti limiti: con le sue oltre 2000 UDE presentava dimensioni eccessive; infatti i suoi contenuti dovrebbero essere “a fortiori” commisurati alle dimensioni effettive del contenitore, che è dato dai sei anni del corso di studi e dal tempo che in essi può essere dedicato effettivamente all’insegnamento e soprattutto all’apprendimento, dovere che è imprescindibile in un progetto formativo “student centered”.

Da allora la manutenzione del “core” si è esercitata soprattutto nel colmare conoscenze che il progresso medico-scientifico ha continuato a produrre in modo esponenziale, il che fatalmente non può non aumentare ulteriormente il numero totale delle UDE.

Tuttora continuano a prevalere le UDE di contenuti teorici a basso livello tassonomico, cioè conoscenze da memorizzare più che competenze e abilità da imparare per saperle esercitare in un’ottica professionalizzante; vi persistono contenuti non essenziali; non poche UDE sono definite ancora in modo impreciso e frammentario, con l’incompleta indicazione dei livelli tassonomici; scarsa è l’interdisciplinarietà dei contenuti, perché persistono ancora in modo eccessivo l’impronta disciplinare e la tentazione perenne di far coincidere le UDE con i SSD, anche se di fatto questi attengono alle competenze scientifiche dei docenti, non ai contenuti specifici dei loro insegnamenti, che – va ripetuto fino alla noia -dovrebbero essere orientati alla formazione professionale iniziale dei futuri medici; la persistenza di tali limiti è confermata dal fatto che non sembra sia stato ancora unanimemente recepito nel suo significato pregnante l’attribuzione delle UDE agli ambiti culturali integrati, operazione che rappresenta per l’appunto il tentativo concreto di rompere le barriere disciplinari.

Sicuramente una prospettiva positiva è data dall’impegno che negli ultimi anni la Conferenza ha posto nel valorizzare le attività didattiche professionalizzanti, che peraltro dovranno considerare nel “core curriculum” oltre alle competenze tecniche anche quelle metodologiche, riguardanti le abilità, le qualità e le attitudini necessarie per esercitare con competenza ogni professione sanitaria e precisamente: abilità cognitive quali le capacità di osservare, comprendere, interpretare, decidere, raccogliere e comunicare dati e informazioni; qualità personali consistenti nella capacità di gestire le situazioni mutevoli (tra le quali rientra anche l’imparare a imparare, che consentirà ai laureati di continuare ad apprendere cose nuove per tutto il loro futuro professionale); attitudini sociali consistenti nel rispetto delle regole dell’etica, della legge e dell’economia.

In ogni caso un segno positivo è l’imminente istituzione della laurea abilitante, che potrebbe ispirare dopo 15 anni dalla nascita un’evoluzione rivoluzionaria del “core curriculum” anche nel suo formato.

Se oggi si vuole procedere non solo alla manutenzione, ma all’attualizzazione del “core” secondo le esigenze di formazione dei medici del terzo millennio, bisognerà infatti porre rimedio ai limiti attuali che poco sopra ho cercato di tratteggiare sinteticamente.

E allora la prima cosa da fare è quella di ridurre drasticamente il numero delle UDE: infatti il “core curriculum” per definizione non può essere la “summa” dello scibile biomedico; deve invece contenere le basi della professione medica, quelle che si richiedono al momento della laurea magistrale: infatti in pratica nessun medico, nemmeno con la laurea professionalizzante, eserciterà pienamente la professione prima di aver completato il suo iter scolastico con l’acquisizione di un’ulteriore formazione, sia essa specialistica o generalistica. Pertanto ciò che si deve fornire al neolaureato sono gli strumenti indispensabili per perfezionare questa formazione, che peraltro non sarà mai completa perché dovrà continuare per tutta la vita professionale (lifelong learning).

Se tutto ciò è vero, sarà necessario scegliere e inserire nel “core” solo le conoscenze, le competenze e le abilità necessarie e sufficienti per gli sviluppi futuri; in questa ottica mi piace paragonare il neolaureato in medicina a una “uncommitted stem cell”, che solo successivamente acquisirà i propri connotati specifici.

Solo per rendere più chiaro questo concetto vale la pena ricordare il travaglio delle “Commissioni core” nella scelta delle abilità pratiche: dopo la stesura di un elenco onnicomprensivo di oltre 150 abilità si prese coscienza che il loro apprendimento avrebbe costituto uno sforzo vano perché mai un neolaureato (come del resto nemmeno un medico maturo) sarebbe diventato capace di esercitarle con una performance soddisfacente e in modo autonomo; così la loro quantità via, via si ridusse al numero realisticamente ragionevole di quelle veramente irrinunciabili, cioè di quelle che qualsiasi medico deve essere in grado di esercitare in modo autonomo e automatico: poco più delle manovre semeiologiche di base, alle quali dovrebbero invece venire aggiunte in modo significativo le capacità relazionali, finora piuttosto neglette, e che invece qualsiasi medico –  qualsiasi sia la tipologia professionale esercitata – dovrà porre in atto nel rapporto personale con i propri pazienti (purtroppo spesso i pazienti lamentano carenze grossolane dei loro medici proprio in questo ambito …).

Oltre alla riduzione del numero delle UDE sarà indispensabile curarne la qualità, privilegiando quelle che riguardano le competenze professionali a elevato livello tassonomico.

In altri termini un nuovo “core” degno di questo nome, più che comprendere l’enorme quantità di conoscenze continuamente prodotte dalla ricerca bio-medica e che sono peraltro destinate a cambiare nel tempo, dovrà esprimere le competenze metodologiche, che in estrema sintesi corrispondono a quelle che faranno di ogni medico un “problem solver”, cioè un professionista capace di affrontare e risolvere i problemi di salute posti dai singoli pazienti e dalla comunità nella prevenzione, nella diagnosi, nella terapia e nelle riabilitazione delle malattie di più comune riscontro: un professionista riflessivo che nel fare ciò sia in grado di cogliere nelle loro essenza questi problemi, e di individuare, cercare, acquisire e applicare al proprio livello operativo le conoscenze e le strategie di volta in volta necessarie per risolverli.

Conclusioni

In sintesi e concludendo, l’approccio alla costruzione del nuovo “core” che oggi sembra più opportuno perché appunto in chiave professionalizzante è quello che parte dall’ individuazione dei problemi prevalenti di salute ai quali dovranno saper rispondere in modo adeguato i medici al primo livello dell’esercizio professionale (le scuole di specializzazione avranno il compito di completarne le competenze in modo specifico); si tratterà quindi di trasformare un “core di conoscenze” in un “core di competenze professionali” con una procedura “bottom – up”: partendo dai problemi andranno costruite “a ritroso” le UDE che con i loro livelli tassonomici individuano le conoscenze, le competenze, le abilità e i comportamenti effettivamente utili a risolvere quei problemi; questo approccio aiuterà nella scelta dei contenuti teorici anche delle scienze di base, che costituiscono i presupposti culturali indispensabili per fondare su basi scientifiche le capacità professionali.

Se questa costruzione del nuovo “core” sarà finalmente – cosa non facile – frutto della progettazione collegiale del percorso didattico globale, si avrà finalmente un’omogeneità formativa nei diversi CdL, ciascuno dei quali potrà peraltro avere una sua impronta particolare grazie soprattutto alle attività didattiche elettive. Sarà inoltre facilitata la scelta delle metodologie didattiche più efficaci, coerenti con gli obiettivi didattici; e infine anche le modalità valutative dell’apprendimento potranno migliorare perché diventerà chiara e utile per tutti gli studenti la connessione tra i contenuti del loro impegno discente e le modalità di verifica della performance individuale sia nei momenti di valutazione formativa (per es., nei “progress test”), che nella valutazione certificativa durante e alla conclusione del loro corso di studi.

Bibliografia

I “fatti” che sono sintetizzati in questo articolo sono ritrovabili in modo analitico nei molti articoli sul “core curriculum” pubblicati nel corso degli anni in “Medicina e Chirurgia” e citati nel suo fascicolo 67/2015 alle pagine 3057-58.

1) A. Torsoli, MEDIC 7:171, 1999

2) www.maastrichtuniversity.nl/fhml > Education > Educational profile > Problem-Based Learning > PBL/FHML Medicine

3) Danieli G. et Al. 2005; 50: 1145-1198.

Cita questo articolo

Vettore L., Il “Core Curriculum” italiano, storie di ieri e di oggi. Gli inizi, l’evoluzione, le prospettive, Medicina e Chirurgia, 68: 3079-3084, 2015. DOI: 10.4487/medchir2015-68-1

Medicina narrativa e counselling. Strumenti di educazione alla medicina partecipativa per il miglioramento della relazione tra medico e pazienten.64, 2014, pp.2874-2880, DOI: 10.4487/medchir2014-64-1

Abstract

The changes in medicine have challenged the empathic relationship between doctor and patient. To improve its quality it is necessary to educate physicians to the “participatory medicine”, which may use in particular two instruments: narrative medicine and counselling; the first one is not opposed, but on the contrary must be in harmony with the evidence based medicine; the second uses the word as an instrument of care in therapeutic patient education and in healthy citizen education; both narrative medicine and counselling facilitate the alliance to cure, which asks the patient to provide his experience of suffering, becoming active collaborator and responsible together his doctor of the care process, at the same time growing the overall medical knowledges.

Now it is necessary that these truths rightfully become contents of future physicians education.

Articolo

Una medicina che cambia

Si può affermare che la medicina moderna ha subito una metamorfosi significativa a partire dagli anni ‘50, perché solo da allora l’intervento dei medici non si è più limitato a osservare, descrivere e riconoscere i fenomeni, ma è diventato capace di cambiare in modo non sporadico la storia naturale delle malattie e quindi la sorte dei malati.

Prima dell’era della chimica e quindi della farmacologia industriale, mancando le “pillole” – almeno quelle efficaci – il medico poteva agire quasi soltanto con la parola; il suo ruolo sociale universalmente riconosciuto era quello del consigliere e del consolatore.

Negli anni ’50 sono iniziati i veri progressi della medicina scientifica e la medicina cambiava nel bene, ma – purtroppo – anche nel male:

– alla medicina della persona (quella impersonata dal “caso clinico”) si andava affiancando con forza la medicina delle popolazioni (per esempio quella fondata sui risultati dei trials clinici controllati);

– alla medicina delle ipotesi e delle teorie si è andata sostituendo la medicina delle evidenze scientifiche che richiede dimostrazioni sperimentali delle proprie affermazioni;

– alla relazione empatica capace di confortare si è troppo spesso sovrapposto l’ assordante silenzio delle tecnologie, o il linguaggio contorto delle burocrazie, ai quali sembra legarsi fatalmente una medicina diventata strumento pubblico, complesso, collettivo e molto costoso, e perciò bisognevole anche di una organizzazione efficiente.

La crisi della relazione medico-paziente, conflitto tra due culture

In particolare, accanto al cambiamento indubbiamente positivo dell’efficacia terapeutica si sono purtroppo palesati di pari passo i regressi nella comunicazione tra curante e curato, che derivano dall’accrescersi dell’asimmetria tra i due soggetti: si tratta di un’asimmetria naturalmente costitutiva del rapporto medico-paziente, ma che negli ultimi decenni è stata accentuata dallo sviluppo tecnologico e biologico-riduzionistico della medicina scientifica; ciò si è manifestato con alcuni fenomeni abbastanza emblematici, anche se in parte presenti già in tempi più lontani: l’atteggiamento paternalistico dei medici nelle relazioni con i loro pazienti; l’uso di un linguaggio tecnico senza grande attenzione per i livelli di comprensione degli interlocutori; l’uso dell’anamnesi quasi soltanto per l’acquisizione delle informazioni sullo stato di organi e apparati, e non anche per la comprensione dei vissuti soggettivi; l’unilateralità nelle decisioni mediche, che confinano il consenso informato ai soli aspetti formali, tanto da trasformarlo molto spesso in una mera incombenza burocratica.

Ancora, la tutela del diritto sacrosanto a essere ben curati viene spesso perseguita usando approcci rivendicativi più che di corresponsabilità gestionale, come sono spesso quelli dei Tribunali dei diritti del malato, luoghi dove opportunamente si denunciano pratiche di malasanità, ma talora si vantano anche diritti presunti più che reali; e soprattutto vengono dimenticati i doveri personali che rendono compatibili i fini individuali con quelli collettivi; cioè si dimentica che il concorrere al processo decisionale circa la salute non può riguardare egoisticamente soltanto la propria salute, senza tenere in considerazione anche i riflessi sulla salute degli altri: le parole chiave per realizzare un equilibrio in tutto ciò sono per l’appunto inscindibilmente tre: diritti, doveri e responsabilità.

Infine, alla criticità della relazione medico-paziente purtroppo contribuisce anche una formazione medica orientata prevalentemente alla performance diagnostico-terapeutica limitata al curare, mentre fatica a farsi strada l’attenzione al prendersi cura.

Questo – sia pure in prima approssimazione – è lo scenario sconfortante nel quale correntemente oggi si gioca la relazione tra medico e paziente, relazione che si dibatte tra conflittualità e complicità nella ricerca improbabile di una effettiva negoziazione tra un medico che consigli sapientemente (cioè secondo scienza e coscienza) e un cittadino che sappia effettivamente essere giudice e vero responsabile della qualità della propria vita.

Insomma, come conseguenza dei mutamenti ai quali è andata incontro nell’ultimo mezzo secolo la medicina come scienza e come professione, si è sviluppato un conflitto  apparentemente insanabile tra curanti e curati, che di fatto può essere letto come un conflitto tra due culture: il medico è il detentore della “cultura” scientifica e professionale, sulla quale fonda le proprie decisioni diagnostiche e terapeutiche; ma anche il paziente ha una sua “cultura”, che non è scientifica ma esistenziale, perché nessuno può conoscere meglio di lui il vissuto della sofferenza “sperimentata” di persona. La distanza tra di esse può venire ridotta solo facendole comunicare tra loro con il riconoscimento delle potenzialità intrinseche. Ma come si può cercare di raggiungere questo obiettivo? E come si possono educare gli studenti futuri medici a una relazione empatica tra medico e paziente?

Come sanare il conflitto?

Come prima cosa è necessario educare i professionisti della salute non solo al senso critico, alla problematicità, al confronto dialettico delle idee e delle scelte, ma anche e in pari misura ai valori della comprensione, della tolleranza, del rispetto, cioè a valori squisitamente etico-umanistici, cioè all’etica del dubbio e della responsabilità.

Affinché il medico sia fedele a questi valori non basta nutrirlo di competenze scientifiche, fargli conoscere la psicologia, renderlo esperto nelle tecniche della comunicazione, ma si deve anche aiutarlo a conoscere se stesso affinché impari a rendere fertili le proprie emozioni; insomma bisogna renderlo “esperto in umanità”.

Per questo, oltre a fornirgli i contenuti e gli strumenti professionali appropriati per agire è necessario aiutarlo a maturare le attitudini e le motivazioni che si riflettono in prima istanza sulle qualità della relazione interpersonale: affinché una comunicazione diventi relazione non basta parlarsi; è indispensabile essere disposti a farsi raccontare, imparare ad ascoltare, chiedere per capire, aiutare a capire, partecipare e condividere; questi sono infatti i connotati di quella che si definisce come relazione empatica, e che molto si nutre – come vedremo più avanti – di componenti narrative depurate dai tecnicismi del linguaggio medico-scientifico.

Strumenti necessari ad acquisire queste capacità sono sicuramente le tecniche della comunicazione che oggi si insegnano nelle nostre Scuole di Medicina, ma non sono sufficienti; infatti è pur vero che l’empatia probabilmente non si può insegnare né apprendere a scuola, perché non è un’abilità ma un’attitudine, cioè è il frutto di una ricchezza personale: ma allora per far crescere l’attitudine empatica bisogna far crescere le doti della persona. A questo potrebbero contribuire le Medical Humanities, pure recentemente introdotte nelle Scuole mediche italiane e tra queste in particolare la così detta “medicina narrativa”.

La “Medicina narrativa”

Con questo termine s’intende una tendenza che si va sempre più sviluppando e che considera utili gli aspetti narrativi presenti nelle relazioni di cura.

Il benessere e soprattutto i malesseri sono potenti stimoli alla narrazione delle circostanze e dei tempi in cui essi si realizzano e si costatano, delle loro cause presunte o vere, delle paure e delle speranze che essi suscitano, degli eventi che li peggiorano o li migliorano, dei rimedi che si presumono o si sono constatati come efficaci.

Nella relazione comunicativa tra medico e paziente, che in gran parte si sostanzia nell’anamnesi, la narrazione può prendere differenti connotati formali: può arricchirsi di colore e calore, o al contrario cristallizzarsi in una sequenza di “fatti” o di “eventi”, raccolti con la presunzione di una descrizione oggettiva e quindi veritiera, ma anche rappresentati e trascritti con tratti sicuri e definiti, senza incertezze o sfumature.

Sono questi i due connotati opposti della raccolta anamnestica: da una parte il punto di vista del paziente, che possiede come unico strumento comunicativo la possibilità di raccontare i propri vissuti e di colorarli e riscaldarli (ma talvolta anche di sbiadirli e raffreddarli) in relazione con le proprie esperienze e le proprie emozioni; le quali – trattando di cose importanti come la salute e la malattia, cioè in fondo la vita o la morte, e comunque la sofferenza – spesso deformano i contorni della realtà rispetto alla sua rappresentazione definita secondo i crismi della razionalità; dall’altra il punto di vista del medico, che vorrebbe conoscere la realtà nei suoi contorni oggettivi e che ritiene per (de)formazione professionale che la verità sia figlia unica dell’obiettività e della razionalità.

D’altra parte il medico è stato formato soprattutto a scrivere una cronaca; il paziente è interessato a raccontare una storia; il punto è che il medico produce una cronaca di fatti che riguardano la vita di un’altra persona, mentre il paziente racconta la storia che sta vivendo, la storia della sua vita.

Grazie alla “medicina narrativa” si sta prendendo coscienza che la ricerca ad oltranza della razionalità e della obiettività di per sé auspicabile, nella realtà è un’illusione; che lo sfrondare i fatti dalle opinioni alla fine ne distorce la veridicità perché li impoverisce irrimediabilmente di elementi che – lungi dall’essere solo “depistanti” – ne facilitano l’interpretazione. Il fine essenziale della “medicina narrativa” è proprio quello di restituire al mondo della medicina una visione complessiva e unitaria, cercando di fare sintesi tra le due visioni che separatamente da sempre rappresentano le due metà di un’entità unica: la visione scientifica e quindi razionale del medico e quella esistenziale del paziente, fatta di esperienze e di emozioni.

Si deve nella realtà constatare che l’apertura del medico alla medicina narrativa migliora le sue capacità di cura: tra il paziente che narra e il medico che partecipa attivamente anche ai risvolti della narrazione apparentemente estranei alla medicina, nasce una sorta di complicità, che aiuta entrambi nella gestione della sofferenza e talvolta anche nell’ intervento efficace sulla malattia.

“Medicina narrativa” versus “Medicina delle evidenze”

Questa constatazione contrasta la presunta antinomia tra “medicina narrativa”, più appropriatamente denominata medicina basata sulla narrazione (NBM) e “medicina scientifica” oggi uniformemente definita come medicina basata sulle evidenze (EBM), o – più correttamente – come medicina basata sulle prove di efficacia.

L’EBM ha meriti indubitabili: sicuramente i “trials” clinici controllati sono quanto di meglio la ricerca clinica può oggi produrre; tuttavia, essendo di derivazione “riduzionistica” in parte tradiscono la complessità dei fenomeni biologici; inoltre si fondano su criteri epidemiologico-statistici, e quindi non possono tener conto delle condizioni fisiopatologiche dei singoli individui. Tra parentesi, non si può nemmeno dimenticare che gli studi clinici controllati costano e quindi si realizzano solo quelli finanziati (per lo più dall’industria farmaceutica), che poi sono quelli che producono prove utili a chi li finanzia.

Ma i limiti principali della EBM  stanno nel fatto che essa si rivolge soprattutto alla terapia delle malattie piuttosto che al trattamento globale della persona.

Tuttavia, bisogna anche dire che la metodologia attuale della ricerca clinica è come la democrazia: ancorché imperfetta, è quanto di meglio oggi disponibile. Inoltre la EBM è un formidabile strumento di formazione, perché insegna a individuare e ad analizzare i problemi, a tradurre l’incertezza in quesiti ai quali rispondere con le conoscenze disponibili, a cercare, individuare e valutare criticamente le evidenze, a verificare la significatività clinica di queste e ad applicarle alla situazione clinica specifica: in altri termini, insegna a porre le domande pertinenti, a trovare le risposte corrette e utili, ad applicarle alle situazioni specifiche e a valutare criticamente i risultati; cioè è uno strumento importante per affrontare la soluzione dei problemi.

Tuttavia i problemi clinici sono concreti e immanenti, e anche problemi apparentemente simili sono tra loro differenti; solo l’esperienza e l’intuito del medico sanno trasformare la teoria in prassi utile: perciò, proprio se temperate dall’esperienza, le evidenze scientifiche possono trasformare l’educazione continua in medicina in sviluppo professionale continuo.

Se non si considerano con onestà intellettuale sia i pregi, ma anche i limiti dell’EBM, in una sorta di delirio di onnipotenza si rischia di dimenticare che la medicina – come il sabato evangelico – è fatta per l’uomo e non viceversa.

Allora non si tratta di contrapporre o addirittura di sostituire la “narrative based medicine” alla “evidence based medicine”, in una visione manichea che fa alternativamente vincere la creatività o la razionalità; si tratta piuttosto di cercare tra le due un mix equilibrato, finalizzato comunque al benessere (come diceva Aristotele, alla felicità ?) degli esseri umani, che sono fatti di meccanismi biologici e di pensieri ed emozioni, ammalano per colpa degli uni e delle altre e con la forza di entrambi sperano e desiderano di essere risanati.

Per aiutare queste persone c’è bisogno di Professionisti della salute che abbiano una consapevolezza equilibrata, si potrebbe dire “sapienziale”, di quanto la realtà sia complessa e composita, e che sappiano quindi riflettere per prendere decisioni sagge: allora la “medicina narrativa” troverà la sua ragione fondamentale soprattutto nell’aiutare la formazione di “professionisti riflessivi”, capaci di entrare in relazione empatica con le persone, e per questo utili alla loro salute fisica e psichica.

Così, il significato tradizionale dell’EBM come “Medicina basata sulle evidenze” (abitualmente tradotta come “Medicina basata sulle prove di efficacia”, prove raccolte e valutate con gli strumenti rigorosi della ricerca scientifica) potrebbe venire ampliato e arricchito da una diversa lettura dell’acronimo EBM come “Medicina basata sull’esperienza”: non solo l’esperienza del curante che adatta alla situazione specifica i risultati della ricerca, ma anche l’esperienza diretta del paziente che aumenta di per sé le conoscenze scientifiche del ricercatore.

La parola e la cura: il counselling

Tuttavia sarebbe a mio avviso riduttivo rivolgere l’attività educativa solo ai malati e in particolare ai pazienti di malattie croniche; soprattutto in relazione alla prevenzione dovrebbero essere soggetti di educazione anche le persone sane, che preferirei chiamare in un contesto democratico “cittadini” piuttosto che “utenti” (parola di sapore burocratico), o peggio “pazienti (perché il sano non patisce, né deve avere pazienza), o peggio ancora “clienti” (vocabolo che porta con sé uno sgradevole sapore mercantile): si tratta di educare i cittadini soprattutto al cambiamento dei propri stili di vita, così da diventare cittadini maturi e responsabili anche nei confronti della propria salute.

Come sempre, anche in questo caso l’educazione porta a trasformazione, nella quale il professionista della salute gioca pienamente il ruolo di educatore. E pure in quest’ottica l’educazione è fatta non solo di informazione, ma anche di formazione, che si giova di una comunicazione empatica, cioè capace di condividere valori e convinzioni tra educatore ed educando nel rispetto della libertà individuale; tale modalità, che si fonda sulla condivisione, deve peraltro svolgersi in maniera trasparente, cioè in modo ben diverso dalla così detta persuasione occulta, tipica ad esempio della comunicazione pubblicitaria. La comunicazione empatica si basa su una relazione interpersonale nella quale gioca un ruolo importante la considerazione e la stima reciproca, elementi che si sviluppano attraverso la negoziazione di scelte responsabili e personalizzate, in quanto attente e adattate alle situazioni individuali.

Tutto ciò richiede e si giova fortemente dello strumento del dialogo; in altri termini la parola diventa mezzo essenziale di cura e si dimostra veicolo efficace di ogni tipo di intervento medico, sia esso di natura preventiva, diagnostica, prognostica, terapeutica o riabilitativa. Vale la pena al proposito d’insistere sul fatto che la sola informazione non basta: ne è un esempio eclatante la scarsa efficacia sul miglioramento dello stato di salute dei singoli e della collettività, conseguito dalle trasmissioni televisive e radiofoniche o dai giornali; probabilmente buona parte del loro insuccesso educativo è dovuta al fatto che queste comunicazioni riguardano molto spesso l’informazione sulle malattie e non l’informazione sulla salute, e quindi inducono bisogni sanitari impropri (prescrizione di farmaci o di indagini diagnostiche con indicazioni generali che non tengono conto della peculiarità delle situazioni individuali), anziché facilitare cambiamenti reali e positivi degli stili di vita.

A ciò deve aggiungersi che spesso all’informazione non si accompagna la relazione interpersonale capace di individualizzare l’intervento; così non vengono mobilitate le risorse personali e la capacità di assumere in proprio decisioni completamente consapevoli e perciò mature e responsabili; infine, informazioni veritiere debbono esser trasmesse con il linguaggio più adatto alle capacità di comprensione del singolo soggetto.

L’approccio complessivo appena descritto sostanzia la tecnica del così detto counselling  ed è finalizzato a conseguire la condivisione informata delle scelte, che comporta il riconoscimento della reciproca necessità nel costruire e poi declinare in corsi di azioni uno scenario di cura “su misura”; tale risultato è più valido e significativo del così detto consenso informato; infatti l’obbligo deontologico al consenso informato, oramai consueto in ogni decisione medica, è di per sé uno strumento necessario ma non sufficiente, in quanto troppo spesso si è trasformato in una incombenza burocratica, finalizzata più a proteggere i sanitari da persecuzioni giudiziarie che non a rendere effettivamente partecipe il paziente di decisioni importanti per la sua vita e per il suo benessere.

Al contrario l’arte del counselling è fatta di domande più che di risposte, che trasformano il consenso informato da adesione passiva a una prescrizione in condivisione responsabile delle scelte; in altri termini è – attraverso la parola che spesso diventa narrazione – uno strumento di responsabilizzazione, mai un mezzo di plagio comunicativo.

Purtroppo il counselling finalizzato a modificare gli stili di vita è scarsamente praticato in Italia soprattutto perché ad esso non vengono formati i Professionisti della salute.

Appare allora indispensabile soprattutto per questo tipo di “educazione del cittadino sano” una loro educazione specifica.

Sia l’educazione degli operatori sanitari che quella dei cittadini dovrebbe diventare un impegno permanente e continuo, tanto che si potrebbe suggerire una variante dell’acronimo ECM in ECS: Educazione Continua alla Salute accanto e oltre a Educazione Continua in Medicina.

Anche questo – che oserei chiamare un obiettivo “etico” – è sicuramente un obiettivo ambizioso e difficile, perché il suo conseguimento richiede un profondo cambiamento comportamentale in molti professionisti della salute.

“Medicina partecipativa” e “paziente esperto”

Ebbene, la familiarità con gli strumenti della medicina narrativa può forse diventare una freccia all’arco, un possibile strumento operativo di coloro che sperano e investono nella medicina partecipativa, in una medicina moderna nella quale Professionisti della salute e pazienti facciano ciascuno la propria parte non da sponde contrapposte, bensì in un’ alleanza che ha come fine comune la cura efficace, finalmente nutrita di un vera relazione empatica; quest’ultima infatti si nutre validamente della condivisione reciproca dei racconti informali ma “veri” dei medici, ma anche di tutti gli altri operatori sanitari, e dei loro pazienti. Questa disponibilità all’ascolto da una parte e alla narrazione dall’altra sono le condizioni necessaria alla partecipazione responsabile del paziente alla “gestione” della propria salute, partecipazione che si fonda sul fatto incontestabile che nessuno più di lui può avere esperienza diretta delle proprie sensazioni, cioè del suo vissuto.

In questo contesto si parla oggi di “paziente esperto”: con tale espressione si sottolinea il ruolo rinnovato del paziente che mette a disposizione la propria esperienza di malattia, che solo lui può conoscere fino in fondo, per aiutare e personalizzare il processo di cura.

Ma per diventare effettivamente “esperto” anche il paziente ha bisogno di essere educato: questa attività formativa si concretizza oggi in quella che viene comunemente denominata “educazione terapeutica del paziente”, che si rivolge soprattutto a pazienti cronici. Inoltre, come tutti i processi educativi, anche questo ha uno sviluppo bidirezionale: infatti, se per aderire con responsabilità personale alla cura il paziente dev’essere istruito ed educato, le conoscenze che nascono dalla sua personale esperienza aiutano i curanti nell’esercizio della cura stessa, e fanno crescere anche le conoscenze utili su caratteristiche “nascoste” della malattia; potremmo dire che anche lo sviluppo delle conoscenze scientifiche può essere aiutato dall’esperienza diretta dei pazienti.  In questa prospettiva la co-produzione di conoscenza è un elemento essenziale della medicina partecipativa: quanta distanza dal paternalismo tradizionale dei medici …

Fortunatamente anche i settori più avanzati della ricerca biomedica stanno aprendo prospettive a breve-medio termine per una personalizzazione dei risultati di tali ricerche: mi riferisco alla genetica – soprattutto le farmaco-genomica – come strumento di conoscenza scientifica delle caratteristiche biologiche peculiari al singolo individuo-persona e di conseguenza come elemento decisionale nelle scelte degli approcci diagnostici e terapeutici individuali. Questo approccio sta aprendo orizzonti affascinanti, che  fanno ben sperare in una evoluzione dei protocolli terapeutici standardizzati verso una terapia personalizzata basata sulle evidenze, cioè in un futuro non troppo lontano nella personalizzazione sia della relazione che della cura.

Credo che sia venuto il tempo che pure il nostro impegno educativo attuale nei confronti dei futuri medici si confronti con le prospettive di personalizzazione della medicina in ambito biologico, ma anche in quello della relazione tra medico e paziente, alla quale ho dedicato la parte maggiore di questo contributo.

Bibliografia

1) Albano MG Educazione terapeutica del paziente. Riflessioni, modelli e ricerca. 2010 Centro Scientifico Editore – Edi-Ermes  Milano

2) Balint M Medico, paziente e malattia. 1977 Feltrinelli  Milano

3) Bert G, Quadrino S  Il medico e il counselling, 1989 Il Pensiero Scientifico Editore Roma

4) Bert G, Quadrino S  Parole di medici, parole di pazienti. Counselling e narrativa in Medicina.  2002 Il Pensiero Scientifico Editore  Roma

5) Charon R  Narrative Medicine: Form, Function, and Ethics, Ann Intern Med 2001 134:83

9 Cosmacini G Il mestiere di medico. Storia di una professione  2000 Ed. Cortina  Milano

7) Dyson E  Why partecipatory medicine? Journal of Partecipatory Medicine 2009 1:1  (http://www.jopm.org/opinion/editorials/2009/10/21/why-participatory-medicine/)

8) Garrino L  La medicina narrativa nei luoghi di formazione di cura. 2010 Centro Scientifico Editore  –  Edi-Ermes Milano

9) Delvecchio G, Vettore L Decidere in Terapia – Dialogo sul metodo nella cura. 2013 Liberodiscrivere Genova

10) Liberati A (a cura di) Etica, conoscenza e Sanità 2005 Il Pensiero Scientifico Editore Roma

11) Masini V Medicina narrativa. Comunicazione empatica ed interazione dinamica nella relazione medico-paziente 2005 Ed. Franco Angeli Milano

12) Rogers C La terapia centrata sul cliente 1970 Martinelli Firenze

13) Shaw J, Baker M “Expert patient” – dream or nightmare?  BMJ. 2004 328:723-4. Editorial  BMJ 2004;328:723

14) Zannini L Salute, malattia e cura. Teorie e percorsi di clinica della formazione per operatori sociosanitari 2001 Ed. Franco Angeli  Milano

Cita questo articolo

Vettore, L., Medicina narrativa e counselling. Strumenti di educazione alla medicina partecipativa per il miglioramento  della relazione tra medico e paziente, Medicina e Chirurgia, 64: 2874-2880, 2014. DOI:  10.4487/medchir2014-64-1

L’integrazione del territorio nel sistema delle cure. Ricadute sul processo formativon.58, 2013, pp.2599-2605, DOI: 10.4487/medchir2013-58-9

Abstract

Aim of the present article is to report the conclusions of an educational workshop on the teaching opportunities deriving from community-based medical education.

The workshop started with a briefing illustrating why, how and when the hospital and community settings should be integrated in planning an undergraduate curriculum in Medicine. After that, participants have been divided into four parallel workshops respectively dealing with; i) physician-patient-family interaction; ii) management of frail patients in the community; iii) health care in the community; iv) management of healthcare resources in the community.

The final debriefing and discussion has allowed some conclusions to be drawn: i) integration of the hospital and community settings in medical students education is both necessary and useful, taking profit of the natural features of the two settings, respectively favouring the study of disease and illness; ii) such an integration should not be limited to the last years of the medical curriculum, but be spread along all the six years, starting from an early clinical contact in the first year; iii) some educational tools and methods appear to be particularly suitable in the community context, e.g. narrative medicine (and board diary in particular) and problem solving (not limited to individual medical histories but extended to community health problems); iv) aim of community-based medical education is not only to develop students’ knowledge, skills and professional competence, but also to help students acquire a comprehensive vision of healthcare management.

Articolo

Premessa

Scopo di questo articolo è riferire sui contenuti dell’atelier pedagogico che il Gruppo di Studio Innovazione Pedagogica ha organizzato per la Conferenza Permanente dei Presidenti di CL in Medicina. L’atelier (Tab. 1) si è svolto in occasione della riunione della Conferenza che si è tenuta a Firenze, il 5 Ottobre 2012.

L’atelier ha preso l’avvio con una riflessione su tre domande: perché realizzare l’integrazione sul territorio del sistema delle cure? E come realizzarla? E, infine, quando, in quale fase del curriculum degli studi, realizzarla?

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Tab. 1 – Programma dell’atelier “l’integrazione nel territorio del sistema delle cure: ricadute sul processo formativo” (Firenze, 5 Ottobre 2012).

Perché un CL in Medicina dovrebbe realizzare l’integrazione del territorio nel sistema delle cure?

La riflessione della Conferenza è stata che l’integrazione nosocomio-territorio nella formazione dello studente in Medicina è intanto necessaria, ed è sopratutto utile. La necessità di questa integrazione deriva dal patto formativo tra Università e Studenti, che prevede che non sia corretto sottoporre a verifica certificativa ciò che non è stato insegnato. Al contrario, l’attuale normativa prevede che l’esame di stato per l’abilitazione alla professione medica includa un tirocinio valutativo sul Territorio e, nello specifico, presso gli studi dei Medici di Medicina Generale. È evidentemente necessario che l’Università organizzi un tirocinio formativo prima della laurea, in modo da preparare i propri studenti all’esame di stato. Al momento, il tavolo tecnico insediato presso il Ministero della Salute sta valutando l’ipotesi di inserire organicamente nel curriculum degli studi medici un tirocinio sul territorio che sia insieme formativo e valutativo, aprendo la strada alla trasformazione dell’esame di laurea in Medicina in una laurea abilitante. La nostra Conferenza auspica da tempo questa soluzione, vedendovi un’utile opportunità didattica. Infatti, il Territorio si presta meglio del Nosocomio per l’insegnamento di significativi aspetti della professione medica, quali:

– la relazione medico-famiglia-paziente, con tutte le implicazioni della visita domiciliare;

– la relazione interprofessionale tra i diversi professionisti della salute, che trova ambiti privilegiati nel territorio;

– la metodologia didattica dell’approccio clinico per problemi, che include tanto problemi di salute del singolo paziente, che problematiche di epidemiologia e prevenzione dell’intera popolazione;

– l’approccio privilegiato al paziente fragile, in un contesto di prevalenza di problemi di salute cronici assai diverso da quello nosocomiale;

– l’insegnamento sul campo della struttura e delle funzioni del sistema sanitario nazionale e delle cure primarie;

– l’insegnamento dei principi del management sanitario e della sostenibilità dell’impegno sanitario sul territorio;

– Un approccio più sistematico di quanto sia possibile realizzare nel nosocomio ai principi della salute globale e della medicina delle migrazioni.

Infine, mostrare allo studente in Medicina l’importanza della gestione del benessere e della salute della popolazione è un modo per migliorare la qualità (ed accrescere la quantità) delle vocazioni rispetto alla medicina di base e per innescare una preparazione remota all’impegno attivo sul territorio.

Come un CL in Medicina dovrebbe realizzare l’integrazione del territorio nel sistema delle cure?

L’integrazione nosocomio-territorio è solo un caso particolare di quell’integrazione didattica (trasversale vs. longitudinale, interdisciplinare vs. interprofessionale) di cui la Conferenza Permanente dei Presidenti di CL in Medicina ha da tempo riconosciuto la necessità e il valore pedagogico. La Conferenza si è espressa più volte in favore del superamento della mera multi-disciplinarità, intesa come “somma” di discipline; del raggiungimento di una effettiva interdisciplinarità e interprofessionalità; e della progressione verso la transdisciplinarità, con un insegnamento che prescinda dall’appartenenza disciplinare dei docenti e tenda al superamento del concetto stesso di settore scientifico-disciplinare.

Quando, in quale fase del curriculum, un CL in Medicina dovrebbe realizzare l’integrazione sul territorio del sistema delle cure?

Al momento attuale, la tendenza maggioritaria nei CL in Medicina italiani è quella di realizzare l’integrazione del sistema delle cure nel territorio nell’ultimo anno del corso di laurea in Medicina, favorendo l’integrazione didattica dei medici di medicina generale con i docenti di medicina interna e/o di sanità pubblica. Al contrario, in un curriculum degli studi a forte integrazione longitudinale1, nel quale le attività professionalizzanti siano “spalmate” in diversi e successivi anni di corso, si può ipotizzare una collocazione più ampia del contributo offerto dal territorio.

Al termine di questa introduzione, i partecipanti all’atelier si sono suddivisi (Tab. 1) in quattro laboratori distinti, diversificati per tema.

Laboratorio No. 1: L’interazione medico-paziente-famiglia

Il Laboratorio No. 1, condotto da Luciano Vettore e animato da Massimo Casacchia e Maria Stella Padula si è dato un titolo articolato e programmatico: “Le differenze nelle relazioni tra medico, paziente e famiglia negli ambiti professionali della medicina ospedaliera e – rispettivamente – della medicina generale; possibilità d’integrazione e peculiarità che meritano di essere insegnate: quando, come e da chi?

Dopo una breve premessa iniziale del conduttore sulle “regole del gioco”, i due “discussant” hanno presentato come “trigger” della discussione due storie di relazioni tra medico, paziente e famiglia.
La prima “storia” nel contesto ospedaliero, presentata da Massimo Casacchia, narra il ricovero nella “reparto-tenda” di Psichiatria nel dopo-terremoto dell’Aquila di un ragazzo di 24 anni per peggioramento del quadro clinico, su iniziativa del suo  Medico di famiglia (MdF), che aveva riorganizzato la sua azione di cura nelle tendopoli. La madre del paziente, ospitata nella struttura (a differenza di quanto sarebbe potuto accadere nel reparto ospedaliero in muratura), collabora con medici e infermieri nell’assistenza al figlio e diventa in ciò “esperta”, continuando questo suo apporto anche dopo la dimissione. Anche dopo di questa l’MdF continua a seguire il paziente per i problemi medici in stretta relazione con la madre.

La seconda “storia” nel setting della Medicina Generale (MG), presentata da Maria Stella Padula, è stata scritta da una studentessa: narra una visita domiciliare a una paziente ultraottantenne emiplegica, assistita dalla figlia precocemente vedova, che presenta una amputazione all’arto superiore all’altezza del gomito; essa ha a sua volta tre figlie adolescenti, due delle quali con problemi di salute e psicologici. Tutto ciò fornisce un quadro esistenziale di sofferenza dell’intera famiglia, e i problemi delle figlie diventano il vero oggetto della visita, mentre le condizioni fisiche della nonna diventano alla fine solo il pretesto della visita domiciliare. Il racconto della studentessa è molto “partecipato” anche dal punto di vista emotivo e rivela i molti interrogativi che questa si pone come riflessione su ciò a cui ha assistito, tanto che ha intitolato la sua storia “Una famiglia da curare: un puzzle della sfortuna”.

Alla conclusione della presentazione delle due storie la discussione risponde sostanzialmente a tre domande:

1) Cosa abbiamo imparato dalle narrazioni?

2) Cosa possono imparare gli studenti dagli eventi narrati per farne tesoro quando nella loro professione futura dovranno porre attenzione alla relazione tra medico, paziente e suoi familiari, sia all’interno dell’ospedale che sul territorio.

3) Quale contributo formativo differente, ma sperabilmente integrabile perché complementare, possono dare riguardo a ciò la Medicina dell’Ospedale e la Medicina generale?

Infine l’ultima parte del Laboratorio è dedicata alla presentazione di un progetto, consistente in due moduli didattici.

Il primo modulo propone un progetto di lettera di dimissione dall’ospedale con i contenuti di seguito indicati, in buona parte attinenti alle relazioni con il MdF e con la famiglia.

– Le ragioni del ricovero, la diagnosi, la sua gravità e la prognosi;

– le possibili conseguenze della malattia sulla vita del paziente negli aspetti lavorativi, familiari, relazionali e comportamentali (per es, stili di vita);

– l’eventuale presenza di co-morbidità e di fattori di rischio;

– il grado di consapevolezza del paziente sulla sua condizione;

– il presumibile carico familiare dell’assistenza;

– il progetto terapeutico non solo con le prescrizioni, ma anche con le indicazioni dei possibili supporti che potranno venire dall’ambulatorio divisionale e dal day hospital;

– i possibili segni premonitori di un’eventuale riaccensione della malattia, nei confronti dei quali lo staff ospedaliero dichiara la propria disponibilità a fornire tempestivamente consulenza telefonica o via mail;

– l’invito esplicito e la piena disponibilità a continuare la collaborazione nel prosieguo delle cure con il MdF, con i familiari di riferimento e con gli eventuali care giver.

Le caratteristiche di tali contenuti acquisiscono valenza formativa se di esse è reso partecipe lo studente che conosce quel paziente.

L’obiettivo didattico del modulo si propone di stabilire nel processo comune di cura relazioni reciproche tra staff ospedaliero, MDF e famiglia.

La metodologia didattica consiste nella preparazione e nella consegna della lettera in presenza dello studente. Sarebbe poi auspicabile che ogni studente potesse accompagnare almeno una volta uno dei pazienti che ha seguito durante il ricovero alla prima visita del MdF dopo la dimissione, ma ciò sarà possibile solo con studenti già in possesso di discrete competenze cliniche e con MdF adeguatamente formati alla funzione tutoriale.

La collocazione temporale nel curriculum di fatto coincide con il periodo nel quale lo studente frequenta il reparto.

Il secondo modulo propone il progetto “Adottare un paziente cronico”.

Si tratta di un iter guidato della durata di 3 anni, nel quale uno studente deve seguire un paziente cronico e la sua famiglia nei percorsi di diagnosi e cura, sia nell’Ospedale che sul Territorio. Lo studente deve compilare un diario di bordo “strutturato”, costituito cioè da numerose “griglie” nelle quali annotare i problemi e le informazioni anagrafiche del paziente e della sua famiglia, i dati e le motivazioni del follow up clinico (osservazione delle visite, eventi intercorrenti, approfondimenti diagnostici, decisioni terapeutiche e loro motivazioni); sono presenti inoltre schede di autovalutazione delle capacità comunicative e dell’emotività, nonché spazi “narrativi” per le note personali sul caso, su ciò che lo studente ritiene di aver imparato, ma anche sulle proprie reazioni emotive suscitate da esso, fornendo così un forte stimolo all’apprendimento metacognitivo.

L’obiettivo didattico del modulo è quello di stimolare lo studente a osservare e narrare per imparare a riflettere su ciò che sta imparando.

La metodologia didattica si sostanzia di un diario di bordo strutturato con le caratteristiche sopra descritte.

La collocazione temporale nel curriculum è longitudinale: per es., al CdLM in Medicina di Modena, dove il progetto è in sperimentazione, è situata continuativamente dal 3 al 6° anno.

Laboratorio No. 2: La gestione del paziente fragile sul territorio

Conduttore Giuseppe Familiari, Discussant Anna Paola Mitterhofer e Giulio Nati

Definizione di paziente fragile

La descrizione del paziente fragile è piuttosto complessa e ancora in via di definizione poiché oltre a far riferimento ad aspetti di tipo clinico, raccoglie le problematiche di tipo socio-assistenziale che generalmente coesistono in questo tipo di paziente.

Nei pazienti fragili si osserva generalmente la presenza di più malattie croniche. Si tratta di pazienti generalmente anziani, disabili o con malattie disabilitanti, talvolta malati psichiatrici con comorbidità e di difficile gestione assistenziale, il cui outcome è quasi sempre negativo. Operativamente, la fragilità può essere quindi letta secondo alcuni aspetti/domini peculiari quali lo stato socio-ambientale critico, la ridotta autonomia funzionale, l’invecchiamento avanzato, la coesistenza di malattie croniche e la polifarmacoterapia.

La fragilità dovrebbe essere, però, più della somma di singole condizioni patologiche e andrebbe interpretata come una patologia complessa e unica, la cui gestione non si risolve sommando più consulenze specialistiche (più prestazioni professionali, più linee guida, più diagnosi, più prescrizioni terapeutiche), ma praticando realmente la cooperazione e l’interazione di più professionisti, del paziente, del suo nucleo familiare e sociale connessi in rete2.

Il rapporto didattico-assistenziale con il paziente fragile

I principali punti del rapporto didattico-assistenziale con i pazienti fragili sono basati su problematiche legate alla condizione geriatrica, al ruolo delle cure palliative, all’autonomia di questi pazienti e all’organizzazione dell’ambiente sociale3.

La condizione geriatrica a causa della multimorbidità e la presenza di disfunzioni disabilitanti come il difficile controllo vescicale, l’incontinenza e la riduzione del visus, richiede un approccio olistico ed un giusto timing dei ricoveri ospedalieri. Le cure palliative svolgono un ruolo cruciale nel controllo del dolore e la libertà dal dolore è una condizione necessaria per il miglioramento dello spirito e quindi lo stato psicologico di questi pazienti, influenzando positivamente loro autonomia. L’organizzazione dell’ambiente sociale condiziona e definisce il contatto con i curanti, è di estrema importanza per il paziente fragile, e sembra esserlo più di quanto i pazienti non riferiscano.

Gli obiettivi didattici nel Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia si debbono prefiggere di sensibilizzare gli studenti al tema della fragilità con l’esposizione precoce sin dal primo anno di corso (Early Clinical Contact, ECC) per una migliore empatia con il malato, di indurre motivazioni alla cura di condizioni di difficoltà sociale associate a disabilità mentale o fisica rinforzando l’aspetto sociale della cura medica, indurre riflessioni sull’assistenza e la comprensione di pazienti che manifestano fragilità, insegnare il comportamento più adatto nella gestione dei pazienti fragili, acquisire capacità di comportamento sia in ambito bio-medico che psico-sociale4-10.

Modelli adeguati di Curriculum medico dovrebbero inoltre prevedere un insegnamento interdisciplinare e interprofessionale (IPE), quest’ultimo rivolto a gruppi di infermieri e studenti di medicina, dedicato alle cure palliative e con gli obiettivi didattici specifici studiati su pazienti fragili anziani (geriatrics, palliative care, communication and patient autonomy, organization and social networks) allo scopo di formare futuri gruppi di lavoro più affiatati e quindi più efficaci9.

Deve poi essere sottolineata la necessità, per gli studenti, della figura di riferimento definita come “individual lead o champion”, intesa come docente fortemente motivato sull’importanza dell’insegnamento medico e capace di trasmettere con entusiasmo agli studenti un approccio sempre positivo verso il malato3. Il ruolo del docente in questo contesto si dimostra essere fondamentale per il semplice presupposto, ampiamente dimostrato, che gli studenti osservano e copiano i comportamenti dei loro docenti, ed il loro ruolo diventa un modello comportamentale per il carattere futuro degli studenti stessi11.

Il gruppo di lavoro ha anche ritenuto che fosse importante saper identificare precocemente i sintomi ed i segni che caratterizzano i pazienti fragili, in particolare per gli aspetti psichiatrici, per intervenire il più tempestivamente possibile ed arrestare il processo evolutivo della/e patologia/e.

Per quanto riguarda gli strumenti, si è ritenuto di dover sottolineare il valore didattico del tirocinio professionalizzante, in particolare se sostenuto da momenti d’aula sia prima (come introduzione) che dopo (come conclusione) del periodo di pratica.

La gestione del paziente fragile sul territorio

La definizione di tale obiettivo didattico è costituita dalla risposta alla domanda su quali tra le competenze specifiche un MMG debba saper mettere in atto per gestire i pazienti fragili, sempre nel riferimento alle caratteristiche di tali pazienti, per poi identificare quali competenze specifiche debbano essere messe in atto dalla Medicina Generale sul territorio.

Per quanto attiene specificamente alla Medicina Generale, è necessario fare riferimento allo specifico core curriculum per l’insegnamento, che descrive sei competenze specifiche (gestione delle cure primarie, centralità del paziente, risoluzione di problemi specifici, approccio multidisciplinare, orientamento alla comunità, approccio olistico), all’interno delle quali si possono identificare gli aspetti rilevanti nella presa in carico territoriale del paziente fragile12.

Laboratorio No. 3: La tutela della salute sul territorio

Conduttore Fabrizio Consorti, Discussant Maria Luisa Sacchetti e Loris Pagano

Il punto di partenza per poter parlare di tutela della salute sul territorio è la considerazione complessiva dell’intero sistema delle cure primarie, che si estende ben oltre la medicina generale, per quanto quest’ultima rivesta un ruolo “pivotale”. Infatti oltre alle diverse figure mediche coinvolte (pediatri di libera scelta e altri specialisti), bisogna considerare la complessa rete di strutture organizzative esistenti ed operanti nel territorio. Esistono infatti i Centri di Assistenza Domiciliare (CAD) e i servizi di Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) e Programmata (ADP), ognuno dotato delle sue specificità, risorse e normativa. Non vanno dimenticati infine i grandi ambiti della Salute Mentale (CSM) e dei consultori materno-infantili. Tutte queste strutture devono poter trovare posto in un progetto organico di formazione al concetto di tutela della salute, che si pone come obiettivo non la cura della malattia acuta o cronica ma la promozione di stili di vita corretti, la diffusione di informazioni utili al mantenimento della salute, la prevenzione primaria, secondaria e terziaria.

Una nota particolare durante il laboratorio è stata fatta a proposito del ruolo delle associazioni di volontariato, che possono costituire una ulteriore risorsa per la progettazione didattica, rappresentando spesso un ambiente privilegiato perché uno studente possa sperimentare le attività di prevenzione o avere contatto con ambiti particolari come le malattie rare, ad esempio per il counselling familiare.

Obiettivi formativi

Se si volessero delineare possibili obiettivi e competenze per l’ambito della tutela della salute nel territorio, si dovrebbe innanzitutto partire dalla caratteristica dominante del territorio stesso, per come delineato in precedenza, cioè dalla sua “complessità”.

Un primo obiettivo potrebbe perciò essere quello di consentire l’acquisizione da parte dello studente della visione e conoscenza complessiva del sistema delle “cure primarie”.

La frequenza delle strutture territoriali dovrebbe essere indirizzata a che lo studente possa esplorare

– il “ruolo” del medico nel territorio

– la complessità delle condizioni di salute

– il reale valore dei determinanti di salute

cogliendo l’importanza del lavoro coordinato e di équipe.

Temi particolari, tipici di questo ambito e molto attuali potrebbero essere le dipendenze:

– alcool

– sostanze da abuso

– gioco

Una funzione molto importante e che dovrebbe avere notevole rilievo è quella del ruolo informativo verso i pazienti, soprattutto per quanto riguarda gli stili di vita (alimentazione, attività fisica, fumo e altri fattori di rischio, igiene sessuale), la capacità di leggere in maniera critica le informazioni provenienti dai media e da Internet, il counselling genetico anche in funzione dei programmi di screening e i programmi vaccinali.

Tutto questo infine dovrebbe consentire allo studente di sperimentare come la pratica clinica basata su evidenze sia possibile anche nella complessità del territorio.

Collocazione curriculare e criticità

Come si vede non si tratta di obiettivi e competenze che possano essere risolti con qualche seminario, ma si richiede una riorganizzazione organica del curriculum, perché si possa essere efficaci.

In particolar modo sembra importante che le attività formative indirizzate a questo ambito siano collocate fin dall’inizio degli anni clinici (4° anno), avendo allocate una quantità di CFU significativa, basata soprattutto su didattica professionalizzante (fra 2 e 5 CFU), integrata da poca didattica frontale. Non si tratta della solita richiesta di “più spazio curriculare” di una nuova disciplina che si affaccia all’agone accademico, ma unicamente della considerazione che ci si sta avviando a trasferire il mese valutativo in Medicina Generale dell’esame di stato al’interno del corso di laurea. Si colga dunque l’occasione per caricare di significati didattici quell’esperienza.

Le principali criticità individuate consistono soprattutto nella miglior definizione della figura del tutor (riconoscimento e retribuzione, formazione e valutazione), nell’integrazione con le strutture del territorio – probabilmente più complessa ancora che con quelle ospedaliere – e nel rapporto politico coi decisori regionali. Da ultimo di sottolinea come un cambiamento di questa portata sarà possibile solo se preceduto dalla preparazione di un “terreno fertile” nei corsi di laurea, sostenuto da iniziative come quelle intraprese in maniera lungimirante dalla Conferenza.

Laboratorio No. 4: La gestione delle risorse sanitarie sul territorio

Il Laboratorio n. 4 è stato condotto da Carlo Della Rocca, ed animato dallo stesso e da Carlo Saitto.

Le tesi proposte all’inizio del lavoro sono state le seguenti:

– l’ottimizzazione delle risorse nella gestione della salute sul territorio è possibile tramite l’integrazione delle attività socio-sanitarie ed il continuo aggiornamento delle metodologie di prevenzione, diagnosi e cura

– questo approccio “aperto” e “lungimirante” alla gestione della salute pubblica deve essere patrimonio del medico e quindi merita di essere insegnato: quando, come e da chi?

Le modalità di lavoro adottate hanno seguito il seguente schema:

– Il Coordinatore ha brevemente introdotto il tema

– I due “Discussant” hanno presentato due esempi/proposte di ottimizzazione delle risorse per la gestione di interventi di sanità territoriale

– Il Gruppo ha effettuato un’ampia discussione collegiale sul tema dalla quale è scaturita una  proposta di un “modulo didattico” con i suoi obiettivi, metodologie didattiche e collocazione temporale nel  curriculum.

La considerazione preliminare è stata quella che la necessità di rendere “sostenibile” un sistema sanitario che si prenda cura in modo equo della totalità dei soggetti rende indispensabile che ogni singolo operatore sia consapevole della problematica dell’ottimizzazione delle risorse. In particolare il medico, per le sue prerogative di Dirigente, ovunque svolga la propria attività, mette in essere quotidianamente atti che comportano l’impiego di risorse o direttamente gestite o indirettamente coinvolte sia a livello di ospedale sia di territorio.  È ovvio che non è possibile, quindi,  escludere dall’iter formativo del medico una specifica informazione sulle conseguenze economiche delle sue scelte operative e l’esposizione alla problematiche della gestione delle risorse. Non è un caso, infatti, che ormai pressoché tutti i CLMMC d’Italia (fonte: site visit) prevedano nell’ambito dei loro curricula la presenza di corsi/moduli di “economia sanitaria/management”. Peraltro, nella maggioranza dei casi, i contenuti di tali corsi appaiono scarsamente integrati con le problematiche cliniche, come se fossero “a latere” delle stesse. In realtà è opinione del gruppo che la gestione delle risorse più che essere un argomento “aggiuntivo” da studiare, dovrebbe essere una chiave per  riordinare le conoscenze cliniche dello studente (e del docente). Le risorse, infatti, non vanno considerate come solo un mero problema di costi e la loro gestione è ormai diventata a tutti gli effetti parte integrante della qualità stessa delle cure. In questo senso la loro corretta gestione trasforma la conoscenza medica in assistenza, colloca l’assistito all’interno della sua storia e del suo sistema di relazioni, e inserisce la dimensione individuale dell’assistenza in un sistema di cura e di tutela della salute. Le conseguenze possibili di un approccio di questo tipo sul “sapere medico” coinvolgono sia gli aspetti della conoscenza, sia del conseguimento delle abilità e delle competenze, sia della visone stessa dell’apprendimento dello studente. Nello specifico settoriale del territorio sono considerabili due approcci esemplificativi: le risorse interpretate intorno al paziente con risvolti evidenti e immediati sulle problematiche di governo clinico e le risorse interpretate  intorno al bisogno di salute della popolazione con evidenti implicazioni di Sanità Pubblica.

In definitiva il gruppo ha condiviso che il tema della gestione delle risorse rimanda, in ultima analisi, alla definizione di un’etica delle responsabilità che è forse la sostanza della stessa idea di cura.

Alla luce di quanto discusso, il gruppo ha proposto il seguente “modulo didattico”:

• Obbiettivi (conoscenze, abilità, competenze, visione)

– saper agire, nel suo essere clinico (diagnosta e terapeuta), in modo “economicamente congruo”

– essere partecipe ed attore di strategie in continua evoluzione che devono portare al ripensamento continuo dei percorsi di prevenzione e diagnostico-terapeutici in base al progredire delle conoscenze e delle tecnologie

– interagire e coinvolgere altri soggetti in termini di sinergie di azioni e di interessi e di         integrazione socio-sanitaria

• Metodologia didattica

– Problem solving

– Stages

• Collocazione temporale

–  Spalmato tra metodologie – patologie integrate – medicine e chirurgie in forma di UDE (Unità Didattiche Elementari) su specifici problemi di ampia rilevanza (es. screening del carcinoma della cervice uterina; il diabete; ecc.)

MEDCHIR_58-1

Tab. 2 – Ipotesi di lavoro, emersa a conclusione dell’atelier “l’integrazione nel territorio del sistema delle cure: ricadute sul processo formativo”, su una possibile distribuzione longitudinale della didattica sul territorio nel curriculum degli studi.

Conclusioni

Al termine del lavoro nei quattro laboratori, si è tenuto un debriefing di restituzione in assemblea plenaria. I Conduttori dei laboratori hanno riferito su quanto emerso nei rispettivi gruppi di lavoro e l’assemblea ha animato un dibattito.

Tutti hanno convenuto sull’opportunità dell’integrazione nosocomio-territorio nella formazione dello studente in Medicina, sfruttando le differenze naturali tra i due diversi setting, ad esempio privilegiando lo studio della disease in ambito ospedaliero e della illness sul territorio.

Un’altra conclusione sulla quale si è registrato un consenso unanime, è l’opportunità di non limitare l’apporto del territorio ad un tirocinio valutativo nell’ultimo anno del corso di laurea ma di distribuire la didattica in questo setting in numerosi anni, sfruttando esperienze di “dorsale metodologica” quali il corso integrato di Metodologia Medico-Scientifica che si estende dal I al VI anno nei corsi di laurea della Sapienza di Roma. Il dibattito si è animato sulla quantità di CFU che è necessario allocare per coprire la didattica sul territorio, specie se distribuita su diversi anni: c’è chi ritiene sia necessario riservare alla medicina sul territorio un elevato numero di CFU, e chi pensa che sia possibile inserirla come didattica integrata nei corsi esistenti senza dover ogni volta creare moduli didattici autonomi e allocare CFU specifici. La didattica sul campo solleva comunque il problema, tutt’altro che secondario, di formare, valutare e incentivare (retribuire?) i tutor.

Il dibattito ha incluso anche il suggerimento di strumenti didattici specifici per la didattica sul campo, quali la medicina narrativa (è di grande utilità e pertinenza l’uso del diario di bordo), il problem solving (non limitato ai problemi di salute del singolo ma anche a quelli della comunità). Il fine è quello di aiutare lo studente a sviluppare non solo conoscenze, abilità e competenze professionali, ma anche una visione complessiva della gestione della salute.

Infine, il dibattito emerso nei laboratori, ed illustrato in plenaria (Tab. 2), ha permesso di formulare una ipotesi di lavoro, che verrà ripresa nel Forum che il Gruppo Innovazione Pedagogica organizzerà per la riunione di Palermo, sulla possibile distribuzione nei sei anni di corso dei contenuti della didattica sul territorio.

Bibliografia

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2) Senin U: Frail Elderly: a new clinical entity in the aging society. http://www.leadershipmedica.com/sommari/2005/numero_08/medicina/sessione_1/articolo_ing/interfaccia.htm

4) Gibbins J, McCoubrie R, Maher J, Forbes K: Incorporating palliative care into undergraduate curricula: lessons for curriculum development. Med Educ 43:776-83, 2009.

5) Familiari G, Falaschi P, Vecchione A: La nuova laurea specialistica in Medicina e Chirurgia e la formazione di un medico con una cultura bio-medico-psico-sociale. Med Chir 16: 591-596, 2001.

6) Familiari G, Falaschi P, Ziparo V: L’organizzazione didattica del corso di laurea magistrale in medicina e chirurgia, Roma “La Sapienza”, II Facoltà. Med Chir 32: 1291-1293, 2006.

7) Familiari G, Midiri G, Falaschi P, Relucenti M, Heyn R, Benvenuto R, Tarsitani G, Ziparo V: Outcomes of a fully integrated scientific/clinical methodology and medical humanities course in an Italian undergraduate curriculum. AMEE Conference, Prague, abstract book p. 320, 2008.

8) Familiari G, Nati G, Ziparo V, Padula MS, Aggazzotti G: Early patient contact nel curriculum di medicina: esperienze a confronto. Med Chir 46: 1982-1987, 2009.

9) Littlewood S, Ypinazar V, Margolis SA, Scherpbier A, Spencer J, Dornan T: Early practical experience and the social responsiveness of clinical education: systematic review. BMJ 331: 387-391, 2005.

10) Just JM, Schulz C, Bongartz M, Schnell: Palliative care for the elderly–developing a curriculum for nursing and medical students. BMC Geriatr. Sep 20;10:66, 2010.

11) Brunger F, Duke PS: The evolution of integration: innovations in clinical skills and ethics in first year medicine. Med Teach 34: e452-458, 2012.

12) Familiari G, Consorti F, Valanzano R, Vettore L, Casacchia M, Caruso G, Della Rocca C, Gallo P: Per un insegnamento eticamente fondato nei CLM in medicina e chirurgia. Med Chir 54: 2383-2391, 2012.

13) Andreoni M, Arullani A, Cavallini M, Chiriatti A, Cittadini A, Della Rocca C, Donato G, Mazzilli M, Nati G, A Nigro A, A Nobile A, G Tarsitani G, F Traditi F: Il Core curriculum per l’insegnamento degli argomenti di Medicina Generale nel Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia. Med Chir 46: I-IV, 2009.

Cita questo articolo

Gallo P., Consorti F., Studio individuale e studio guidato. Concetti, bisogni e approcci, Medicina e Chirurgia, 58: 2599-2605, 2013. DOI:  10.4487/medchir2013-58-9

Strategie per pianificare un curriculum degli studi. Le SPICES di Hardenn.56, 2012, pp.2481-2484, DOI: 10.4487/medchir2012-56-3

Abstract

Planning an undergraduate curriculum is a complex task, implying the identification of health needs of the population, the definition of learning outcomes, and the selection of the educational strategy. Harden’s SPICES method is a useful tool to choose between a series of six different educational alternatives: Student-centred vs. Teacher-centred, Problem-based vs. Information-oriented, Integrated vs. Discipline-based, Community-based vs. Hospital-based, Elective-driven vs. Uniform, and Systematic vs. Opportunistic education.

According to the SPICES criteria, the average Italian undergraduate curriculum in Medicine is praise-worthy in being decidedly systematic, rather inter-disciplinary – though not inter-professional enough – and in proceeding  towards the full valuation of community medicine, along with bed-side practice. Much has still to be done to shift from teacher-centred teaching to student-centred learning. Actually, Italian curricula are still too concerned in transmitting information rather than training students to solve problems and make decisions. Finally, our curricula require new solutions to face adequately the problem of students delay and dropout.

Articolo

La pianificazione del curriculum degli studi e le SPICES di Harden

La pianificazione del curriculum di un Corso di Laurea in Medicina è uno dei passi più delicati nella strategia sanitaria di un Paese, e dovrebbe tener conto di molteplici parametri: le esigenze ed aspettative di salute della popolazione, i mezzi che è possibile investire, l’educazione sanitaria che si vuole impartire alla popolazione, la formazione necessaria per gli operatori della salute sul territorio.

A valle di queste scelte “politiche”, l’Accademia deve fissare le proprie strategie pedagogiche: la determinazione degli outcome di apprendimento, l’organizzazione dei contenuti e delle tecniche di insegnamento, l’individuazione delle modalità di valutazione dell’apprendimento, la formazione dei docenti, e le modalità di valutazione, di processo e di risultato, dell’efficacia didattica1-6.

In questo contesto, uno strumento pratico ed efficace per guidare la riflessione sulle strategie pedagogiche di un Corso di Laurea in Medicina è offerto dalle SPICES di Ronald Harden7. Si tratta di definire come muoversi – in base a scelte strategiche di tipo educativo – in un continuum tra sei coppie di opzioni contrapposte. A parte l’acronimo accattivante (spices in Inglese significa spezie), le SPICES sono le iniziali delle opzioni “sulla sinistra” mentre le TIDHUO indicano le scelte poste “a destra”. Per rendere il concetto si può usare l’immagine di un pallottoliere (Fig. 1), con sei cursori che permettono di posizionare il pallino da un estremo all’altro di ciascuna opzione.

Si passeranno ora in rassegna le sei antinomie: S-T (Student-centred vs. Teacher-centred education); P-I (Problem-based vs. Information-oriented education); I-D (Integrated vs. Discipline-based education); C-H (Community-based vs. Hospital-based education); E-U (Elective-driven vs. Uniform education); e, infine, S-O (Systematic vs. Opportunistic education).

Didattica centrata sull’apprendimento o sull’insegnamento (Student-centred vs. Teacher-centred education)

Si tratta, evidentemente, della scelta pedagogicamente centrale, dalla quale discendono innumerevoli conseguenze, brevemente riassunte nella Tab. 1.

Insegnamento Apprendimento
Centrato sul docente Centrato sullo studente
Ciò che è essenziale è insegnare Ciò che è essenziale è apprendere
Trasferire le conoscenze Acquisire le conoscenze
L’insegnante fornisce risposte L’insegnante pone domande
Lo studente ha un ruolo passivo Lo studente ha un ruolo attivo
Lo studente è guidato nella conoscenza Lo studente “scopre”
L’aula di lezione è essenziale Gli strumenti di apprendimento sono essenziali

Tab. 1 – Caratteristiche della didattica centrata sull’insegnamento ( e sul docente) o sull’apprendimento (e sullo studente)

La centralità dell’insegnamento viene spesso difesa come un modo per valorizzare l’autonomia – e il ruolo – del docente. In realtà, spostare il baricentro dall’insegnamento all’apprendimento non significa sminuire in alcun modo il compito del docente: al contrario, questi passa dal far lezione a divenire il manager dell’apprendimento dello studente8.

Il processo di riforma che ha investito gli studi medici in Italia si caratterizza sicuramente per una crescente attenzione allo studente e alle dinamiche dell’apprendimento. Valga la considerazione che l’unità di conto su cui si basa tutto il curriculum degli studi, il credito formativo universitario, è una misura del lavoro dello studente, e non del docente, anche se ciò contrasta con gli innumerevoli tentativi – particolarmente incongrui a Medicina – di utilizzare i CFU “attribuiti” al singolo docente come strumento per misurarne l’operosità. Tuttavia, anche  se il cammino verso la centralità dello studente e dell’apprendimento nel curriculum medico è ancora lungo, il molto lavoro svolto dalla Conferenza autorizza a spostare il cursore in direzione dell’estremo “S” (Fig. 1).

 

Fig. 1 – Le strategie educative dei CLM in Medicina italiani raffigurate – a mo’ di pallottoliere – in base al modello delle SPICES di Harden. 

Didattica finalizzata all’apprendimento per problemi o alla trasmissione di informazioni (Problem-based learning vs. Information-oriented education)

La competenza professionale di un medico si spende in larga parte nel mettere a frutto le conoscenze acquisite (teoriche, operative e relazionali) nel risolvere problemi e prendere decisioni. Se questa è la competenza “in uscita” del Corso di Laurea in Medicina, alcune Università nordamericane ed europee hanno pensato di abbandonare l’approccio didattico sistematico (insegnamento disciplinare con successione progressiva dalle scienze di base, alla fisiopatologia e alla clinica) per organizzare l’insegnamento su di una successione di problemi da affrontare e risolvere. Si parla in questo caso di Problem-Based Learning (PBL) o, in una forma meno radicale, di Problem-Oriented Learning (POL)9 o, in particolare per l’insegnamento professionalizzante, di task-based learning (TBL)10-11.

Unità elementare dell’insegnamento/apprendimento per problemi è il tutoriale: questo inizia con un tutor che “lancia” un problema ad un piccolo gruppo di studenti. Questi reagiscono con una discussione improvvisata (brain storming) per identificare indizi e possibili punti-chiave per trovare la soluzione del problema. Dopo aver raccolto le idee, sempre sotto la supervisione del tutor, si formulano alcune ipotesi e si identificano i dati che si ritiene necessario acquisire per la soluzione del problema. Da questo innesco, parte la fase della ricerca delle informazioni, che conduce alla progressiva validazione o confutazione delle ipotesi di partenza. Il tutoriale si chiude con la sintesi del lavoro svolto e la definizione di una conclusione, e con la revisione critica del processo messo in atto per raggiungere l’obiettivo.

I vantaggi del PBL stanno nel porre al centro lo studente e il suo processo di apprendimento, e nel favorire un apprendimento indipendente, attivo, e riflessivo. Il PBL favorisce, inoltre, la pratica del debriefing e alimenta la capacità di lavorare in gruppo, elementi questi che sono associati ad una riduzione dell’errore medico.

Nonostante i pregi ormai riconosciuti dell’insegnamento per problemi, in Italia il PBL non è entrato nella pratica didattica del CL in Medicina, se non in alcune sperimentazioni didattiche come quelle del Canale Parallelo Romano12, o quelle portate avanti nelle Università di Bari e Milano. Ne consegue (Fig. 1) che, nel nostro Paese, il cursore sull’asse P-I rimane saldamente ancorato sulla I della didattica per trasmissione di informazioni.

Didattica integrata (interdisciplinare e interprofessionale) o insegnamento sistematico disciplinare (Integrated vs. Discipline-based education)

L’integrazione didattica interdisciplinare si sta affermando anche nei Corsi che prediligono un insegnamento sistematico. Harden13 propone una scala dell’integrazione (Fig. 2) con 11 gradini che vanno dall’isolamento disciplinare alla trans-disciplinarietà. Se ci fermiamo al solo panorama italiano, l’esperienza delle on-site visit ha confermato una grande variabilità nel livello di integrazione interdisciplinare nell’insegnamento nei Corsi di Laurea in Medicina. Si va da sedi nelle quali prevale l’orgoglio disciplinare, ad altre nelle quali l’integrazione trasversale e longitudinale è una realtà consolidata, ad altre ancora nelle quali si sperimentano attività didattiche comuni per studenti in Medicina e delle Professioni Sanitarie. Il Gruppo di Studio Innovazione Pedagogica ha dedicato al tema dell’integrazione didattica una trilogia di eventi pedagogici nel contesto della quale si sono discusse le fondamenta pedagogiche (le logiche) dell’integrazione14. Tanto la realtà dei CL italiani, che le attività della Conferenza dei Presidenti di CLM in Medicina, autorizzano a spostare il cursore sulla linea I-D delle SPICES fino in prossimità dell’estremo I (Fig. 1).

Tirocinio professionalizzante sul territorio o nel nosocomio (Community-based vs. Hospital-based education)

È del tutto evidente come la pratica medica che uno studente può fare in un contesto nosocomiale differisca sensibilmente da quella possibile sul territorio. Non è certamente in gioco una graduatoria di importanza tra i due setting, ma ne è evidente la complementarietà. La realtà attuale dei corsi di laurea in Medicina è che la didattica professionalizzante viene svolta quasi per intero “al letto del malato”, ovvero in ambiente nosocomiale. Al contrario, il territorio rappresenta un setting privilegiato per la formazione del medico da numerosi punti di vista: per approfondire le dinamiche della relazione medico-paziente, avvalendosi dello specifico della visita domiciliare; per fare pratica di relazioni interprofessionali, particolarmente significative in ambiti come il 118; per un approccio ai problemi di salute cronici (la continuità delle cure), in un contesto di prevalenza morbosa del tutto diverso da quello ospedaliero; per comprendere sul campo struttura e funzione del sistema sanitario nazionale e delle cure primarie; per fare esperienza diretta dei principi di salute pubblica e, in particolare, di epidemiologia e prevenzione; per imparare ad applicare i principi del management sanitario nella valutazione della cost-effectiveness delle procedure diagnostiche e terapeutiche; e, infine, per meditare sui principi filosofici di health, wellness, illness e disease, nonché sulle loro ricadute sociali.

La Conferenza Permanente dei Presidenti CLM in Medicina si è già impegnata nello sviluppo del rapporto tra il mondo dell’Università e quello della Medicina Generale, e dovrà continuare a farlo se andrà avanti il progetto ministeriale di riforma dell’esame di stato con l’inserimento del tirocinio sul territorio nel curriculum pre-laurea e con il varo della laurea abilitante. Il Gruppo di Studio Innovazione Pedagogica dedicherà al tema dell’integrazione nosocomio-territorio nella formazione del medico la prossima trilogia di eventi pedagogici. Ce ne è a sufficienza per mantenere il cursore del regolo C-H ancora più vicino alla H che alla C, ma in una posizione intermedia di dialogo e collaborazione (Fig. 1).

Curriculum “a misura di studente” o uniforme (Elective-driven vs. Uniform education)

Se si ascoltano i discorsi degli studenti italiani, sembra che i curricula universitari siano una sorta di percorsi a ostacoli disseminati di esami da superare. In effetti, in molti Corsi il peso della valutazione certificativa eccede di gran lunga quello della valutazione formativa. Al contrario, strumenti come la prova di autovalutazione in itinere il feedback, il portfolio, il learning contract, lo stesso progress test, forniscono allo studente indicazioni preziose sul proprio apprendimento che gli consentono di sottoporsi alla valutazione certificativa solo quando ritiene di poterla sostenere con esito positivo. Evidentemente, è inutile fornire allo studente un sistema complesso – e impegnativo sul piano organizzativo – di valutazioni formative se poi si attua un curriculum rigido e uniforme che non consente adattamenti alle esigenze individuali dello studente. In questo senso, è stato teorizzato un adaptive curriculum basato su frequenti occasioni di valutazione formativa, con un piano degli studi che possa essere adattato alle esigenze individuali degli studenti. Evidentemente, mettere in atto un adaptive curriculum significa: rendere molto espliciti gli obiettivi di apprendimento; dare allo studente un adeguato feedback ed organizzare ulteriori occasioni di apprendimento, se necessarie; e prevedere valutazioni in itinere consentendo allo studente di prolungare il proprio periodo di apprendimento, in caso di bisogno.

Le dimensioni dei corsi di laurea italiani – e l’inveterata predilezione per la valutazione certificativa – rendono assai arduo un adaptive curriculum nel nostro contesto. E la soluzione non sembra risiedere in un potenziamento del percorso elettivo che è attualmente scelto dallo studente in modo del tutto strumentale ai fini del concorso di ammissione alle scuole di specializzazione. Piuttosto, la riflessione dei CL italiani potrebbe essere indirizzata verso una revisione del sistema di valutazione certificativo (con l’introduzione dell’esame di semestre?) e verso strategie di tutoring personalizzato per combattere il fenomeno del ritardo studentesco (quando non del drop out), anche con l’impiego di supporti specifici per i disturbi del comportamento15. Allo stato, tuttavia, il cursore dell’asse E-U deve rimanere, in Italia, assai più prossimo alla U che alla E (Fig. 1).

Curriculum sistematico o variabile (Systematic vs. Opportunistic education)

Un’analisi comparativa dei curricula medici delle Università Europee e Nordamericane mette in luce una spiccata variabilità. Al contrario, alcuni elementi di sistematicità si dimostrano utili. Un curriculum sistematico: assicura a tutti gli studenti un apprendimento paragonabile; consente una valutazione comparativa di risultato (ad esempio, tramite il progress test); favorisce la creazione di un core curriculum delle competenze essenziali. In Italia, pur nel rispetto delle sperimentazioni in atto in diverse sedi, la Conferenza Permanente dei Presidenti di CLM in Medicina è impegnata nella realizzazione di un curriculum sistematico, cercando di ridurre l’eccessiva variabilità nel numero di CFU attribuiti ai diversi settori scientifico-disciplinari, valorizzando il confronto tra sedi con le on-site visit e il progress test, coordinando il core curriculum nazionale. Ne consegue (Fig. 1), che sul nostro pallottoliere il cursore del tratto S-O può essere spostato decisamente a sinistra.

Bibliografia

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Cita questo articolo

Gallo P., Consorti F., della Rocca C., et al.,  Strategie per pianificare un curriculum degli studi. Le SPICES di Harden, Medicina e Chirurgia, 56: 2481-2484, 2012. DOI:  10.4487/medchir2012-56-3

Preparazione dei test di valutazione integratan.54, 2012, pp.2420-2425, DOI: 10.4425/medchir2012-54-9

Abstract

The assessment influences (drives) both the type and degree of learning; therefore, it is first necessary to change the way in which the assessment of students is made in order to change their way of learning. A useful and efficient examination test should have three essential goals: it should attempt to integrate multidisciplinary knowledge; it should assess knowledge and abilities by testing competence; students should be helped to correlate interdisciplinary knowledge and competence, possibly using a problem solving approach. The various techniques of assessment explore different fields of learning. So different types of tests have to be used to eva¬luate the acquisition of knowledge and of gestural or com¬munication skills. It is also necessary that the evaluation test be appropriate to the taxonomic level of the learning objectives. This paper examines advantages and disadvantages of the various evaluation tests. Some essential rules for building multiple choice questions (MCQ) are described to assess the attainment of cognitive learning objectives. The validity of MCQ is verified by docimologic indices. To evaluate the performance of both gestural and communication skills, their whole action should be divided into a sequence of singular observable and – if possible – measurable steps in a check list. The evaluation of gesture must consider the essential ability that the future professional will be able to master in an autonomous and automatic fashion. The communication skills can be evaluated using the “role playing” technique, or discussing in small groups the video sequences of a conversation. There follows a discussion of how the exam tests can be prepared taking into account learning objectives and their ap¬propriate evaluation techniques. Possible solutions for an effective integration of the exam tests are then suggested, stressing the importance that their plan¬ning be achieved through a collegial activity, so that both le¬arning and teaching are organized in an integrated fashion. Finally, a few practical suggestions are given to prepare exam tests which are both effective and fair.

Articolo

Premessa

E’ opinione condivisa e più volte ricordata che lo studente studia per l’esame e che ciò che non viene adeguatamente valutato è destinato fatalmente a essere svalutato.

E allora, quando si scelgono le prove d’esame, bisogna interrogarsi su quale tipo di apprendimento si ritenga necessario ottenere: si vuole valutare che cosa lo studente ricorda alla fine del Corso o piuttosto che cosa si ricorda ancora dopo qualche tempo ? E dal punto di vista della formazione professionale, è sufficiente che ricordi delle conoscenze, o non bisognerebbe anche verificare quali nuove competenze e abilità abbia acquisito in modo permanente?

Credo che un esame “ottimale” dovrebbe facilitare e misurare l’acquisizione duratura di competenze, cioè la capacità di utilizzare le conoscenze.

Un’altra opinione frequentemente ripetuta è quella che afferma che la valutazione condiziona il tipo e il grado di apprendimento. E allora, se vogliamo cambiare efficacemente il modo di apprendere, dobbiamo – prima – cambiare il modo di valutare.

In particolare, mi paiono essenziali tre obiettivi di una valutazione utile ed efficace:

  • integrare la valutazione delle conoscenze multidisciplinari;
  • valutare le conoscenze e le abilità attraverso la verifica delle competenze;
  • aiutare gli studenti a correlare le conoscenze e le competenze interdisciplinari mediante la soluzione di problemi.

Il conseguimento di questi tre obiettivi ha come risultato quello che si chiama un apprendimento “significativo”, cioè non “meccanico” in quanto esclusivamente mnemonico.

Inoltre, se la valutazione cambia in modo “virtuoso”, essa modifica anche il modo di insegnare: di fronte a studenti capaci di apprendere in modo critico e autonomo il docente si proporrà di trasferire il senso e il valore dei saperi proposti più che i loro dettagli (già contenuti nei libri di testo), si sforzerà di insegnare in modo “integrato” per far apprendere in modo “integrato”, e perseguirà un insegnamento e un apprendimento fondati sulla soluzione dei problemi che si incontrano più frequentemente nella pratica professionale, perché questo approccio è il più efficace per integrare le conoscenze e trasformarle in competenze.

Strumenti e tecniche di valutazione 

Gli strumenti di valutazione, per risultare efficaci, dovrebbero possedere i seguenti cinque requisiti qualitativi:

  • validità: grado di precisione con cui lo strumento misura ciò che deve misurare;
  • fedeltà o affidabilità: costanza con cui uno strumento misura la stessa variabile;
  • oggettività: grado di concordanza dei risultati ottenuti con lo stesso strumento da esaminatori indipendenti;
  • comodità: organizzazione, impegno, tempi e costi di preparazione ed esecuzione, che garantiscono la fattibilità;
  • equità: uguale trattamento degli esaminandi.

Non ci si può nascondere che è tutt’altro che facile realizzare prove di verifica dell’apprendimento che riescano a soddisfare adeguatamente tutti questi requisiti, ma almeno ci si deve impegnare a fondo per avvicinarsi alle condizioni ottimali.

Per farlo è necessario innanzi tutto rendersi conto che le differenti tecniche di valutazione esplorano qualità differenti dell’apprendimento.

Per verificare le conoscenze, e in qualche misura anche le competenze, risultano strumenti efficaci, sia pure in grado diverso: l’esame orale; le differenti tipologie di esame scritto (il “compito” tradizionale su di un tema, la relazione, le domande a scelta multipla, le domande a risposta breve aperta), e strumenti più sofisticati quali le mappe concettuali e l’esame a “tre salti” o “triple jump”1 (valido soprattutto in ambito clinico per valutare l’apprendimento per problemi).

Per valutare le abilità sia gestuali che relazionali è indispensabile porre l’esaminando nelle condizioni di esercitare tali abilità (esecuzione di manovre per le abilità gestuali e “role playing” per le relazionali); la verifica della performance viene effettuata con l’aiuto di “griglie”, che dettagliano le tappe essenziali della manovra, o rispettivamente le qualità della relazione da far eseguire. Può venire allestito un setting particolare d’esame  “a stazioni”, denominato OSCE (Obiective Structured Clinical Examination), nel quale viene valutata in tempi contenuti la performance di numerosi studenti nell’esercizio di abilità gestuali e relazionali.

Per valutare le competenze cliniche uno strumento particolarmente idoneo è il così detto “paziente standardizzato” o “simulato” (attori o ex pazienti adeguatamente preparati, che simulano il ruolo di un paziente; lo studente interroga il paziente e successivamente ne esegue l’esame fisico, per lo più sotto il controllo di un valutatore, dotato di una “griglia” di osservazione).

La scelta del metodo valutativo dipende non solo dal campo del sapere (cognitivo, gestuale o relazionale), ma anche dalle situazioni concrete di applicazione (tempi, numero degli studenti, da esaminare e dei docenti disponibili, etc.) e dalle caratteristiche dell’obiettivo educativo di cui si vuole verificare il conseguimento, possibilmente in condizioni che simulino la realtà professionale.

Ogni modalità, strumento o tecnica valutativa presenta pregi e difetti.

L’esame orale consente di verificare la capacità dello studente di ragionare, di argomentare e di esprimersi, cioè di valutare non solo le conoscenze ma anche caratteristiche personali e psicologiche, ma presenta anche alcuni difetti: una obiettività e una riproducibilità piuttosto scarse, il rischio di disequità e la necessità di tempi considerevoli.

Per migliorare la qualità e l’efficacia dell’esame orale possono risultare utili alcuni consigli:

  • preparare in anticipo un repertorio di domande con differente livello tassonomico, coerenti con gli obiettivi formativi proposti agli studenti;
  • bandire le domande “estemporanee” o “bizzarre”;
  • prestabilire i criteri di valutazione: punteggi e integrazione con i risultati di un’eventuale prova scritta;
  • cercare di valutare il processo oltre che i risultati dell’apprendimento, cosa abbastanza difficile da realizzare: il processo può risultare in qualche misura visibile inducendo lo studente a ragionare ad alta voce, il che non si limita a verificare la mera memorizzazione delle nozioni.

Va infine sottolineato che l’oggettività delle prove di valutazione è un valore, ma non può essere considerato un totem da perseguire in tutte le situazioni valutative.

Gli esami scritti hanno certamente il pregio di essere per definizione oggettivi, equi e parzialmente comodi, ma presentano, a seconda delle modalità di effettuazione, differenti pro e contro, riportati nella tabella 1.

Tabella 1: Luci e ombre dei test valutativi scritti2

Relazione o tesina scritta –  espressione libera delle conoscenze e delle argomentazioni-  scomodità e soggettività nella valutazione
Domande a risposta aperta breve (DRAB) – apparente facilità di preparazione- difficoltà di correzione: possibilità di risposte non interpretabili in  modo univoco- utilità e validità dipendenti dalla qualità delle domande
Test vero/falso –  maggiore facilità di preparazione e di verifica-  maggiore rischio di risposta corretta casuale (50% di probabilità)
Domande a risposta multipla (DSM o MSQ) – difficoltà di preparazione adeguata- efficacia valutativa dipendente dalla qualità- oggettività e comodità della verifica
Quiz “complessi” (di associazione, affermazione/motivaz.) – difficoltà di preparazione e di risposta- validità nella verifica di processi cognitivi elevati
Mappe concettuali – validità nella verifica dei processi mentali- difficoltà di standardizzazione dei criteri di valutazione

Le domande con risposte a scelta multipla

La tipologia di quiz  più comune (e forse la migliore) è quella delle domande chiuse con 5 risposte, di cui un sola inequivocabilmente corretta (DMS). Le componenti delle DMS sono definite nella Tabella 2.

Tabella 2: Terminologia delle DSM

COMPONENTI DEFINIZIONI

Enunciato

Problema come quesito o come affermazione da completare

Scelte alternative

Elenco di soluzioni suggerite (parole, numeri, simboli o frasi)

Risposta/e

Risposta/e senza alcun equivoco corretta

Distrattori

Risposte alternative plausibili, ma indubitabilmente NON corrette

Nella costruzione delle DSM è opportuno seguire alcune regole generali: innanzi tutto ogni quesito dovrebbe focalizzarsi su un unico obiettivo; per ragioni di semplicità, ma anche di chiarezza, sono preferibili i quiz con una sola risposta corretta, ma in alcune circostanze (per es., in quiz inseriti in casi clinici a cascata, dove più decisioni debbono essere prese contemporaneamente) si possono utilizzare check list con più di cinque risposte, delle quali più d’una sono corrette; vale a questo proposito il consiglio di aumentare il numero complessivo delle risposte che fungono da distrattori in relazione al numero di quelle corrette (per es., 8-9 distrattori per 2-3 risposte corrette).

Per non orientare lo studente alla scelta della risposta corretta è opportuno che tutte le risposte – sia quelle corrette che quelle errate – siano di lunghezza simile e le risposte corrette debbono essere disposte in ordine casuale (non al primo, al terzo o all’ultimo posto, come inconsapevolmente si rischia spesso di fare); unica eccezione è data dalle risposte numeriche, che vanno elencate in ordine crescente.

Si deve porre molta attenzione nel correggere gli errori ortografici, e vanno altresì evitate le abbreviazioni e la punteggiatura non necessaria. Con l’analogo fine di non aggiungere difficoltà interpretative ingiustificate a quelle intrinseche al quesito dovrebbero essere sempre utilizzate frasi affermative, evitando quelle negative (es., quale delle seguenti condizioni NON …), o ancor peggio contenenti doppie negazioni.

E’ pure assolutamente da evitare l’artificio della quinta risposta del tipo “tutte le precedenti” oppure “nessuna delle precedenti”, che indica soltanto l’incapacità dell’estensore di trovare una quinta risposta plausibile.

Vanno evitate le affermazioni opinabili o banali, ma anche le frasi tratte da libri di testo.

Soprattutto nelle prove “a cascata” è necessario porre attenzione nell’elaborazione delle domande, che debbono essere del tutto indipendenti dalle risposte date alle domande precedenti.

Può risultare utile usare modelli di quiz già positivamente sperimentati.  Infine, nei limiti del possibile sarebbe opportuno privilegiare quesiti che richiedano la interpretazione di dati, la soluzione di problemi, l’assunzione di decisioni e quiz che richiedano l’applicazione di nozioni piuttosto che la loro semplice memorizzazione.

Dopo la preparazione delle DSM per una prova di valutazione, i singoli quiz dovrebbero venire sottoposti a una verifica di qualità, attuabile rispondendo ai seguenti quesiti:

  • Il quiz esplora una conoscenza attinente a un obiettivo didattico pertinente?
  • La domanda è comprensibile?
  • Le varie risposte hanno una lunghezza ragionevole e senza parole inutili?
  • C’è un’unica risposta corretta, o indiscutibilmente migliore?
  • Le affermazioni indirizzano la risposta?
  • I “distrattori” sono plausibili?
  • Si sono evitate le risposte: “nessuna delle precedenti” o “tutte le precedenti”?
  • Si sono evitate le domande “negative”?
  • I contenuti sono stati accantonati per un po’ di tempo prima della loro revisione?
  • Dopo la revisione di un quiz, il suo quesito è ancora rilevante?
  • Il numero complessivo dei quesiti nella prova è adeguato?

Inoltre, un’ulteriore verifica delle validità dei quiz va effettuata dopo la loro somministrazione con il calcolo degli indici docimologici, almeno dei due principali:

  • l’indice di facilità: calcola la percentuale delle risposte corrette per ogni quiz somministrato in una prova d’esame; sono adeguate le domande con un indice comprese tra il 30 e il 70% (valori ottimali del 50-60%); non è molto informativo per piccoli numeri di esaminandi
  • l’indice di discriminazione: rivela in che misura un determinato quesito discrimina i candidati meglio preparati da quelli più scadenti; si calcola dividendo i candidati in 3 gruppi di uguali dimensioni: alto, medio e basso, in base al punteggio complessivamente conseguito in una prova d’esame; per ogni quesito va calcolata la percentuale di risposte corrette nei 3 gruppi:  la differenza nella percentuale di risposte corrette tra gruppo “alto” e gruppo “basso” dà una buona stima dell’efficacia discriminante di ogni singolo quiz; i valori ottimali sono compresi tra 0,25 e 0,35.

Relazione tra tipi di obiettivi cognitivi e test di verifica dell’apprendimento

I molteplici strumenti di valutazione degli obiettivi cognitivi debbono essere coerenti con il loro livello tassonomico: memorizzazione, interpretazione di dati, soluzione di problemi e assunzione di decisioni (Tabella 3).

Tabella 3: Relazione tra  i differenti tipi di test valutativi  e i livelli tassonomici degli obiettivi cognitivi.

Memorizzazione di nozioni:·  Domande a scelta multipla (DMS 1/5)·  Domande a Check list (Quiz x/y·  Domande a risposta aperta breve (DRAB) Interpretazione di dati:·  Check list (Quiz x/y)·  Quiz di associazione·  Casi brevi con Quiz “a cascata”·  Es. orale su schema scritto·  Mappe cognitive
Soluzione di problemi:·  Casi-problema realistici con informazioni alternate a domande (Quiz di vario tipo e DRAB, tutti con punteggi prestabiliti)·  Valutazione tra pari in piccolo gruppo
(= ragionamento a voce alta)·  Triple jump (per es., su un caso clinico reale) con relazione scritta sul percorso diagnostico·  Mappe cognitive·  Tirocinio tutorato con compiti prestabiliti
Assunzione di decisioni motivate:·  Casi-problema realistici con informazioni alternate a domande (Quiz di vario tipo e DRAB, tutti con punteggi prestabiliti)·  Valutazione tra pari in piccolo gruppo
(= ragionamento a voce alta)·  Triple jump (per es., su un caso clinico reale) con relazione scritta sulle motivazioni delle decisioni·  Disegno di flow chart decisionali·  Tirocinio tutorato con compiti prestabiliti

Valutazione delle abilità pratiche

Finora abbiamo considerato la valutazione degli obiettivi cognitivi; per ogni pezzo che un artigiano deve costruire serve l’attrezzo adatto e per ogni costruzione serve una cassetta ben fornita di attrezzi differenti; lo stesso vale per le procedure valutative.

Le prove di verifica delle abilità (sia gestuali che relazionali) debbono riguardare atti professionali che posseggono standard qualitativi di riferimento, perché altrimenti non è possibile valutare in modo affidabile la performance dell’operatore; inoltre debbono  essere eseguibili in tempi ragionevoli, debbono essere attuabili con i mezzi disponibili e debbono riguardare attività frazionabili in tappe, ciascuna con connotati osservabili e misurabili. Le singole tappe di esercizio di una abilità relativa a un’attività gestuale o relazionale costituiscono la “griglia” di osservazione e di valutazione (semi-)quantitativa della performance dell’operatore, per la quale deve essere definito a priori il livello minimo accettabile (LAP).

Elemento rilevante per la valutazione (come per l’apprendimento) delle abilità sia gestuali che relazionali è la cura del setting, che deve essere ovviamente coerente con il tipo di abilità considerata.

La valutazione sul campo delle abilità gestuali deve riguardare le abilità essenziali e irrinunciabili al livello professionale iniziale (quelle comprese nel “core curriculum”), cioè le azioni che il futuro professionista deve essere in grado di effettuare in modo autonomo e automatico al momento della laurea; ovviamente deve considerare le abilità certamente insegnate e apprese come obiettivi definiti durante tutto il corso degli studi.

L’esercizio delle abilità gestuali prevede anche le conoscenze teoriche ad esse pertinenti, che peraltro non costituiscono parte esplicita della prova di verifica.

La valutazione sul campo delle abilità relazionali deve riguardare, a seconda del livello tassonomico:

  • gli aspetti comportamentali, attinenti alla buona educazione, cioè il rispetto, l’aderenza al ruolo, il controllo delle azioni, l’attenzione all’ambiente, etc,;
  • gli aspetti comunicativi quali la chiarezza, l’ adeguatezza del messaggio, l’attenzione alla sua comprensione, etc.;
  • gli aspetti tecnici, quali la scelta adeguata al momento in cui porre all’interlocutore domande aperte o chiuse, il contatto visivo, il linguaggio non verbale, etc.

Le tecniche di  valutazione delle abilità relazionali, riguardanti per lo più lo stile comunicativo, comprendono il “role playing” o gioco dei ruoli e la discussione in piccolo gruppo di videoregistrazioni di momenti relazionali. Anche per la valutazione di queste abilità è indispensabile stabilire a priori criteri standardizzati di osservazione e predisporre griglie adeguate di valutazione.

E’ molto difficile sondare il livello empatico della relazione; per la valutazione – comunque approssimativa – di questo livello può essere più affidabile l’osservazione prolungata sul campo dei comportamenti del soggetto da valutare  e l’utilizzazione di strumenti, quali il “diario di bordo”, nel quale lo studente è invitato ad annotare le proprie reazioni emotive alle situazioni cui viene esposto in sede di tirocinio.

La valutazione delle abilità relazionali non è direttamente finalizzata alla verifica dei contenuti della comunicazione, che attengono al campo teorico cognitivo.

Pianificazione delle prove d’esame

La pianificazione  delle prove d’esame richiede la definizione preliminare degli obiettivi essenziali di apprendimento  (“core curriculum”), del “campo” al quale appartengono i differenti obiettivi formativi (cognitivi, pratici, relazionali, metacognitivi o metodologici), e del loro livello tassonomico. Successivamente è necessario individuare quali tra le molteplici metodologie valutative siano realisticamente applicabili nel proprio contesto operativo, considerando peraltro anche le possibilità concrete di attivare modalità di verifica ancora non disponibili nel setting specifico; quindi bisogna focalizzare quali delle metodologie valutative effettivamente disponibili siano le più idonee per verificare il grado di apprendimento dei singoli obiettivi scelti; solo a questo punto è possibile preparare la prova d’esame con la scelta delle metodologie valutative coerenti con i gli obiettivi prescelti.

Nella costruzione di una prova d’esame che comprenda obiettivi formativi di natura cognitiva con differenti livelli tassonomici può risultare utile in prima istanza  accorpare gli obiettivi di memorizzazione (non troppo numerosi) in un test con DSM o DRAB; successivamente vanno individuati gli obiettivi di interpretazione di dati o di soluzione di problemi, che possono essere verificati con DSM in “test a cascata”; infine si deve valutare l’utilità di una prova orale (per lo più successiva a quella scritta), finalizzata alla verifica della capacità di ragionamento e di argomentazione; ciò può effettuarsi anche con la discussione con il candidato delle sue risposte alle DMS o alle DRAB.

Va sottolineato, come si è già detto, che  la memorizzazione di molte nozioni può essere valutata anche soltanto dalla loro applicazione in situazioni concrete: infatti non possono essere applicate conoscenze non possedute, mentre verificandone l’applicazione si valutano  contemporaneamente conoscenze e competenze.

Integrazione delle prove d’esame

Un obiettivo troppo spesso trascurato è quello dell’integrazione effettiva delle prove d’esame, per esempio negli esami di corso integrato o di semestre; per conseguire questo obiettivo sarebbe utile che i docenti del corso integrato (o del semestre) in modo collegiale concordassero prima dello svolgimento del corso gli obiettivi didattici pertinenti dei singoli insegnamenti, individuando le possibili integrazioni reciproche di tali obiettivi; a questa fase dovrà seguire quella della preparazione – se possibile sempre collegiale – dei test; infine, dopo la loro somministrazione e la relativa correzione sarà possibile modificare (o eliminare) quelli che alla prova dei fatti (per es., per i cattivi risultati degli indici docimologici) si saranno dimostrati qualitativamente scadenti.

L’integrazione della valutazione in un esame finale del CdL può giovarsi della sua pianificazione bottom-up; tale pianificazione prevede il percorso da parte del corpo docente delle seguenti tappe:

  1. l’individuazione nell’intero curriculum delle conoscenze essenziali alla competenza professionale; tali conoscenze possono essere desunte dal “core curriculum”  e dalla considerazione critica dei “progress test” svolti durante l’intero corso di studi;
  2. la definizione preliminare delle competenze irrinunciabili allo stadio iniziale dell’esercizio professionale;
  3. la ricerca delle correlazioni/integrazioni possibili tra le competenze multi-disciplinari, fine che può raggiungersi con la preparazione di problemi interdisciplinari;
  4. il consenso sulle modalità di valutazione delle conoscenze e delle competenze integrate.

Una procedura di questo genere potrà avere come conseguenza sperabile anche la promozione di modalità d’insegnamento che facilitino l’apprendimento integrato, realizzando l’ aforisma: “assessment drives learning and teaching”.

Concretamente un esame conclusivo per la verifica delle competenze cliniche (mediche e chirurgiche) – forse anche utilizzabile come esame di abilitazione all’esercizio della professione – potrebbe essere costituito in successione dalle seguenti prove:

  • la soluzione “carta e penna” di alcuni casi clinici “a cascata”, con i quali viene valutata la capacità di risolvere problemi e di assumere decisioni pertinenti in ambito “generalistico” (cioè non strettamente specialistico), medico e chirurgico; questa prova viene valutata con un voto oggettivo, che poi verrà “integrato” con i risultati delle prove successive;
  • la discussione orale individuale con lo studente delle soluzioni date ai quesiti posti nei casi clinici; questa prova perfeziona il precedente voto oggettivo, valutando oltre alle conoscenze e alle competenze più strettamente professionali, anche le abilità metodologiche (capacità di applicazione ragionata del “metodo clinico”);
  • una prova pratica “bed side” (o con paziente “simulato”) per la valutazione delle abilità relazionali e gestuali; anche il risultato di questa prova ottiene un voto parziale;
  • infine, la definizione sintetica del voto finale, derivante dall’integrazione (che non è obbligatoriamente la media aritmetica, ma piuttosto la media “ponderata) dei voti parziali.

Conclusioni

Nella realtà concreta dei nostri CdL spesso si manifestano alcuni “pregiudizi” sugli esami che vengono espressi con le seguenti affermazioni:

  • con l’esame orale mi accorgo subito cosa sa lo studente: è preparato se risolve i problemi come ho fatto io a lezione;
  • con i quiz non si possono valutare i ragionamenti;
  • ci vuole troppo tempo per preparare e poi correggere i quiz;
  • agli esami scritti gli studenti copiano;
  • nel nostro Corso integrato noi facciamo già gli esami integrati: ogni docente fornisce da 5 a 10 quiz; così nessuno può accusarci di tresche o ingiustizie;
  • l’esame è mio e lo gestisco io; e ognuno deve gestire il suo.

Si tratta per l’appunto di “pregiudizi”, che di fatto nascondono la mancata volontà o la paura di cambiare le proprie abitudini didattiche.

Certamente è vero che purtroppo non esiste il test di valutazione “perfetto”, ma ogni strumento valutativo deve essere utilizzato coerentemente con i suoi fini; per ottenere risultati affidabili e quindi soddisfacenti le valutazioni dell’apprendimento dovrebbero avvalersi di punti di osservazione diversi e complementari che riguardino sia i risultati che il processo dell’ apprendimento stesso. Per questo è opportuna in ogni valutazione l’associazione di test formalmente diversi.

Tutto ciò che è stato scritto fino a questo punto può sembrare una discettazione teorica, troppo difficile da realizzare nella pratica; non vì è dubbio che sia difficile, ma non impossibile, anche se richiede un impegno faticoso, ma i risultati ottenibili dovrebbero costituire una motivazione e una gratificazione sufficienti a giustificare le difficoltà incontrate nell’impresa.

E’ comunque incontestabile che una modalità corretta di valutazione è di per sé un potente strumento formativo.

Riassuntivamente può forse risultare utile qualche consiglio “pratico”.

Per ottenere i risultati sperati, gli esami dovrebbero: avere dimensioni non troppo piccole, né troppo grandi; non essere troppo numerosi e/o frequenti; facilitare l’integrazione e la sintesi delle conoscenze; consentire un tempo sufficiente per l’acquisizione duratura delle competenze.

Per garantire la preparazione di “buoni” test cognitivi d’esame le domande (DSM e DRAB), come abbiamo già detto, debbono essere preparate e valutate collegiamente, e vanno testate in prove “formative” prima della loro somministrazione con fini certificativi”; ai risultati delle prove “formative” vanno applicati i test docimologici, che consentono di correggere le domande non soddisfacenti.

Sarebbe molto utile che le domande soddisfacenti venissero archiviate in una “banca dati” accessibile dai docenti di tutti in CdLM italiani. Alla costruzione di questa “banca dati” possono validamente contribuire anche quiz importati da “data base” già disponibili in molti Paesi stranieri, tradotti ed eventualmente adattati alle modalità formative consuete nei CdLM italiani. E possono altresì contribuire alla stessa “banca dati” pure le domande migliori, utilizzate nel tempo per i “progress test”.

Ovviamente i quiz scelti debbono essere classificati in relazione a “indicatori” quali l’ argomento, l’obiettivo formativo, il livello tassonomico e il risultato dei test docimologici. E bisogna anche disporre di una procedura per la estrazione automatica dalla “banca dati” delle domande necessarie secondo i loro “indicatori”.

La “banca dati” va gradualmente incrementata e modificata nel tempo. Si tratta di un impegno inizialmente piuttosto gravoso, ma che – se realizzato sia pure con pazienza in tempi non brevissimi – avrebbe ricadute molte positive sulla didattica dei nostri CdLM.

 Anche gli studenti vanno preparati alle prove d’esame: in primo luogo debbono essere definite chiaramente e rese pubbliche le regole del gioco; cioè all’inizio di ogni corso integrato debbono essere comunicati agli studenti il programma di apprendimento (obiettivi didattici specifici  tratti dal “core curriculum” utilizzato), il programma di insegnamento (contenuti e calendario delle lezioni) e le modalità di effettuazione dell’esame (scritto, orale, pratico, misto). Durante il corso è opportuno “allenare” gli studenti con prove “formative” costruite con domande tratte dalla “banca dati” (ma gli studenti non debbono conoscere l’intera banca dati per evitare una loro preparazione esclusivamente mnemonica, come purtroppo è già accaduto con i quiz dell’esame di stato); per rendere efficaci queste iniziative di preparazione degli studenti all’esame certificativo, ad essi deve essere dato il feed back sul risultato complessivo (cioè non individuale) delle prove formative.

Anche le prove d’esame debbono essere organizzate accuratamente; ciò vuol dire:  scegliere l’ambiente più idoneo per le prove scritte, tale da consentire una buona distribuzione degli studenti nell’aula in base al loro numero; comunicare loro con anticipo adeguato data, orario, durata e sede della prova; predisporre accuratamente il materiale necessario (testi cartacei con le domande randomizzate, se possibile, anche nelle risposte); predisporre e attuare efficaci modalità di sorveglianza; predisporre modalità adeguate per la correzione delle prove (schede e lettore ottico se i candidati sono numerosi).

Analogamente vanno preparate anche le prove orali d’esame, innanzi tutto decidendo preliminarmente con chiarezza le finalità dell’esame orale: prova unica (per valutare sia le conoscenze che le capacità razionali di applicazione), oppure di completamento della prova scritta (per valutare soprattutto le capacità di ragionamento); inoltre è necessario definire e concordare preliminarmente le caratteristiche di collegialità della prova (esame “integrato”), e debbono essere comunicati con anticipo adeguato e con chiarezza agli studenti fini, modalità e collocazione temporale della prova.

Infine, anche le prove pratiche per la valutazione delle abilità gestuali e relazionali (per esempio mediante l’OSCE) richiedono una predisposizione altrettanto accurata del setting.

Forse queste precisazioni sembreranno superflue per la maggioranza dei CdLM, ma non si può negare che non sempre gli studenti possono fruire di informazioni adeguate e particolareggiate. Esse di fatto costituiscono le regole deontologiche delle prove d’esame.

Preparare, organizzare ed effettuare in modo corretto ed efficiente queste prove non è meno importante dell’insegnare e del far apprendere; si tratta di un’attività complessa e impegnativa, spesso non immediatamente gratificante, ma dobbiamo ricordarci sempre che le modalità della valutazione dell’apprendimento condizionano significativamente sia l’apprendimento stesso che l’insegnamento.

D’altra parte l’impegno rilevante che esse richiedono fa parte dei doveri etici di ogni docente.

Cita questo articolo

Vettore L, Preparazione dei test di valutazione integrata, Medicina e Chirurgia, 54:2420-2425, 2012. DOI: 10.4425/medchir2012-54-9

  1. Raccolta delle informazioni necessarie su un problema clinico presentato in modo succinto; elaborazione delle informazioni raccolte per risolvere il problema; presentazione ragionata della soluzione []
  2. Nei materiali inviati via mail dal Segretario della Conferenza dopo la fine della sua 103a riunione sono compresi alcuni esempi commentati di quiz di buona e cattiva qualità (e anche esempi di griglie per l’ osservazione e la verifica di abilità gestuali e relazionali: v. oltre). []

L’etica della docenza. Per un insegnamento eticamente fondato nei CLM in Medicina e Chirurgian.54, 2012, pp.2383-2391, DOI: 10.4425/medchir2012-54-3

Abstract

Ethics of commitment, responsibility and mutual respect are the main rules of medical teacher behavior and, medical profession. In addiction, medical education should be founded on the respect for individual freedom, beneficence and distributive justice, incorporating all values of professionalism as a core physician competency. At present, as a result of changes in patients’ expectations, health care delivery, medical knowledge and students’ requirements, ethical issues beyond medical education needs to be discussed in great detail. The present paper deals on the necessity of ethics for medical educators founded on relationships amongst individuals, rules, regulations, values and cultural influences. It discusses topics as a result of four work-discussion groups, regarding ethics of teaching, student assessment, teacher-student-patient relationships as well as undergraduate curriculum planning and development. In addiction, the present paper introduces a series of forthcoming studies on this matter.

Articolo

Introduzione

In occasione della 104a riunione della CPPCdLM, tenutasi a Parma il 19 Novembre 2011, la Commissione per l’innovazione didattica e pedagogica ha tenuto un Atelier Pedagogico su un argomento di grande importanza, quello dell’etica della docenza. L’argomento è stato affrontato nel rispetto delle sue molteplici valenze, ed è stato analizzato da quattro gruppi di lavoro centrati su altrettante tematiche giudicate essenziali per una corretta medical education.

L’atelier pedagogico sarà seguito, nelle prossime riunioni della Conferenza, da una “Pillola Pedagogica”, e da un “Forum” in cui il dibattito sarà allargato a esperienze concrete su iniziative riferite da diversi Corsi di Laurea. Le tematiche saranno quindi notevolmente approfondite e troveranno spazio nei prossimi numeri di Medicina e Chirurgia.

L’articolo affronta e introduce questo tema importante in ambito internazionale, percepito come problema su cui deve essere posta grande attenzione, perché basilare per una funzione docente efficace ed efficiente. La Funzione docente deve rappresentare il punto di partenza di un processo di formazione che non si esaurisca nei sei anni di corso, ma che sia la base metodologica, etica e riflessiva che duri tutta la vita; per una vita professionale corretta.

 Necessità del discorso etico nella pedagogia

L’etica è quel ramo della filosofia che studia i fondamenti oggettivi e razionali che permettono di assegnare ai comportamenti umani uno status deontologico, ovvero distinguerli in buoni, giusti, o moralmente leciti, rispetto ai comportamenti ritenuti cattivi o moralmente inappropriati.

L’etica del docente si colloca a pieno titolo all’interno del vasto corpo filosofico delle etiche professionali. L’insegnante è infatti doppiamente soggetto all’etica, in quanto formatore di competenze sociali e cognitive.

È proprio dall’azione del docente che possiamo ricavare le formule di un’etica della professionalità insegnante. L’insegnante educa (saperi, cultura, norme) e valuta (l’apprendimento e la formazione); orienta, guida e sostiene l’allievo, modellando su di lui tutto il suo operato; opera all’interno di una micro-comunità (la classe, la scuola, l’università) e partecipa attivamente ai suoi processi, ai suoi problemi, alle sue pratiche; progetta, svolge un ruolo di programmatore, di costruttore di itinerari teorici e pratici, didattici e formativi (Cambi, 2008).

E’ quindi necessario che il docente si ponga il compito di fissare la propria etica, di esplicitarla, di articolarla a sua volta e di pubblicizzarla in modo adeguato.

Come costruire l’etica? Con l’esperienza formativa e con quei saperi della formazione che le sono strettamente congiunti. Fissando in norme e regole il proprio profilo e dando corpo a un codice deontologico capace di sorreggere e orientare tutto il lavoro dell’insegnante (Cambi, 2008).

L’etica del docente si colloca nel punto di unione e di tensione di tre forme etiche: l’etica dell’impegno, l’etica della responsabilità e l’etica della comunicazione; anche se la dialettica tra le forme etiche deve trovare il giusto baricentro sulla responsabilità per poter essere organicamente costruttiva.

L’etica del docente innanzi tutto reclama un’etica dell’impegno. Essa si presenta come un assumere su di sé un compito, farlo proprio, attivarlo in tutto il proprio agire e connetterlo allo scopo di quell’impegno, che è il formare, il partecipare attivamente a un processo che, insieme, coinvolge il docente e l’allievo. Impegnarsi significa collaborare, pianificare obiettivi e darsi compiti. E l’impegno si costruisce sulla comprensione e sulla fedeltà. Comprensione della differenza di colui per cui ci si impegna e fedeltà al proprio progetto, pur mutabile che sia. Senza impegno il processo formativo collassa a routine.

In secondo luogo vi è necessità di un’etica della responsabilità, sia come correlazione razionale tra mezzi e fini, quindi efficiente, controllabile, sia come investimento per il giovane, per il suo futuro, per la sua integrità possibile. Etica istituzionale da un lato, etica interpersonale dall’altro, ma in cui la responsabilità sta al centro, come dispositivo-chiave.

Poi c’è l’etica della comunicazione, che verte sull’ascolto, sul dialogo, sull’argomentazione, sulla conversazione. E’ la dimensione tipica dell’insegnare, perché si fonda sulla parola, sul confronto, sullo stare insieme, gestiti in forma sempre più razional-comunicativa (Cambi, 2008).

L’etica nell’insegnamento della medicina

L’etica assume un valore particolarmente importante quando il docente, che è anche medico, dovrebbe essere rappresentativo del paradigma della professione medica, e quando lo studente, che sarà il medico del nostro prossimo futuro, si trovano in un contesto clinico e relazionale caratterizzato dalla presenza del paziente, che non sempre trova beneficio diretto nell’ambito della didattica tutoriale. Infatti, nel tipico setting clinico, in cui i docenti insegnano al letto del paziente e gli studenti sperimentano le basi del saper fare e del saper essere, i pazienti rappresentano la parte ancor più debole , perché possono essere esposti a rischi di tipo fisico, psicologico e di cura, talora senza il loro pieno consenso (Jagsi e Lehmann, 2004).

Tale complesso rapporto, quello tra docente, equipe professionale, studente e paziente, non può essere quindi lasciato alla semplice occasionalità.

Dovrebbe essere chiaro, anche se molto deve essere ancora fatto, che il rapporto tra formazione clinica, formazione medico-scientifica e formazione umanistica rappresenta un nodo cruciale nel campo della medical education, perché ne costituisce il costrutto epistemico e relazionale. I tre aspetti dovrebbero integrarsi nella consapevolezza che, per un medico, l’uno non possa darsi senza l’altro (Binetti, 2011a,b).

L’etica della medical education dovrebbe quindi basarsi sui principi di base dell’agire medico (respect for individuals, beneficience and distributive justice) proprio per la presenza del paziente (Jagsi and Lehmann 2004), e sui valori autentici della “professionalità” (Stern, 2006). La formazione di medici che siano anche veri professionisti dovrebbe basarsi non solo sui valori importanti dell’efficacia clinica e della medicina basata sulle evidenze (lifelong learning, clinical effectiveness, randomized controlled trials and systematic reviews, evidence based practice, searching, appraising and presenting the evidence), ma anche e soprattutto sui valori della responsabilità e dei rapporti interpersonali corretti (commitment, caring, competence, integrity, confidentiality, ability to work in team, concern for the individual and the community, education and training, contributing to the knowledge base of the discipline) e sul possesso/acquisizione di qualità umane (creativity, the habit of truth, the sense of human dignity, tenderness, kindliness, human intimacy and love) (Stern, 2006). Se la “professionalità” costituisce l’apice della nostra formazione, all’interno di una struttura che deve essere solida ed efficiente, le basi di questa struttura devono essere rappresentate dalla competenza clinica, da buone capacità a saper comunicare e dalla ottima conoscenza dei principi etici, legali e deontologici, mentre i pilastri sono rappresentati dall’eccellenza, dall’umanità, dalla responsabilità e l’altruismo. Una buona professionalità non può esistere se non è sostenuta da queste fondamenta e da queste colonne portanti (Figura 1) (Stern, 2006).

Figura 1

Insegnare i valori della professionalità

Numerosi esempi potrebbero essere tratti dalla lettura di quanto organizzato a livello internazionale nei corsi di laurea in Medicina e Chirurgia (Familiari, 2000; Torsoli et al., 2000; Familiari et al., 2006; Stern e Papadakis, 2006; Mueller, 2009; Snelgrove et al., 2009; Gallo, 2010; Consorti et al., 2011).

Il dato inequivocabile che emerge è quello della necessità assoluta a dover rappresentare e insegnare tutti i valori della professionalità in un contesto educativo complesso, ben programmato sia per quanto riguarda gli obiettivi didattici, che per la metodologia dell’insegnamento e la corretta valutazione dei risultati (setting expectations, providing experiences, evaluating outcomes), e che sia in grado di fornire le basi culturali e metodologiche corrette per lo sviluppo di tali valori nello studente (Stern e Papadakis, 2006). Anche l’insegnamento in sé è una competenza, e come tale, prevede dei core values ben definibili ed implementabili: tra questi, alcuni ne rappresentano la base, come le capacità di learner engagement, learner centeredness, adaptability e self-reflection (Srinivasan et al., 2011).

All’interno di un modello organizzativo ben strutturato, si trova il docente con i suoi “comportamenti” che dovrebbero essere un esempio rigoroso di professionalità e di eticità non solo nel contesto educativo, ma anche al di fuori dell’Università e dell’Ospedale. Nel processo educativo in sé stesso dovrebbe essere implicito il concetto secondo il quale il docente debba saper aiutare lo studente nell’apprendere le basi morali della pratica medica sulla base di un modello di condotta esemplare che sia rappresentivo di un vero e proprio “modello di vita” condotta su solide basi morali (Tan et al., 2011).

E’ purtroppo vero che, in alcuni casi, pur mantenendo integro nella formalità il rapporto docente/studente, anche in modo inconsapevole, si possono instaurare dinamiche personali del tutto negative quali: la presenza di relazioni inappropriate, la violazione delle regole del corso su programmi od orari, la non osservanza dei propri doveri didattici, l’imposizione agli studenti di punti di vista del tutto personali, un comportamento non imparziale o l’evidenza di favoritismi, il mettere lo studente in difficoltà o denigrarlo, l’invasione della privacy dello studente, il coinvolgimento dello studente in comportamenti non etici (Larkin e Mello, 2010; Singh, 2010). Tale lista potrebbe essere ancor più lunga, ed è quindi sicuramente incompleta. Questi comportamenti, anche se tratti dalla letteratura internazionale, sono sicuramente applicabili alla realtà italiana e tali da vanificare, di fatto, qualsiasi sforzo organizzativo messo in essere da chi ha responsabilità di coordinamento nel Corso di Laurea.

Una prima risposta importante a quanto evidenziato dovrebbe consistere in un miglioramento significativo delle conoscenze sulla necessità morale del senso di cooperazione sociale, della lealtà, dell’imparzialità, della reciprocità e del rispetto, valori fondanti del duplice ruolo di medico e di docente. In realtà, anche se esistono norme, codici etici e di comportamento all’interno delle Università, tuttavia pochi sono i programmi finalizzati ad insegnare ai docenti dei corsi di medicina le buone norme della pedagogia e le corrette relazioni che debbono intercorrere tra i componenti del patto formativo, con un “modus operandi” che divenga anche emblema del corso di laurea (Larkin e Mello, 2010).

Lo scopo di questo atelier pedagogico e delle altre iniziatitive ad esso collegate che seguiranno, si pone proprio in questo ambito.

Alcune proposte dedicate alla diffusione delle “buone pratiche” tra i docenti possono essere tratte dalla letteratura, anche se alcune di esse sarebbero difficilmente realizzabili nel nostro sistema didattico (Brooks, 1995; Glick, 2001; Gitanjali, 2004; Singh, 2010).

Innanzi tutto, dovrebbe essere delineato e condiviso un chiaro documento di condotta morale, in cui siano però chiaramente descritte le sanzioni previste in caso di non osservanza (Gjtaniali, 2004).

Dovrebbe poi essere attuata una attenta soveglianza degli standard previsti per gli esami, tenendo nella giusta considerazione il fatto che chi imbroglia agli esami, continuerà ad imbrogliare anche dopo, nel corso della carriera professionale (Brooks, 1995; Glick, 2001). Debbono pertanto essere programmate regole chiare che siano in grado di migliorare l’imparzialità e la correttezza degli esami stessi (Gjtaniali, 2004).

Altro elemento interessante su cui riflettere è l’ipotesi di prevedere un regime di premialità (progressione di carriera, integrazioni economiche?) anche per il comportamento del docente, poichè gli studenti tendono a conformarsi al “modello” del loro docente, costruendo così dei modi di essere che saranno difficilmente modificabili in seguito (Singh, 2010).

Anche se i questionari degli studenti sono attualmente utilizzati dal sistema universitario italiano, pur tuttavia il feed-back degli studenti andrebbe utilizzato anche per monitorizzare il comportamento ed il modo di insegnare del docente (Singh, 2010), ed il livello di professionalità dell’intero corso di laurea (Todhunder et al,. 2011).

Infine, soprattuto chi coordina e dirige il Corso di Laurea o la Facoltà dovrebbe comportarsi in modo esemplare, anche nell’ottica del buon nome dell’Istituzione che si rappresenta (Gjtaniali, 2004).

Come può notarsi, alcune proposte sono di non facile attuazione, mentre altre potrebbero essere realizzate con semplicità; pur tuttavia, anche se il percorso può apparire complesso, esso deve essere affrontato con chiarezza, lealtà e onestà intellettuale.

 Quattro laboratori di approfondimento

Il Decision Making dell’etica della docenza si dovrebbe fondare su tre punti chiave che possono rappresentare una triade. In primo luogo vi è l’universo delle relazioni tra i diversi “attori” interessati (relationship amongst individuals); in secondo luogo il rispetto delle normative, delle leggi e dei codici di condotta (laws, rules, regulations and code of conducts) e in ultimo, ma non per importanza, il rispetto dei valori e delle influenze culturali (values and cultural influences) (Figura 2) (Singh, 2010).

Figura 2

La commissione Innovazione Pedagogica, al termine di una serie di riunioni preparatorie nelle quali sono stati discussi tutti gli aspetti correlati a tale importante problema, ha deciso di incardinare la discussione in quattro laboratori di approfondimento, così definiti: Problemi etici nell’insegnamento, Etica delle relazioni interpersonali tra gli attori della didattica, Problemi etici nella valutazione dell’apprendimento, Etica dell’organizzazione e della programmazione I laboratori sono stati coordinati dai colleghi della Commissione (hanno svolto le funzioni di esperti e facilitatori), e vi hanno partecipato molti dei Presidenti di Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia presenti alla Conferenza che si è tenuta a Parma. I quattro gruppi di lavoro sono stati aperti da altrettanti trigger narrativi, opera di quattro anonimi studenti iscritti ai corsi di laurea in Medicina e Chirurgia italiani, e raccolti dagli studenti SISM. Tali contributi sono riportati integralmente.

 Le conclusioni dei quattro laboratori

Al termine del lavoro nei laboratori, esperti e facilitatori dei quattro gruppi di lavoro hanno riferito in plenaria sulle conclusioni raggiunte.

Laboratorio No. 1
Problemi etici nell’insegnamento:

Trigger narrativo:

Sono uno studente che frequenta le lezioni, i tirocini e tutto ciò che la didattica universitaria mi offre. Compatibilmente con la logistica quotidiana, si capisce, ma diciamo che sono presente a quasi tutte le lezioni. Perché frequentare le lezioni? Perché si è convinti che rispetto allo studio a casa sui libri la lezione possa darti qualcosa in più, che la spiegazione del professore faciliti la comprensione dell’argomento e l’esperienza del docente possa dirigere lo studio in modo mirato e critico.

 A volte però, e non sono casi isolati, durante il corso di studi si assiste a lezioni che arricchiscono ben poco il nostro bagaglio culturale. Professori che arrivano tardi a lezione, che non si presentano o mandano all’ultimo uno spiazzato specializzando a fare lezione.

Durante le lezioni troppo spesso si leggono diapositive troppo scritte e troppo teoriche. Raramente si impostano le lezioni a partire dai problemi, dai casi clinici.

 Per quanto riguarda i contenuti, poi, a volte si rimane un po’ perplessi. Alcuni docenti che dovrebbero spiegare un argomento ed essere esaurienti, tralasciano volontariamente parti di programma, e se viene loro chiesto il motivo spesso la risposta è: “queste cose non vi serviranno, o sono troppo specialistiche”, o più spesso “anche se vi parlassi della terapia non vi rimarrebbe nulla, certe cose finchè non le vedete in clinica non vi rimangono”.

Ma quando dovremmo vederle se a tirocinio siamo 15 in una stanza e spesso il tutor finito il breve giro visite ci dice di andare pure perché siamo troppi e non ci sarebbe comunque modo di fare niente di pratico?

Le occasioni in cui hai la fortuna che durante un tirocinio il tutor si trattenga a spiegarti qualcosa o ti coinvolga nelle attività cliniche sono rarissime e preziose.  Ma la Medicina è almeno in parte un’arte e l’arte non è come le nozioni, non si impara solo dai libri, nè dalle slides delle lezioni, si impara osservando, scavando dentro noi stessi e scovando quale nel profondo del nostro cuore sia la nostra vocazione, in che modo le nostre qualità professionali ed umane vogliono mettersi al servizio del prossimo nell’ambito dell’assistenza sanitaria. Insomma, imparare la medicina è un po’ imparare l’arte del guardarsi dentro e del mettere al servizio del paziente le nostre qualità migliori.

L’insegnamento è il momento formativo in cui il maestro sa di essere un anello fondamentale nella formazione del discente e perciò adotta in ogni circostanza un atteggiamento quanto più corretto ed etico possibile, perchè sa che non si insegna solo quando si fa lezione, ma che un allievo impara dal suo maestro osservandolo in ogni suo minimo gesto ed atteggiamento, per cui il suo comportamento dovrebbe essere quanto più corretto ed etico possibile. 

Eppure, sono all’ordine del giorno docenti che non sono puntuali, che non ricevono gli studenti, che non sono reperibili, che non si presentano agli appuntamenti o alle lezioni, che non hanno un comportamento rispettoso verso i pazienti, gli studenti, i colleghi.

Impossibile pensare che crescere, nel momento in cui ci stiamo formando, e quindi siamo più vulnerabili, in questo ambiente e con questi esempi non influenzi il nostro futuro, professionale ed umano.

 La sintesi conclusiva del dibattito

Vi sono tanto implicazioni etiche nell’insegnamento che dell’insegnamento, nel senso che occorre insegnare in modo eticamente fondato e bisogna formare lo studente in Medicina all’etica medica.

Etica nell’insegnamento: l’etica deve essere alla base del patto formativo, dell’alleanza tra docente e studente. Per formare il docente ad un insegnamento etico occorre coltivare il suo umanesimo: le medical humanities non sono solo necessarie per la formazione dello studente ma anche per quella del docente. Contenuti e modalità della formazione devono tener conto di aspetti come l’educazione alla interculturalità (religiosa, di cultura, di genere….) nella relazione, l’abitudine al risparmio delle risorse come strumento etico per assicurare un più ampio accesso alla salute, e l’insegnamento del rispetto dell’integrità fisica e psicologica del malato, in particolare, e di qualunque interlocutore: lo studente deve imparare ad avere relazioni interpersonali e interprofessionali valide e non un rapporto del tipo tra fornitore di prestazione e acquirente.

Insegnamento dell’etica: non ci si può limitare ad un “corso di etica”: la formazione dello studente al comportamento etico deve durare per il tutto il percorso degli studi (corsi di metodologia) e può avvalersi anche dello strumento dei casi clinici simulati nei quali possono essere inserite facilmente implicazioni etiche. Obiettivo di questa formazione è quello di creare medici che abbiano – e mostrino – dignità, tenerezza, gentilezza, umanità e amore.

Laboratorio No. 2
Problemi etici nella valutazione dell’apprendimento:

Trigger narrativo:

Esame del terzo anno, sprint finale di ripetizione del programma, studio da più libri e tanta paura di non rendere all’esame in modo consono allo studio fatto.

Il Prof. formula la sua prima domanda. Purtroppo non sembra troppo soddisfatto della mia risposta. Seconda domanda: morbo di… Su questo sono ferratissima! L’ho studiato benissimo, mi prendevo in giro da sola dicendo che ne soffrivo in forma paucisintomatica!!! Invece, ben presto, mi rendo conto che non lo sta soddisfacendo nemmeno quella risposta. Non capisco, e così, sicura di ciò che avevo studiato e con poca voglia di ripetere l’esame, gli chiedo gentilmente di potergli mostrare ciò che c’è scritto sul libro.

Mi dice, dopo averlo sfogliato con sufficienza, che avevo ragione, ma che mi consigliava di non usare quel libro. Allora gli rispondo d’istinto che in realtà quel libro ce lo aveva consigliato lui il primo giorno di lezione, tanto è vero che il primo rigo scritto nel mio quaderno sotto la data è proprio il nome del libro. Squilla il suo telefono e mi avverte che se non rispondo alla domanda successiva come vuole lui mi boccia. Fine della telefonata.

La storia non finisce qui … Vado a parlargli il giorno dopo e mi dice che per passare l’esame decentemente avrei dovuto studiare da un altro libro molto più specialistico. Così torno a casa un po’ perplessa, sicura che non avrei avuto vita facile.

Mesi dopo ho scoperto che l’autore del libro consigliato il primo giorno di lezione e il mio Prof. avevano litigato. E io durante l’esame avevo fatto presente al Prof. che quel libro, scritto dalla persona che gli aveva dato dell’incompetente solo un mese prima, ce lo aveva detto proprio lui di comprarlo!!!

Questo episodio mi ha fatto riflettere sul modo in cui noi studenti siamo valutati. Certo, magari non saremo sempre preparati e meritevoli di voti altissimi, ma le modalità di esame troppo spesso sono approssimative, sbrigative, superficiali.

Ascoltando gli studenti parlare è frequente sentire frasi del genere: “Per passare l’esame quella patologia devi farla dal libro X, il prof. la vuole da lì, poi il resto puoi studiarlo dall’altro libro”, “la terapia però studiala sugli appunti, lui vuole sentirla in quel modo”. Dove è finita la fantasia dello studente, l’approfondimento personale di studio nel cercare libri, articoli, trattati, ecc. se i docenti per promuovere all’esame vogliono sentirsi dire l’argomento in un determinato modo che si diffonde ben presto tra gli studenti? Preparare un esame sta diventando un conto matematico: “imparati questo paragrafo dal libro X, questo capitolo dal libro Y, questo elenco dagli appunti, e sicuramente sarai promosso”.

Per non parlare del fatto che, a parte l’aspetto teorico e nozionistico, nella valutazione non viene mai approfondita la competenza dello studente nello svolgere attività di pratica clinica (esame obiettivo, anamnesi, prelievo venoso, esplorazione rettale, ecc.) né le capacità comportamentali nell’approccio al paziente o nell’affrontare situazioni umane particolari (fine vita, disabilità, patologie psichiatriche, situazioni sociali particolari come disoccupazione, tossicodipendenza, abbandono, ecc.).

Considerando che in didattica tutto ciò che non viene valutato, o viene valutato male, non esiste, poiché è chiaro che lo studente non lo approfondirà nello studio e nella sua preparazione, siamo sicuri che questo modo di valutare sia consono alla formazione di futuri medici chirurghi capaci di svolgere al meglio la loro professione, sia dal punto di vista delle conoscenze teoriche che pratiche e comportamentali?

La sintesi conclusiva del dibattito

La valutazione dello studente ha implicazioni etiche generali nel dominio della relazione docente-studente e ne ha altre, più specifiche, nell’ambito del processo di valutazione in sé.

Deontologia ed etica della relazione docente-studente nel contesto della valutazione: in corso di esame, occorre vincere i pregiudizi sulle modalità di presentazione dello studente e imparare a controllare i condizionamenti che derivano dal suo aspetto estetico. L’esame rischia di assumere l’aspetto di una “valutazione incondizionata”, di un esercizio di potere che compromette la relazione di crescita tra docente e studente: la valutazione dell’apprendimento deve essere vissuta come un’occasione di crescita dello studente e non di svalutazione della sua persona (che porta alla disperazione e all’abbandono).

Deontologia ed etica della valutazione: l’esame è un’occasione per verificare o valutare? Il concetto di valutazione è più ampio e intersoggettivo di quello della verifica: non sempre la “risposta esatta” è migliore di una risposta parzialmente inesatta ma che deriva dal ragionamento dello studente. L’etica della valutazione deve basarsi sulla formulazione di un assessment contract: all’inizio dei corsi si dovrebbe dare non il “programma di insegnamento” ma il “programma di apprendimento”: le regole vanno date e poi rispettate, ma devono essere eticamente valide. Al contrario, attualmente non c’è sincronia tra insegnamento, apprendimento e valutazione: l’insegnamento condiziona l’esame mentre dovrebbe essere l’inverso, per cui l’introduzione di un approccio etico nell’apprendimento e nella valutazione richiede un cambiamento sostanziale dell’approccio didattico. Imparare ad usare le tecniche docimologiche fa parte dell’etica dell’attribuzione del voto.

 Laboratorio No. 3
Etica delle relazioni interpersonali tra gli attori della didattica (studenti, docenti e pazienti):

Trigger narrativo:

Una normale mattina di lezione del terzo anno di medicina. La lezione avrebbe dovuto iniziare 20 minuti fa, ma il professore non si vede. Gli studenti parlano, scherzano e ingannano il tempo.

Entra il professore. L’aula si fa improvvisamente silenziosa, un silenzio che indica rispetto, rispetto per l’arrivo del Prof, didatta e nostro punto di riferimento come esempio di comportamento e di cultura, e io sono li tra le prime file per seguire da vicino cosa ha da offrirmi.

La lezione sta per iniziare, ma il telefono suona, mi guardo intorno, chi ha lasciato il telefono acceso a lezione? Ma il suono non viene da dietro di me, ma tutto intorno a me, dagli amplificatori. E’ il prof che ha lasciato il telefonino acceso e risponde. Sarà una cosa urgente, è il primario!

E invece no, dal tono la conversazione sembra uno scambio di saluti e di battute tra amici, con tanto di appuntamento per il fine settimana…E a noi tocca ascoltare la conversazione.

Chiude dopo un po’, ma non spegne il cellulare, potrebbe sempre arrivare un’altra chiamata!

Un mio collega alza la mano e con un tono critico ma educato fa notare al professore che sono stati persi più di 10 minuti di lezione per una telefonata e che gli studenti sono perplessi e un po’ infastiditi.

Con estrema calma e con il sorriso sulle labbra risponde: “ Potrete sopportare dieci minuti di pausa, non credo che vi dispiaccia poi così tanto riposarvi un attimo. E poi si sa, le mie ore non sono troppo intense ed estenuanti, ma i contenuti e quello che si impara sapete che sono superiori alla media delle vostre lezioni. Ad esempio, le lezioni del mio collega, il prof. X, iniziano sempre puntualissime, spaccando il minuto e durano fino alla fine delle ore, a volte anche dieci minuti in più, solo perché è logorroico e si perde, ma ditemi che sono lezioni interessanti? Insomma mica è importante quanto spieghi, ma cosa spieghi e come lo fai!”.

Ci siamo guardati un po’ imbarazzati. E’ stato fastidioso e spiacevole sentire un docente parlare male di un suo collega proprio con noi studenti.

Forse noi studenti meritiamo di più. Docenti che arrivano tardi a lezione, che rispondono al telefono nelle ore di lezione e parlano indisturbati in aula senza nemmeno staccare il microfono. Docenti che criticano altri colleghi certo non ci abituano ad una collaborazione e ad un team working che invece dovrebbero essere parte integrante del mestiere che andremo ad esercitare. Non vorrei un domani esercitare la professione in questo modo, con superficialità, mancanza di rispetto e autoreferenzialità, né come clinico né come docente.

 La sintesi conclusiva del dibattito

Il laboratorio si è aperto con la presa d’atto che il Gruppo di lavoro Innovazione Pedagogica, che ha organizzato questo atelier, è partito dalla scelta di delimitare il campo all’etica delle relazioni che vengono agite nel contesto specifico del C.L. in Medicina. Il Gruppo ha preso atto che tali relazioni sono assai complesse ma possono essere ricondotte ad una rete che coinvolge i diversi attori della didattica: i docenti (medici), gli altri professionisti sanitari, gli studenti e i pazienti. Si è allora convenuto di identificare lo studente come l’elemento centrale di questa rete di relazioni, in quanto ne è l’anello debole, da proteggere dalle relazioni negative che si instaurano tra docenti, tra curanti e malati, e tra figure professionali diverse: tutto ciò che ostacola la formazione dello studente è un vulnus etico. Si è quindi passati ad identificare una serie di parole-chiave dell’etica in quattro specifici contesti relazionali:

Relazione docente-studente:

  • Il docente deve mostrare rispetto per la persona dello studente, indipendentemente dalla sua identità di genere, dal suo credo religioso, dal gruppo etnico e sociale di appartenenza, e deve insegnare allo studente il rispetto reciproco tra studenti.
    • Il docente deve aiutare lo studente a valorizzare i propri punti di forza e a minimizzare i propri punti di debolezza, stimolando l’umiltà dello studente ma evitando ogni forma di didattica per umiliazione.
    • Il docente trasmette valori, stili di vita, modalità di relazioni (il saper essere, il professionalism) anche inconsapevolmente: deve divenire cosciente dell’insegnamento per induzione vitale che dà.
    • Alla valutazione dell’apprendimento va affiancata quella dell’insegnamento, da farsi in modo indipendente da parte di studenti e di docenti terzi (peer review).

Relazione (docente-docente)-studente:

  • Un docente non deve mai delegittimare o sconfermare un altro docente agli occhi dello studente.
  • Il rispetto per il collega non deve però andare a scapito del rispetto per lo studente (le criticità non vanno coperte ma affrontate nell’interesse dello studente). I Coordinatori (di Corso Integrato, di Semestre) devono rappresentare in modo autorevole le istanze degli studenti nei confronti dei docenti e trovare le soluzioni attuabili, formalizzando e facendo rispettare le regole del gioco, anche proponendo sanzioni.

Relazione (docente-prefessionista sanitario)-studente:

  • Il docente-medico deve mostrare/insegnare rispetto e spirito di collaborazione con tutti i professionisti della salute.
  • L’insegnamento interprofessionale ha una valenza etica in quanto coinvolge e dà piena dignità ad una serie di figure professionali diverse.

Relazione (docente-paziente)-studente:

  • Il docente deve mostrare/insegnare rispetto per il paziente, per la sua persona, e insegnare allo studente a vedere in lui un partner competente nel processo di cura. Il rispetto per il paziente include la sua privacy (non portare mai il paziente in aula) e la sua integrità come persona: insegnare a rispettare il cadavere, a vedere in lui una persona deceduta, non un oggetto.
  • Il docente deve presentare gli studenti ai pazienti come futuri membri della professione medica, e responsabilizzare i pazienti nella collaborazione al loro processo formativo.
  • Il docente deve insegnare allo studente come stabilire un rapporto professionale corretto con il paziente ed ottenerne la compliance.

Laboratorio No. 4
Etica dell’organizzazione e della programmazione:

Trigger narrativo:

Stamattina mi sono svegliato molto eccitato, è il mio primo giorno di tirocinio nel reparto che forse vorrei frequentare per la tesi.

Siamo in tantissimi, i tirocinanti intendo, ed io sono troppo dietro per vedere come si fa un giro visite come si deve. Non che ci sia chissà cosa da vedere, il dottore a cui faccio riferimento svolge rapidamente il suo compito di lavoro e scompare in un attimo nell’ambulatorio: ”Se mi cercate sono di là”.

Mi chiedo, ma non sarebbe possibile programmare il tirocinio in modo che ci sia un numero decente di studenti per ogni tutor? Non sarebbe possibile fare in modo che il tutor che si impegna ad accompagnare gli studenti in reparto abbia tempo sufficiente per insegnar loro qualcosa? Forse non è possibile. Forse io sono giovane e vedo le cose in modo troppo semplicistico.

Mi cambio e vado a lezione.

Appena mi siedo mi accorgo che l’argomento della lezione è già stato trattato altre volte, da altri docenti, in altri corsi. Qualcuno di noi lo fa notare al docente, ma lui non è il docente del corso, è solo un medico del reparto commissionato dal professore a svolgere la lezione. Non aveva idea che l’argomento fosse già stato fatto, si scusa ma, dice, non sa di cos’altro parlarci, ha con sé solo quella lezione. Molti si alzano, altri restano, aprono altri libri, studiano.

Ancora una volta rifletto. Mi domando: possibile che nessuno sia a conoscenza dei programmi che vengono svolti nei singoli corsi e non possa inoltrarli ai docenti in modo da evitare spiacevoli sovrapposizioni? Possibile che quando un docente stila il programma delle sue lezioni non si interessi delle materie e degli argomenti che lo studente ha già studiato nei corsi precedenti e sta studiando nei corsi contemporanei al suo?

Possibile che non gli interessi quali materie lo studente conosca in modo da integrarsi alle conoscenze già fatte proprie per arricchirle? Possibile che questo non sia ritenuto importante?

Ancora una volta mi rispondo che forse sono troppo giovane, troppo semplicista. Forse c’è una ragione logica per cui quello che a me sembra ovvio in realtà risulta inattuabile.

Lo spero con tutto me stesso perché io all’Universtà ci vado tutti i giorni, pago le tasse, compro i libri e impiego molta della mia giornata a studiare o a seguire lezioni e tirocini. Magari non sono lo studente perfetto, ma merito comunque il massimo impegno nel cercare di fornire a me e ai miei colleghi la didattica e la formazione migliore possibile.

 Vado a casa, sperando che la giornata successiva sia più produttiva.

La sintesi del dibattito

Il laboratorio si è aperto con la presa d’atto che l’imperativo etico deve superare la fase dei buoni consigli e giungere ad un livello prescrittivo: le attività di pianificazione, programmazione e organizzazione vanno rinegoziate di anno in anno e vanno comunicate agli studenti, con un patto formativo esplicito.

Si è poi convenuto che il lavoro dei responsabili didattici (dai Presidenti di CL ai Coordinatori di Corso Integrato) si articola in tre fasi:

Pianificare: il Coordinatore deve informare e motivare, prima, e poi coinvolgere docenti e studenti interessati, perché il coinvolgimento attivo è indispensabile per ottenere risultati.

Programmare: va fatto un contratto d’onore (il patto formativo) tra docente e studente, ma questo deve essere formalizzato. Gli accordi vanno poi rispettati da una parte e dall’altra. Questo processo va rinnovato anno per anno, perché le cose cambiano.

Organizzare: l’organizzazione non può prescindere da condivisione e rispetto del patto formativo e richiede il reperimento di risorse adeguate. L’organizzazione didattica è più semplice per i corsi di base che non per quelli clinici, ma ciò non deve impedire una corretta organizzazione delle attività clinica: la complessità deve essere uno stimolo e non un ostacolo

 Un commento conclusivo

I trigger narrativi elaborati da studenti dei corsi di laurea italiani non lasciano nessuno spazio all’immaginazione, descrivendo situazioni drammaticamente reali e viste da ognuno di noi.

Un ulteriore forte impulso a proseguire in questo percorso si deve trarre da uno studio longitudinale condotto sugli studenti del Jefferson Medical College, in cui si dimostra che il calo significativo di empatia negli studenti si verifica nel terzo anno. Gli autori concludono: It is ironic that the erosion of empathy occurs during a time when the curriculum is shifting toward patient-care activities; this is when empathy is most essential (Hojat et al., 2009).

L’atelier si è concluso con una discussione su quanto riferito dai Gruppi di lavoro e con l’invito, espresso da Pietro Gallo a nome del Gruppo Innovazione Pedagogica, ad approfondire i temi trattati nelle Sedi (in Consiglio di Corso di Laurea, in Commissione Tecnica di Programmazione, in Commissione Medical Education, in un Gruppo nominato ad hoc) in modo che il prossimo Forum possa essere una grande assise condivisa e un momento di elaborazione “alta” da parte della nostra Conferenza.

Non deve essere mai dimenticato che l’obiettivo finale è quello di assicurare la cura efficace della salute del prossimo futuro, con i futuri medici, della cui formazione abbiamo, oggi, la grande responsabilità.

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Familiari G., Consorti F., Valanzano R., Vetore L., Casacchia M., Caruso G., della Rocca C., Gallo P., Per un insegnamento eticamente fondato nei CLM in Medicina e Chirurgia, Medicina e Chirurgia, 54: 2383-2391, 2012. DOI: 10.4425/medchir2012-54-3