Distribuzione dei CFU negli SSD dei CLM in Medicina e Chirurgian.58, 2013, pp.2578-2579, DOI: 10.4487/medchir2013-58-3

Abstract

Working group was commissioned to evaluate the distribution of credits in the various branches of Medical Degree Courses. We can observe wide variations in the distribution of credits in the various scientific fields (SSD). It would be a guideline wich has the aim of rationalizing training process, taking into account the declared homogeneity of the core curricula of various SSD and then the relevance of credits.

Articolo

Il gruppo di Lavoro (GL), composto dai Proff. Rosa Valanzano, Rossana Cavallo, Rossella Fulceri, Graziella Migliorati, Italo Angelillo e Luigi Demelia, è stato incaricato dalla Conferenza dei Presidenti di CdLMMC di valutare la distribuzione dei CFU nei  SSD delle varie sedi dei Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia italiani. L’analisi è stata effettuata su 28 CdL che hanno inviato i dati in oggetto. Sono pervenuti al GL i dati di ulteriori 7 sedi che non è stato possibile analizzare in quanto comprensivi di CFU di didattica frontale e di attività professionalizzante e non scorporabili tra loro. Il GL sottolinea che la tabella dei CFU/SSD è una iniziale elaborazione che continuerà nel tempo, monitorando la problematica ed ampliandola fino ad un’analisi completa di tutte le sedi italiane. La tabella allegata prende in considerazione i CFU di tutti i SSD presenti nei vari CdL , il valore medio dei CFU ed i valori minimi e massimi.

Si possono osservare ampie variazioni nella distribuzione dei CFU nei vari SSD; per fare alcuni esempi osserviamo come i CFU di BIO/09 varino da un minimo di 12 CFU ad un massimo di 21, quelli di BIO/16 da 11 a 20, quelli di MED/09 da 10 a 27 , MED/18 da 10 a 24 e così si potrebbe osservare per i vari SSD. Tutti i SSD sono rappresentati nelle diverse sedi, con ovviamente maggior carico in CFU per quei SSD che storicamente possono essere considerati “portanti” per un corso di laurea in Medicina e Chirurgia, siano essi di base o caratterizzanti. Peraltro alcuni SSD sono rappresentati da un basso numero di CFU ma comunque presenti nei CdL, in particolare SSD cosidetti “specialistici”. L’autonomia didattica ed organizzativa dei CdL nei vari Atenei consente di caratterizzare le peculiarità di un corso di laurea, talora evidenziando  con l’attribuzione di CFU delle eccellenze in particolari SSD. Peraltro un’ eccessiva discrepanza tra le diverse sedi potrebbe comportare un “laureato diverso” ed una difficoltà al riconoscimento di crediti formativi in occasione di trasferimenti di studenti tra diverse sedi, cosa che potrebbe divenire attuale con l’applicazione delle nuove normative di accesso a Medicina. Sarebbe quindi auspicabile una linea guida che abbia l’obiettivo di razionalizzare il percorso formativo, tenendo conto della dichiarata omogeneità dei core curricula dei vari SSD e quindi dei CFU di pertinenza. Bisogna comunque tener presente che il numero di ore di didattica frontale ed interattiva attribuite ai CFU delle diverse sedi varia da 8 a 12 ore,  per cui questo potrebbe giustificare una certa diversità. Le ultime slides presentate si riferiscono alla distribuzione dei Corsi Integrati (CI) nei vari CdLMMC ed in particolare è stata analizzata la distribuzione di alcuni di questi nei vari anni. Alcune sedi privilegiano la distribuzione di un CI in diversi anni, altri in diversi semestri, altri ancora propongono CI maggiormente compatti, ovviamente in relazione ai CFU dei SSD. Si osserva un’ampia variabilità, in alcune sedi anticipando insegnamenti clinici già dal 3° anno di corso, in altre preferendo una spalmatura dell’insegnamento in diversi anni con forse una migliore integrazione verticale dell’insegnamento. E’ ancora uno studio preliminare che ha interessato 35 CdL e che il GL intende ulteriormente discutere ed approfondire presentando i dati in una futura Conferenza.

MEdchir_58_3

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Demelia L., Angelillo I., Casti A., et al., Distribuzione dei CFU negli SSD dei CLM in Medicina e Chirurgia, Medicina e Chirurgia, 58: 2578-2579, 2013. DOI:  10.4487/medchir2013-58-3

Studio individuale e studio guidato. Concetti, bisogni e approccin.58, 2013, pp.2596-2598, DOI: 10.4487/medchir2013-58-8

Abstract

The individual study occurs when the students take the initiative to learn with or without the help of other, when they assess their own learning needs, the resources and strategies needed, as well as when they evaluate the results achieved. This type of studying cannot be lower than 50% of the amount of time dedicated par each European Credit Transfer and Accumulation System (ECTS). The ability to study alone is learnt and refined in the course of the life. The student becomes responsible for his/her learning and acquires independence thanks to a process that often is carried out under the guide of the teachers and tutors, through strategies such as the assisted learning, which can be intensified or softened according to the students needs, to their profile and to the available resources. The level of the individual study abilities might be measured and represents the result of an effective guide delivered by teachers/tutors.

Articolo

Quando lo studente assume l’iniziativa di apprendere con o senza l’aiuto di altre persone, individuando i suoi bisogni di apprendimento, le risorse e strategie necessarie sino alla valutazione dei risultati, siamo di fronte allo studio individuale (Knowles, 1975): ovvero, a uno studente co-responsabile del proprio apprendimento, non ancora completamente indipendente ma in grado di esserlo in futuro, grazie ad un percorso di crescita che realizza in collaborazione al docente/tutor (Garrison, 1992). Per la sua rilevanza, lo studio individuale è stato riconosciuto formalmente in una quota parte del tempo di ciascun Credito Formativo Universitario (CFU). Già nel 2001 (Decreto Interministeriale 2 aprile 2001, art 4), infatti, si affermava che “… la frazione dell’impegno orario complessivo riservata allo studio personale, o ad altre attività formative di tipo individuale, non può essere superiore al 30%”. Concretamente, solo a titolo di esempio, per un CFU del valore di 25 ore, dovevano essere riservate allo studio individuale almeno 8 ore. Più recentemente, con il Decreto Interministeriale del 19 febbraio 2009, art. 4, si è definito che l’ammontare del tempo da dedicare allo studio individuale non può essere inferiore al 50% e che in tale computo non può essere incluso il tirocinio che non sembra avere bisogno, pertanto, di un tempo individuale di studio. All’interno di questa cornice normativa, in un Corso di Studio (CdS) con 96 CFU dedicati a lezioni teoriche, sono attese 2400 ore (96×25) di cui almeno 1200 riservate allo studio individuale, circa 400/anno (per la 2a, 3a e 4a classe di laurea); tali ore sono 1440, circa 480/anno per l’infermieristica e l’ostetricia in cui ciascun CFU vale 30 ore.

Il tempo da dedicare allo studio individuale è disciplinato dalla normativa che ne ha aumentato la quantità da riservare: si tratta di un tempo importante, difficile da pianificare (non è di norma riportato nei calendari didattici), che non rappresenta ovviamente tutto lo studio necessario per affrontare un CdS; un tempo che lo studente deve saper gestire o essere aiutato a gestire.

Studio guidato, studio individuale e profilo degli studenti

Le abilità richieste per lo studio individuale, che comprendono la pianificazione, attuazione e valutazione del proprio lavoro di apprendimento (O’Shea 2003), sembrano determinate da alcuni fattori. Ad esempio, sono più abili coloro che hanno riportato un voto di maturità più elevato (Dante et al 2011), e coloro che hanno appreso un metodo di studio autonomo: studiare da soli, infatti, è qualcosa che si apprende e si affina lungo il corso della vita (Shauna 2010). Esistono inoltre delle profonde differenze tra studenti traditional e non-traditional (Jeffreys 2006). Lo studente traditional, che ha appena concluso la scuola secondaria (20,21 anni) è capace di cogliere molte informazioni ma è meno abile nell’elaborazione e nella capacità di fissarle a lungo nel tempo; è capace di gestire contestualmente più compiti ma ha difficoltà a realizzare esperienze di apprendimento significative e profonde; è uno studente supportato dalla famiglia, con discreto tempo a disposizione da dedicare allo studio (Jeffreys 2006). A fianco di questi studenti, nei CdS delle professioni sanitarie sono sempre più numerosi gli studenti non-traditional (> 30 anni), che affrontano i corsi di laurea come seconda carriera lavorativa o universitaria; sono meno abili nella ricerca di informazioni ed hanno metodologie di studio più tradizionali (appunti, sottolineatura), ancora su carta. Hanno meno tempo a diposizione perché hanno responsabilità famigliari o lavorative; sembrano inoltre più abili ad integrarsi nel mondo accademico ed a comprenderne le esigenze.

Esiste una relazione complementare tra studio individuale e studio guidato: lo studio guidato, infatti, è quella strategia adottata dal docente o dal tutor per guidare lo sviluppo delle abilità di studio individuale. Mentre gli studenti traditional, hanno bisogno ad esempio di guida a intensità decrescente su come affrontare la disciplina, quali materiali selezionare, come costruire mappe concettuali, per stimolare in loro l’autonomia e accompagnarla nel tempo; gli studenti non-traditional hanno invece bisogno di essere guidati maggiormente nella individuazione delle priorità perché hanno poco tempo a disposizione. Infatti, quando gli studenti non-traditional provengono da altri campi disciplinari o esperienziali, non è detto che il criterio di individuazione delle priorità che hanno imparato sia valido per lo studio della anatomia o di una clinica.

Pertanto, lo studio guidato potrebbe essere a maggiore intensità nelle fasi iniziali del curriculum, e progressivamente meno importante nelle fasi successive; potrebbe anche differenziarsi nell’intensità da studente a studente, in base ai bisogni di ciascuno. Le abilità di studio individuale possono infatti essere misurate con alcuni strumenti che informano sull’intensità della guida da offrire agli studenti:

– Self-Directed Learning Readiness Scale (SDLRS) (Guglielmino, 1983): consiste in un questionario auto-compilato composto da 57 item su scala Likert a 5 punti: il punteggio ottenuto va da 57 a 285 e indica le preferenze, attitudini e disponibilità allo studio individuale (Brockett 1991).

– Oddi Continuing Learning Inventory (OCLI) (Oddi et al. 1990): identifica le caratteristiche di coloro che sono in grado di apprendere in modo autonomo (Harvey 2006), è formato da 24 item che misurano la motivazione, l’efficacia e le caratteristiche cognitive.

– Self-Rating Scale of Self-Directed Learning (SRSSDL) (Williamson 2007): consiste in una scala di autovalutazione delle abilità di apprendimento autonomo composta da 60 item, valutati su scala Likert a 5 punti che misurano consapevolezza, modalità di apprendimento, attività di apprendimento, valutazione e abilità interpersonali. Recentemente questa scala è stata validata in Italia (Cadorin et al. 2012): l’analisi fattoriale ha permesso di ridurre gli item da 60 a 40, rendendola più veloce nella compilazione.

Studio guidato, studio individuale e filosofia dei sistemi formativi

Al di là delle abilità di studio dello studente e della guida offerta dal docente, deve essere considerata anche la filosofia che il sistema formativo esprime nella sua pratica quotidiana: tale filosofia orienta le scelte del singolo docente, del gruppo di docenti e dei tutor; ma anche la percezione degli studenti di poter chiedere guida e supporto, oppure no. Se osserviamo infatti un CdS attraverso alcuni indicatori di struttura quali ad esempio, la logistica, la distribuzione dei CFU lungo il triennio, e gli stessi calendari, potremmo ipotizzare:

– se dispone di uno spazio dedicato agli studenti per lo studio individuale, se riserva ai docenti tempo e spazio per ricevere gli studenti, come pure consente agli stessi di riportare nei registri anche il ‘tempo dedicato allo studente’ e non solo quello delle lezioni;

– se distribuisce con razionalità i CFU nel triennio, assicurando maggior accompagnamento al primo anno e più possibilità di scelta autonoma al terzo anno. Come pure;

– se progetta calendari con spazi dedicati e protetti per lo studio individuale;

– se siamo di fronte ad un sistema formativo che valorizza implicitamente lo studio guidato e individuale.

Analogamente, se osserviamo un CdS nei suoi indicatori di processo, ad esempio:

– se dispone di un corso introduttivo per gli studenti neo-matricolati sulle metodologie di studio universitario;

– se offre linee guida per l’auto-progettazione del tirocinio;

– se attiva e mantiene strategie di promozione e coinvolgimento degli studenti nella progettazione didattica,

anche in questo potremmo ipotizzare di essere di fronte ad un sistema formativo che valorizza lo studio guidato e individuale.

Vi sono, infatti, CdS che hanno fatto propria la valorizzazione dello studio individuale e guidato, altri che considerano questi aspetti come marginali. Pur nel rischio di estremizzare, potremmo affermare che a) i primi sostengono e sviluppano il processo di apprendimento e i suoi esiti; promuovono lo studio individuale in ogni sua forma, al fine di aiutare lo studente a raggiungere la capacità di studio indipendente. Si tratta di CdS focalizzati sullo studente e sul suo apprendimento dove la direzione è progressivamente trasferita dai docenti allo studente. b) i secondi, invece, controllano gli esiti attesi dell’insegnamento, magari standardizzando i programmi, i contenuti, le fonti di studio, ma non si preoccupano dei processi di apprendimento che accadono negli studenti. La direzione è affidata al docente/tutor e non è – o lo è poco – trasferita allo studente; questi ultimi sono misurati nel loro grado di aderenza alle conoscenze impartite e  non nella loro abilità di studio autonomo e indipendente.

Conclusioni

Con lo studio guidato e individuale, i CdS realizzano uno dei più importanti descrittori di Dublino (2004), secondo i quali il titolo finale del primo ciclo (Bachelor), può essere conferito a studenti che abbiano sviluppato capacità di apprendimento, che sono loro necessarie per intraprendere studi successivi con un alto grado di autonomia.

Studio individuale e guidato sono due risorse irrinunciabili, richiedono capacità strategiche, complementarietà, differenziazione (in base al bisogno degli studenti), ma anche una riflessione sulla filosofia del sistema formativo (e non solo del singolo docente). Lo studio individuale è l’outcome atteso di un efficace studio guidato che può realizzarsi attraverso diverse strategie: sessioni di studio guidato o di apprendimento delle learning skills; ricevimento personalizzato; linee guida o attivazione di servizi tutoriali, sono solo alcuni esempi.

Lo studio guidato può essere progettato ad alte risorse (per i CdS che contano tutor distaccati) ma deve fare i conti anche, in molti corsi, con scarse risorse (tutor, docenti, spazi). Comprendere l’esigenza di supporto di ciascuno studente è cruciale per offrirne più guida a coloro con scarse abilità di studio individuale.

Bibliografia

Cita questo articolo

Palese A., Cadorin L., Studio individuale e studio guidato. Concetti, bisogni e approcci, Medicina e Chirurgia, 58: 2596-2598, 2013. DOI:  10.4487/medchir2013-58-8

L’insuccesso accademico nei Corsi di Laurea delle Professioni Sanitarie e il monitoraggio dell’efficienza formativan.58, 2013, pp.2592-2595, DOI: 10.4487/medchir2013-58-7

Abstract

Italian Health Profession Degree Programs academic failure is comprised between 30 and 39%. Considering the progressive increase of this phenomenon and the recent Italian Law (D.M. n. 47, 2013) that considers academic failure as an indicator of educational inefficiency, it is become a priority to reflect on its determinants. Academic failure is due to a complex interaction between individual (e.g. age, gender), institutional (e.g. number of the students in the classes) and political factors (e.g. profession social image). Among this context, in order to increase educational efficiency, it is necessary to test multi-level strategies ranging from recruitment process to the curriculum redesign, as well as from the control of the lecturers and clinical learning environment quality, to the optimal tutor to students ratio. Strengthening the collaboration at different level, aiming to evaluate the effectiveness of the strategies undertaken is crucial.

Articolo

Introduzione

Con la recente emanazione del D.M. n. 47 del 30 gennaio 2013 – Decreto autovalutazione, accreditamento iniziale e periodico delle sedi e dei corsi di studio e valutazione periodica – l’insuccesso accademico degli studenti universitari, definito come la differenza tra il numero di coloro che si immatricolano ad un Corso di Laurea (CL) e il numero di coloro che lo completano entro la durata legale prevista, è divenuto uno dei criteri considerati dell’ANVUR per la valutazione periodica delle attività formative universitarie1. Considerando i meccanismi premianti introdotti dal D.Lgs n. 19 del 27 gennaio 20122, l’attuazione di strategie volte a ridurre i livelli di insuccesso accademico è divenuta  una priorità. In occasione del Meeting della Conferenza Permanente dei CL delle Professioni Sanitarie (CLPS)  svoltosi a Portonovo il 15-16 settembre 2012 in una sessione dedicata alle tematiche formative si è riflettuto sul fenomeno dell’insuccesso accademico dei Corsi di  Studio delle Professioni Sanitarie, al fine di  analizzarne i  possibili fattori predittivi ed  elaborare strategie mirate.

 

+Il dato fa riferimento a tutti i corsi di Laurea triennali nazionali che aderiscono ad AlmaLaurea.

L’entità dell’insuccesso accademico

L’insuccesso accademico è molto diffuso a livello nazionale (Tab. 1): AlmaLaurea (2011)3 ha documentato che, nel 2010, solo il 38,0% degli studenti universitari ha conseguito la laurea triennale nei tempi previsti, con una durata media del percorso di studi delle lauree triennali  di 4,7 anni. Le indagini condotte nel triennio 2009/2011 evidenziano una sostanziale stabilità dei tassi di insuccesso nazionali riferiti a tutte le lauree triennali (61-62%) ed un trend in aumento della durata media del percorso di studi (D +0,1 su base annua). Confrontando i dati complessivi con quelli dei CLPS, questi ultimi mostrano un quadro più soddisfacente. Nello stesso anno il tasso medio d’insuccesso è stato, infatti, del 35,0% mentre la durata media del percorso di studi è stata di 3,8 anni con un ritardo medio alla laurea di 0,8 anni. Anche per quanto riguarda le performances riportate nei voti di laurea, la situazione dei CLPS è migliore. Il punteggio medio ottenuto dagli studenti dei CLPS nel triennio di riferimento è costantemente oltre la media nazionale di almeno 3 punti. Tra i CLPS il maggior livello di insuccesso (39,0%)  è stato registrato dai CL della classe della Riabilitazione mentre, al contrario, i CL della classe della Prevenzione hanno evidenziato il minor livello (30,0%).  L’insuccesso per i CL della classe delle Professioni Tecniche è stato invece del  32% mentre quello relativo ai CL in Infermieristica ed Ostetricia si è attestato al 34%. Con riferimento alle coorti degli immatricolati ai CL in Infermieristica nel decennio 1997-2007, seppur con una lieve approssimazione, si è registrata una progressiva diminuzione dell’insuccesso accademico  dal 38% al 25% (D -13%). Tale dato sembra aver seguito il progressivo aumento del rapporto tra i candidati ed posti disponibili registrato anche negli altri CLPS4 in modo inversamente proporzionale.

Nonostante tali dati appaiono confortanti alla luce delle recenti indicazioni normative1-2, considerando il trend relativo al triennio 2009-2011 in cui emerge per i CLPS un progressivo aumento dell’entità del fenomeno (D + 8% nel triennio 2009/2011), un aumento della durata del percorso di studi (D+0,1 anni su base annua) ed una lieve flessione dei voti medi alla laurea, è oggi prioritario riflettere sui determinanti d’insuccesso al fine di ottenere un continuo miglioramento dell’efficienza formativa.

Il percorso accademico degli studenti universitari e l’efficienza formativa

Gli studenti che intraprendono il percorso accademico possono seguire due principali traiettorie evolutive. La prima, quella del “successo” è seguita da coloro che concludono il percorso entro la sua normale durata legale1. La seconda, quella “dell’insuccesso” è invece seguita da coloro che, al contrario, non completano il percorso di studi entro la sua durata naturale. L’insuccesso è costituito da due componenti fondamentali: il primo, riguarda gli studenti che per qualsiasi ragione “abbandonano” il percorso di studi precocemente (entro il primo semestre del primo anno) o tardivamente (successivamente al primo semestre)5; il secondo è invece costituito dagli studenti “fuori corso” che, volontariamente (ad esempio per motivi personali) o, involontariamente (ad esempio per fallimento agli esami) non completano il percorso nei tempi previsti. Elevati livelli di insuccesso rappresentano un indicatore di inefficienza formativa1. Il fenomeno può assumere però valenza “positiva” qualora lo studente, abbandonando gli studi, trovi risposta alle aspirazioni ed ai talenti personali nell’ambito di altri percorsi accademici o quando, volontariamente, decide di rallentare la progressione per allineare le esigenze personali al carico di studio, mantenendo elevate le performaces negli esami6. La valenza positiva dell’insuccesso è presente anche nel caso in cui l’efficacia del sistema didattico e tutoriale permetta di intercettare gli studenti fragili e con difficoltà di apprendimento, rallentandone la progressione e offrendo supporto con piani di recupero personalizzati. Solo attraverso il consolidamento del bagaglio culturale necessario è infatti possibile garantire una pratica professionale sicura. Tali esempi, abbastanza frequenti nei percorsi formativi delle professioni sanitarie, non sono ascrivibili ad inefficienza del sistema universitario e subire acriticamente pressioni a laureare studenti nei termini previsti, può essere fuorviante e rischioso. Il dibattito sui livelli accettabili di insuccesso, il cui azzeramento non è possibile, né auspicabile, rimane quindi problema complesso e aperto. Un’attenta riflessione deve essere posta sulla frazione di evitabilità del fenomeno e cioè, sulla quota d’insuccesso determinato dalle inefficienze del sistema universitario. La carenza di percorsi part-time che agevolino la frequenza degli studenti lavoratori, programmi di studio non calibrati alle capacità  e all’impegno di uno studente medio, l’inefficacia di alcuni sistemi tutoriali7 e delle strategie di reclutamento e selezione8-9, sono solo alcuni  aspetti del sistema universitario che possono agire come determinanti del fenomeno. Lo studio sistematico dell’insuccesso permetterebbe di individuarne le cause, determinare i momenti in cui, durante il triennio, esso si acutizza, comprenderne la quota evitabile e stabilirne i livelli minimi accettabili.

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La ricerca dei determinanti di insuccesso accademico

Diversi autori hanno dimostrato interesse nel documentare  i possibili determinanti di insuccesso accademico10-11. Le ragioni sono da ricercarsi essenzialmente nell’impatto del fenomeno sulle performance universitarie (penalizzazioni economiche previste per i corsi di studio ad elevato insuccesso)2-11, nei notevoli costi sociali da esso derivanti12 e nel contributo fornito nell’acuire, ove presenti, situazioni di carenza futura delle diverse figure professionali disponibili nei sistemi sanitari13. L’insuccesso sembra realizzarsi attraverso una complessa interazione di fattori individuali (es. genere, età, scolarità, etnia), istituzionali (es. numerosità degli studenti nelle aule) e politico/professionali (immagine sociale della professione, economie locali)14. Le evidenze disponibili consentono di definire il profilo degli studenti a rischio d’insuccesso che sembrano  distinguersi per la presenza di alcune caratteristiche peculiari15 come ad esempio il genere maschile, l’età inferiore ai 23 anni, il background formativo debole (espresso con un basso punteggio di maturità), la presenza di un carico familiare, la presenza di difficoltà economiche che rendono necessario lo svolgimento di attività lavorative contestuali alla frequenza del corso. Seppure tali evidenze provengano soprattutto da studi in ambito infermieristico e quindi non siano generalizzabili a tutti i CLPS, la conoscenza dei possibili determinanti d’insuccesso, ne permette l’utilizzo come variabili d’indagine per lo studio del fenomeno. Rispetto alla frazione di evitabilità dell’insuccesso il contributo fornito dalla ricerca è purtroppo ridotto. Tra i fattori istituzionali associati all’insuccesso, si evidenziano: a) l’eccessiva numerosità degli studenti in aula16 che, riducendo la possibilità di interazione e confronto tra docente e studenti, non facilita i processi di apprendimento con dirette ricadute sulle performance d’esame e conseguente accumulo di ritardo nel percorso; b) le strategie di reclutamento e selezione qualora non permettano di individuare gli studenti di talento, motivati e con le maggiori abilità di studio8-9; c) le  metodologie tutoriali, spesso inadeguate nel sostenere ed orientare lo studente nel percorso di studi7. Solo attraverso l’intervento sui fattori istituzionali si potrà ottenere la riduzione dell’insuccesso evitabile ottenendo la piena e reale efficienza formativa universitaria.

Le possibili strategie per il miglioramento dell’efficienza formativa

Sono disponibili strategie  per ridurre l’insuccesso che tuttavia hanno bisogno di essere ancora valutate nella loro efficacia9-17. La prima strategia riguarda il reclutamento degli studenti9: numerosi abbandoni si  verificano, infatti, per una mancata risposta del Corso di studi alle aspettative dello studente18. Fornire ai possibili aspiranti, già nelle scuole secondarie, informazioni approfondite e di elevata qualità, permetterebbe di creare aspettative realistiche riducendo gli effetti negativi prodotti dallo shock da realtà che lo studente si trova a vivere non trovando piena corrispondenza rispetto a quanto immaginato19. Utili in tal senso potrebbero rivelarsi l’introduzione/rafforzamento delle visite guidate nei luoghi di cura affinché l’aspirante possa confrontarsi con l’ambito professionale di riferimento ed  il rafforzamento della partnership tra Università e Servizio Sanitario Nazionale17. Ulteriori esperienze di contrasto del fenomeno potrebbero essere: a) l’affinamento delle strategie di selezione degli studenti, riflettendo sulla possibilità di poter valorizzare il voto di maturità per incrementare la proporzione di studenti  con le migliori attitudini allo studio9; b) l’attivazione di un tutorato intensivo e supportivo, soprattutto per gli studenti del  primo anno7-20; c) il miglioramento della qualità degli ambienti di tirocinio clinico che hanno un pesante impatto sugli esiti di apprendimento21; d) la negoziazione diretta ed indiretta di supporti economici necessari a sostenere gli studenti motivati e di talento che vivono difficoltà economiche17. Nell’ottica del miglioramento dell’efficienza formativa, le esperienze proposte permettono di tenere aperto il dibattito sulla ricerca delle possibili strategie di intervento e sulla loro efficacia.

Conclusioni

Gli stimoli forniti dalle recenti norme, rafforzano la necessità di un continuo confronto interdisciplinare sulle tematiche proposte. La condivisione delle esperienze generate dai diversi gruppi disciplinari garantisce una rapida evoluzione delle conoscenze e, considerando la natura vincolante delle norme, è opportuno che  gli sforzi comuni siano indirizzati non solo al continuo monitoraggio dei fattori predittivi ma soprattutto a documentare l’efficacia delle strategie di miglioramento dell’efficienza formativa proposte. Emerge l’esigenza di intervenire in particolar modo sugli elementi istituzionali che sembrano incidere in modo significativo sugli esiti accademici degli studenti senza tuttavia tralasciare i fattori individuali che, seppur spesso non modificabili, rappresentano una preziosa fonte informativa utile a modulare e personalizzare il percorso formativo dello studente. Aumentare l’efficienza formativa, di cui l’insuccesso ne è un indicatore negativo, richiede azioni di ampio respiro, che vanno dalle strategie di reclutamento e selezione, alle scelte di progettazione curriculare, al monitoraggio della qualità degli insegnamenti, degli ambienti di tirocinio, delle modalità di tutorato, fino al supporto nel metodo di  studio ed alla definizione della composizione e della numerosità delle aule e quindi del rapporto studente/docente. Azioni che, vista l’estrema complessità del fenomeno e la variabilità degli attori coinvolti, richiedono uno sforzo comune, di confronto e supporto, tra i diversi  soggetti accademici.

Attualmente il sistema universitario italiano incentiva con molti meccanismi lo sviluppo della ricerca e contestualmente ha abbassato l’attenzione alla didattica. Investire sulla qualità dell’offerta formativa vuol dire anche premiare e incentivare i docenti a dedicare “pensiero” e tempo agli studenti e alla loro formazione. Forse è giunto il momento di rioerientare il sistema con maggior equilibrio tra la sua doppia mission: di didattica e di ricerca.

Ringraziamenti

Gli autori ringraziano Angelo Mastrillo per aver reso disponibili i dati relativi all’insuccesso accademico nei CL in Infermieristica.

Bibliografia

1) Decreto Ministeriale 30 gennaio 2013 n. 47. Decreto autovalutazione, accreditamento iniziale e periodico delle sedi e dei corsi di studio e valutazione periodica. Roma 2013.

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3) AlmaLaurea, profilo corsi di laurea triennali. 2011; http://www2.almalaurea.it/cgi-php/universita/statistiche/framescheda.php?anno=2010&corstipo=L&ateneo=tutti&facolta=tutti&gruppo=tutti&pa=tutti&classe=tutti&corso=tutti&postcorso=tutti&disaggregazione=tutti&LANG=it&CONFIG=profilo.

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21) Bradbury-Jones C, Sambrook S, Irvine F. The meaning of empowerment for nursing students: a critical incident study. J Adv Nurs. 2007; 59:342-351.

Cita questo articolo

Dante A., Saiani L., L’insuccesso accademico nei Corsi di Laurea delle Professioni Sanitarie e il monitoraggio dell’efficienza formativa, Medicina e Chirurgia, 58: 2592-2595, 2013. DOI:  10.4487/medchir2013-58-7

I punteggi soglia del concorso di accesso nazionale a Medicina e Chirurgia per ripartizione geografica. Analisi dei dati negli ultimi otto annin.58, 2013, pp.2575-2577, DOI: 10.4487/medchir2013-58-2

Abstract

When examined, the results of degree-course entrance-exams for Medicine and Surgery, obtained by students applying to the ministry for admission between 2005 and 2012, revealed a significant gap between the marks obtained by students from northern Italy, compared to those from the central, southern and insular areas of the country. A less significant gap was shown to exist, however, between students from central Italy and those from the south and islands.

These results should be taken into due consideration by the ministerial authorities, seeing that the next examination will be ranked on a nationwide basis only.

Articolo

Introduzione

Il prossimo concorso di ammissione a Medicina e Chirurgia si svolgerà, con forte probabilità, utilizzando una graduatoria unica nazionale, con modalità specifiche ancora non conosciute.

Il gruppo di lavoro “Selezione all’accesso e test attitudinali – riforma e monitoraggio”, della Conferenza Permanente dei Presidenti di Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia, in collaborazione con i colleghi del Progetto di Ricerca MIUR “Analisi della predittività dei risultati dei test di ammissione al corso di laurea in medicina: Uno studio longitudinale” ha effettuato un’analisi della distribuzione geografica dei punteggi soglia rilevati dal sito MIUR al termine delle prove di ammissione, nel periodo 2005-2012.

Lo scopo è quello di fornire elementi di analisi e discussione agli organi ministeriali preposti alla elaborazione della metodologia di accesso per il prosimo anno accademico, mettendo in evidenza eventuali criticità intrinseche all’utilizzo della graduatoria unica nazionale.

Metodo

I punteggi soglia, in relazione ai posti disponibili nelle singole sedi Universitarie o nei macro-aggregati dello scorso anno accademico, sono stati direttamente rilevati dal sito MIUR negli anni dal 2005 al 2012. Le sedi Universitarie Italiane sono state poi raggruppate per sede geografica in Nord (Padova, Trieste, Udine, Milano, Milano Bicocca, Varese Insubria, Vercelli Avogadro, Brescia, Pavia, Verona, Bologna, Ferrara, Modena Reggio Emilia, Politecnica delle Marche) Centro (Firenze, Parma, Pisa, Siena, Roma La Sapienza, Chieti D’Annunzio, L’Aquila, Perugia, Roma Tor Vergata) e Sud – Isole (Napoli Federico II, Napoli Seconda Univ., Salerno, Bari, Foggia, Molise, Catania, Catanzaro Magna Grecia, Messina, Palermo, Cagliari, Sassari), seguendo la classificazione ISTAT. Allo scopo di poter utilizzare anche i dati del 2012 con i risultati delle relative macro-aggregazioni territoriali, si è inserito nel gruppo del Nord la sede Politecnica delle Marche, mentre la sede di Parma è stata inserita nel gruppo del Centro Italia.

Sono state quindi effettuate comparazioni statistiche tra risultati ottenuti al Nord in relazione al Centro e al Sud-Isole, e tra i risultati ottenuti al Centro in relazione al Sud-Isole. Tutte le variabili quantitative sono state espresse come media ± deviazione standard. Le variabili sono state sottoposte a test di normalità. Tali comparazioni sono state analizzate tramite test Anova Univariata, utilizzando il test post hoc Bonferroni. Differenze significative sono state considerate per p<0,05.

E’ stato inoltre calcolato il numero medio di studenti che hanno ottenuto lo stesso punteggio, in questo caso calcolato solo nelle macro aggregazioni del 2012 (Familiari et al., 2012), prendendo come riferimento il punteggio soglia di ogni macro-aggregazione e contando il numero di studenti per frazioni di 0,25 di punteggio nei tre punti al di sopra e al di sotto di tale valore. Anche in questo caso i valori sono stati espressi come media ± deviazione standard.

Risultati

I punteggi soglia rilevati mostrano differenze fortemente significative, quando raggruppati per sede geografica (Figg. 1-8). In particolare,sono stati rilevati punteggi significativamente più elevati, in tutti gli anni esaminati, per le sedi del Nord, in comparazione con i risultati ottenuti nel Centro e Sud-Isole. Per quanto riguarda invece i dati di comparazione tra Centro e Sud-Isole, differenze fortemente significative sono state rilevate dal 2008 al 2012, mentre differenze meno significative o non significative sono state trovate negli anni 2005-2007.

Schermata 2013-06-12 alle 19.53.57Schermata 2013-06-12 alle 19.54.18

L’analisi effettuata nell’area dei punteggi soglia, mostra che all’interno della frazione 0,25 di punteggio vi possono essere compresi mediamente gruppi di 30/40 studenti. Infatti 0,25 di punteggio equivalgono a: 32,6 ± 4,1 studenti accorpamento: Roma Sapienza 3 Facoltà; 38,7 ± 6,2 studenti accorpamento: Catania, Catanzaro, Messina, Palermo; 32,6 ± 5,0 studenti accorpamento: Milano, Milano “Bicocca”, Varese, “Insubria”, Vercelli “Avogadro” (valori calcolati nell’area dei punteggi soglia 2012).

Discussione

I risultati ottenuti dimostrano che gli studenti partecipanti al test di ammissione per Medicina e Chirurgia in Italia, negli ultimi 8 anni di prove di ammissione, entrano con punteggi più alti nelle sedi del Nord Italia rispetto al Centro ed al Sud-Isole, e, rispettivamente, nel Centro Italia rispetto al Sud-Isole. In quest’ultimo caso la differenza diventa però significativa negli ultimi 5 anni di osservazione.

In relazione all’attuale prova di accesso, prevalentemente di tipo cognitivo, e come dimostrato da Svelto (2011) per il concorso 2010, le differenze sembrano attribuibili alla preparazione sulle materie scientifiche ottenuta dagli studenti, nella Scuola Media Superiore. Dalla ricerca effettuata da Svelto (2011) emerge infatti come, nella prova di esame, la selezione degli studenti sia attribuibile per il 66% alle aree propriamente scientifiche, mentre l’area logico-culturale-umanistica incida per il 34%, malgrado il numero dei quesiti sia maggiore; in particolare i pochi quesiti di chimica avrebbero una capacità discriminante, nell’area dei punteggi soglia, circa 2,5 volte maggiore ai quesiti dell’area logico-culturale-umanistica (Svelto, 2011).

Deve tuttavia essere notato come, in assenza del dato sulla provenienza geografica dei singoli studenti che hanno affrontato le prove nelle singole sedi, non sia possibile quantificare quanti possano essere gli studenti del Sud che abbiano superato direttamente le prove al Nord o, al contrario, studenti del Nord che abbiano superato le prove in sedi del Sud Italia. Quest’ultimo dato, non disponibile al Gruppo di Studio, potrebbe essere tuttavia reperibile dalle singole sedi e potrebbe essere fonte per un maggiore approfondimento sul significato di questi risultati.

Un’ulteriore variabile deve essere inoltre considerata per quegli studenti che hanno frequentato corsi di preparazione pubblici o privati prima del test di ammissione: non molto frequenti quelli pubblici, più capillarmente presenti nel territorio quelli privati (Falaschi et al., 2010).

Il Gruppo di Lavoro della Conferenza, in sinergia con i colleghi del gruppo di ricerca MIUR, effettuerà un’analisi su questi due punti su un campione costituito da almeno due sedi del Nord Italia, due sedi del Centro Italia e due sedi del Sud-Isole.

Un ulteriore dato interessante deriva inoltre dalla consistenza del numero degli studenti all’interno di singole frazioni di punteggio, in relazione alla “compressione” delle graduatorie ed al basso differenziale tra punteggio massimo e punteggio soglia (Familiari et al., 2012).

Pur con le variabili sovraesposte, resta comunque l’evidenza di questa differenza quantitativa nella distribuzione geografica dei punteggi soglia e del buon numero di studenti interessati, che impone alcune brevi considerazioni:

1) L’introduzione di una graduatoria nazionale potrebbe innescare una cospicua mobilità Nord-Sud, naturalmente riservata a quegli studenti delle classi sociali più abbienti, in relazione alla quasi totale insufficienza di fondi e strutture riservati al diritto allo studio.

2) Probabilmente gli studenti fuori sede cercheranno di trasferirsi nelle sedi di origine, o comunque è presumibile che vorranno svolgere la loro attività professionale post-laurea nella loro sede di origine, in entrambi i casi con probabile flusso Sud-Nord.

3) La programmazione del fabbisogno nazionale dei laureati, attualmente elaborata sulla base delle potenzialità formative delle singole sedi e sulle necessità della programmazione sanitaria su base regionale, deve essere attentamente rivista dopo qualche anno di osservazione e monitoraggio.

Gli autori auspicano che i risultati ottenuti possano essere di reale utilità agli Organi ministeriali, per una corretta elaborazione dei meccanismi concorsuali che saranno alla base della prevista “graduatoria nazionale” del prossimo concorso di accesso ai Corsi di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia. Essi ribadiscono infine che un corretto “processo di selezione” debba essere ispirato alla “best practice” nell’ottica della “best evidence medical education”: valori importanti su cui si basa la progettualità ed il lavoro svolto dal Gruppo di Studio (Familiari et al., 2009, 2012, 2013; Swanwick, 2012; Cavaggioni et al., 2013).

Bibliografia

1) G. Cavaggioni, C. Barbaranelli, I. Di Liegro, A. Lanzone, V. Locatelli, S. Morini, R. Muraro, M. Valli e G. Familiari. Proposta di un modello sperimentale per la selezione e l’accesso ai corsi di studio in medicina e chirurgia. Medicina e Chirurgia 57: 2555-2558, 2013.

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3) G. Familiari, V. Ziparo, M. Relucenti, E. Gaudio, A. Lenzi e L. Frati. Come selezionare i medici della nuova generazione: proposte in tema di ammissione a Medicina e Chirurgia. Arco di Giano 61: 221-234, 2009.

4) G. Familiari, A. Lanzone, I. Di Liegro, V. Locatelli, S. Morini, R. Muraro, M. Valli, G. Cavaggioni, C. Barbaranelli, R. Baldini, M. Relucenti, R. Heyn, A. Lenzi ed E. Gaudio. L’accesso a Medicina: quando un “processo” di selezione? Medicina e Chirurgia 56: 2517-2519, 2012.

5) G. Familiari. The international dimensions of medical education. Medicina e Chirurgia 57: 2536-2538, 2013.

6) V. Svelto. L’ammissione ai corsi di laurea a numero programmato dell’area sanitaria. Medicina e Chirurgia 52: 2276-2279, 2011.

7) T. Swanwick (ed) Understanding Medical Education. Evidence, theory and practice. Wiley-Blackwell, USA, Association for the study of Medical Education (ASME), 2012.

Cita questo articolo

Familiari G., Baldini R., Barbaranelli C., et al., I punteggi soglia del concorso di accesso nazionale a Medicina e Chirurgia per ripartizione geografica. Analisi dei dati negli ultimi otto anni, Medicina e Chirurgia, 58: 2575-2577, 2013. DOI:  10.4487/medchir2013-58-2

Corsi di Laurea e post-Laurea di Formazione in Farmacovigilanzan.58, 2013, pp.2571-2574, DOI: 10.4487/medchir2013-58-1

Abstract

The protection of public health requires a full knowledge of all technical and regulatory scenarios with regards to diseases prevention, diagnosis, and treatment. In this context, an important aspect is attending graduate and post-graduate pharmacovigilance training courses. This will provide the chance to continuously evaluate information relating to drug safety and to perform activities aiming at ensuring a favorable benefit/risk ratio of marketed medicinal products.

The main purpose of reporting adverse drug reactions is to learn from experience and share the experience gathered so that other people can avoid the same adverse reaction. Therefore, it is essential to start an adequate training programme through the graduate and post-graduate University courses in order to be prepared to participate in a proactive manner to the ultimate goal of the medical profession: the safeguard of patients’ health.

Articolo

Pani_medchir58La qualità della formazione del personale sanitario, in tutti i livelli di azione, è una sfida che deve essere costantemente raccolta e vinta. In un’epoca, come quella attuale, caratterizzata da profondi mutamenti scientifici, demografici, epidemiologici è solo l’ampliamento continuo delle conoscenze che consente di poter operare al meglio per tutelare la salute dei cittadini. E’ necessario quindi acquisire competenze avanzate, sia di natura tecnico-scientifica che normativa, in materia di prevenzione, diagnosi e cura delle patologie. E ciò significa anche implementare il sapere sull’interazione tra farmaci, sulle reazioni avverse che essi potrebbero determinare nel momento in cui si passa dal loro impiego in popolazioni numericamente esigue e selezionate di pazienti, come avviene nelle sperimentazioni cliniche, alla loro commercializzazione e quindi alla somministrazione nella popolazione generale. In questa ottica, appare evidente come un ruolo di primo piano in tal senso possa, e debba, senz’altro essere svolto dalla dispobilità e dalla frequenza, a livello universitario e post laurea, di corsi dedicati alla farmacovigilanza (FV) che trasferiscano ai discenti conoscenze sulla valutazione continua delle informazioni relative alla sicurezza dei farmaci e sulle attività finalizzate ad assicurare un rapporto rischio/beneficio dei medicinali in commercio favorevole per la popolazione. Non basta somministrare un farmaco, già validato e autorizzato, per avere la garanzia di aver intrapreso la giusta strada verso la guarigione.

Occorre, invece, conoscere il feedback connesso all’impiego di quel medicinale per assicurare un adeguato e costante livello di protezione del paziente. L’approfondimento dei rischi correlati all’uso dei farmaci e l’assunzione di un ruolo attivo in un processo ampiamente descritto nella legislazione vigente, tanto italiana quanto europea, come la Farmacovigilanza, diviene quindi imprescindibile in un percorso di tutela della salute pubblica.

Per valutare il rischio e monitorare l’incidenza di reazioni avverse (ADRs) potenzialmente associate al farmaco è necessario individuare le ADRs, migliorare le informazioni sulle reazioni già note, analizzare il profilo rischio/beneficio e trasmettere le informazioni per consentire una corretta pratica clinica.

Le ADRs da farmaci rappresentano in tutta Europa un importante problema di salute pubblica troppo spesso sottovalutato per motivi di tipo “culturale”. La FV, infatti, è spesso considerata da parte degli operatori sanitari più un obbligo burocratico che una parte fondamentale dell’attività professionale1.

Per avere un’idea del problema basti pensare che, secondo recenti stime, circa il 5% di tutti gli

accessi in ospedale sono dovuti ad ADRs, il 5% di tutti i pazienti già ricoverati in ospedale presenta una ADR, le ADRs sono al quinto posto tra le cause di morte in ospedale, in Europa sono state stimate circa 197.000 morti per anno per ADRs con un costo sociale di circa 79 miliardi di euro all’anno2. Alla base di questi eventi c’è la difficoltà ad individuare ADRs non prevedibili o rare durante gli studi clinici registrativi dei farmaci e la loro comparsa, invece, nella normale pratica clinica quando, dopo la loro commercializzazione, i farmaci vengono utilizzati.in ampie fasce di popolazione. Proprio in questa fase, infatti, si verificano numerose condizioni che aggravano il fenomeno, quali: un numero più elevato di pazienti esposti al farmaco, una durata dell’esposizione più lunga, l’inclusione di gruppi di popolazione a rischio, la somministrazione a fasce di pazienti fragili affetti da polipatologie e quindi in trattamento con politerapie come gli anziani, la variabilità dei dosaggi, la diversa compliance del paziente, un’identificazione delle ADRs meno accurata.

Pertanto, accanto alla sorveglianza denominata “attiva” quali gli studi farmacoepidemiologici, diventa fondamentale anche quella cosidetta “passiva”, ovvero la FV.

La segnalazione spontanea delle ADRs da farmaci, fatta allo scopo di identificare nuove ADRs e generare segnali d’allarme, è il fulcro di un’efficace sistema di FV i cui presupposti sono il riconoscimento di una ADR come tale, il rapporto causale tra evento e assunzione di un farmaco e la segnalazione dell’evento.

Da meno di un anno (luglio 2012) è entrata in vigore la nuova normativa di FV che ha apportato numerose novità per la gestione delle ADRs3,4,5. L’obiettivo ultimo di questa “rivoluzione normativa” è quello di promuovere e proteggere la salute pubblica, ridurre il numero e la gravità delle ADRs e migliorare l’uso dei medicinali incrementando, nel contempo, l’efficacia, la rapidità e la trasparenza degli interventi di FV. Si è voluto, in particolare, chiarire i ruoli e le responsabilità, garantire un sistema europeo di FV robusto e rapido, favorire la partecipazione dei pazienti e degli operatori sanitari, aumentare la trasparenza e l’informazione, potenziare l’efficienza dei sistemi di FV, rafforzare la rete europea di FV, ampliare le attività di FV ma, nello stesso tempo, ridurne la loro duplicazione tra i vari Stati europei. Molto importante, infine, è stata la modifica della definizione di ADR (effetto nocivo e non voluto conseguente: all’uso di un medicinale conformemente alle indicazioni contenute nell’autorizzazione all’immissione in commercio (AIC), agli errori terapeutici, agli usi non conformi alle indicazioni contenute nell’AIC incluso il sovradosaggio, l’uso improprio e l’abuso del medicinale e all’esposizione per motivi professionali) pur rimanendo invariata la definizione di ADR “grave” (decesso, invalidità grave/permanente, anomalie congenite/deficit nel neonato, ospedalizzazione o prolungamento, pericolo di vita) o “inattesa” (reazione avversa di cui non sono previsti nel riassunto delle caratteristiche del prodotto la natura, la gravità o l’esito). Di fatto, con tale definizione, che è indipendente dal tipo di uso del medicinale, si avrà un incremento delle segnalazioni a cui corrisponderà una maggiore attività di monitoraggio.

Nonostante ogni medico abbia una probabilità elevata di osservare pazienti con ADRs, la sottosegnalazione resta ancora oggi una criticità poiché gli operatori sanitari spesso non riconoscono una ADR come tale, non sospettano la relazione con il farmaco ovvero, ove la sospettino, non la segnalano. La causa principale della sottosegnalazione, in buona sostanza, deriva da un gap di natura “culturale”6. Diversi studi hanno portato all’identificazione di sette motivi principali che intervengono nella sottosegnalazione: l’errata convinzione che vengano commercializzati soltanto farmaci “sicuri”, il timore di essere coinvolti in cause legali, il senso di colpa per aver causato danni al paziente a causa del trattamento prescritto, il desiderio di raccogliere e pubblicare una casistica personale, l’ignoranza delle procedure per la segnalazione, il timore di segnalare sulla base di sospetti che potrebbero rivelarsi infondati e la tendenza a procrastinare la segnalazione per disinteresse o mancanza di tempo6. Al contrario i motivi che possono influire positivamente sulla decisione di segnalare una ADR sono l’elevato grado di certezza nell’attribuzione di un rapporto causale tra assunzione di un farmaco e insorgenza di una ADR, il presentarsi di una ADR particolarmente grave o inattesa, il coinvolgimento di un nuovo farmaco. Un altro limite del sistema di segnalazione è la cosidetta “segnalazione selettiva”, consistente in un numero elevato di segnalazioni di ADRs per un particolare farmaco dovute a fattori indipendenti dal suo profilo di tollerabilità. Ne è un esempio l’effetto della Nota 73 emanata dalla Commissione Unica del Farmaco che consentiva l’uso dei Sartani a carico del Servizio Sanitario Nazionale solo ai pazienti con tosse o angioedema da ACE-inibitori. Tale Nota, infatti, ha determinato un aumento, nel biennio 1998-1999, del numero delle segnalazioni di tosse.

Dopo il ritiro della Nota 73 il numero di segnalazioni di tosse è tornato ai livelli precedenti7.

In generale, quindi, possiamo dire che il numero di segnalazioni tende a riflettere la tossicità acuta del farmaco e ad essere funzione del suo impiego e della sua vita commerciale, a variare da un anno all’altro e ad aumentare se viene richiamata l’attenzione del medico su uno specifico problema. Diversi studi suggeriscono, inoltre, che aspetti più propriamente personali e una differente percezione del rischio possano svolgere un ruolo di rilievo nella decisione di segnalare le ADRs7.

Da quanto esposto appare evidente la necessità di un’approfondita preparazione nella FV da parte degli operatori sanitari poiché essa può offrire uno strumento di intervento ulteriore a corollario della terapia già somministrata e favorire una più capillare sensibilità nei confronti delle ADRs.

Fondamentale in tal senso è quindi l’inserimento di un’adeguata formazione in FV nei Corsi di Laurea e Post-Laurea delle Facoltà di Medicina e Chirurgia. E’ da qui che bisogna partire per garantire la tutela della salute dei pazienti in conformità, peraltro, agli obblighi già imposti dall’art. 13, Capo IV, Titolo II del Codice di Deontologia Medica8.

Non va, inoltre, dimenticato che la patologia iatrogena, ossia il complesso delle malattie provocate in conseguenza ai trattamenti terapeutici, ha la stessa importanza di altre patologie ben più note e richiede una diagnosi clinica differenziale. Per identificare la patologia iatrogena è necessario un approccio fisio-patologico e clinico che coinvolga il farmacologo e il clinico medico. L’età avanzata e la polifarmacoterapia sono i principali fattori dell’aumento di incidenza delle ADRs e, pertanto, per effettuare una diagnosi di ADRs, la cosa più importante e un’accurata anamnesi. Occorre migliorare la conoscenza sul rischio da uso di farmaci mediante l’aumento della familiarità con le schede tecniche (RCP) e la comprensione di come interagiscono Aziende farmaceutiche e Autorità regolatorie1. Relativamente a quest’ultimo aspetto, è importante sapere che il sistema nazionale di FV è gestito dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) per lo svolgimento delle funzioni a livello nazionale e per la partecipazione alle attività di FV dell’Unione europea. Le Regioni, singolarmente o di intesa fra loro, collaborano con l’AIFA fornendo elementi di conoscenza e valutazione ad integrazione dei dati che pervengono all’AIFA. In particolare, i dati sulla sicurezza dei farmaci sono ricavati da differenti fonti: segnalazioni spontanee di sospette ADRs da parte di operatori sanitari o cittadini, studi, letteratura scientifica, rapporti inviati da industrie farmaceutiche, istituzioni ed accademia. Le segnalazioni vengono raccolte mediante la Rete Nazionale di Farmacovigilanza (RNF), un network esteso su tutto il territorio nazionale e collegato con il network europeo EudraVigilance (EV) gestito dall’Agenzia europea dei medicinali (EMA). EV raccoglie in un unico database i dati forniti a livello nazionale ma con una tempistica diversa a seconda della gravità della ADR (entro 15 giorni per le ADRs gravi ed entro 90 giorni per quelle non gravi). Tutte le segnalazioni vengono poi confluite verso l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Queste attività sono finalizzate all’identificazione di cambiamenti di rischi o di nuovi rischi attraverso l’analisi dei segnali riguardanti una possibile associazione tra un evento avverso ed un farmaco e si basano su dati preliminari, e non conclusivi, che necessitano di ulteriori informazioni per confermare tale associazione. Il rilevamento del segnale, infatti, va inteso come un primo passo nell’analisi di una possibile associazione tra un farmaco sospetto e l’evento avverso. Lo studio delle reazioni avverse associate ad un farmaco è un processo continuo che, a partire dalle prime segnalazioni, porta agli studi di farmacoepidemiologia e alla valutazione quantitativa del rischio. In tale contesto, l’AIFA promuove anche programmi e studi di FV attiva con l’obiettivo di aumentare le conoscenze sui farmaci e definire meglio la loro sicurezza d’uso, migliorare le modalità con cui vengono utilizzati, stabilire un profilo di sicurezza che meglio corrisponda alla reale pratica medica e descrivere in maniera più realistica le caratteristiche dei pazienti in trattamento. Su questo piano, è evidente il vantaggio che deriverebbe da una stretta connessione tra la formazione accademica, da un lato, e l’azione delle Istituzioni e in particolare dell’AIFA dall’altro, generando un circolo virtuoso che avrebbe benefici per il sistema sanitario in generale.

Fino al 2009 il tasso di segnalazioni di ADRs in Italia è stato sotto il cosiddetto livello “Gold standard” definito dall’OMS. Dal 2010 il gap è stato via via recuperato ma si registra ancora un’elevata variabilità dei tassi di segnalazione da una Regione all’altra che crea problemi nell’interpretazioni dei segnali. Solo due Regioni italiane (Lombardia e Toscana) hanno superato il livello “Gold standard” definito dall’OMS nel 2012. La fonte di segnalazione è stata principalmente il medico ospedaliero, seguito dal farmacista e dal medico di medicina generale9.

E’ bene precisare, infine, che la FV deve essere vista anche come strumento per garantire l’appropriatezza prescrittiva essendo la prescrizione inappropriata è una delle principali cause di ADRs1.

In conclusione si può affermare che la segnalazione di ADR nel contesto della nuova normativa di FV permette, dunque, di fornire tempestive informazioni basate sull’evidenza (portale AIFA o altri mezzi di comunicazione), facilitare modifiche della pratica medica, migliorare le attitudini e coinvolgere i segnalatori nelle attività di FV, affinare le decisioni e i comportamenti in relazione all’uso sicuro dei medicinali, supportare comportamenti di minimizzazione del rischio e facilitare le scelte sul razionale uso dei medicinali. Il principale scopo della segnalazione di un evento avverso e quello di imparare dall’esperienza e condividerla facendo così in modo che altri possano evitare di incorrere nello stesso evento indesiderato10. Per ottenere questo risultato occorre, da un lato, promuovere l’aggiornamento continuo dei medici; dall’altro, intervenire con una adeguata formazione, da inserire nei Corsi di Laurea e Post-Laurea universitari, che fornisca gli strumenti per partecipare in modo proattivo al fine ultimo della professione medica: salvaguardare la salute dei pazienti1.

Bibliografia

1) Giustini et al., La farmacovigilanza in Medicina Generale, SIMG 2011.

2) Commission Staff Working Document dated 10 December 2008. www.ec.europa.eu.

3) Direttiva 2010/84/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 dicembre 2010 che modifica, per quanto concerne la farmacovigilanza, la direttiva 2001/83/CE recante un codice comunitario relativo ai medicinali per uso umano.

4) Regolamento (UE) n. 1235/2010 Parlamento europeo e del Consiglio del 15 dicembre 2010 che modifica, per quanto riguarda la farmacovigilanza dei medicinali per uso umano, il regolamento (CE) n. 726/2004 che istituisce procedure comunitarie per l’autorizzazione e la sorveglianza dei medicinali per uso umano e veterinario, e che istituisce l’agenzia europea per i medicinali e il regolamento (CE) n. 1394/2007 sui medicinali per terapie avanzate.

5) Regolamento di esecuzione (UE) n. 520/2012 della Commissione del 19 giugno 2012 relativo allo svolgimento delle attività di farmacovigilanza previste dal regolamento (CE) n. 726/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio e dalla direttiva 2001/83/CE del Parlamento europeo e del Consiglio.

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9) Fonte elaborazione dati: Ufficio di Farmacovigilanza, Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA).

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Cita questo articolo

Pani, L., Corsi di Laurea e post-Laurea di Formazione in Farmacovigilanza, Medicina e Chirurgia, 58: 2571-2574, 2013. DOI:  10.4487/medchir2013-58-1

L’interprofessionalità come risposta unitaria e globale ai problemi di salute: obiettivi, metodologie e contesti formativin.58, 2013, pp.2586-2591, DOI: 10.4487/medchir2013-58-6

Abstract

The importance of interprofessional practice is motivated by the impact that chronic diseases have on health systems and the dissemination of organizational models primary care-oriented. The World Health Organization (WHO) awarded to Interprofessional Education (IE) a crucial role in building the capacities needed to “work together” to meet the needs of the population. From the first experiments to date, interest in the FI has continued to grow among educators and researchers: were developed objectives, methodologies and evaluation forms that allow you to have interesting didactic models of IE. However, many barriers stand in the way for an effective realization of the IE. A particularly crucial element is represented by the expertise of teachers in inter-professional education which must be acquired through specific development initiatives and upgrade. Although the literature provides many examples of IE, further methodologically rigorous studies are required to confirm the positive conclusions that we now have, both in terms of actual change in students’ behaviors and results in terms of health and well-being of patients. However, the results of IE can be achieved successfully only if interprofessional practice is supported by the finding of a genuine integration between health policy and education policy.

Articolo

Introduzione

L’attuale quadro epidemiologico è caratterizzato da una prevalenza di malattie cronico-degenerative sia in termini di diffusione che di gravità dei quadri clinici ad essi connessi1. La multifattorialità eziologica e l’impossibilità di ottenere la completa restitutio ad-integrum, come risultato della cura o, almeno, come esito di un singolo intervento curativo, fanno di tali malattie un rilevante problema di carattere sanitario, sociale ed economico. Per poterle fronteggiare, sono necessari approcci unitari e globali di cura basati sull’utilizzo coordinato di risorse afferenti non solo al sistema sanitario, ma anche ad altri settori della società2. Per gli operatori della salute, la necessità di fornire risposte appropriate alla domanda di salute espressa dai pazienti con tali malattie, implica la ricerca di nuovi rapporti di collaborazione ed integrazione, anche sotto forma di nuove modalità organizzative ed assistenziali, rispetto a quelle offerte tradizionalmente dagli ospedali per acuti in cui una certa concezione riduzionistica della malattia ha generato la parcellizzazione degli interventi sanitari. A tale parcellizzazione ha contribuito anche l’esponenziale sviluppo  della medicina, i cui elevati e complessi livelli del sapere hanno costretto ad una ridistribuzione e ad un utilizzo delle conoscenze tra molteplici discipline e professioni che perseguono obiettivi comuni. Le malattie cronico-degenerative vengono curate meglio se affrontate simultaneamente ed in modo integrato. In quest’ottica la pratica interprofessionale può offrire importanti contributi al superamento di quegli approcci che scompongono i problemi di salute nei suoi costituenti più elementari, affrontandoli per parti e perdendone la visione d’insieme3. L’Interprofessionalità rende manifesto e ri-compone in nuove forme il contributo delle diverse professionalità di risposte ai complessi bisogni di salute dei pazienti.

L’Interprofessionalità  rimanda necessariamente ad una impostazione metodologica del sapere e del fare che può esprimersi solo attraverso una rete di relazioni tra professionisti. A cominciare dalla formazione di base delle professioni della salute.

Le ragioni della Formazione Interprofessionale: la pratica interprofessionale

La pratica interprofessionale è una modalità di definizione e gestione di problemi in cui le parti coinvolte ne individuano i diversi aspetti, ne esplorano costruttivamente le differenze e cercano soluzioni che vanno ben oltre la visione personale di cosa sia possibile fare4. E’ costruita intorno a concetti di condivisione di valori, di presa di decisioni e di responsabilità. Presuppone rapporti autentici e costruttivi basati su onestà, fiducia e rispetto reciproci. La premessa della pratica interprofessionale è che ogni componente del team sia a conoscenza del contributo specifico che gli altri possono apportare e che ciascuno sia predisposto a valorizzare i contributi e le prospettive degli altri professionisti con cui collabora.

Secondo l’OMS, nei prossimi decenni, le patologie cronico-degenerative continueranno ad essere le principali cause di disabilità e di morte.  Il prendersi cura di persone affette da tali malattie sarà una sfida che i sistemi sanitari del XXI secolo dovranno affrontare con grande incisività5, trasferendo le cure dall’ospedale ai servizi territoriali e superando il modello monosettoriale che caratterizza l’assistenza ospedaliera.

Oramai il sapere scientifico a cui attingere per la cura di malati così complessi è talmente vasto da non poter caratterizzare in maniera esaustiva l’intervento di un singolo professionista della salute. Lo stesso affermarsi di una concezione della salute che considera la malattia l’espressione di una complessa interazione di fenomeni e di esperienze che coinvolgono globalmente la persona malata, mette l’accento sulla necessità di superare  modelli parcellizzati di interventi sanitari a favore di approcci maggiormente integrati realizzabili attraverso la pratica collaborativa.

L’OMS dà indicazione di alcuni ambiti particolarmente sensibili alla pratica interprofessionale6 (Tab 1). Nello scenario globale, uno di questi è rappresentato dall’area materno-infantile che ogni giorno è colpita da un elevata mortalità causata da complicazioni da parto. I dati allarmanti e prevedibili delle statistiche sulla mortalità materno-infantile possono essere efficacemente abbattute, secondo l’OMS, dalla gestione integrata dei problemi di salute della famiglia da parte di operatori sanitari ben addestrati a lavorare in gruppi interprofessionali. Una seconda area considerata sensibile alla pratica interprofessionale è quella relativa a malattie quali HIV/AIDS, tubercolosi e malaria. L’integrazione ed il coordinamento dei diversi gruppi professionali, capaci di adattare i loro interventi di prevenzione e trattamento alle peculiarità dei contesti locali, sono di fondamentale importanza per il successo dei programmi di prevenzione e trattamento, finalizzati a ridurre la diffusione e la quota di decessi  causati da tali malattie.

Salute pubblica relativa a famiglia e comunità
 HIV/AIDS, tubercolosi e malaria
 Emergenze e crisi umanitarie
 Epidemie e pandemie

Tab. 1 – Contesti/problemi sensibili all’approccio interprofessionale (OMS 2010).

Una terza area riguarda tutte quelle situazioni di crisi umanitarie e di conflitto per le quali sono richieste risposte ben pianificate e coordinate, peculiari dei contesti di emergenza in cui, spesso, è necessario superare anche le esigenze più elementari di approvvigionamento di acqua, cibo e medicinali con un buon impiego delle risorse e dei mezzi disponibili all’interno dei sistemi sanitari locali e delle comunità interessate6. Le situazioni sopra accennate sono tutte caratterizzate da bisogni molto diversificati e fortemente instabili che vanno affrontati con risposte interprofessionali ben integrate con il territorio, conformi ed adeguate ai contesti ambientali, orientate a garantire la sicurezza del singolo e delle comunità ed a ottimizzare le risorse sanitarie, spesso limitate e insoddisfacenti, dei paesi in cui si verificano.

In letteratura, i risultati della pratica interprofessionale sono valutati da diversi punti di vista. Ad oggi i dati forniti dalla ricerca suggeriscono che il lavoro basato sul team può massimizzare e rafforzare le competenze di ciascun professionista e migliorare l’efficienza dei processi assistenziali, quando il gruppo interprofessionale è in grado di ridurre la sovrapposizione di servizi e interventi, di applicare modelli di cura condivisi, di realizzare una maggiore continuità e un miglior coordinamento delle cure e di coinvolgere i paziente nel processo decisionale. La pratica interprofessionale può risultare utile anche per rafforzare l’adesione alla mission istituzionale ed evitare disaffezione per il lavoro; può contribuire a mitigare la migrazione della forza lavoro sanitaria perchè determina una  maggiore soddisfazione degli operatori sanitari quando riescono effettivamente a lavorare in team6.

Non sono molte le esperienze che dimostrano l’effettivo contributo della pratica interprofessionale ad una migliore accessibilità e coordinamento dei servizi, all’uso appropriato delle risorse specialistiche, al miglioramento degli esiti assistenziali ed alla sicurezza dei pazienti.  L’esiguità di studi sugli outcome clinici7 può essere attribuito alla difficoltà nel controllo di variabili legate ai meccanismi relazionali e valoriali che sottendono i meccanismi processuali della risposta globale alle cure. Tuttavia i risultati documentati in letteratura incoraggiano a proseguire nella verifica di tali esiti e a procedere negli sforzi necessari a costruire le competenze utili a “lavorare insieme”.

Definizione ed obiettivi

L’agire interprofessionale dovrebbe essere annoverato tra le principali competenze del professionista della salute da sviluppare fin dal contesto formativo di base attraverso metodologie innovative e coerenti con le finalità della pratica interprofessionale da applicare ai processi di cura, di assistenza e di riabilitazione.

L’OMS conferisce alla Formazione Interprofessionale (FI) un ruolo primario  per preparare gli studenti delle professioni sanitarie alla pratica interprofessionale2. La prima esperienza di FI risale al 1986 quando l’Università Linköping in Svezia iniziò ad implementare l’educazione interprofessionale per gli  studenti  della Facoltà di Scienze della Salute con la programmazione di percorsi formativi specifici e con l’attivazione di un reparto a conduzione interprofessionale8. Nello stesso periodo, nel Regno Unito viene fondato il Center for the Advancement of Interprofessional Education (CAIPE) organismo indipendente che associa organizzazioni professionali e universitarie interessate allo sviluppo della pratica interprofessionale e della qualità dell’assistenza erogata da professionisti che abbiano appreso a lavorare insieme. Il CAIPE ha continuato nel tempo a sostenere e a diffondere l’approccio interprofessionale alla formazione e alle cure sanitarie, sia in ambito nazionale che internazionale9. Negli anni 2000, la Formazione Interprofessionale si è andata consolidando in termini di quantità e qualità di esperienze. Un numero sempre crescente di paesi ha iniziato a focalizzarsi sulla prospettiva interprofessionale per rinnovare i propri sistemi sanitari. Intorno al tema dell’Interprofessionalità sono nate riviste, associazioni e network (Tab 2). Ad oggi, l’interesse per la FI continua a crescere all’interno delle politiche sanitarie, tra i formatori ed i ricercatori per avviarsi a diventare caratteristica dominante della formazione contemporanea in sanità10.

Nel Report del 1988 “Learning together to work together”, l’OMS ne ha legittimato la finalità: “la Formazione Interprofessionale assicura ai professionisti della salute la capacità di lavorare insieme per incontrare i bisogni della popolazione”. Nel 1997,  la FI è stata definita dal CAIPE una situazione di apprendimento che si verifica “… quando due o più professioni apprendono con, da e su ognuna di esse con l’obiettivo di migliorare la collaborazione e la qualità della cura” (Fig. 1). Alla FI viene dunque affidato il compito di implementare le competenze basate su cooperazione, assertività, responsabilità, autonomia, comunicazione, coordinamento, fiducia e rispetto reciproco11 attraverso un approccio globale alla formazione che coinvolge non solo l’aspetto cognitivo degli studenti, ma che mette in gioco tutte le potenzialità della persona in formazione. Gli obiettivi specifici della FI sono così riassunti da D’Amour et al.12: volontà a lavorare insieme, fiducia nella propria ed altrui competenza, rispetto reciproco, conoscenza del contributo alla cura del paziente delle altre figure professionali. Per la realizzazione di tali finalità, si tratta di andare oltre la formalità  dei “corsi integrati” – che spesso si sono rivelati molto lontani da un dialogo interdisciplinare – per  realizzare una feconda sinergia tra docenti e discipline e costruire una modalità di approccio formativo che consenta agli studenti di esplorare le infinite modalità con cui il paziente incontra la sua malattia anche attraverso il confronto con altri approcci di cura e di valutare di volta in volta le soluzioni più idonee ed appropriate in un ottica multidimensionale e globale, con un pensiero che non separa o riduce, ma contestualizza e collega ciò che è complesso.

I metodi ed i contesti

A dimostrazione della diffusione della FI, è da notare che il termine “patient care team” è tra le key words della banca dati PUbmed da circa 40 anni13. La maggior produzione di studi riguardanti la FI proviene dagli USA (54%) e dal Regno Unito (35%). La durata delle esperienze di FI è > 2 giorni in quasi tutti i casi (54% >7gg; 24% 2-7gg). La FI viene condotta sia in ospedale che sul territorio. È rivolta a medici ed infermieri in più dell’80% delle esperienze14.

La ricerca di settore indica che la FI è maggiormente efficace quando vengono utilizzati i principi dell’apprendimento degli adulti, quando i metodi di apprendimento riflettono le reali esperienze degli studenti e favoriscono le loro interazioni. Molte di queste esperienze sono infatti informate da strategie di progettazione e di insegnamento basate sulla teoria di apprendimento degli adulti15, sul coinvolgimento emotivo e cognitivo del gruppo come strumento di apprendimento e sull’apprendimento come processo di modellamento tra un modello osservato e un discente osservatore. Dentro questi riferimenti teorici vengono utilizzati metodi di apprendimento attivo quali il Problem Based Learning e le discussioni di casi clinici in piccoli gruppi così caratterizzati: gruppi in cui sono rappresentati in modo equilibrato tutte le diverse figure professionali in formazione16; gruppi stabili con 8-10 studenti17 in modo da favorire  una certa conoscenza reciproca18. Nel piccolo gruppo gli studenti possono analizzare le storie dei pazienti e i diversi aspetti di un problema di salute partendo dalle specifiche prospettive professionali, ma individuando soluzioni capaci di superare i confini ed i limiti di modelli e strumenti su cui ogni professionista basa la propria attività e le proprie modalità comunicative.

Australasian Interprofessional Practice and Education Network (AIPPEN) http://www.aippen.net/
Canadian Interprofessional Health Collaborative (CIHC) http://www.cihc.ca/
European Interprofessional Education Network (EIPEN) http://www.eipen.eu/
National Health Sciences Students’ Association in Canada (NaHSSA) http://www.who.int/workforcealliance/members_partners/member_list/nhssa/en/index.html
The Network: Towards Unity for Health. http://www.the-networktufh.org/
Nordic Interprofessional Network (NIPNet) http://nipnet.org/
Centre for the Advancement of Interprofessional Education (CAIPE) http://www.caipe.org.uk/

Tab. 2 – Organizzazioni internazionali.

I contesti di tirocinio che maggiormente offrono un terreno favorevole allo sviluppo di atteggiamenti e competenze interprofessionali sono identificati negli ambiti della Geriatria19, della Primary Health Care20, della Rural Medicine21,  della Medicina Riabilitativa22. Sono in definitiva rappresentati da tutti quei contesti dove la qualità delle relazioni e dei processi supera con più facilità le asimmetrie di potere a favore di strategie di negoziazione e di costruzione di comuni obiettivi. L’apprendimento risulta più efficace quando gli studenti si inseriscono in ambienti favorevoli ai rapporti, alle relazioni e ai contatti umani, in cui si evitano tutte quelle situazioni di anonimato e di indifferenza così frequenti nelle aule, nelle segreterie e, ancor peggio, nei contesti di tirocinio che reclamano, tra gli obiettivi dichiarati, la competenza comunicativa ma dove spesso non c’è alcuna traccia di ascolto e di comunicazione con cui lo studente possa confrontarsi e sperimentarsi. Il clima educativo, caratterizzato da collaborazione e supporto tra docenti, studenti, tutor e quanti partecipano quotidianamente alla vita universitaria con responsabilità non solo formative, ma anche organizzative, dovrebbe permettere allo studente di muoversi all’interno di una progettualità formativa in maniera flessibile, ma soprattutto dovrebbe diventare l’immagine di quell’ambiente che lui stesso dovrà ricreare intorno al paziente nel futuro esercizio professionale. Condizioni particolarmente fertili alla Formazione Interprofessionale sono anche attribuite a quell’ampia gamma di attività extracurricolari23 che gli studenti delle diverse professioni possono condividere al di fuori dei momenti di formazione formale e che vanno dalla musica, allo sport, alla condivisione di progetti di volontariato e di cooperazione internazionale.

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Fattori ostacolanti e favorenti

La letteratura descrive numerosi fattori che ostacolano la realizzazione di un approccio formativo così complesso quale è quello della FI.  Parsell & Bligh24 li riassumono  nelle seguenti tipologie: strutturali (es.: la mancanza di spazi idonei e di risorse finanziarie); legati agli atteggiamenti (es.: le resistenze al cambiamento); curriculari (es.: la rigidità dei piani di studio, la scarsa formazione dei docenti); disciplinari (es.: approcci riduzionisti alla conoscenza, la mancanza di conoscenza di altre professioni).

Tra gli elementi che influiscono positivamente sullo sviluppo della FI, alcuni autori individuano la competenza acquisita in materia di educazione interprofessionale dai docenti stessi attraverso specifici corsi14. Su questo aspetto, l’OMS sollecita i paesi interessati a potenziare programmi di FI per docenti con lo scopo di dotarli di conoscenze, abilità e attitudini per promuovere l’apprendimento interprofessionale tra gli studenti sia in ambito clinico sia in aula. In particolare, si suggerisce che la formazione dei docenti comprenda focus specifici sui cambiamenti attitudinali, sulla comprensione dei ruoli e delle responsabilità degli altri professionisti sanitari e sull’acquisizione di abilità interprofessionali da applicare in quelle stesse aree utilizzate per la formazione degli studenti6. Steinert25  raccomanda che i programmi formativi per i docenti ruotino intorno a tre argomenti chiave: gli atteggiamenti che impediscono il successo della pratica interdisciplinare; la padronanza della didattica interdisciplinare, la conoscenza degli elementi di progettazione curriculari. In definitiva, la FI, per gli obiettivi che persegue e le metodologie che utilizza, richiede ai docenti una professionalità nuova, che non può essere improvvisata, ma che va acquisita soprattutto attraverso specifiche iniziative di formazione e di aggiornamento. Essa è frutto di integrazione di competenze scientifico-culturali con competenze psicopedagogiche sostenute dal vivo interesse dei docenti per gli studenti da formare.  Il docente deve aver ben chiaro che la FI richiede, come tutti i compiti didattici: 1. l’assunzione di un modello antropologico che metta bene in risalto come il soggetto della formazione sia tutto lo studente e non solo la sua sfera cognitiva; 2. l’utilizzo di metodologie didattiche che spostino l’attenzione dall’insegnamento allo studente e ai suoi processi di apprendimento; 3. un forte orientamento etico che deve restituire a ciascuno dei protagonisti (docente-studente) la responsabilità del processo, invitandoli a confrontarsi con la ricaduta dei risultati nei confronti del paziente26. Gli sforzi dei docenti devono essere naturalmente accolti in un contesto di Facoltà e di Ateneo decisamente orientato a creare opportunità di apprendimento collaborativo, a potenziare i team ed ogni iniziativa di collaborazione, a sostenere programmi di implementazione della didattica interprofessionale.

I risultati

Alla ricchezza delle proposte formative interprofessionali descritte in letteratura, non sempre corrisponde la valutazione critica dei suoi risultati soprattutto in termini di ricadute sulla salute.  E’ vero che la valutazione in ambito formativo si confronta con numerose limitazioni per lo più legate alla complessità delle realtà di apprendimento e non sempre riconducibili alla semplicità univoca degli indicatori. Tutta la ricerca in campo educativo risente di problematiche non facilmente risolvibili, come la mancanza di strumenti idonei a documentare i risultati ottenuti; i campioni numericamente limitati per ragioni etiche, metodologiche e pratiche; la difficile costituzione di gruppi di controllo per l’impossibilità a riprodurre situazioni formative pressoché identiche; la difficoltà di riproducibilità per le particolari caratteristiche del fattore umano, tipico di ogni ricerca in campo educativo, che, a parità di protocollo, modifica intrinsecamente la composizione del gruppo, le dinamiche relazionali e le logiche di cooperazione/competizione26.

Le esperienze valutative della FI  puntano maggiormente al gradimento degli studenti.  La revisione di  Hammick M, et al.14 sull’esperienze di FI evidenzia che essa è generalmente ben accolta dai partecipanti e consente agli studenti di apprendere le conoscenze e le competenze dei diversi professionisti, ma è meno in grado di influenzare in modo positivo gli atteggiamenti e le percezioni verso gli altri componenti del team. Nel quadro delle iniziative di miglioramento della qualità, la Formazione Interprofessionale è spesso consigliata per migliorare lo sviluppo della pratica e dei servizi. Tuttavia si suggerisce di documentare con maggior dettaglio le strategie che possono contribuire al cambiamento degli atteggiamenti, anche adottando modalità comuni per la valutazione dei risultati prodotti dalla FI ed aprendo l’analisi ai contesti di pratica simulati e reali, fino ad osservare i risultati sul paziente e sulle modalità di erogazione delle cure nei servizi sanitari.

Per approcci valutativi maggiormente comparabili, Hammick suggerisce di utilizzare i 4 livelli di valutazione proposti di Kirkpatrick che prevedono, al primo livello, la valutazione delle opinioni degli studenti sulle esperienze di apprendimento interprofessionale; al secondo livello la valutazione delle modifiche negli atteggiamenti o nelle percezioni reciproche tra i gruppi di partecipanti alla FI; al terzo livello la valutazione del cambiamento effettivo dei comportamenti attraverso l’applicazione dell’apprendimento interprofessionale negli ambienti di lavoro con conseguenti modifiche dei modelli organizzativi; infine, al quarto livello, i vantaggi ottenuti dai pazienti dall’applicazione dei contenuti della FI in termini di salute e benessere.

Conclusioni

L’impegno profuso dai contesti educativi per attivare programmi di Formazione Interprofessionali basati su specifici obiettivi, su adeguate metodologie e su appropriate forme di valutazione non può essere disgiunto da quello profuso dai contesti assistenziali per realizzare una pratica interprofessionale funzionale  ed appropriata alla gestione dei nuovi bisogni di salute della popolazione ed in particolare dei pazienti affetti da malattie cronico-degenerative. “Learning together to work together for better health” è quanto è stato ribadito dall’OMS nel 2010 per ciò che riguarda la FI: la volontà di formare le competenze dell’agire interprofessionale è giustificata esclusivamente dalla volontà di perseguire una reale integrazione dell’atto sanitario per una migliore gestione dei problemi di salute.  Ed è difficile pensare ad un risultato di questo tipo senza tentare di dare anche un decisivo impulso ad una chiara ed esplicita integrazione delle politiche che regolano i contesti formativi e sanitari del nostro Paese.

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Cita questo articolo

de Marinis M.G., de Marinis M.C., L’interprofessionalità come risposta unitaria e globale ai problemi di salute: obiettivi, metodologie e contesti formativiL’interprofessionalità come risposta unitaria e globale ai problemi di salute: obiettivi, metodologie e contesti formativi, Medicina e Chirurgia, 58: 2586-2591, 2013. DOI:  10.4487/medchir2013-58-6

Le tematiche didattico-pedagogiche delle Cure Palliativen.58, 2013, pp.2580-2581, DOI: 10.4487/medchir2013-58-4

Abstract

The fast growing of  needs in the field of palliative cares  and  the financial resources reserved to hospices need of physicians  expert in this area.

The core curriculum of our Medical School do not  prepare  students specifically for palliative care and recently the Minister of Public Health has encouraged  the arrangement of master courses in palliative cares specifically devoyed to the physicians of public health service.

We need physicians expert in palliative cares in different field of Medicine (Anesthesiology. Oncology, Radiotherapy, Hematology, Pediatrics, Geriatry, Neurology, Internal Medicine, Infectious Diseases; therefore, we must oblige our Medical Dchools to have, in these different field of learning, a significant amount of credits devoted to Palliative Cares.

We  suggest three different steps:

The first,  in the field of Medical Humanities,, at the beginning of the Medical School, where Studenst face with the problem of death and of the end of life.

The second, in the middle of the Medical School, where  Students face with the peculiar characteristics of Palliative cares and with the  approach with the terminal patient.

 The third one, at the end of the School, where Students face with the clinical problems  of therminal patients in different clinical settings (Neurology, Oncology Internal medicine etc).

Articolo

Gli estensori di questa comunicazione sono i membri del Gruppo di Lavoro voluto dalla Conferenza per formalizzare la offerta formativa del CLMMC  nel campo delle Cure Palliative

Il rapido sviluppo delle cure palliative in Italia, soprattutto nell’ultimo decennio ,  a seguito della legge 39 del 1999 che per prima ha stanziato finanziamenti per la attivazione degli hospices , ha evidenziato in maniera critica il problema della formazione alle cure palliative: si è infatti creato un enorme divario tra sviluppo assistenziale e quindi richiesta di personale qualificato e scarsità dell’offerta formativa a livello universitario.

La legge 15 marzo 2010 n.38 (Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore) prevede all’articolo 8 (Formazione aggiornamento del personale medico e sanitario in materia di cure palliative e di terapia del dolore) la attivazione di specifici percorsi formativi, assegnando all’Università il compito di “individuare i criteri generali per la disciplina degli ordinamenti didattici di specifici percorsi formativi in materia di cure palliative e di terapia del dolore connesso alle malattie neoplastiche e a patologie croniche e degenerative e per l’istituzione di master in cure palliative e nella terapia del dolore”.

L’inserimento dell’insegnamento della medicina palliativa nei corsi di laurea sia il presupposto indispensabile per una buona formazione anche nei livelli successivi e per l’ottenimento di un soddisfacente livello assistenziale.

La formazione in medicina palliativa, sia a livello pre-laurea che a livello specialistico, è sviluppata in Canada, USA, Australia, Nuova Zelanda  e nel Nord dell’ Europa..

Un recente articolo pubblicato sul New England Journal of Medicine conferma la stringente necessità di avere Medici Specialisti in Cure Palliative, poiché il loro intervento ‘ migliora la qualità delle cure, riduce i costi globali della assistenza, e in certi casi, persino,  incrementa la longevità (1).

In Italia la grande maggioranza dei Corsi di Laurea prevede l’ insegnamento della Medicina Palliativa nell’ ambito di diversi Corsi Integrati (Medicina Interna, Anestesia e Rianimazione, Medicina Specialistica, Farmacologia) senza però un suo specifico percorso od una sua organizzazione.

Le Cure Palliative sono state recentemente riconosciute come Disciplina dal SSN relativamente agli ambiti disciplinari  clinici sotto indicati (sono le specialità considerate equipollenti che permettono l’accesso alla disciplina cure palliative).

– Anestesiologia e Rianimazione

– Oncologia

– Radioterapia

– Ematologia

– Pediatria

– Geriatria

– Neurologia

– Medicina Interna

– Malattie infettive

Ne consegue che si deve pensare alla possibilità che uno Studente di Medicina scelga di diventare ‘Palliativista’

Bisogna, quindi,  sottolineare nei Regolamenti Didattici la necessità che i Laureati in Medicina acquisiscano le competenze in Cure Palliative; come gli stessi ambiti disciplinari individuati dal SSN indicano, è altresì chiaro che la associazione, inizialmente valida, tra Oncologia e Cure palliative,  si è nel tempo stemperata ed ora il Medico competente in Cure Palliative è un professionista che può esercitare il suo sapere in ambiti assai diversi come la Pediatria, la Geriatria, la Neurologia, oltrechè, naturalmente, la Oncologia.

Ciò ci ha portato a riflettere sulla necessità di costruire un percorso formativo che abbia delle caratteristiche di dorsale palliativista, di un percorso, cioè, che si sviluppi nell’arco dei dodici semestri affrontando il problema, da un punto di vista teroico e cioè con un lavoro didattico frontale su tre livelli successivi di complessità

– Approccio molto precoce, di tipo valoriale e relazionale, in Medical Humanities o Introduzione alla Medicina su concetti generali  legati alle Cure Palliative , quali,  ad esempio, il problema del confronto del Medico con la morte, il fine vita nei suoi aspetti umani ed etici.

– L’approccio pallitivista alla Clinica attraverso una formazione fornita, nel Corso di Metodologia Clinica da Docenti che sappiano fornire agli Studenti le basi del sapere in Cure Palliative, standardizzate sulla consuetudine consolidata alla pratica terapeutica (Oncologi degli adulti, Oncologi pediatri) (IV-V anno).

– Le Cure Palliative Specialistiche (con riferimento specifico ai 9 ambiti clinici specialistici sopra riportati) (V-VI anno).

Deve essere prevista anche una attività professionalizzante legata ai tre momenti didattici teorici sopra riportati.

Legata al primo modulo, la frequenza di una struttura Hospice territoriale con lo scopo, molto generale, di approccio al problema di fine vita

Legata al secondo ed al terzo la frequenza di Hospices o strutture specialistiche ai nove ambiti specialistici messi in rilievo dalle direttive del SSN, e /o  la frequenza dei MMG laddove hanno, come in Lombardia, in carico specifico pazienti terminali da seguire al domicilio.

Indispensabile, ci sembra,  a questo proposito, un censimento delle diverse situazioni locali nazionali, per valutare la entità delle risorse a disposizione e la possibilità di stipulare convenzioni Università-Hospices per la frequenza degli Studenti.

A Milano, ad esempio, è disponibile l’ elenco di una rete di strutture e di ambulatori disponibili a ricevere, per formazione, Studenti della Facoltà medica.

La valutazione deve essre fatta nell’ambito dei Corsi Integrati nei quali è inserito l’insegnamento delle Cure palliative, con certificazione del voto specifico per la parte dell’esame dedicato alle Cure palliative.

La esperienza professionalizzante, specie quella svolta in relazione all’insegnamento in Medical Humanities, potrebbe entrare a far parte del portfolio dello Studente da esibire per una valutazione aggiuntiva, al termine del percorso di studi, ad esempio nell’esame finale di Clinica medica.

Bibliografia

T E. Quill, and A P Abernethy, Generalist plus Specialist Palliative Care – Creating a More Sustainable Model, N Engl J Med 2013; 368:1173-1175

Cita questo articolo

Scarone S., Biasco G., Cetto G., et al., Le tematiche didattico-pedagogiche delle Cure Palliative, Medicina e Chirurgia, 58: 2580-2581, 2013. DOI:  10.4487/medchir2013-58-4

Il Servizio di Ascolto e Consultazione per Studenti. L’esperienza del S.A.C.S. dell’Università degli studi dell’Aquilan.58, 2013, pp.2582-2585, DOI: 10.4487/medchir2013-58-5

Abstract

The mission of the Counselling and Consultation Services for Students (S.A.C.S.) of the University of l’Aquila is to provide psychological assistance to students to address their academic and career concerns. Specifically the service is devoted to those students which are encountering obstacles and psychological distress during their academic life. In the academic year 2011-2012 forty-seven students, most of them female, were assisted by S.A.C.S. For each of them the clinical case history, the analysis of the problem and the mental and emotional well-being, have been assessed. Students afferent to the Service have reported a moderate level of perceived stress. In our study there were no statistically significant differences between the two sexes about the anxious-depressive symptoms and perceived stress levels except for the psychopathological dimension “somatization” which was much more represented in women.

In order to promote the mental health well-being in young people, and to prevent the abandonment of studies and consequent invalidation of university career, the implementation and improvement of the university counselling services should be of primary importance.

Articolo

Introduzione

La legge sul riordino della docenza universitaria n. 341/90 (art.13) afferma che: “il Tutorato è finalizzato ad orientare ed assistere gli studenti lungo tutto il corso di studi, a renderli attivamente partecipi del processo formativo, a rimuovere gli ostacoli ad una proficua frequenza dei corsi, anche attraverso iniziative rapportate alla necessità, alle attitudini ed alle esigenze dei singoli”. Sulla base di tale definizione l’Università dell’Aquila ha organizzato le attività di tutorato in tre fasi definite d’ingresso, in itinere e in uscita. All’interno del Tutorato in itinere viene collocato anche il servizio di counseling universitario (Servizio di Ascolto e Consultazione per Studenti- S.A.C.S.), istituito nel 1991 per venire incontro ai problemi e ai bisogni degli studenti universitari.

Il Servizio, coordinato dal Prof. Massimo Casacchia, si propone di sostenere gli studenti universitari durante il loro percorso accademico e di aiutare coloro che si trovano a vivere un momento di difficoltà dovuta ad un insuccesso nello studio o ad una condizione di disagio psicologico. Il S.A.C.S. si propone di prevenire l’insorgenza delle cause di abbandono, di contenere i tempi di permanenza degli studenti entro la durata legale del corso di studi e di promuovere e sostenere il successo scolastico. Lo sportello è completamente gratuito ed è aperto a tutti gli studenti dell’Ateneo. Lo staff è composto da counsellors esperti e da giovani medici in formazione della Scuola di Specializzazione in Psichiatria che volontariamente vi prestano la loro opera.

Dopo l’evento sismico del 6 Aprile 2009 il S.A.C.S. ha riorganizzato la propria attività sulla base delle nuove esigenze degli studenti. Oltre a continuare ad interessarsi del rendimento accademico e delle problematiche legate allo studio, come già era stato fatto in passato, ha rivolto la propria attenzione anche alle condizioni di vita, al benessere psicologico degli studenti e al loro grado di adattamento alla nuova realtà cittadina. Nel portale dell’Università (www.univaq.it) è possibile accedere al sito del SACS e avere informazioni rispetto agli orari di apertura dello sportello, ai recapiti telefonici ed e-mail  per contattare il servizio, effettuare un piccolo test per valutare i propri livelli di stress, ed avere alcuni consigli per fronteggiare meglio la situazione di disagio che si sta vivendo.

Il periodo della vita che coincide con l’inizio degli studi universitari rappresenta per i giovani un momento critico poiché segna il passaggio dall’adolescenza all’età adulta ed impone il confronto con aspetti evolutivi complessi (Casacchia et al. 1999; Ruby et al, 2009). Le difficoltà possono scaturire dal confronto con un contesto formativo differente, dalla perdita del precedente gruppo di riferimento dei pari e dalla lontananza dalla famiglia d’origine. L’esperienza universitaria per molti giovani può rappresentare una fonte di preoccupazione fino a determinare a volte un vero e proprio disagio emotivo (Casacchia et al, 2005). Numerosi studi in letteratura evidenziano una prevalenza particolarmente elevata di distress psicologici, disturbi d’ansia e depressione tra gli studenti universitari (Mahmoud et al, 2012; Vázquez et al, 2012), con una maggiore prevalenza di disturbi emotivi stress-correlati tra gli studenti di medicina (Verger et al, 2009; Dyrbye et al, 2006).

L’obiettivo del nostro studio è quello di descrivere l’attività svolta dal Servizio S.A.C.S. nell’anno accademico 2011-12 evidenziando le caratteristiche dell’utenza e le problematiche psicologiche emerse.

Materiali e metodi

Vengono effettuati due incontri conoscitivi con ciascun utente che si rivolge al Servizio, durante i quali, attraverso un ascolto attivo, si procede ad una raccolta anamnestica, ad un’analisi del problema principale e ad una valutazione dello stato di benessere psicologico. In un successivo terzo incontro viene restituito a ciascun utente un resoconto della valutazione effettuata proponendo una strategia di intervento per le problematiche riferite o emerse durante i colloqui: psicoeducazione e alfabetizzazione alle emozioni, individuazione dei pensieri disfunzionali e ristrutturazione cognitiva breve, problem solving, supporto psicologico, incontri di gruppo per la gestione dell’ansia, tutoraggio nello studio, invio ad ambulatori specifici per il disagio mentale nei giovani (U.O.S. SMILE- Servizio di Monitoraggio e Intervento precoce per la Lotta agli Esordi della sofferenza mentale e psicologica nei giovani dell’Ospedale “S. Salvatore” dell’Aquila).

Sono stati inclusi nel nostro studio tutti gli studenti che nel corso dell’anno accademico 2011-12 si sono rivolti al Servizio di Ascolto e Consultazione per Studenti dell’Università dell’Aquila. Tutti gli studenti sono stati sottoposti ai seguenti questionari standardizzati self-rating:

– General Health Questionnaire-12 items (GHQ-12) per la valutazione del livello di stress percepito (Goldberg et al, 1988);

– Self-Rating Anxiety Scale (SAS) per la valutazione della sintomatologia ansiosa (Zung, 1971);

– Self-Rating Depression Scale (SDS) per la valutazione della sintomatologia depressiva (Zung, 1965);

– Brief-Cope per la valutazione delle strategie di coping (Carver, 1997)

– Symptom Checklist-90-Revised (SCL-90-R) per la valutazione dei sintomi di disagio psichico in  varie dimensioni psicopatologiche (Derogatis, 1994)

Risultati e discussioni

Nell’anno accademico 2011-12 si sono rivolti al Servizio S.A.C.S. 47 studenti di cui 13 maschi (27,7%) e 34 femmine (72,3%) con un’età media di 24,85 (ds+5,9). Le caratteristiche socio-demografiche del campione sono riportate nella Tabella 1.

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Il 46,8% (N=22) è venuto a conoscenza del Servizio attraverso l’informativa telematica, il 27,7% (N=13) tramite locandine e brochures distribuite in aula e nelle biblioteche, il 17% (N=8) ha conosciuto il SACS attraverso il “passaparola”, e nel restante 8,5% (N=4) l’afferenza al Servizio è stata consigliata da un docente. Nella maggior parte dei casi il contatto è avvenuto attraverso l’invio di una e-mail. Il 34% (N=16) degli utenti ha contattato il Servizio riferendo difficoltà nel percorso accademico (ritardo negli studi, blocco agli esami e/o ansia d’esame, difficoltà di adattamento al contesto universitario, demotivazione, difficoltà di concentrazione e di memoria, riduzione del rendimento), il 51,1% (N=24) ha lamentato una sintomatologia ansioso-depressiva o sintomi psicopatologici di varia natura (attacchi di panico, insonnia, iperarousal, sintomatologia post-traumatica, sintomi psicotici, disturbi somatoformi) e il 14,9% (N=7) si è rivolto al Servizio per problematiche relazionali in ambito familiare, affettivo o sociale.

Il 66% degli utenti vive a L’Aquila come studente fuori sede e condivide l’abitazione con altri giovani universitari, mentre il 21,3% ogni giorno raggiunge la sede universitaria da altre città limitrofe. Il 46,8% degli studenti che si sono rivolti al Servizio ha direttamente vissuto l’evento sismico del 6 Aprile 2009 e di questi il 36,3% ha perso la propria abitazione.

Gli studenti afferenti al Servizio hanno riportato un punteggio medio al GHQ-12 di 20,21 (ds+6,1) indicativo di un moderato livello di stress percepito (cut-off >15), con punteggi medi più elevati nei maschi seppur senza differenze statisticamente significative tra i due sessi. Il punteggio medio riscontrato alla SAS è stato di 49,06 (ds+14,4) indicativo di una significativa sintomatologia ansiosa (cut-off>45), mentre alla SDS si sono riscontrati punteggi superiori al cut-off di riferimento (cut-off>50) nel 48,9% del campione. La valutazione della sintomatologia psicopatologica effettuata attraverso la SCL-90-R ha messo in evidenza valori superiori ai cut-off di riferimento nella maggior parte delle dimensioni indagate (“ansia”, “depressione”, “ossessività”, “somatizzazione”), con una differenza statisticamente significativa tra i due sessi per quanto riguarda la dimensione “somatizzazione” maggiormente rappresentata (Tab. 2) negli utenti di sesso femminile.

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Le principali strategie di coping adottate dal campione sono di tipo “adattivo” con prevalenza di stili di fronteggiamento come “affrontare operativamente” (74,4%), “uso del supporto emotivo” (68%) e ”pianificazione” (63,8%), tuttavia sono emerse anche strategie maladattive come ”distogliere l’attenzione” e “autoaccusa” utilizzate rispettivamente dal 61,7% e 65,9% del campione.

Nell’anno accademico 2011-12 l’attività del servizio SACS si è arricchita di nuove figure e molteplici iniziative che hanno permesso di accogliere più prontamente le richieste degli studenti e di fronteggiare al meglio le maggiori problematiche riscontrate (ritardo negli studi,  stato di ansia pre-esame,  difficoltà ad affrontare una prova orale, ecc):

– Tutor Senior: sono studenti senior iscritti ad una Laurea Specialistica o ad un Dottorato di Ricerca che hanno il compito di supportare i colleghi in difficoltà o fuori corso. I Tutor Senior hanno rappresentato un aiuto prezioso per la qualità del servizio e hanno permesso di monitorare costantemente e più da vicino gli studenti attraverso il Tutorato in Ingresso (ascolto alle matricole) e il Tutorato in Itinere (tutor d’aula, progetto Help, monitoraggio carriere, valutazione della qualità percepita, assistenza studenti extra-comunitari).

Progetto Help: iniziativa già intrapresa in passato con lo scopo di  monitorare e supportare gli studenti fuori corso. Attraverso gli elenchi forniti dalla Segreteria Studenti è stata inviata una lettera via e-mail a tutti coloro che presentavano un ritardo negli studi con l’invito a contattare il Servizio. Successivamente sono stati organizzati incontri di gruppo in cui si è cercato di rilevare le difficoltà, sia accademiche che psicologiche, e nei quali sono stati proposti interventi individuali di supporto, tecniche di gestione per l’ansia, strategie per migliorare la metodologia di studio. Con il lavoro dei Tutor Senior inoltre è stato offerto agli studenti fuori corso la possibilità di ripetere gli argomenti d’esame e di preparare il programma con una costante supervisione.

– Incontri di gruppo per la gestione dell’ansia: Iniziativa aperta a tutti gli studenti dell’ateneo, volta alla comprensione della natura fisiologica dell’emozione ansia e all’insegnamento di tecniche di respirazione e rilassamento muscolare  per la gestione dello stress secondo il metodo Andrews (Andrews et al, 2003). Sono stati organizzati gruppi di lavoro durante i quali è stato distribuito del materiale informativo ed è stata effettuata una valutazione testistica specifica.

Nell’anno accademico 2011-2012 si sono rivolti al Servizio SACS per lo più utenti di sesso femminile: la maggior richiesta di aiuto da parte delle studentesse potrebbe  essere legata soprattutto a differenze personologiche e alla maggiore predisposizione delle stesse a ricevere aiuto rispetto ai soggetti di sesso maschile. Anche se le studentesse rappresentano la popolazione più a rischio per lo sviluppo di patologie stress correlate come ansia e depressione (Vázquez et al, 2012), nel nostro studio non sono emerse differenze statisticamente significative tra i due sessi per quanto riguarda la sintomatologia ansiosa, depressiva e i livelli di stress percepito, tranne che per la dimensione psicopatologica “somatizzazione” che è risultata maggiormente rappresentata nelle donne.

Tra gli studenti che hanno richiesto una consulenza al SACS quelli del CLM in Medicina e Chirurgia sono i più rappresentati, costituendo il 38% del campione esaminato. Questo dato può essere spiegato sia dalla maggiore predisposizione di questi ultimi a vivere condizioni di stress legati al percorso formativo scelto (Dyrbye et al, 2006), sia dalla localizzazione dello sportello nel polo didattico di Medicina, di più facile accesso per gli studenti di questo corso di laurea.

Il disagio riscontrato nel nostro campione inoltre potrebbe essere determinato anche dalle difficili condizioni di vita che si sono venute a creare dopo il sisma del 2009: l’esperienza del terremoto infatti ha inevitabilmente interessato sia coloro che l’hanno direttamente vissuta e sia quanti si sono ritrovati a vivere le conseguenze dell’evento (mancanza di punti di aggregazione per i giovani, difficoltà a trovare un alloggio a prezzi equi, displacement)

Conclusioni

Gli sportelli di counseling universitari, per la loro localizzazione e per la facilità di accesso rispetto agli ambulatori pubblici che operano in ambito della salute mentale, rappresentano un’immediata risposta alle richieste di aiuto dei giovani che si trovano ad affrontare un disagio emotivo-psicologico durante il loro percorso di crescita. Sarebbe opportuno implementare la diffusione di tali servizi al fine di prevenire l’insorgenza di disturbi psichiatrici, promuovere il benessere psicologico e la salute mentale nei giovani, contrastare il ritardo negli studi e il fenomeno dell’abbandono.

Bibliografia

1) Andrews G, Creamer M, Crino R, Hunt C, Lampe L, Page A. Trattamento dei disturbi d’ansia. Guide per il clinico e manuali per chi soffre del disturbo. Centro Scientifico Editore, 2003.

2) Carver CS. You want to measure coping but your protocol’s too long: consider the brief COPE. Int J Behav Med. 1997;4(1):92-100.

3) Casacchia M, Giosuè P, Roncone R. Sopravvivere all’Università. Gruppo Tipografico Editoriale, L’Aquila, 2005.

4) Casacchia M, Arduini L, Roncone R. Servizi di consultazione psicologica per gli studenti universitari: esperienze a confronto. Atti della Giornata di Studio L’Aquila, 10 Dicembre 1999.

5) Derogatis L. R. Symptom Checklist-90-R (SCL-90-R): Administration, scoring and procedures manual. Minneapolis, MN: National Computer Systems Inc. 1994.

6) Dyrbye LN, Thomas MR, Shanafelt TD. Systematic review of depression, anxiety, and other indicators of psychological distress among U.S. and Canadian medical students. Acad Med. 2006 Apr;81(4):354-73.

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8) Goldberg DP, Gater R, Sartorius N, Ustun TB, Piccinelli M, Gureje O, Rutter C. The validity of two versions of the GHQ in the WHO study of mental illness in general health care. Psychol Med. 1997 Jan;27(1):191-7.

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10) Ruby R. Brougham, Christy M. Zail, Celeste M. Mendoza, Janine R. Miller. Stress, Sex Differences, and Coping Strategies Among College Students Current Psychology June 2009, Volume 28, Issue 2, pp 85-97.

11) Vázquez FL, Otero P, Díaz O Psychological distress and related factors in female college students. J Am Coll Health. 2012;60(3):219-25.

12) Verger P,  Guagliardo V, Gilbert F, Rouillon F, Kovess-Masfety V. Psychiatrc disorders in students in six French universities: 12-month prevalence, comorbidity, impairment and help-seeking. Soc Psychiatr Epidemiol (2009).

13) Verger P, Combes JB, Kovess-Masfety V, Choquet M, Guagliardo V, Rouillon F, Peretti-Wattel P. Psychological distress in first year university students: socioeconomic and academic stressors, mastery and social support in young men and women. Soc Psychiatr Epidemiol, 2009;44:643-650.

14) Zung WWK: A self-rating depression Scale. Arch Gen Psychiatry, 12:63, 1965.

15) Zung WWK: A rating instrument for anxiety disorders. Psychosomatics 12:371, 1971.

Cita questo articolo

de Lauretis I., Giordani Paesani N., Casacchia M., et al., Il Servizio di Ascolto e Consultazione per Studenti. L’esperienza del S.A.C.S. dell’Università degli studi dell’Aquila, Medicina e Chirurgia, 58: 2582-2585, 2013. DOI:  10.4487/medchir2013-58-5

Indice n. 58/2013

MEDICINA E CHIRURGIA
QUADERNI DELLE CONFERENZE PERMANENTI DELLE FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA

58/2013

(scarica qui il l’intero numero in PDF)

SOMMARIO

 

Editoriale

Corsi di Laurea e post-Laurea di Formazione in Farmacovigilanza, di Luca Pani

Conferenza Permanente dei Presidenti di CLM in Medicina e Chirurgia

I punteggi soglia del concorso di accesso nazionale a Medicina e Chirurgia per ripartizione geografica. Analisi dei dati negli ultimi otto anni, di Giuseppe Familiari, Rossella Baldini, Claudio Barbaranelli et al.

Distribuzione dei CFU negli SSD dei CLM in Medicina e Chirurgia, di Luigi Demelia, Italo Angelillo, Amos Casti et al.

Le tematiche didattico-pedagogiche delle Cure Palliative, di Silvio Scarone, Guido Biasco, Gianluigi Cetto, et al.

Il Servizio di Ascolto e Consultazione per Studenti. L’esperienza del S.A.C.S. dell’Università degli studi dell’Aquila, di Ida de Lauretis, Giordani Paesani, Chiara Di Venanzio et al.

Conferenza Permanente delle Classi di Laurea delle Professioni Sanitarie

L’interprofessionalità come risposta unitaria e globale ai problemi di salute: obiettivi, metodologie e contesti formativi, di Maria Grazia de Marinis, Maria Concetta de Marinis

L’insuccesso accademico nei Corsi di Laurea delle Professioni Sanitarie e il monitoraggio dell’efficienza formativa, di Angelo Dante, Luisa Saini

Studio individuale e studio guidato. Concetti, bisogni e approcci, di Alvisa Palese, Lucia Cadorin

Forum Pedagogico

L’integrazione del territorio nel sistema delle cure. Ricadute sul processo formativodi  Pietro Gallo, Fabrizio Consorti, Carlo della Rocca et al. 

Notiziario

Resoconto della 108a Conferenza Permanente dei Presidenti dei CLM in Medicina e Chirurgia Roma 4-6 Ottobre 2012, di Amos Casti

Resoconto della 109a Conferenza Permanente dei Presidenti dei CLM in Medicina e Chirurgia Roma 10 dicembre 2012, di Amos Casti

Aggiornamento della Conferenza Permanente delle Classi di Laurea delle Professioni Sanitarie, di Alvisa Palese

Libri

Il giuramento di Ippocrate, di Vivian Nutton

Scuole italiane di Medicina

La Scuola biochimica bolognese di Giovanni Moruzzi, di Amos Casti

La Scuola biochimica bolognese di Giovanni Moruzzi

Giovanni Moruzzi, proveniente da Parma dove si era laureato in Chimica Pura, Farmacia e successivamente in Medicina e Chirurgia, univa le competenze fondamentali e cruciali per fare sorgere la “Biochimica”.

Nato a Parma il 19 novembre 1904 aveva iniziato la sua carriera universitaria nel 1929 come assistente nell’Istituto di Fisiologia Umana dell’Università di Parma, diretto dal Prof. Camis, dove si occupò dapprima delle proteine vegetali  e successivamente delle vitamine a seguito della sua collaborazione con il premio Nobel  Prof. Richard Kuhn. Fino dal 1934 ebbe l’incarico dell’insegnamento della Chimica Biologica, che mantenne anche negli anni seguenti quando nel 1936 passò come aiuto all’Istituto di Fisiologia Umana dell’Università di Bologna.

Vincitore del primo concorso bandito in Italia nel 1942 per la Cattedra di  Chimica Biologica, subito chiamato dalla Facoltà di Medicina e Chirurgia nello stesso anno fondò l’Istituto di Chimica Biologica di Bologna, che diresse ininterrottamente per 36 anni. Tenne anche l’incarico di Chimica Biologica per la Facoltà di Farmacia fino al 1972 e di questa Facoltà fu anche Preside dal 1965 al 1972.

Pur operando in un periodo drammatico per le devastazioni dell’Ateneo Bolognese, con coraggio e determinazione riuscì ad avviare e mantenere viva l’attività scientifica e didattica. Cessato il conflitto, animato da grande volontà e da non comune dedizione si accinse all’opera di costruzione ed espansione  della Scuola di Biochimica dell’Università di Bologna e si può pertanto attribuire al Prof. Moruzzi  il merito di essere uno del ristretto numero di pionieri che hanno gettato le basi della Biochimica Italiana.

Esiste, peraltro,  un evidente parallelismo tra l’evoluzione delle attività di ricerca promosse dal Prof. Moruzzi e lo sviluppo e il consolidamento della Biochimica in Italia. La varietà, originalità e importanza dei filoni di ricerca proposti dal Prof. Moruzzi ai suoi allievi sono stati alla base dell’espansione della Scuola, che ha visto accrescersi gradualmente sia il numero degli allievi dediti alla ricerca ed all’insegnamento in diverse Facoltà di parecchie Università, sia la quantità ed il livello della produzione scientifica.

I primi allievi del Prof. Moruzzi sono stati i Proff. Carlo Alfonso Rossi e Alfredo Rabbi e successivamente Romano Viviani, Mario Marchetti e Claudio Marcello Caldarera,  Edoardo Turchetto per Scienza dell’Alimentazione, Bruno Barbiroli per Biochimica Clinica, Giorgio Lenaz, Carlo Guarnieri per la Facoltà di Medicina e Chirurgia. Da questi sono derivati ulteriori allievi sia nella sede di Bologna che in altre sedi universitarie che procurarono grande sviluppo alla Scuola Bolognese di Giovanni Moruzzi; alcuni di questi allievi sono stati poi richiamati ad implementare la sede bolognese.

Dalla Chimica Biologica della Facoltà Medica di Bologna di Giovanni Moruzzi derivarono: 1) a Bologna l’Istituto di Biochimica della Facoltà di Medicina Veterinaria (Romano Viviani, Anna Rosa Borgatti, Emilio Carpenè), l’Istituto di Biochimica della Facoltà di Farmacia (Carlo Alfonso Rossi, Anna Maria Sechi, Lanfranco Masotti, Laura Landi), la Biochimica di Scienze Biologiche (Giorgio Lenaz, Bruno Andrea Melandri, Rita Casadio), la Chimica della Facoltà di Medicina e Chirurgia (Alessandro Bertoluzza); 2) a Roma la Chimica Biologica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (Adriano Castelli); 3) a Parma l’Istituto di Chimica Biologica della Facoltà di Medicina (Alfredo Rabbi, Claudio Marcello Caldarera, Lanfranco Masotti, Amos Casti, Petronio Pasquali, Carlo Clò, Alberto Spisni, Saverio Bettuzzi), 4) a Modena l’Istituto di Chimica Biologica della Facoltà di Medicina e Chirurgia (Bruno Barbiroli, Arnaldo Corti, Gabriele Mezzetti, Maria Stella Moruzzi, Maria Giuseppina Monti, Stefano Ferrari), la Biochimica della Facoltà di Scienze dell’Università (Lorenzo Bolognani,  Gian Paolo Rossini), la Biochimica della Facoltà di Scienza della Vita (Michele De Luca), la Biochimica della Facoltà di Agraria (Angela Conte); 5) in Ancona l’Istituto di Chimica Biologica della Facoltà di Medicina e Chirurgia (Giorgio Lenaz, Enrico Bertoli, Giovanna Curatola, Giulio Magni, Gian Paolo Littarru, Laura Mazzanti), la Chimica Biologica della Facoltà di Agraria (Siverio Ruggeri, Nadia Raffaelli), la Biochimica della Facoltà di Scienze (Fabio Tanfani); 6) a Camerino la Biochimica della Facoltà di Scienze (P. Natalini); 7) a Pisa l’Istituto di Chimica Biologica della Facoltà di Medicina e Chirurgia (Carlo Alfonso Rossi, Giovanni Ronca, Domenico Segnini, Simonetta Testoni, Antonio Raggi, Maria Ranieri, Riccardo Zucchi), l’Istituto di Chimica Biologica della Facoltà di Scienze (Pier Luigi Ipata, Umberto Mura), la Chimica Biologica della Facoltà di Farmacia (Antonio Lucacchini, Claudia Martini, Maria Mazzoni), la Chimica Biologica della Facoltà di Medicina Veterinaria di Pisa (Romano Felicioli); 8) a Sassari l’Istituto di Chimica Biologica della Facoltà di Medicina e Chirurgia (Bruna Tadolini, Carlo Ventura, Francesco Sgarrella).

Uomo di grandissima cultura ed amante del bello e dell’arte, era un oratore brillante ed affascinante che riusciva ad entusiasmare e trascinare sia gli allievi che gli studenti. Le sue lezioni, frequentatissime, erano dei momenti che appassionavano gli studenti portandoli ad amare una disciplina di non facile approccio. Queste sue doti erano riverberate nel testo di “Principi di Chimica Biologica”, uno dei primi apparsi in Italia,  che univa la semplicità dell’esposizione e delle illustrazione dei cicli metabolici alla profondità dei concetti, costituendo un testo di riferimento in molte Facoltà mediche italiane. Intere generazioni di studenti e tutti i suoi allievi si sono arricchiti dei principi di Biochimica continuamente dispensati ed aggiornati dal Prof. Moruzzi, che manifestava uno scrupolo estremo nel riportare i risultati della ricerca scientifica internazionale.

Quelli sopra elencati sono i Professori Ordinari della Scuola di Biochimica che perpetuando i principi, i valori, lo stile e le linee di ricerca proposte dal loro Maestro, Giovanni Moruzzi, hanno permesso la crescita e lo sviluppo della Scuola Bolognese nelle varie Facoltà di Bologna e delle altre Sedi come testimoniato anche dalla formazione di numerosissimi Professori Associati e Ricercatori che rappresentano la continuità ed il futuro dell’opera del  Professore Giovanni Moruzzi, riconoscendo in lui il Maestro che unendo alle capacità per la  ricerca quelle di ideazione e progettualità è stato in grado di scoprire talenti, di farli crescere e di valorizzarli.

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La Scuola Biochimica di Giovanni Moruzzi (Disegno di Claudio Casti)