Università e disabilitàn.69, 2016, pp. 3127-3132, DOI: 10.4487/medchir2016-69-3

Abstract

According to the most recent conceptual models, disability is a ‘diversity condition’; its recognition is a tool of social and cultural enrichment. Its normative re-definition had important consequences in University organization models.  This article briefly presents Sapienza’s experience, comparing it with that of a sample of Italian Universities and proposing possible integration of Medical curricula.

Articolo

  1. Evoluzioni recenti del concetto di disabilità; aspetti di rilevanza per l’ambito lavorativo e universitario

E’ ben noto come, per secoli, le strutture sociali del mondo occidentale siano state pensate in relazione alle caratteristiche fisiche di una maggioranza di ‘corpi’, percepiti come normali.

In un lunghissimo arco di tempo, sono stati prodotti diversi modelli concettuali che hanno tentato di discutere il concetto di norma e quelli di diversità, disabilità e mancanza, spostandosi variamente dal piano religioso a quelli medico, genetico e sociale; su di essi si fondano le nostre risposte culturali e organizzative al mondo della disabilità1. A partire dagli anni Settanta del Novecento, il progressivo abbandono del modello medico e assistenziale attraverso cui, sin dall’Ottocento, le società occidentali si erano andate relazionando con i portatori di deficit di varia natura2 ha condotto al prevalere di un’idea ‘sociale’ della disabilità; Di conseguenza, la misura della disabilità sarebbe da vedersi, principalmente, negli ostacoli architettonici e sociali che i gruppi sociali costruiscono o non contribuiscono ad abbattere, favorendo in questo modo l’isolamento fisico ed intellettuale di un gruppo numeroso di individui, mentre la diversità sociale dovrebbe intendersi tutte quelle differenze che possono modificare i rapporti all’interno di un gruppo.

Abbandonato o marginalizzato il determinismo medico con cui si era guardato a lungo al ‘problema disabilità’, dunque, la necessità diventava quella di proporre un nuovo modello interpretativo, in grado di fornire strumenti per la costruzione, a vari livelli, di pari opportunità nella vita quotidiana, nel lavoro, nell’istruzione e nella relazionalità in genere. Il modello bio-psico-sociale, che consegue a questo assunto, presuppone l’idea delle ‘differenze funzionali’ che caratterizzano il portatore di disabilità; tali differenze debbono permanere, per l’appunto, tali, senza degradarsi in condizioni di marginalità e non partecipazione3. Tale modello è espresso, già nel 2001, nell’ICF, documento prodotto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, in cui la disabilità è indicata come il prodotto dell’interazione di fattori diversi, alcuni legati ovviamente alla specificità delle dimensioni patologiche, altri invece determinati dall’incontro tra fattori individuali e condizioni ambientali e sociali4. In studi condotti su vari gruppi sociali caratterizzati dalla presenza di diversità è stata osservata la possibilità di una maggiore qualità della produzione, oltre all’espressione di una maggiore creatività e capacità decisionale di gruppo. In generale, la cultura dell’integrazione va ad arricchire l’insieme di esperienze e prospettive che caratterizzano un ambiente di lavoro produttivo, mettendo in gioco  le abilità e le capacità che ogni essere umano possiede5.

Una cultura di integrazione si caratterizza nel mettere in luce tutti questi potenziali benefici che scaturiscono dalla presenza di differenze individuali, favorendo lo scambio inter-gruppo.

Il mancato riconoscimento delle persone disabili come parte descrive i tratti di una cultura di esclusione che mal si accorda con la tutela dei diritti e la garanzia della libertà.

L’idea che il disabile sia tale in quanto l’ambiente non è in grado di fornirgli mezzi adeguati al disvelamento delle sue capacità impone, ovviamente, anche ai contesti educativi la necessità di ridurre progressivamente e abbattere “ogni barriera che impedisca la piena valorizzazione delle realtà presenti nel tessuto sociale”6. In modo concreto, l’adozione di un modello fondato sul concetto di uguaglianza e di empowerment delle persone con disabilità ha comportato la possibilità di un accesso equo alla distribuzione e condivisione dei saperi7, senza ovviamente che questo comporti alcuna variazione delle regole dell’istituzione universitaria stessa8, ma  prevedendo l’onere di abbattimento delle barriere e degli ostacoli, non solo fisici9.  A tal fine, l’ICF sottolinea l’importanza della figura e del ruolo del facilitatore al fine di ridurne l’impatto negativo su portatori di disabilità di varia natura.

Nella Convenzione Internazionale sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dall’ONU nel 200710, si sposta definitivamente il discorso sul piano dei diritti umani, tra i quali va incluso un generale ‘diritto alla diversità’, a cui a buon diritto fa riferimento l’universo della disabilità. Il forte portato di innovazione che, in anni recenti, ha segnato il prevalere del concetto di inclusione è, dunque, quello di non concettualizzare il disabile come bisognoso di un trattamento eccezionale11: egli è solo un individuo a pieno diritto partecipe della vita sociale del gruppo di riferimento, di cui condivide diritti, doveri e opportunità.

E’ evidente come, all’interno di questa prospettiva, l’università sia uno dei principali attori a essere chiamato in causa. Proprio al fine di limitare situazioni di disagio, l’università si impegna a diffondere una cultura di condivisione, che promuova nella comunità docenti-studenti la condivisione di progetti centrati sull’ inclusività12. Infatti va ricordato che al fine di valutare l’impatto della disabilità nella società del lavoro, in uno studio effettuato dalla National Institute on Disability and Rehabilitation Research (NIDRR) insieme all’università di Harvard sulle piu’ importanti compagnie industriali leaders nei rispettivi settori dell’economia, è stato evidenziato che, sebbene queste società adempiano ad obblighi di legge adottando una politica di supporto e tutela della diversità  in ambito lavorativo (diversity policies), tuttavia nelle loro definizioni/statement di diversità solo in meno della metà dei casi (42%) si cita tra queste la disabilità. In aggiunta, le poche compagnie industriali che, invece, sotto l’ombrello della diversità comprendono la disabilità e che mostrano policies standardizzate secondo i principi di legge e pari opportunità, non esprimono reale impegno nell’assumere le persone con disabilità; ciò pur confermandosi l’attenzione nel  promuovere la tolleranza nell’ambiente lavorativo13.

Infine, va ricordata anche la intervenuta riqualificazione ‘lessicale’ dei termini utilizzabili per indicare i disabili (da invalido a diversamente abile, con tutta una serie intermedia di variazioni). Le ambiguità terminologiche sembrano essere state affrontate e almeno parzialmente risolte nel 2006: un documento del CNB (“Bioetica e riabilitazione”) suggerisce che il termine prescelto debba essere quello di “persona con disabilità”, laddove il “con” non segnala una qualificazione assoluta dell’individuo, ma una qualità conseguita che lo rende non abile proprio in relazione ai contesti fisici, ambientali e culturali con cui interagisce14.

  1. Riflessioni sulla ridefinizione del concetto di disabilità: giurisprudenza, linee guida e diritto allo studio

E’ solo dal 1992 che l’Italia si dota di una normativa organica in merito alla tutela della disabilità, con la legge quadro 5 febbraio 1992 per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, nota con il nome di Legge 104.

Il diverso grado di disabilità, che condiziona le possibilità di inserimento all’interno del contesto universitario, impone la programmazione di una serie di interventi, atti nello stesso tempo a garantire il più possibile l’autonomia degli studenti e la realizzazione di tutti quegli interventi didattici e assistenziali che garantiscano ai  disabili il maggior benessere possibile, riducendo al massimo i disagi prettamente personali, ma anche quelli che coinvolgono i contesti di provenienza – le famiglie.

I successivi sviluppi normativi e di riflessione etica in Italia costituiscono un miglioramento anche in relazione alle trasformazioni sociali e tecnologiche e alle evoluzioni filosofiche, mediche e culturali che investono a livello internazionale il concetto stesso di disabilità.

Sette anni più tardi, la Legge 28 febbraio 1999, n.17 introduce direttive per gli Atenei italiani rispetto alle attività che devono essere svolte e ai servizi che devono essere erogati per favorire l’integrazione degli studenti con disabilità. Al fine la Legge prevede l’assegnazione di una quota del Fondo Finanziario Ordinario e la nomina di un delegato del Rettore alla Disabilità con funzioni di coordinamento, monitoraggio e supporto di tutte le iniziative concernenti l’integrazione degli studenti con disabilità nell’ambito dell’ateneo.

Nel 2001 nasce la Conferenza Nazionale dei Delegati per la Disabilità (CNUDD), – con cui la CRUI collabora dall’anno successivo – che promulga nel 2014 le Line Guida atte ad indirizzare le politiche d’Ateneo verso una migliore qualificazione del diritto allo studio.

Il 9 gennaio 2004 viene approvata la Legge n.4, ‘Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici’, mentre nell’ottobre 2010, la legge n. 170 introduce “Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico” e le relative Linee Guida. I principi ispiratori delle line guida nascono dal presupposto che la conoscenza, la cultura superiore e la partecipazione alla ricerca favoriscano il pieno sviluppo umano, l’ingresso nel mondo del lavoro e la realizzazione della libertà, intesa come opportunità di concretizzare le aspirazioni personali. Considerando la disabilità come una dimensione di diversità si possono valutare/riconoscere le reazioni da parte dell’ambiente nei confronti dei disabili anche in funzione delle diverse organizzazioni culturali, comprese quelle scolastico-universitariei che dovrebbero essere fondate su una culture of unity, in cui maggiore è l’obiettivo comune minori risultano le differenze tra i costituenti del gruppo lavorativo.

L’impegno pertanto è di promuovere e sostenere l’accesso all’Università, alla formazione e all’apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Per queste ragioni, il perseguimento delle finalità e degli obiettivi deve essere valorizzato dalla cooperazione all’interno del sistema universitario e sostenuto dalla attivazione di reti e collaborazioni con altri istituti di formazione e ricerca, – il sistema scolastico e gli enti territoriali – a livello non solo nazionale.

La disinformazione e la scarsa attitudine verso le persone disabili sono elementi di una cultura poco inclusiva, cui consegue il basso tasso di impiego lavorativo. I corsi dedicati alla diversità rappresentano interventi sociali e culturali molto efficaci per il miglioramento della conoscenza e delle relazioni all’interno dei gruppi con le persone disabili, con notevole riduzione dei pregiudizi sociali.

  1. Sapienza risponde…

Dalla necessaria applicazione del dettato costituzionale e di leggeii, ma anche dalla consapevolezza condivisa che l’università deve essere concepita come uno dei luoghi principe che consente l’esternazione di talenti e capacità individuali scaturisce il coinvolgimento di Sapienza, come delle altre università italiane, nella predisposizione di sistemi organizzativi atti a concretizzare il concetto di inclusività e a favorire l’affermazione del ‘diritto alla diversità’ anche nei settori della formazione.

Nel 2004, il Senato Accademico della Sapienza Università di Roma approva il Regolamento per i servizi in favore degli studenti disabili. Il Regolamento assicura la fruibilità delle strutture, servizi e prestazioni per garantire la libertà e la dignità personale, realizzare un’uguaglianza di trattamento e rispettare la specificità delle esigenze dello studente; promuove, infine, la partecipazione attiva in ambito universitario e sociale, favorendo così l’iter formativo ed impedendo i possibili fenomeni di emarginazione.

Esso è articolato in 18 articoli che stabiliscono la carta dei servizi, la struttura organizzativa, le modalità di accesso ai servizi e alle attività e l’aspetto finanziario e contabile degli stessi. Particolare interesse (Titolo I Art.6) viene posto sulla rilevazione del grado di soddisfazione dei destinatari delle attività e dei servizi.

Promuovere l’accesso all’apprendimento e alla formazione, nonché sensibilizzare sulla pari opportunità del diritto allo studio inserendo alla pari gli studenti diversamente abili e con disabilità/DSA, non solo è un mandato delle università, ma anche un mezzo per accrescere la qualità dell’istituzione.

Per questa ragione si è ritenuto necessario che ogni Ateneo si doti di una struttura specifica di servizi alla disabilità/DSA, coordinata da un Delegato del Rettore, coadiuvato da Referenti di Facoltà e/o delle altre strutture organizzative.

Il Delegato è un riferimento cardine, nella misura in cui, se da una parte favorisce l’integrazione, risolve le complesse problematiche presentate dalla disabilità e orienta le politiche dell’ateneo in materia di disabilità, dall’altra è il referente universitario per tutte le istituzioni, le strutture, gli enti extrauniversitari che si occupano di disabilità.

Compiti del Delegato sono la sensibilizzazione al tema della disabilità a qualsiasi livello dell’istituzione (Consiglio di Facoltà, Dipartimento, Scuola, ecc.), il coordinamento e la verifica funzionale di tutte le strutture coinvolte, la mediazione tra lo studente disabile e gli organismi didattici durante tutto il percorso formativo. Compito del Referente, invece, è stimolare la partecipazione attiva dello studente disabile, indirizzando questo verso i servizi di tutorato specializzato, offrendo collaborazione alla soluzione di eventuali problematiche logistico-organizzative, diffondendo le informazioni specifiche all’interno della propria Facoltà.

Il Servizio Disabilità di Ateneo (SDDA), istituito dal Regolamento suddetto e già presente in moltissimi altri atenei italiani, essendo il primo riferimento, ha in primis compito di accoglienza. Funge da interfaccia, quando necessario, con le famiglie e con i servizi territoriali e accompagna lo studente, in collaborazione con il Tutor ed il Referente di Facoltà attraverso tutto l’iter formativo. Queste figure, a più livelli, non operano in sostituzione dello studente, ma, fin dove possibile, lo stimolano ad una crescente autonomia, alla partecipazione attiva al processo formativo e all’integrazione in ambito accademico, pure stabilendo programmi personalizzati a seconda degli specifici bisogni e delle esigenze formative di ciascuno.

L’affiancamento del SDDA allo studente che abbia adeguati requisiti, nasce ancor prima del momento di ingresso nell’università, attraverso la progettazione di percorsi d’orientamento in ingresso che dovrebbero rendere più fluido il passaggio.  In modo analogo, esso non termina con il conseguimento della laurea, ma è programmato per progettare, in sintonia con l’ufficio di Job Placement dell’Ateneo, tutti gli interventi possibili finalizzati alla agevolazione dell’inserimento nel mondo del lavoro.

L’attività del Servizio, inoltre, si spende in collaborazione con gli uffici tecnici di Ateneo nel censimento e nella segnalazione delle criticità ambientali per il loro superamento;  nella mappatura dell’accessibilità degli edifici universitari per l’abbattimento delle barriere architettoniche; nella facilitazione della mobilità all’interno dell’Ateneo e nei percorsi di accesso, attraverso convenzioni con gli enti di trasporto del territorio e con le cooperative di servizi ed assistenza nei casi di disabilità che limitano significativamente l’autonomia dello studente.

Particolarmente significativo in questo ambito è il contributo che tende, infine, a facilitare la strutturazione di programmi funzionali all’organizzazione di soggiorni studio all’estero, sensibilizzando gli studenti alla partecipazione a progetti che prevedono la mobilità internazionale e favorendo reti organizzative che permettano la realizzazione di tali iniziative.

Tutta questa complessa attività viene nel tempo costantemente monitorata dal Delegato di Ateneo al Nucleo di Valutazione Qualità, onde revisionare e migliorare l’erogazione e la qualità dei servizi.

I numeri sono tali da giustificare un importante impegno: per l’a.a. 2014-2015, i soggetti iscritti ai corsi di laurea di Sapienza- Università di Roma che hanno presentato certificati attestanti disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) e invalidità pari o >66% nell’a.a. 2014/2015 sono distribuiti nelle facoltà come esposto nella tabella 1.

  1. Iniziative universitarie in Italia: esperienze campione

Già da alcuni anni il mondo universitario ha progettualizzato il suo rapporto con la disabilità, in modo centrale e in singoli contesti localii. Vogliamo qui solo segnalare alcune esperienze campione che, soprattutto per la loro replicabilità, sembrano di particolare interesse formativo.

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Già nel 2009, la Fondazione CRUI ha proposto il progetto “Socializziamo la disabilità”, nel quale 45 volontari di servizio civile reclutati in Abruzzo, Campania, Lombardia, Piemonte, Puglia, Sardegna, Umbria e Veneto erano impiegati, per trenta ore settimanali, al fine di creare le condizioni materiali entro le quali gli studenti con disabilità potessero “implementare le loro capacità personali, al fine di far emergere risorse e potenzialità inespresse”. Tutte le Università sono state coinvolte nella stesura di schede per il rilevamento dati, nel loro completamento attraverso la rilevazione dei bisogni dei ragazzi disabili e la successiva riprogrammazione dei servizi sulla base delle necessità e segnalazioni emerse. La partecipazione al progetto consentiva di maturare competenze professionali spendibili in altri contesti, regolarmente certificate dalle Università partecipanti. Inoltre, la partecipazione al progetto ha consentito di cumulare un numero di CFU variabile, da sede a sede, da 5 a 9; o, in alternativa, una certificazione di tirocinio.

L’Università di Parma, con un precoce impegno sui temi della disabilità intrapreso già nel 1969, ripropone da anni il tema dell’attività di servizio volontario, sia nella forma del servizio studentesco riconosciuto, sia nella forma della Banca del tempo, che consente di acquisire e di spendere crediti-ore anche attraverso il supporto alla disabilità. In particolare, ci sembra da segnalare come esperienza replicabile in altri contesti l’organizzazione parmense di corsi base e avanzati LIS per studenti con disabilità uditive.

In altri contesti, le Università si sono consorziate in progetti di analisi e di studio; è il caso di un progetto promosso dalla FISH – Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap e co-finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Gioventù. Il progetto si è articolato attraverso focus tematici e interviste, e ha prodotto un report, consultabile on line; il report ha il merito di evidenziare l’esistenza di alcune realtà di ‘buone prassi’ in contesti diversi del Sud italianoii.

Per quanto riguarda il Lazio, una rapida indagine ha consentito di verificare che le Università regionali si sono dotate da tempo di centri di servizio per studenti con disabilità; segnaliamo come particolarmente fruibili i siti di Roma Treiii, di Unituscia e dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale – CUDARI.

  1. Conclusioni

La brevissima analisi di quanto fatto finora suggerisce esperienze di replicabilità in altre sedi: in particolare, alcune delle proposte formative dell’Università di Parma sembrano poter essere facilmente inserite nei curricula formativi almeno delle Facoltà mediche, nella forma di attività didattiche elettive. I corsi integrati di Metodologia Medico- scientifica appaiono come i più idonei ad accogliere attività di formazione elettive che ricadono nelle sfere di competenza culturale tanto della psicologia, quanto della storia concettuale della medicina, dell’etica e della bioetica.   La creazione di corsi aperti agli studenti, volti a fornire competenze tecniche diverse a seconda del livello e della tipologia di disabilità, sembra essere particolarmente consigliabile perché favorisce quelle forme di facilitazione e apprendimento ‘alla pari’ che si sono rivelate particolarmente utili a superare criticità e momenti di difficoltà formativa e comunicativa. Inoltre, la frequenza di corsi qualificanti anche dal punto di vista professionale consentirebbe il doppio vantaggio della facilitazione ai percorsi di inclusione e della creazione di competenze professionalizzanti spendibili in contesti diversi. In uno studio inglese condotto su 597 studenti della facoltà di Medicina presso il Department of Clinical Medicine – University of Bristol, in un periodo di 4 anni sono stati valutati i termini scelti dagli studenti che venivano associati con la parola “disabilità” prima e dopo un breve corso sulla disabilità. Prima del corso gli studenti selezionavano termini di depersonalizzazione o con significato negativo, come ‘Sedia a rotelle, Handicap, Svantaggio, Insufficienza, Difficoltà, Pregiudizio’. Successivamente al corso, questa associazione si modificava, ribaltandosi nettamenteiv. Emerge, quindi, l’importanza degli effetti positivi legati all’insegnamento e alla sensibilizzazione sociale su temi sulla disabilità, per una cultura di integrazione e riconoscimento della disabilità come diversità. Secondo alcuni autori, l’educazione medica nei confronti delle persone disabili dovrebbe cominciare a livello universitario già nei primi anni, the logical place to start – in particolare da quegli insegnamenti nel cui core curriculum è trattato il rapporto medico-pazientev. Il docente-tutor dovrebbe, infatti, spiegare agli studenti come il modello tradizionale di diagnosi-trattamento debba trovare uno specifico modo di coniugarsi nella relazione con le persone disabili.  La “whole person medicine” rappresenta un approccio al paziente globale che si prende cura anche dello stato emozionale e delle relazioni con il proprio ambiente e rappresenta il principale ambito in cui la disability medicine trova la sua collocazione ideale. Essa richiede, peraltro, notevoli capacità comunicative e abilità da parte dei docenti. L’importanza del posizionamento all’interno dei primi anni di corso, motivato dal tentativo di limitare il rischio che la tendenza al tecnicismo possa affievolire la disposizione ad un rapporto più empatico con il paziente, è stata evidenziata da diversi studivi.

A livello regionale, un suggerimento potrebbe riguardare l’istituzione (all’interno del CRUL) di un coordinamento degli Atenei del Lazio sul tema specifico della disabilità: modello ispirativo potrebbe essere il CALD, la rete di coordinamento degli atenei lombardi per la disabilità, operante già dal 2011, le cui numerose attività sono consultabili al sito www.cald.it.

Sforzi congiunti di questo tipo risponderanno all’esigenza di applicare anche all’ambito universitario un concetto di cultura inclusiva, che non mortifica la diversità ma la rispetta dandole un valore, uno spazio perché possa esprimersi come opportunità per tutti.

Bibliografia

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2) Schianchi M., La terza nazione del mondo. Milano, Feltrinelli, 2009.

3) Marra A.D., Ripensare la disabilità attraverso i Disability Studies in Inghilterra. Intersticios 2009;3,1: 79-99 http://www.intersticios.es

4) OMS, International Classification of Functioning, Disability and Health. http://www.who.int/classifications/icf/en

5) Spataro S.E., Diversity in Context: How Organizational Culture Shapes Reactions to Workers with Disabilities and  Others Who Are Demographically Different. Behav Sci Law, 2005,23(1):21-38

6) CNB, Bioetica e disabilità, parere 17 marzo 2006, p. 11, in cui si sottolinea come questo passaggio comporti la divulgazione del concetto di inclusione, destinato a soppiantare quello di integrazione, ritenuto non più adeguato in quanto presuppone che sia il disabile a dover accogliere un panorama già precostituito, in cui i modelli non sono stati specificamente pensati in relazione alle sue esigenze, ma sono predeterminati sulla base di un assunto principio di normalità.

7) D’Alessio S., Disability Studies ed Educazione Inclusiva. Seminario Università di Bergamo ‘I Percorsi dell’Inclusione’, Maggio 2009.

8) Cfr. La formazione docente per un sistema scolastico inclusivo in tutta Europa. European Agency for Development in Special Needs Education, Odense-Brussels, disponibile al sito https://www.european-agency.org/sites/default/files/te4i-challenges-and-opportunities_TE4I-Synthesis-report-IT.pdf

9) L’Art. 24 della Convenzione ONU (Educazione) sancisce nello specifico che il sistema di istruzione deve essere pensato come inclusivo, atto a garantire “un apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita”. A tal fine, gli Stati parti sono chiamati, tra l’altro, a garantire  che le persone con disabilità non siano escluse dal sistema di istruzione generale in ragione della disabilità, che venga loro fornito un accomodamento ragionevole in base ai bisogni di ciascuno, che ricevano il sostegno necessario, all’interno del sistema educativo generale, al fie di agevolare la loro effettiva istruzione e che “siano fornite efficaci misure di sostegno personalizzato in ambienti che ottimizzino il progresso scolastico e la socializzazione, conformemente all’obiettivo della piena integrazione”.  Questo intento, come specificato dal comma 5 dello stesso articolo, riguarda anche l’educazione universitaria, la formazione professionale, l’istruzione degli adulti e l’apprendimento continuo. Cfr. AAVV (a cura di), ICF e Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. Nuove prospettive per l’inclusione. Trento, Erickson, 2009, in part. TERZI L., L’approccio delle capacità applicato alla disabilità: verso l’ingiustizia nel campo dell’istruzione.

10) L’art. 5 della Convenzione delle Nazioni Unite presuppone in questo senso l’attivazione di misure e sostegni atti a garantire ai disabili la partecipazione a tutte le attività sociali della comunità di riferimento, dalla sfera dell’accesso ai beni e ai servizi ai trattamenti socio-sanitari.

11) Modelli socio-educativi che  si richiamano al concetto di inclusività sono oramai diffusi in ogni parte del mondo: l’educazione inclusiva, fondata sulle raccomandazioni UNESCO già dal 1994 (adottate dalla Conferenza di Salamanca nello stesso anno), si riflette anche nella Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Bambini del 1989, nella Dichiarazione di Jomtien dell’anno successivo, e in tutta una serie di documenti successivi (cfr. per esempiole Standard Rules on the Equalization of opportunities for Person with Disabilities, 1993) che sottolineano  “the principle of equal…educational opportunities for youth and adults ewith disabilities in integrated settings”. MUNYI C.W., Past and Present Perception Towards Disability: A Historical perspective. Disability Studies Quarterly, 8th jan. 2014.

12) Pavone M., L’inclusione educativa. Indicazioni pedagogiche per la disabilità. Milano, Mondadori, 2014. Vaccarelli A., Studiare in Italia. Intercultura e inclusione all’Università. Milano, Franco Angeli, 2015.

13) Ball P., Monaco G., Schmeling J., Schartz H., Blanck P., Disability as diversity in Fortune 100 companies. Behav Sci Law. 2005,23(1):97-121

14) Barattella P. e Littamé E., I diritti delle persone con disabilità. Dalla Convenzione Internazionale ONU alle buone pratiche. Trento, Erickson, 2009.

15) Phillips B.N., Deiches J., Morrison B., Chan F., Bezyak J. L., Disability Diversity Training in the Workplace: Systematic Review and Future Directions.  J Occup Rehabil 2015, Published online: 30 October.

16) D’Amico M., introduzione a D’Amico M., Arconzo G., Università e persone con disabilità. Percorsi di ricerca applicati all’inclusione a vent’anni dalla legge n. 104 del 1992. Milano, Franco Angeli, 2013.

17) Alcune esperienze  sono già codificate, con risultati pubblicati: cfr. per esempio il già citato  M. D’Amico, G. Arconzo, Università e persone con disabilità. Percorsi di ricerca applicati all’inclusione a vent’anni dalla legge n. 104 del 1992. Milano, Franco Angeli 2013, che ben documenta lo stato dell’arte negli Atenei milanesi.

18) Si segnala qui il sito SINAPSI dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, a cura del quale viene pubblicata anche una newsletter. http://www.sinapsi.unina.it/

19) Cfr. anche il convegno internazionale organizzato nell’Ottobre 2015 dall’Università di Roma Roma Tre in collaborazione con la Regione Lombardia e la Fondazione Charta “L’Università Roma Tre per l’Inclusione. Formazione continua e Progetto di vita”, http://www.uniroma3.it/news2.php?news=7483&p=1

20) Byron M, Cockshott Z, Brownett H, Ramkalawan T., What does “disability” mean for medical students? An exploration of the words medical students associate with the term “disability”. Med Educ. 2005 Feb;39(2):176-83.

21) Claxon A., Teaching medical students about disability. The logical place to start. BMJ, 26 March 1994,vol;308; Fielder A.R., Teaching medical students about disability. BMJ, Birmingham B15 2TT 1994vol. 308 28mAY

22) Wilkes M., Milgrom E., Hoffman J. R., Towards more empathic medical students: a medical student hospitalisation experience. (Commentary) Med Educ 2002;36:504–5; 36:528–33;

23) Downie R. S., Towards more empathic medical students: a medical student hospitalisation experience. (Commentary.) Med Educ 2002;36:504-5.

Cita questo articolo

Cavaggioni G., Gazzaniga V., Mitterhofer A.P., Università e disabilità, Medicina e Chirurgia, 69: 3127-3132, 2016. DOI: 10.4487/medchir2016-69-3

Criteri e parametri di valutazione della didattica ai fini della valutazione del docenten.63, 2014, pp.2830-2841, DOI: 10.4487/medchir2014-63-2

Abstract

The Working Group (WG) has identified a number of topics that constitute the “quality of teaching” vast planet with particular emphasis on aspects related to the “quality of Teacher” in a perspective of integrated educational and scientific evaluation of the teacher.

In this document, which is a synthesis of what has been discussed and approved by the Standing Conference of the Presidents of the Council of  Degree in Medicine and Surgery, the most critical issues arised following the implementation of the ANVUR-AVA legislation are discussed and a series of corrective actions in areas of particular significance for the evaluation of the Teacher in the School of Medicine are proposed.

Articolo

A. Premesse generali alla valutazione della didattica

1. Valutare e  misurare

La valutazione è “un atto (che implica nei casi di maggiore complessità, raccolta di informazioni, analisi e riflessione) tendente alla formulazione di giudizi di valore su un oggetto, su una situazione o su un evento” (Lipari 1995). Questo implica che vi siano dei criteri socialmente e culturalmente condivisi e che il soggetto valutante sia in possesso di un’autorità e di una legittimazione tale da essere riconosciuta da parte del valutato.

“La valutazione deve poter avere conseguenze nella realtà. Non è quindi solo produzione di un giudizio, ma produzione di un giudizio che consenta di fare” (Bisio 2002).

La valutazione è “un evento politico, essa non ha carattere neutro ed è esposta, a sua volta, a condizionamenti da parte dei committenti o delle parti interessate. Per tali peculiarità, gli esiti della valutazione, oltre a costituire un’informazione utile per impostare, correggere, migliorare programmi sociali, possono anche essere costruiti e utilizzati allo scopo di legittimare le iniziative assunte e i programmi già avviati” (Fraccaroli, Vergani 2004).

Riguardo gli oggetti della valutazione è possibile distinguerli in due diverse categorie, che danno luogo alla “valutazione di prodotto” e alla “valutazione di processo”. La prima si basa sulla verifica della rispondenza tra obiettivi e risultati (Tyler 1949), è nata dall’esigenza di abolire azioni basate sulla casualità, l’improvvisazione, l’ambiguità. Per poter valutare è necessario definire prima obiettivi descritti come comportamenti attesi e necessita quindi di una standardizzazione. La seconda si basa sull’accertamento del valore sociale ed educativo di un’azione formativa (Eisner 1967) ed in campo educativo è nata dall’esigenza di far luce sul processo di apprendimento per migliorare l’offerta formativa.

Per ottenere un risultato soddisfacente sono necessarie entrambe: la valutazione di prodotto consente di verificare se il risultato finale corrisponde a quanto stabilito e per questo necessita di una definizione esatta di quanto bisogna produrre ma “poiché un risultato è sempre la conseguenza di un processo d’azione, senza l’analisi del processo, la comprensione dei risultati risulta fortemente problematica e comunque parziale” (Lipari 1995). La valutazione di processo si occupa di tutti gli aspetti che lo caratterizzano dall’inizio alla fine.

Permette di riflettere su tutto il percorso formativo cogliendo anche quegli aspetti che una valutazione di prodotto non permetterebbe di osservare ma senza la valutazione del prodotto può dar luogo a risultati aberranti.

Da queste considerazioni emerge la necessità di sviluppare per ambiti molto complessi, quali ad esempio quello formativo, modelli di valutazione integrata sia di prodotto che di processo. Attraverso questo passaggio potrà realizzarsi nel tempo l’adeguamento del nostro sistema universitario a modelli consolidati e condivisi a livello internazionale, in particolare in accordo con quanto stabilito dall’European Association for Quality Assurance in Higher Education, ENQA, nel documento Standards and Guidelines for Quality Assurance in Higher Education, ESG.

L’introduzione di un sistema di valutazione, soprattutto in ambito formativo, deve essere in linea con i seguenti principi:

i.  valorizzazione del merito;

ii. garanzia di pari opportunità di diritti …ma anche di doveri;

iii. trasparenza dei risultati conseguiti;

iv. tempestività di diagnosi ed efficacia di intervento correttivo attraverso strutture accreditate per l’incident reporting per la segnalazione di “non conformità” (malfunzionamenti, disguidi, inosservanze delle norme, inceppamenti organizzativi, etc.);

v. definizione degli strumenti per gli interventi correttivi.

La misurazione intende quantificare, attribuire un punteggio secondo certi parametri. Ha l’obiettivo di consentire una stima, sulla base di un sistema di riferimento condiviso, delle informazioni sulle quali si intende operare o che debbono essere considerate ai fini di formulare un giudizio. Nella misurazione, attribuiamo dei valori numerici a oggetti o ad eventi secondo regole che permettono di rappresentare caratteri degli oggetti o eventi in questione con proprietà del sistema numerico. Per questioni sperimentali e teoriche (ad esempio il principio di indeterminazione di Heisenberg) ciò che intendiamo misurare non è, in realtà, descrivibile da un solo valore numerico, anche ipotizzando una precisione di misurazione infinita. Ciascuna misura è quindi una stima del valore vero. Per ragioni pratiche occorre quindi definire un intervallo entro cui la misura viene considerata accettabile. Quando intendiamo misurare parametri riferibili ad un prodotto o ad un processo è quindi essenziale definire gli standard di riferimento.

La valutazione tiene conto di attributi concreti, prevalentemente unidimensionali, risultati della misurazione ma non solo di essi in quanto è espressione anche di valori aggiuntivi non direttamente misurabili consistenti per esempio in benefici emotivi che riguardano attributi astratti, prevalentemente multidimensionali, non oggettivamente misurabili.

Nel mondo della Scuola-Università i termini misurazione e valutazione sono due funzioni spesso (con)fuse insieme.

2. La valutazione nella attuale realtà universitaria italiana

Nella attuale realtà universitaria (non solo italiana) l’attenzione riservata ai temi valutativi sembra essere prevalentemente il risultato di scelte politiche provenienti dall’esterno (SISTEMA ANVUR/AVA), come esito di una pressione esogena più che un bisogno emergente all’interno dell’organizzazione

Sicuramente nel corpo docente non esiste una diffusa cultura della valutazione ma non c’è ostilità preconcetta verso l’azione valutativa in sé, quanto piuttosto un sostanziale rifiuto verso una valutazione che si esprime unicamente in giudizi di adeguatezza o inadeguatezza.

E’ questo un effetto negativo, prodotto da forme di valutazione oggettiva dirette a fare classifiche e a stabilire la quota di risorse che vanno alle università in conseguenza di questa valutazione e che molto difficilmente riescono a favorire e sostenere processi di messa a punto e di superamento delle carenze rilevate (vedi a proposito  la “Raccomandazione sul DM 47/13” espressa dal CUN nell’adunanza del 27/3/13).

Il rischio di rifiuto diventa molto rilevante se gli indicatori scelti generano risultati aberranti e se il processo di valutazione è percepito come incompleto o parziale.

B. Valutazione della didattica-Valutazione del docente

1. Qualità della didattica: una scelta politica

In una prospettiva di facoltà o scuola di qualità l’attenzione alla qualità della docenza sembra essere un nodo essenziale, poiché si stima che in assenza di insegnanti competenti ed efficaci vengono a mancare le premesse fondamentali per la qualità della didattica e dell’offerta formativa.

Alla qualità del docente si accompagna la qualità dell’organizzazione della didattica (modalità della didattica, adeguatezza delle risorse umane o di struttura, ecc.), proveniente dalle determinazioni che riguardano il livello politico, amministrativo, organizzativo e gestionale su cui però la scuola o facoltà non sempre ha il potere di condizionare le scelte da adottare.

Le attuali pratiche valutative della didattica universitaria sono fondate principalmente sul rapporto fra docente e studente, dove chi apprende esprime un valore rispetto al processo di insegnamento avvalendosi di questionari/interviste come strumenti privilegiati di giudizio. Tali questionari sono costruiti soprattutto sulla filosofia della customer satisfaction, tendente a valorizzare l’assunzione di responsabilità delle organizzazioni formative e il potere del consumatore.

La student satisfaction, nonostante le tipiche aree di criticità da più parti rilevate, se opportunamente contestualizzata e delineata in relazione al valore formativo della valutazione, può motivare processi di revisione della pratica di insegnamento attuata dal docente, ma se considerata come fonte esclusiva (o quasi esclusiva) di informazione sullo stato della didattica rischia di ridurre gli spazi di intervento per il miglioramento della qualità. Sono quindi auspicabili nella valutazione della didattica/docente analisi a più livelli, pluralità di metodi e strumenti da adottare, pluralità di contesti da esaminare non solo basati su tale contesto.

2. Valutazione del docente: aspetti critici

La disponibilità del docente ad essere valutato e a rendere conto del proprio operato con misure oggettive (teacher accountability) è il prerequisito per affermare una pratica valutativa. L’esercizio della valutazione è, per il nostro sistema Universitario, certamente un inevitabile cambiamento epocale. A lungo infatti si è sottratto a tale necessità ed ancora oggi la sua applicazione è molto disomogenea. Accanto ad una diffusa mancanza di standardizzazione dei parametri di giudizio e condivisione di comportamenti c’è un aspetto molto rilevante che fino ad ora non è stato affrontato: la motivazione a farsi valutare. È infatti innegabile che, fino a quando la didattica rimarrà un’attività senza peso nella carriera del docente universitario, sarà molto difficile implementarne la valutazione. La valorizzazione delle attività svolte dal docente in termini di qualificazione e mantenimento della competenza didattica, anche se apparentemente un’ovvia conseguenza dell’operare nell’Università, è poco riconosciuta. Attualmente infatti la carriera del docente viene influenzata dalla ricerca (abilitazione nazionale e valorizzazione dei prodotti della ricerca) ma non dalla didattica. Quello speso nell’acquisizione di specifiche competenze, il mantenimento delle stesse, l’eccellenza (o il deficit), la coerenza con il mandato formativo assegnato nei Corsi di Laurea o nelle Specializzazioni viene quasi considerato tempo sottratto alla possibilità di fare ricerca (o assistenza).

Le principali criticità della pratica valutativa nell’attuale modello sono:

i.  La mancanza della definizione esatta ed inequivocabile degli obiettivi sul raggiungimento dei quali effettuare una verifica. In un buon sistema di qualità è infatti essenziale definire gli standard sia di prodotto che di processo che si intende raggiungere;

ii.  La mancanza di una formazione degli studenti come valutatori per esprimere un giudizio basato su regole e comportamenti condivisi;

iii. L’assenza della definizione di criteri oggettivi per cui si abbia da parte degli studenti la percezione che i loro sforzi nella valutazione diano risultati in termini di miglioramento della didattica poiché la qualità della partecipazione e della motivazione degli studenti è una premessa iniziale per il successo delle valutazioni degli insegnamenti/docenti;

iv. La scarsa flessibilità del modello di valutazione adottato (es., questionario) da sottoporre agli studenti in momenti differenti del corso tale per cui si riesca a cogliere l’aspetto evolutivo della percezione degli studenti riguardo al corso stesso con la possibilità di confrontarla con quella dei docenti;

v. La mancanza della valorizzazione della competenza didattica;

vi. La assenza di strumenti per identificare le situazioni aberranti ed intervenire per correggerle.

C. Valutazione del docente nella Scuola di Medicina

1. Le caratteristiche distintive dell’ordinamento degli studi medici

Esistono alcune caratteristiche peculiari e distintive dell’ordinamento degli studi medici che è bene sottolineare per giustificare la necessità di strumenti di valutazione specifici in questo contesto:

i.  Il Corso integrato: la specializzazione – e la parcellizzazione – del sapere medico hanno reso necessario il ricorso sistematico al corso integrato (CI) nella programmazione curricolare. Il significato ed il grado di integrazione dei CI variano notevolmente nella realtà, passando da CI mono-disciplinari con integrazione limitata ad una collaborazione di docenti della stessa disciplina, a CI multi-disciplinari nei quali si alternano docenti di settori scientifico-disciplinari differenti, a CI inter-disciplinari nei quali si realizza una reale integrazione con l’organizzazione di unità didattiche complesse e di copresenze. Pertanto nella valutazione del docente occorre tenere distinti due aspetti, uno relativo al CI (come riuscita complessiva), l’altro relativo ai singoli docenti che compongono il CI (caratteristiche di insegnamento/docenza).

ii. L’attività professionalizzante ed il tutor clinico: negli attuali schemi didattici largo spazio viene dato al tirocinio professionalizzante. Il tutor clinico non solo deve avere le competenze specifiche per l’ambito didattico per il quale è richiesto il suo contributo (così come il docente che svolge l’attività didattica formale) ma deve soprattutto operare in modo da permettere allo studente di elaborare un proprio profilo operativo (imparare “a fare”). Pertanto nella valutazione del docente nella Scuola di Medicina occorre tenere distinte le due figure: il professore e il tutor clinico (che possono anche essere la stessa persona a seconda della numerosità del personale ma con funzioni distinte)

iii. La Frequenza: a Medicina esiste l’obbligo certificato di frequenza per tutti gli studenti sia che si tratti di attività di didattica formale che di attività di tirocinio professionalizzante.

2. Gli ambiti di valutazione

Come discusso nell’introduzione, ambiti complessi, come appunto quello formativo, richiedono approcci valutativi multidimensionali, con analisi a più livelli, pluralità di metodi e strumenti da adottare, pluralità di contesti da esaminare (nel nostro caso non solo confinati all’attività didattica propriamente detta). Lavorando su questa base, il Gruppo di lavoro ha identificato quattro ambiti di valutazione del docente nella Scuola di Medicina:

1) Autovalutazione;

2) Valutazione del docente da parte degli studenti;

3) Valutazione del Tutor clinico da parte degli studenti;

4) Altre forme di valutazione del docente.

I quattro ambiti sono discussi in un’ottica di un percorso valutativo integrato e, laddove esistenti, le nostre proposte sono messe a confronto con le procedure ANVUR/AVA attualmente in vigore.

2.1 Autovalutazione

La scheda predisposta dall’ANVUR (Scheda n. 7, da compilarsi a cura del docente per ogni insegnamento) è divisa in due parti:

i. aspetti organizzativo-strutturali (carico di studio accettabile, orario lezioni, aule e servizi di supporto, etc., 6 items) e

ii. aspetti didattici (conoscenze preliminari, coordinamento, modalità esame, soddisfazione complessiva del docente, 4 items).

Le domande sono molto generali e prevedono come risposta un giudizio/opinione espressa dal docente con una scala valutativa a quattro gradi (da decisamente no a decisamente sì).

Il docente ha l’obbligo di compilare la scheda dopo lo svolgimento dei 2/3 delle lezioni e di consegnarla agli uffici competenti insieme al Registro delle attività didattiche al termine dell’anno accademico (31 ottobre anche se dovrebbe essere 30 settembre viste le semestralizzazioni).

Il GdL ritiene che la scheda così come predisposta dall’ANVUR/AVA, più che un’autovalutazione ex post del docente in merito alla qualità della realizzazione del corso, appare essere un dispositivo formale finalizzato ad adempimenti burocratici e come tale non sufficiente a garantire il raggiungimento dei due obiettivi fondamentali sottesi all’autovalutazione:

i. A livello personale: sviluppare nel docente un atteggiamento critico verso il proprio operato (practical reflections, educational criticism);

ii. A livello istituzionale: promuovere una responsabilizzazione del docente (teacher accountability) coinvolgendolo come parte integrante del processo di miglioramento dell’istituzione universitaria.

Proposte del GdL

Vista l’importanza del processo e l’assenza di una cultura e di una pratica diffusa di autovalutazione nelle Scuole di Medicina italiane, si propone un modello di autovalutazione più articolato composto dal questionario per l’autovalutazione del docente ed il teaching portfolio.

a) Questionario per l’autovalutazione del docente.

Si propone un questionario (Hoyt e Pallett 1999, modificato) composto da due sezioni. La prima sezione si riferisce al C.I. e contiene domande riguardanti:

1) il contesto in cui è collocato il CI (sia rispetto alle caratteristiche degli studenti, sia rispetto ad altri CI del curriculum;

2) gli obiettivi del CI;

3) le strategie didattiche impiegate;

4) i materiali didattici utilizzati;

5) le modalità di valutazione del profitto degli studenti adottate.

La seconda sezione si riferisce al singolo docente e contiene domande su:

1) le attività svolte in aula;

2) il coordinamento didattico con gli altri colleghi del CI.

L’obiettivo del questionario per l’autovalutzione è quello di spingere il docente a farsi le seguenti domande: 1 – è corretto il contesto in cui è collocato il corso integrato? 2 – sono chiari gli obiettivi del corso integrato? 3 – sono state discusse le strategie didattiche? 4 – i materiali didattici sono soddisfacenti e facilmente reperibili? 5- le modalità di valutazione del profitto sono state discusse dai docenti del corso integrato? 6 – è stato soddisfacente il coordinamento didattico? 7 – sono stati tenuti presenti nell’ambito del CI e nei singoli moduli i descrittori di Dublino? 8 – i cfu assegnati sono insufficienti o meno? 9 – il numero di ore di lezione e la loro organizzazione sono soddisfacenti? 10 – le attrezzature per le attività in aula sono adeguate?

Come tempistica di rilevazione, il questionario va compilato annualmente dal docente a chiusura del ciclo di lezioni e consegnato agli Organi di Valutazione interna per gli adempimenti del caso.

b) Teaching portfolio.

Una delle procedure indicate come la più adeguata a sensibilizzare il docente all’autovalutazione è quella della produzione del teaching portfolio.

Il teaching portfolio (da non confondere con il Registro delle attività didattiche) rappresenta una raccolta di dati, attestati, materiali vari, documentazione ufficiale, sulle attività del docente. La raccolta delle informazioni contenute nel portfolio non deve essere necessariamente esaustiva di tutte le attività compiute dal docente, ma presentare una selezione di quelle attività che egli considera didatticamente efficaci e qualitativamente importanti.

Dall’analisi della letteratura emerge che la costruzione del portfolio può avere una valenza sia soggettiva e servire al docente come stimolo all’autoriflessione, che istituzionale e servire al docente come un prodotto da utilizzare per integrare la documentazione della sua attività in vista della sua progressione di carriera.

Il portfolio potrebbe inoltre costituire, insieme ai risultati dei questionari di valutazione (sia autovalutazione del docente che valutazione del docente da parte degli studenti), uno strumento utile per misurare la qualità dei docenti e formulare una graduatoria di merito interna con effetti premiali per i più bravi (riconoscimenti di prestigio o economici o di carriera).

Gli elementi particolarmente significativi per la costruzione del teaching portfolio (trasformabili in indicatori a fini valutativi) possono essere:

i.  Tesi (numero e qualità) seguite dal docente come relatore;

ii. Risultati del progress test relativi all’area di riferimento del docente mediante l’analisi critica effettuata insieme agli altri colleghi del CI;

iii. Risultati degli esami  (rispondenza dei risultati rispetto agli obiettivi del CI, livelli di performance da parte degli studenti, analisi dell’andamento/risultanze, al di là del semplice score);

iv. Percentuale di presenze del docente ai consessi degli organi di governo (Consigli Struttura di Raccordo, Facoltà, Scuola, etc.);

v.  Partecipazione del docente a Commissioni relative all’organizzazione, programmazione, valutazione dell’attività didattica (es. Commissione Tecnica di Programmazione didattico-pedagogica, Commissione Paritetica etc.);

vi. Valutazione dei giudizi riportati dagli studenti (analisi critica e soluzioni formulate insieme agli altri colleghi del CI in caso di esiti negativi);

vii. Adesione ai descrittori di Dublino;

viii. Partecipazione del docente ad attività di formazione pedagogica finalizzate a migliorare le sue competenze in termini di progettazione, erogazione, valutazione del percorso di apprendimento. Con riferimento a quest’ultimo punto, potrebbe essere utile introdurre un sistema di accreditamento sul modello degli ECM (S.I.Pe.M., Atelier didattici della Conferenza, etc.).

La costruzione del teaching portfolio, come pratica autovalutativa, è a nostro avviso molto importante non solo su un piano concettuale innovativo ma anche tecnico di valutazione perché soddisfa il criterio dell’approccio valutativo multidimensionale includendo misure/valutazioni sia di processo (come il docente ha agito) che di risultato, quest’ultimo a sua volta inteso sia come output (quanto il docente ha prodotto) che come outcome (quale effetto ha avuto l’attività del docente rispetto agli obiettivi prefissati).

2.2 Valutazione del docente da parte degli studenti

Nella Scuola di Medicina italiana la valutazione dell’insegnamento/docente da parte degli studenti è pratica ormai accreditata, ben prima dell’introduzione del sistema ANVUR/AVA, anche se si registrano vistose difformità nei modelli sviluppati/criteri di applicazione adottati nelle differenti sedi.

I nodi ancora da sciogliere riguardano non tanto e non solo gli strumenti da adottare (di cui discuteremo più avanti) quanto piuttosto l’applicazione dei principi su cui si basa un sistema di valutazione efficace, applicazione ancora inesistente nella quasi totalità delle sedi.

Occorre pertanto considerare i seguenti aspetti:

i. sensibilizzazione dello studente alla valutazione (chi insegna agli studenti a valutare per garantire da parte loro un giudizio oggettivo ed omogeneo e come). Allo scopo potrebbero essere utilizzati brevi corsi sommministrati anche on-line;

ii. definizione di criteri oggettivi condivisi che trasmettano agli studenti la percezione che i loro sforzi nella valutazione diano risultati in termini di miglioramento della didattica;

iii. avvio di procedure validate per l’incident reporting, incluse sanzioni e correttivi da applicare in caso di inadempienze o omissioni.

Passando agli strumenti e prima di discuterne, è bene ricordare gli obiettivi sottesi alla valutazione del docente da parte dello studente che sono: espliciti di tipo culturale (la proposta di contenuti disciplinari da parte dei docenti, perché essi vengano appresi dagli studenti) e formativi (lo sviluppo personale e professionale dello studente). L’altro aspetto da ricordare riguarda l’attenzione all’efficacia versus eccellenza del docente. L’efficacia, ovvero il rendere sempre più efficaci i processi di insegnamento considerando prioritariamente la crescita culturale e professionale degli studenti, è un concetto che domina lo scenario internazionale da più di un decennio, collegato alla qualità della didattica complessiva dei corsi di laurea ed alle connessioni di questa con gli standard per valutarla e le eventuali procedure di accreditamento. La valutazione dell’efficacia si traduce sostanzialmente in termini di valutazione dell’apprendimento e della soddisfazione degli studenti. L’eccellenza ovvero l’esplorazione e adozione da parte del docente di nuovi approcci all’insegnamento e all’apprendimento, è un concetto più sofisticato e meno praticato, che richiede forme valutative più complesse (come dossier, peer- e self-evaluation) all’interno di una valutazione istituzionale.

La scheda predisposta dall’ANVUR per la valutazione del docente da parte dello studente (Scheda n. 1) è divisa in tre parti:

i.  aspetti di insegnamento (conoscenze preliminari, carico di studio/CR, materiale didattico adeguato, definizione delle modalità d’esame, 4 items);

ii.  aspetti di docenza (orari e puntualità del docente, qualità di insegnamento, attività didattiche integrative, etc, 6 items);

iii. interesse dello studente agli argomenti trattati (1 item); a queste tre parti si aggiunge una sezione di  “Suggerimenti al docente” (9 items già prefissati tra i quali optare, es., alleggerire il carico didattico complessivo, inserire prove d’esame intermedie, etc.).

Per le prime tre parti si richiede allo studente di esprimere un giudizio (quattro gradi di giudizio/ item, da decisamente no a decisamente sì).

Commentando la scheda predisposta dall’ANVUR e relativamente alla obbligatorietà e tempistica di rilevazione, vogliamo far notare che

i. l’obbligatorietà di compilazione deve essere per noi, più che un adempimento burocratico, un valore a cui educare lo studente di medicina;

ii. la tempistica di rilevazione al momento dell’iscrizione all’esame, qualora quest’ultimo si svolga a distanza di molti mesi dal corso, rende le risposte poco attendibili.

Suggeriamo come strumento migliore quello di un questionario di gradimento/soddisfazione da sottoporre a tutti gli studenti a lezione, possibilmente alla fine del CI, piuttosto che all’atto dell’iscrizione all’esame per evitare che passi troppo tempo tra attività e raccolta dei dati.

Relativamente alla formulazione della scheda, sulla base di quanto discusso sopra e dell’esperienza maturata in alcune sedi, proponiamo un modello più articolato rispetto a quello dell’ANVUR/AVA, composto da due sezioni:

– una prima di soddisfazione complessiva – aspetti di contesto, riferita al CI (6-8 item, soddisfazione, interesse agli argomenti, utilità o meno di ripetizioni e sovrapposizioni rispetto ad altri CI, etc.)

– una seconda riferita al “docente”, predisposta nominalmente per tutti docenti del CI, composta da due parti:

i.  aspetti organizzativi (pochi item, es., puntualità del docente all’inizio delle lezioni,  modalità di svolgimento dell’esame,etc.) e

ii. aspetti di docenza propriamente detta (5-6 item), questi ultimi relativi sia alla capacità del docente di attivazione cognitiva (es chiarezza espositiva, trattazione esauriente) che alla capacità del docente di supporto al learning (es., se il docente risponde a domande, se fa domande e lascia tempo per le risposte, se i contenuti di apprendimento sono appropriati rispetto ai prerequisiti richiesti, anche utilizzando gli obiettivi dei singoli core curricula così come raccolti dalla Conferenza).

A queste due sezioni se ne aggiunge una riferita al C.I., che comprende due domande, una sul carico di lavoro complessivo rispetto ai crediti formativi assegnati al CI ed un’altra sulla effettiva integrazione tra i docenti .

Un totale di circa 20 domande che riguardano sia il CI che i singoli docenti. A queste tre sezioni si può aggiungere una quarta di “Suggerimenti” identica a quella proposta dall’ANVUR (Scheda n. 1, vedi sopra).

Nota. Con riferimento alla valutazione del docente da parte degli studenti, l’ANVUR ha anche predisposto un’altra scheda, la cui rilevazione partirà però dai prossimi AA. Si tratta della Scheda n.2, Studenti frequentanti, relativa all’organizzazione dei corsi dell’AA precedente (parte A) e solo, gli esami sostenuti (parte B), con tempistica di rilevazione al momento dell’iscrizione all’AA e con elemento di obbligatorietà consistente nel blocco dell’iscrizione all’AA o all’Esame di Laurea; gli studenti dell’ultimo anno di corso dovranno compilare questa scheda prima della laurea. Con questa scheda l’ANVUR/AVA intende affrontare la valutazione ex post dello studente sui corsi svolti l’anno precedente, inclusi gli aspetti relativi all’esame. Riteniamo questa scheda non del tutto soddisfacente, sia per la tempistica, che per la parte relativa all’Educational Assessment Knowledge and Skills (sostanzialmente la valutazione del docente come valutatore), riteniamo l’argomento troppo importante e complesso per affidarlo allo studente. In alternativa proponiamo altri approcci come descritto in precedenza (qualificazione dello studente come valutatore, teaching portfolio) e più avanti (punto 2.5).

2.3 Valutazione del tutor clinico

Il tutor clinico, come già anticipato, è una  figura protagonista nell’insegnamento della medicina attuale. Egli rappresenta una cerniera del sistema formativo soprattutto nell’ambito del tirocinio professionalizzante, che viene effettuato sotto la sua diretta responsabilità, nel corso del quale lo studente deve acquisire la confidenza con la professione, integrando la didattica essenzialmente rivolta a fornire informazioni teoriche e pratiche con un apprendimento basato sull’acquisizione di competenza (dal piano delle conoscenze scientifiche a quello della semeiotica fisica e strumentale, a quello della componente umanistica della professione medica).

Dalla qualità dei tutores che si susseguono a fianco dello studente nel corso della formazione dipende la qualità della formazione stessa e l’attitudine professionale del neo-medico.

La Conferenza Permanente dei Presidenti di Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia (CPPCLMMC) ha elaborato ed approvato una guida, “Codice di comportamento del Docente tutor e dello studente iscritto ai Corsi di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia nello svolgimento delle attività didattiche cliniche tutoriali” (Familiari et al, Med e Chir, 55, 2012, pp 2465-2474), che è stata successivamente condivisa ed approvata anche dalla Conferenza Permanente dei Presidi delle Facoltà/Scuole di Medicina e Chirurgia.

In essa si identificano intenti, valori e doveri di docenti e studenti, insieme, nello svolgimento delle attività assistenziali condotte all’interno delle strutture assistenziali e del territorio. L’auspicio della Conferenza è che la guida diventi parte integrante del Regolamento didattico dei Corsi di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia. Il Codice/guida comprende tre sezioni:

i.  Fondamenti etici (l’etica come base di azione del docente e dello studente; norme di etica “essenziale” inerenti il rapporto con il paziente);

ii. Aspetti didattici e pedagogici (competenze e responsabilità crescenti degli studenti; obblighi di frequenza);

iii. Norme di condotta dello studente.

Nonostante il forte richiamo etico centrale, il clima attuale locale (singole sedi) è ancora di incertezza/resistenza/confusione nei riguardi delle Attività Didattiche Professionalizzanti (ADP) (sia come pianificazione che realizzazione che valutazione).

Le ragioni di questo disagio sono sostanzialmente riconducibili alla mancanza di soluzioni, direttive comuni, scelte condivise relative ad alcuni aspetti critici legati alle ADP quali:

i.  Definizione operativa di obiettivi e competenze pertinenti all’attività tutoriale in ambito clinico;

ii. Individuazione di strategie di formazione dei tutor clinici (esame certificativo con abilitazione?);

iii. Natura e numerosità delle ADP teorico-pratiche (soprattutto di livello 3, essere capaci di fare, in applicazione ai Dublino 3 e 4) giudicate essenziali e irrinunciabili da tutte le sedi;

iv. Modalità utili per la scelta, apprendimento, e valutazione delle competenze metodologiche (capacità dello studente di trasformare le conoscenze in competenze mediante l’applicazione in contesti operativi, in applicazione ai Dublino 2, 3, 4).

Per superare queste criticità la Conferenza ha designato un GdL ad hoc (“Core curriculum”, coordinatore il prof. Eugenio Gaudio) che ha già prodotto alcuni risultati incoraggianti in un’ottica di costante dialettica con le singole sedi.

Tenuto conto dell’assenza di riferimenti ANVUR, sia pure in un clima di incertezza, riteniamo importante avanzare alcune proposte relative alla valutazione delle ADP e del tutor clinico ad esse dedicato:

a. definizione di un meccanismo di reclutamento dei tutor clinici (proposti da ciascun presidente del Corso Integrato e nominati dal CCdS), che preveda:

I. la predisposizione di un curriculum standard,

II. la partecipazione ad un corso di formazione,

III. la valutazione della performance del periodo precedente;

b) definizione, da parte del CCdS, degli obiettivi del tutoraggio (possibilmente corrispondenti ai Clinical Skills in corso di definizione a livello di Conferenza);

c) inserimento degli obiettivi del tutoraggio tra gli argomenti di esame del corso integrato di riferimento;

d) questionario di gradimento/valutazione del tutor clinico da parte degli studenti basato sul criterio della student satisfaction. Il questionario, predisposto nominalmente per ogni tutor clinico responsabile di ADP nel C.I., è composto da tre sezioni: la prima relativa alla tipologia delle ADP, soprattutto in riferimento alle teorico-pratiche di livello 3 (saper fare) e alle metodologiche (applicazione dei Dublino 2, 3, 4); la seconda relativa alla modalità di verifica del tirocinio svolto. Per gli item più importanti si richiede allo studente sia di fornire l’informazione (sì/no) che di esprimere un giudizio/grado di soddisfazione. In linea con il principio di trasparenza, i risultati del questionario di gradimento, inclusa la graduatoria di merito dei C.I./tutor, potranno essere resi pubblici compatibilmente con la normativa sulla privacy; la terza relativa al livello di soddisfazione riferito alla situazione ambientale (modalità di accoglienza, disponibilità degli operatori).

2.4 Incremento dell’autonomia responsabile

Il meccanismo proposto per AVA (binomio dialettico autovalutazione-valutazione, responsabilizzazione delle strutture da valutare, valutazione trasparente e consapevole da parte dei valutatori esterni) è corretto. Vi sono tuttavia delle criticità, alcune delle quali vogliamo discutere con riferimento specifico alla valutazione della didattica/docente in un’ottica di sviluppo dell’autonomia responsabile da parte delle strutture universitarie.

In primo luogo, si impone l’avvio di una riflessione costante sulla qualità della didattica e del servizio offerto, inclusa la definizione degli obiettivi sottesi alle scelte che si fanno (l’impostazione del DM 47/13 appare essere solo di tipo autorizzativo-certificativo).

In secondo luogo, si richiede l’adozione di forme di governance improntate a relazioni non gerarchiche ma reticolari di consultazione, coinvolgimento, coordinamento. A tal fine proponiamo

a)   l’istituzione di un “Comitato di Monitoraggio dell’attività didattica dei docenti” con ruolo di supporto agli organi di valutazione interna (Presidio di Qualità, Nucleo di Valutazione, Commissione Paritetica) e di raccordo ad un

b)   “Osservatorio Permanente per il Monitoraggio dell’Attività didattica dei Docenti” da istituire a livello della Conferenza.

In terzo luogo, riteniamo che la valutazione della qualità dell’insegnamento/docente debba coinvolgere tutti gli attori primari della scena didattica e che, quindi, il docente non dovrebbe essere valutato solo dagli studenti (come di fatto propone il DM 47/13) ma implicarsi esso stesso nella valutazione del proprio operato sviluppando soprattutto la pratica dell’autovalutazione o utilizzando altri criteri innovativi proposti e analizzati nei paragrafi precedenti.

2.5 Altre forme di valutazione del docente

L’efficacia del docente e la soddisfazione dello studente possono essere valutate anche considerando altre strade, quali, ad esempio,

i. incontri di gruppo tra gli studenti e i loro rappresentanti nelle istituzioni universitarie;

ii. interviste semi-strutturate fatte a studenti e colleghi del docente da valutare;

iii. rilevazione di buone pratiche didattiche che incoraggino il mantenimento e lo sviluppo della qualità della docenza e che possono portare alla consapevolezza che la valutazione del docente può essere effettuata attraverso molteplici percorsi;

iv.  valutazione tra pari con site visit di altri docenti del corso o esterni;

v.  resoconti periodici sul docente fatti dal Coordinatore di semestre/ anno con lo strumento dell’incident reporting (p.es. per problemi relativi a contenuti di un corso, modalità di esame, ecc.).

D. Gli indicatori della qualità della didattica/docente

Per quanto riguarda l’analisi dei dati provenienti dalla raccolta delle opinioni degli studenti e dei docenti ha naturalmente particolare rilievo la scelta degli indicatori della qualità che dipende dagli obiettivi specifici che si vogliono raggiungere. Possono servire per verificare il raggiungimento di standard o anche consentire la comparazione tra corsi o tra sedi. Dal punto di vista metodologico, si identificano due tipologie di indicatori potenzialmente applicabili:

1. Indicatori netti, che spiegano gli eventuali fattori che possano aver inciso sui risultati ottenuti;

2. Indicatori lordi, che sintetizzano i dati in un’unica misura.

Le valutazioni espresse direttamente dagli studenti possono essere influenzate, oltre che dal reale livello qualitativo percepito dei singoli fattori, anche da altri fattori di natura:

– macro-contestuale o «di contesto esterno» quali ad es. gli aspetti demografici, culturali, politico-istituzionali che caratterizzano l’ambiente socio – economico in cui il processo formativo universitario dell’Ateneo è inserito;

– micro-contestuale o «di contesto interno» quali ad es. gli aspetti organizzativi, gestionali, politico-istituzionali che caratterizzano l’ambiente universitario;

– individuale quali sesso, età, formazione scolastica secondaria superiore, interesse per area disciplinare ecc. che  evidenziano le peculiarità della popolazione studentesca destinataria del servizio.

Gli indicatori netti possono essere costruiti utilizzando la generica classe dei multilivello (Snijders e Bosker,1999) e consentono di ricavare risultati privi dell’influenza di specifici fattori di contesto o individuali, anche se in condizioni di sufficiente omogeneità del collettivo analizzato, è stata empiricamente verificata la similarità tra le valutazioni ottenute da indicatori lordi e netti (Rampichini et al. 2002).

Gli indicatori lordi possono essere Unidimensionali e Multidimensionali se ricavati considerando rispettivamente solo un aspetto della qualità percepita (chiarezza del docente, adeguatezza delle aule) o più aspetti contemporaneamente

E’ evidente la parzialità dell’informazione sulla qualità della didattica che gli indicatori netti possono offrire rispetto agli indicatori lordi. La costruzione di questi ultimi tuttavia è diretta conseguenza delle scelte metodologiche effettuate sui primi.

È compito del Presidio di Qualità di Ateneo scegliere le tecniche di misurazione dei dati provenienti dalla raccolta dell’opinione degli studenti e dei docenti. Fino ad oggi la maggior parte delle elaborazioni da parte dei Nuclei locali di valutazione di Ateneo si è limitata al calcolo della mediana e della moda, tra l’altro attribuendo valori numerici ai giudizi espressi dagli studenti in termini meramente descrittivi: l’individuazione puntuale di tali valori numerici da sostituire alle modalità ordinali avviene in modo sostanzialmente soggettivo o addirittura arbitrario con la conseguente divergenza nei risultati a seconda della scala di misura predeterminata.

Ciò significa che ad indicatori differenti corrispondono inevitabilmente altrettante valutazioni differenti le quali non consentono, ovviamente, la realizzazione di oggettivi confronti ad es. tra diversi Atenei. E’ necessario, dunque, che ogni Presidio di qualità di Ateneo indichi uno standard metodologico uniforme e rigidamente esplicitato.

Pertanto, è emersa fortemente l’esigenza di standardizzare metodologicamente la procedura di valutazione individuando un indicatore lordo multidimensionale della qualità della didattica che sia indipendente da preventive assunzioni teoriche e dalla soggettività di scelte individuali quale potrebbe essere ad esempio, l’indicatore di entropia. (Di Traglia 2013)

E. Conclusioni

Il documento parte dall’analisi dei termini “valutazione” e “misurazione” che discute in relazione alla qualità della didattica/docente sia per gli aspetti generali che per quelli specifici per la Scuola di Medicina.

Con riferimento al DM 47/13 ed al binomio autovalutazione/valutazione applicato alla figura del docente, si sottolinea l’importanza dell’autovalutazione come forma di responsabilizzazione del docente nei riguardi dell’istituzione. Si avanzano inoltre proposte di modifica (formulazione e tempistica) del questionario di valutazione del docente da parte degli studenti proposto dall’ANVUR-AVA perché più rispondenti alle finalità/peculiarità didattiche del Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia.

Come indicato nelle premesse generali, l’analisi/valutazione del prodotto richiede la definizione di obiettivi predeterminati. Per tale motivo è estremamente importante definire in modo chiaro, attraverso la utilizzazione del Core Curriculum nazionale della Conferenza, le competenze che un laureato in Medicina e Chirurgia deve possedere, definire cioè la figura del “Medico Normale Italiano” (corrispondente al medico standard della bibliografia anglosassone). Questa operazione culturale condizionerà a ritroso i contenuti/obiettivi dei singoli core curricula disciplinari  con conseguente normalizzazione delle competenze e agevolazione del trasferimento degli studenti tra le diverse sedi.

F. Proposte

A titolo ricapitolativo e per aprire la discussione riportiamo in elenco le proposte più significative contenute nel documento:

– Schede di valutazione ANVUR (autovalutazione del docente e valutazione del docente da parte degli studenti): proposte di modifica nel rispetto delle specificità del Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia;

– Valutazione del Tutor clinico: proposta ex novo di un questionario di gradimento/soddisfazione degli studenti;

– Indicatori di sistema: preparazione di uno strumento omogeneo per tutte le Sedi di elaborazione dei dati relativi ai risultati dei questionari di valutazione;

– Proposta di istituzione dello strumento degli Audit (eventualmente gestito dalla Conferenza);

Proposta di istituzione di un Sistema di Formazione Permanente per la Didattica (tipo ECM);

– Proposta di istituzione di un “Comitato di Monitoraggio delle attività didattiche” della Conferenza con ruolo di supporto alla triade tecnica locale dell’ANVUR (PQ, NV, CP) e di collegamento ad un “Osservatorio Permanente” da istituire a livello della Conferenza ;

– Proposta di ricongiunzione di tutti i sistemi di valutazione con il Core Curriculum (unico per tutte le Sedi e con set di standard per singola disciplina) e definizione del Medico Normale Italiano;

– Prospettiva di Istituzione dell’Abilitazione Nazionale Didattica gestita, come quella scientifica, da ANVUR.

Ringraziamento

Un particolare ringraziamento va a Maria Luisa Eboli, Tiziana Bellini e Laura Recchia per le lunghe ed appassionate sessioni che ci hanno coinvolto nella stesura del presente documento. A Massimo Casacchia, il cui lavoro di coordimento fatto prima di me ha costituito la solidissima fondazione su cui abbiamo costruito il nostro edificio. Ad Andrea Lenzi che ci ha guidato con la mano ferma ed esperta del timoniere straordinario che è.

Bibliografia

1) Bisio C. (a cura di), Valutare in formazione. Azioni, significati e valori, Angeli-AIV, Milano, 2002.

2) Di Traglia M., Recchia L., Curcio F., La valutazione della didattica: dalla raccolta delle opinioni degli studenti come espressione di gradimento ad un modello di valutazione della qualità tramite indicatori di prodotto VII Congresso Nazionale SISMEC (Società Italiana di Statistica Medica ed Epidemiologia Clinica  Sapienza – Università di Roma, 25-28 Settembre 2013.

3) Eisner, E.W., “Educational objectives: help or hindrance?” School review, vol.75, 1967.

4) Fraccaroli F., Vergani A., Valutare gli interventi formativi, Carocci-Le Bussole, Roma, 2004.

5) Lipari D. Progettazione e valutazione nei processi formativi, Edizioni Lavoro, Roma, 1995.

6) Rampichini C., Grilli L., Petrucci A.,  Statistical Methods and Applications, 13(3):357-373, 11/2004.

7) Snijders Roel J. Multilevel Analysis: An introduction to basic and advanced multilevel modeling, Sage Publishers, 1999.

8) R. Tyler “Basic Principles of Curriculum and Instruction” University of Chicago Press, 1949.

Cita questo articolo

Curcio F., Recchia L., Tonin E., et al, Criteri e parametri di valutazione della didattica ai fini della valutazione del docente, Medicina e Chirurgia, 63: 2830-2841, 2014. DOI:  10.4487/medchir2014-63-2

L’integrazione del territorio nel sistema delle cure. Ricadute sul processo formativon.58, 2013, pp.2599-2605, DOI: 10.4487/medchir2013-58-9

Abstract

Aim of the present article is to report the conclusions of an educational workshop on the teaching opportunities deriving from community-based medical education.

The workshop started with a briefing illustrating why, how and when the hospital and community settings should be integrated in planning an undergraduate curriculum in Medicine. After that, participants have been divided into four parallel workshops respectively dealing with; i) physician-patient-family interaction; ii) management of frail patients in the community; iii) health care in the community; iv) management of healthcare resources in the community.

The final debriefing and discussion has allowed some conclusions to be drawn: i) integration of the hospital and community settings in medical students education is both necessary and useful, taking profit of the natural features of the two settings, respectively favouring the study of disease and illness; ii) such an integration should not be limited to the last years of the medical curriculum, but be spread along all the six years, starting from an early clinical contact in the first year; iii) some educational tools and methods appear to be particularly suitable in the community context, e.g. narrative medicine (and board diary in particular) and problem solving (not limited to individual medical histories but extended to community health problems); iv) aim of community-based medical education is not only to develop students’ knowledge, skills and professional competence, but also to help students acquire a comprehensive vision of healthcare management.

Articolo

Premessa

Scopo di questo articolo è riferire sui contenuti dell’atelier pedagogico che il Gruppo di Studio Innovazione Pedagogica ha organizzato per la Conferenza Permanente dei Presidenti di CL in Medicina. L’atelier (Tab. 1) si è svolto in occasione della riunione della Conferenza che si è tenuta a Firenze, il 5 Ottobre 2012.

L’atelier ha preso l’avvio con una riflessione su tre domande: perché realizzare l’integrazione sul territorio del sistema delle cure? E come realizzarla? E, infine, quando, in quale fase del curriculum degli studi, realizzarla?

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Tab. 1 – Programma dell’atelier “l’integrazione nel territorio del sistema delle cure: ricadute sul processo formativo” (Firenze, 5 Ottobre 2012).

Perché un CL in Medicina dovrebbe realizzare l’integrazione del territorio nel sistema delle cure?

La riflessione della Conferenza è stata che l’integrazione nosocomio-territorio nella formazione dello studente in Medicina è intanto necessaria, ed è sopratutto utile. La necessità di questa integrazione deriva dal patto formativo tra Università e Studenti, che prevede che non sia corretto sottoporre a verifica certificativa ciò che non è stato insegnato. Al contrario, l’attuale normativa prevede che l’esame di stato per l’abilitazione alla professione medica includa un tirocinio valutativo sul Territorio e, nello specifico, presso gli studi dei Medici di Medicina Generale. È evidentemente necessario che l’Università organizzi un tirocinio formativo prima della laurea, in modo da preparare i propri studenti all’esame di stato. Al momento, il tavolo tecnico insediato presso il Ministero della Salute sta valutando l’ipotesi di inserire organicamente nel curriculum degli studi medici un tirocinio sul territorio che sia insieme formativo e valutativo, aprendo la strada alla trasformazione dell’esame di laurea in Medicina in una laurea abilitante. La nostra Conferenza auspica da tempo questa soluzione, vedendovi un’utile opportunità didattica. Infatti, il Territorio si presta meglio del Nosocomio per l’insegnamento di significativi aspetti della professione medica, quali:

– la relazione medico-famiglia-paziente, con tutte le implicazioni della visita domiciliare;

– la relazione interprofessionale tra i diversi professionisti della salute, che trova ambiti privilegiati nel territorio;

– la metodologia didattica dell’approccio clinico per problemi, che include tanto problemi di salute del singolo paziente, che problematiche di epidemiologia e prevenzione dell’intera popolazione;

– l’approccio privilegiato al paziente fragile, in un contesto di prevalenza di problemi di salute cronici assai diverso da quello nosocomiale;

– l’insegnamento sul campo della struttura e delle funzioni del sistema sanitario nazionale e delle cure primarie;

– l’insegnamento dei principi del management sanitario e della sostenibilità dell’impegno sanitario sul territorio;

– Un approccio più sistematico di quanto sia possibile realizzare nel nosocomio ai principi della salute globale e della medicina delle migrazioni.

Infine, mostrare allo studente in Medicina l’importanza della gestione del benessere e della salute della popolazione è un modo per migliorare la qualità (ed accrescere la quantità) delle vocazioni rispetto alla medicina di base e per innescare una preparazione remota all’impegno attivo sul territorio.

Come un CL in Medicina dovrebbe realizzare l’integrazione del territorio nel sistema delle cure?

L’integrazione nosocomio-territorio è solo un caso particolare di quell’integrazione didattica (trasversale vs. longitudinale, interdisciplinare vs. interprofessionale) di cui la Conferenza Permanente dei Presidenti di CL in Medicina ha da tempo riconosciuto la necessità e il valore pedagogico. La Conferenza si è espressa più volte in favore del superamento della mera multi-disciplinarità, intesa come “somma” di discipline; del raggiungimento di una effettiva interdisciplinarità e interprofessionalità; e della progressione verso la transdisciplinarità, con un insegnamento che prescinda dall’appartenenza disciplinare dei docenti e tenda al superamento del concetto stesso di settore scientifico-disciplinare.

Quando, in quale fase del curriculum, un CL in Medicina dovrebbe realizzare l’integrazione sul territorio del sistema delle cure?

Al momento attuale, la tendenza maggioritaria nei CL in Medicina italiani è quella di realizzare l’integrazione del sistema delle cure nel territorio nell’ultimo anno del corso di laurea in Medicina, favorendo l’integrazione didattica dei medici di medicina generale con i docenti di medicina interna e/o di sanità pubblica. Al contrario, in un curriculum degli studi a forte integrazione longitudinale1, nel quale le attività professionalizzanti siano “spalmate” in diversi e successivi anni di corso, si può ipotizzare una collocazione più ampia del contributo offerto dal territorio.

Al termine di questa introduzione, i partecipanti all’atelier si sono suddivisi (Tab. 1) in quattro laboratori distinti, diversificati per tema.

Laboratorio No. 1: L’interazione medico-paziente-famiglia

Il Laboratorio No. 1, condotto da Luciano Vettore e animato da Massimo Casacchia e Maria Stella Padula si è dato un titolo articolato e programmatico: “Le differenze nelle relazioni tra medico, paziente e famiglia negli ambiti professionali della medicina ospedaliera e – rispettivamente – della medicina generale; possibilità d’integrazione e peculiarità che meritano di essere insegnate: quando, come e da chi?

Dopo una breve premessa iniziale del conduttore sulle “regole del gioco”, i due “discussant” hanno presentato come “trigger” della discussione due storie di relazioni tra medico, paziente e famiglia.
La prima “storia” nel contesto ospedaliero, presentata da Massimo Casacchia, narra il ricovero nella “reparto-tenda” di Psichiatria nel dopo-terremoto dell’Aquila di un ragazzo di 24 anni per peggioramento del quadro clinico, su iniziativa del suo  Medico di famiglia (MdF), che aveva riorganizzato la sua azione di cura nelle tendopoli. La madre del paziente, ospitata nella struttura (a differenza di quanto sarebbe potuto accadere nel reparto ospedaliero in muratura), collabora con medici e infermieri nell’assistenza al figlio e diventa in ciò “esperta”, continuando questo suo apporto anche dopo la dimissione. Anche dopo di questa l’MdF continua a seguire il paziente per i problemi medici in stretta relazione con la madre.

La seconda “storia” nel setting della Medicina Generale (MG), presentata da Maria Stella Padula, è stata scritta da una studentessa: narra una visita domiciliare a una paziente ultraottantenne emiplegica, assistita dalla figlia precocemente vedova, che presenta una amputazione all’arto superiore all’altezza del gomito; essa ha a sua volta tre figlie adolescenti, due delle quali con problemi di salute e psicologici. Tutto ciò fornisce un quadro esistenziale di sofferenza dell’intera famiglia, e i problemi delle figlie diventano il vero oggetto della visita, mentre le condizioni fisiche della nonna diventano alla fine solo il pretesto della visita domiciliare. Il racconto della studentessa è molto “partecipato” anche dal punto di vista emotivo e rivela i molti interrogativi che questa si pone come riflessione su ciò a cui ha assistito, tanto che ha intitolato la sua storia “Una famiglia da curare: un puzzle della sfortuna”.

Alla conclusione della presentazione delle due storie la discussione risponde sostanzialmente a tre domande:

1) Cosa abbiamo imparato dalle narrazioni?

2) Cosa possono imparare gli studenti dagli eventi narrati per farne tesoro quando nella loro professione futura dovranno porre attenzione alla relazione tra medico, paziente e suoi familiari, sia all’interno dell’ospedale che sul territorio.

3) Quale contributo formativo differente, ma sperabilmente integrabile perché complementare, possono dare riguardo a ciò la Medicina dell’Ospedale e la Medicina generale?

Infine l’ultima parte del Laboratorio è dedicata alla presentazione di un progetto, consistente in due moduli didattici.

Il primo modulo propone un progetto di lettera di dimissione dall’ospedale con i contenuti di seguito indicati, in buona parte attinenti alle relazioni con il MdF e con la famiglia.

– Le ragioni del ricovero, la diagnosi, la sua gravità e la prognosi;

– le possibili conseguenze della malattia sulla vita del paziente negli aspetti lavorativi, familiari, relazionali e comportamentali (per es, stili di vita);

– l’eventuale presenza di co-morbidità e di fattori di rischio;

– il grado di consapevolezza del paziente sulla sua condizione;

– il presumibile carico familiare dell’assistenza;

– il progetto terapeutico non solo con le prescrizioni, ma anche con le indicazioni dei possibili supporti che potranno venire dall’ambulatorio divisionale e dal day hospital;

– i possibili segni premonitori di un’eventuale riaccensione della malattia, nei confronti dei quali lo staff ospedaliero dichiara la propria disponibilità a fornire tempestivamente consulenza telefonica o via mail;

– l’invito esplicito e la piena disponibilità a continuare la collaborazione nel prosieguo delle cure con il MdF, con i familiari di riferimento e con gli eventuali care giver.

Le caratteristiche di tali contenuti acquisiscono valenza formativa se di esse è reso partecipe lo studente che conosce quel paziente.

L’obiettivo didattico del modulo si propone di stabilire nel processo comune di cura relazioni reciproche tra staff ospedaliero, MDF e famiglia.

La metodologia didattica consiste nella preparazione e nella consegna della lettera in presenza dello studente. Sarebbe poi auspicabile che ogni studente potesse accompagnare almeno una volta uno dei pazienti che ha seguito durante il ricovero alla prima visita del MdF dopo la dimissione, ma ciò sarà possibile solo con studenti già in possesso di discrete competenze cliniche e con MdF adeguatamente formati alla funzione tutoriale.

La collocazione temporale nel curriculum di fatto coincide con il periodo nel quale lo studente frequenta il reparto.

Il secondo modulo propone il progetto “Adottare un paziente cronico”.

Si tratta di un iter guidato della durata di 3 anni, nel quale uno studente deve seguire un paziente cronico e la sua famiglia nei percorsi di diagnosi e cura, sia nell’Ospedale che sul Territorio. Lo studente deve compilare un diario di bordo “strutturato”, costituito cioè da numerose “griglie” nelle quali annotare i problemi e le informazioni anagrafiche del paziente e della sua famiglia, i dati e le motivazioni del follow up clinico (osservazione delle visite, eventi intercorrenti, approfondimenti diagnostici, decisioni terapeutiche e loro motivazioni); sono presenti inoltre schede di autovalutazione delle capacità comunicative e dell’emotività, nonché spazi “narrativi” per le note personali sul caso, su ciò che lo studente ritiene di aver imparato, ma anche sulle proprie reazioni emotive suscitate da esso, fornendo così un forte stimolo all’apprendimento metacognitivo.

L’obiettivo didattico del modulo è quello di stimolare lo studente a osservare e narrare per imparare a riflettere su ciò che sta imparando.

La metodologia didattica si sostanzia di un diario di bordo strutturato con le caratteristiche sopra descritte.

La collocazione temporale nel curriculum è longitudinale: per es., al CdLM in Medicina di Modena, dove il progetto è in sperimentazione, è situata continuativamente dal 3 al 6° anno.

Laboratorio No. 2: La gestione del paziente fragile sul territorio

Conduttore Giuseppe Familiari, Discussant Anna Paola Mitterhofer e Giulio Nati

Definizione di paziente fragile

La descrizione del paziente fragile è piuttosto complessa e ancora in via di definizione poiché oltre a far riferimento ad aspetti di tipo clinico, raccoglie le problematiche di tipo socio-assistenziale che generalmente coesistono in questo tipo di paziente.

Nei pazienti fragili si osserva generalmente la presenza di più malattie croniche. Si tratta di pazienti generalmente anziani, disabili o con malattie disabilitanti, talvolta malati psichiatrici con comorbidità e di difficile gestione assistenziale, il cui outcome è quasi sempre negativo. Operativamente, la fragilità può essere quindi letta secondo alcuni aspetti/domini peculiari quali lo stato socio-ambientale critico, la ridotta autonomia funzionale, l’invecchiamento avanzato, la coesistenza di malattie croniche e la polifarmacoterapia.

La fragilità dovrebbe essere, però, più della somma di singole condizioni patologiche e andrebbe interpretata come una patologia complessa e unica, la cui gestione non si risolve sommando più consulenze specialistiche (più prestazioni professionali, più linee guida, più diagnosi, più prescrizioni terapeutiche), ma praticando realmente la cooperazione e l’interazione di più professionisti, del paziente, del suo nucleo familiare e sociale connessi in rete2.

Il rapporto didattico-assistenziale con il paziente fragile

I principali punti del rapporto didattico-assistenziale con i pazienti fragili sono basati su problematiche legate alla condizione geriatrica, al ruolo delle cure palliative, all’autonomia di questi pazienti e all’organizzazione dell’ambiente sociale3.

La condizione geriatrica a causa della multimorbidità e la presenza di disfunzioni disabilitanti come il difficile controllo vescicale, l’incontinenza e la riduzione del visus, richiede un approccio olistico ed un giusto timing dei ricoveri ospedalieri. Le cure palliative svolgono un ruolo cruciale nel controllo del dolore e la libertà dal dolore è una condizione necessaria per il miglioramento dello spirito e quindi lo stato psicologico di questi pazienti, influenzando positivamente loro autonomia. L’organizzazione dell’ambiente sociale condiziona e definisce il contatto con i curanti, è di estrema importanza per il paziente fragile, e sembra esserlo più di quanto i pazienti non riferiscano.

Gli obiettivi didattici nel Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia si debbono prefiggere di sensibilizzare gli studenti al tema della fragilità con l’esposizione precoce sin dal primo anno di corso (Early Clinical Contact, ECC) per una migliore empatia con il malato, di indurre motivazioni alla cura di condizioni di difficoltà sociale associate a disabilità mentale o fisica rinforzando l’aspetto sociale della cura medica, indurre riflessioni sull’assistenza e la comprensione di pazienti che manifestano fragilità, insegnare il comportamento più adatto nella gestione dei pazienti fragili, acquisire capacità di comportamento sia in ambito bio-medico che psico-sociale4-10.

Modelli adeguati di Curriculum medico dovrebbero inoltre prevedere un insegnamento interdisciplinare e interprofessionale (IPE), quest’ultimo rivolto a gruppi di infermieri e studenti di medicina, dedicato alle cure palliative e con gli obiettivi didattici specifici studiati su pazienti fragili anziani (geriatrics, palliative care, communication and patient autonomy, organization and social networks) allo scopo di formare futuri gruppi di lavoro più affiatati e quindi più efficaci9.

Deve poi essere sottolineata la necessità, per gli studenti, della figura di riferimento definita come “individual lead o champion”, intesa come docente fortemente motivato sull’importanza dell’insegnamento medico e capace di trasmettere con entusiasmo agli studenti un approccio sempre positivo verso il malato3. Il ruolo del docente in questo contesto si dimostra essere fondamentale per il semplice presupposto, ampiamente dimostrato, che gli studenti osservano e copiano i comportamenti dei loro docenti, ed il loro ruolo diventa un modello comportamentale per il carattere futuro degli studenti stessi11.

Il gruppo di lavoro ha anche ritenuto che fosse importante saper identificare precocemente i sintomi ed i segni che caratterizzano i pazienti fragili, in particolare per gli aspetti psichiatrici, per intervenire il più tempestivamente possibile ed arrestare il processo evolutivo della/e patologia/e.

Per quanto riguarda gli strumenti, si è ritenuto di dover sottolineare il valore didattico del tirocinio professionalizzante, in particolare se sostenuto da momenti d’aula sia prima (come introduzione) che dopo (come conclusione) del periodo di pratica.

La gestione del paziente fragile sul territorio

La definizione di tale obiettivo didattico è costituita dalla risposta alla domanda su quali tra le competenze specifiche un MMG debba saper mettere in atto per gestire i pazienti fragili, sempre nel riferimento alle caratteristiche di tali pazienti, per poi identificare quali competenze specifiche debbano essere messe in atto dalla Medicina Generale sul territorio.

Per quanto attiene specificamente alla Medicina Generale, è necessario fare riferimento allo specifico core curriculum per l’insegnamento, che descrive sei competenze specifiche (gestione delle cure primarie, centralità del paziente, risoluzione di problemi specifici, approccio multidisciplinare, orientamento alla comunità, approccio olistico), all’interno delle quali si possono identificare gli aspetti rilevanti nella presa in carico territoriale del paziente fragile12.

Laboratorio No. 3: La tutela della salute sul territorio

Conduttore Fabrizio Consorti, Discussant Maria Luisa Sacchetti e Loris Pagano

Il punto di partenza per poter parlare di tutela della salute sul territorio è la considerazione complessiva dell’intero sistema delle cure primarie, che si estende ben oltre la medicina generale, per quanto quest’ultima rivesta un ruolo “pivotale”. Infatti oltre alle diverse figure mediche coinvolte (pediatri di libera scelta e altri specialisti), bisogna considerare la complessa rete di strutture organizzative esistenti ed operanti nel territorio. Esistono infatti i Centri di Assistenza Domiciliare (CAD) e i servizi di Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) e Programmata (ADP), ognuno dotato delle sue specificità, risorse e normativa. Non vanno dimenticati infine i grandi ambiti della Salute Mentale (CSM) e dei consultori materno-infantili. Tutte queste strutture devono poter trovare posto in un progetto organico di formazione al concetto di tutela della salute, che si pone come obiettivo non la cura della malattia acuta o cronica ma la promozione di stili di vita corretti, la diffusione di informazioni utili al mantenimento della salute, la prevenzione primaria, secondaria e terziaria.

Una nota particolare durante il laboratorio è stata fatta a proposito del ruolo delle associazioni di volontariato, che possono costituire una ulteriore risorsa per la progettazione didattica, rappresentando spesso un ambiente privilegiato perché uno studente possa sperimentare le attività di prevenzione o avere contatto con ambiti particolari come le malattie rare, ad esempio per il counselling familiare.

Obiettivi formativi

Se si volessero delineare possibili obiettivi e competenze per l’ambito della tutela della salute nel territorio, si dovrebbe innanzitutto partire dalla caratteristica dominante del territorio stesso, per come delineato in precedenza, cioè dalla sua “complessità”.

Un primo obiettivo potrebbe perciò essere quello di consentire l’acquisizione da parte dello studente della visione e conoscenza complessiva del sistema delle “cure primarie”.

La frequenza delle strutture territoriali dovrebbe essere indirizzata a che lo studente possa esplorare

– il “ruolo” del medico nel territorio

– la complessità delle condizioni di salute

– il reale valore dei determinanti di salute

cogliendo l’importanza del lavoro coordinato e di équipe.

Temi particolari, tipici di questo ambito e molto attuali potrebbero essere le dipendenze:

– alcool

– sostanze da abuso

– gioco

Una funzione molto importante e che dovrebbe avere notevole rilievo è quella del ruolo informativo verso i pazienti, soprattutto per quanto riguarda gli stili di vita (alimentazione, attività fisica, fumo e altri fattori di rischio, igiene sessuale), la capacità di leggere in maniera critica le informazioni provenienti dai media e da Internet, il counselling genetico anche in funzione dei programmi di screening e i programmi vaccinali.

Tutto questo infine dovrebbe consentire allo studente di sperimentare come la pratica clinica basata su evidenze sia possibile anche nella complessità del territorio.

Collocazione curriculare e criticità

Come si vede non si tratta di obiettivi e competenze che possano essere risolti con qualche seminario, ma si richiede una riorganizzazione organica del curriculum, perché si possa essere efficaci.

In particolar modo sembra importante che le attività formative indirizzate a questo ambito siano collocate fin dall’inizio degli anni clinici (4° anno), avendo allocate una quantità di CFU significativa, basata soprattutto su didattica professionalizzante (fra 2 e 5 CFU), integrata da poca didattica frontale. Non si tratta della solita richiesta di “più spazio curriculare” di una nuova disciplina che si affaccia all’agone accademico, ma unicamente della considerazione che ci si sta avviando a trasferire il mese valutativo in Medicina Generale dell’esame di stato al’interno del corso di laurea. Si colga dunque l’occasione per caricare di significati didattici quell’esperienza.

Le principali criticità individuate consistono soprattutto nella miglior definizione della figura del tutor (riconoscimento e retribuzione, formazione e valutazione), nell’integrazione con le strutture del territorio – probabilmente più complessa ancora che con quelle ospedaliere – e nel rapporto politico coi decisori regionali. Da ultimo di sottolinea come un cambiamento di questa portata sarà possibile solo se preceduto dalla preparazione di un “terreno fertile” nei corsi di laurea, sostenuto da iniziative come quelle intraprese in maniera lungimirante dalla Conferenza.

Laboratorio No. 4: La gestione delle risorse sanitarie sul territorio

Il Laboratorio n. 4 è stato condotto da Carlo Della Rocca, ed animato dallo stesso e da Carlo Saitto.

Le tesi proposte all’inizio del lavoro sono state le seguenti:

– l’ottimizzazione delle risorse nella gestione della salute sul territorio è possibile tramite l’integrazione delle attività socio-sanitarie ed il continuo aggiornamento delle metodologie di prevenzione, diagnosi e cura

– questo approccio “aperto” e “lungimirante” alla gestione della salute pubblica deve essere patrimonio del medico e quindi merita di essere insegnato: quando, come e da chi?

Le modalità di lavoro adottate hanno seguito il seguente schema:

– Il Coordinatore ha brevemente introdotto il tema

– I due “Discussant” hanno presentato due esempi/proposte di ottimizzazione delle risorse per la gestione di interventi di sanità territoriale

– Il Gruppo ha effettuato un’ampia discussione collegiale sul tema dalla quale è scaturita una  proposta di un “modulo didattico” con i suoi obiettivi, metodologie didattiche e collocazione temporale nel  curriculum.

La considerazione preliminare è stata quella che la necessità di rendere “sostenibile” un sistema sanitario che si prenda cura in modo equo della totalità dei soggetti rende indispensabile che ogni singolo operatore sia consapevole della problematica dell’ottimizzazione delle risorse. In particolare il medico, per le sue prerogative di Dirigente, ovunque svolga la propria attività, mette in essere quotidianamente atti che comportano l’impiego di risorse o direttamente gestite o indirettamente coinvolte sia a livello di ospedale sia di territorio.  È ovvio che non è possibile, quindi,  escludere dall’iter formativo del medico una specifica informazione sulle conseguenze economiche delle sue scelte operative e l’esposizione alla problematiche della gestione delle risorse. Non è un caso, infatti, che ormai pressoché tutti i CLMMC d’Italia (fonte: site visit) prevedano nell’ambito dei loro curricula la presenza di corsi/moduli di “economia sanitaria/management”. Peraltro, nella maggioranza dei casi, i contenuti di tali corsi appaiono scarsamente integrati con le problematiche cliniche, come se fossero “a latere” delle stesse. In realtà è opinione del gruppo che la gestione delle risorse più che essere un argomento “aggiuntivo” da studiare, dovrebbe essere una chiave per  riordinare le conoscenze cliniche dello studente (e del docente). Le risorse, infatti, non vanno considerate come solo un mero problema di costi e la loro gestione è ormai diventata a tutti gli effetti parte integrante della qualità stessa delle cure. In questo senso la loro corretta gestione trasforma la conoscenza medica in assistenza, colloca l’assistito all’interno della sua storia e del suo sistema di relazioni, e inserisce la dimensione individuale dell’assistenza in un sistema di cura e di tutela della salute. Le conseguenze possibili di un approccio di questo tipo sul “sapere medico” coinvolgono sia gli aspetti della conoscenza, sia del conseguimento delle abilità e delle competenze, sia della visone stessa dell’apprendimento dello studente. Nello specifico settoriale del territorio sono considerabili due approcci esemplificativi: le risorse interpretate intorno al paziente con risvolti evidenti e immediati sulle problematiche di governo clinico e le risorse interpretate  intorno al bisogno di salute della popolazione con evidenti implicazioni di Sanità Pubblica.

In definitiva il gruppo ha condiviso che il tema della gestione delle risorse rimanda, in ultima analisi, alla definizione di un’etica delle responsabilità che è forse la sostanza della stessa idea di cura.

Alla luce di quanto discusso, il gruppo ha proposto il seguente “modulo didattico”:

• Obbiettivi (conoscenze, abilità, competenze, visione)

– saper agire, nel suo essere clinico (diagnosta e terapeuta), in modo “economicamente congruo”

– essere partecipe ed attore di strategie in continua evoluzione che devono portare al ripensamento continuo dei percorsi di prevenzione e diagnostico-terapeutici in base al progredire delle conoscenze e delle tecnologie

– interagire e coinvolgere altri soggetti in termini di sinergie di azioni e di interessi e di         integrazione socio-sanitaria

• Metodologia didattica

– Problem solving

– Stages

• Collocazione temporale

–  Spalmato tra metodologie – patologie integrate – medicine e chirurgie in forma di UDE (Unità Didattiche Elementari) su specifici problemi di ampia rilevanza (es. screening del carcinoma della cervice uterina; il diabete; ecc.)

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Tab. 2 – Ipotesi di lavoro, emersa a conclusione dell’atelier “l’integrazione nel territorio del sistema delle cure: ricadute sul processo formativo”, su una possibile distribuzione longitudinale della didattica sul territorio nel curriculum degli studi.

Conclusioni

Al termine del lavoro nei quattro laboratori, si è tenuto un debriefing di restituzione in assemblea plenaria. I Conduttori dei laboratori hanno riferito su quanto emerso nei rispettivi gruppi di lavoro e l’assemblea ha animato un dibattito.

Tutti hanno convenuto sull’opportunità dell’integrazione nosocomio-territorio nella formazione dello studente in Medicina, sfruttando le differenze naturali tra i due diversi setting, ad esempio privilegiando lo studio della disease in ambito ospedaliero e della illness sul territorio.

Un’altra conclusione sulla quale si è registrato un consenso unanime, è l’opportunità di non limitare l’apporto del territorio ad un tirocinio valutativo nell’ultimo anno del corso di laurea ma di distribuire la didattica in questo setting in numerosi anni, sfruttando esperienze di “dorsale metodologica” quali il corso integrato di Metodologia Medico-Scientifica che si estende dal I al VI anno nei corsi di laurea della Sapienza di Roma. Il dibattito si è animato sulla quantità di CFU che è necessario allocare per coprire la didattica sul territorio, specie se distribuita su diversi anni: c’è chi ritiene sia necessario riservare alla medicina sul territorio un elevato numero di CFU, e chi pensa che sia possibile inserirla come didattica integrata nei corsi esistenti senza dover ogni volta creare moduli didattici autonomi e allocare CFU specifici. La didattica sul campo solleva comunque il problema, tutt’altro che secondario, di formare, valutare e incentivare (retribuire?) i tutor.

Il dibattito ha incluso anche il suggerimento di strumenti didattici specifici per la didattica sul campo, quali la medicina narrativa (è di grande utilità e pertinenza l’uso del diario di bordo), il problem solving (non limitato ai problemi di salute del singolo ma anche a quelli della comunità). Il fine è quello di aiutare lo studente a sviluppare non solo conoscenze, abilità e competenze professionali, ma anche una visione complessiva della gestione della salute.

Infine, il dibattito emerso nei laboratori, ed illustrato in plenaria (Tab. 2), ha permesso di formulare una ipotesi di lavoro, che verrà ripresa nel Forum che il Gruppo Innovazione Pedagogica organizzerà per la riunione di Palermo, sulla possibile distribuzione nei sei anni di corso dei contenuti della didattica sul territorio.

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Cita questo articolo

Gallo P., Consorti F., Studio individuale e studio guidato. Concetti, bisogni e approcci, Medicina e Chirurgia, 58: 2599-2605, 2013. DOI:  10.4487/medchir2013-58-9