Il Gruppo di lavoro Innovazione Pedagogican.61, 2014, pp.2735

Il Gruppo di Lavoro Innovazione Pedagogica fu creato e inserito nel Manifesto di Intenti della Conferenza Permanente dei Presidenti di Corso di Laurea in Medicina nel triennio 2005/08. Il Gruppo iniziò i suoi lavori nel Febbraio 2006 e da allora ha lavorato ininterrottamente al servizio della Conferenza.

Il Gruppo di lavoro è attualmente costituito da Pietro Gallo (Coordinatore), Carlo Della Rocca, Giuseppe Familiari e Rosa Valanzano (Presidenti di CLM in Medicina), da Italo Vantini (Past-President di CLM in Medicina), Fabrizio Consorti (Presidente SIPeM), e da Marco Nicolazzi (Rappresentante del SISM).

Nel 2013, il Gruppo di lavoro ha perseguito due obiettivi principali.

Il primo è rappresentato dall’organizzazione di eventi formativi – che si svolgono durante le riunioni della Conferenza – su temi di attualità didattico-pedagogica. Il format è quello di una successione di pillole-pedagogiche (mini-conferenze), atelier e foum (brevi laboratori pedagogici, della durata di tre ore, animati – rispettivamente – da esperti di Pedagogia Medica o da  presidenti di CCL che riferiscono su iniziative esemplari delle proprie Sedi). In genere, questi eventi sono raggruppati in trilogie (una pillola, un atelier e un forum) dedicate ad aspetti diversi dello stesso tema generale. Nel 2013 è stata completata la trilogia su L’integrazione nel territorio del sistema delle cure ed avviata quella Verso una laurea professionalizzante (vedi Tabella).

Il secondo obiettivo è stato quello di organizzare atelier pedagogici su temi-base di pedagogia medica, a beneficio dei Presidenti di CL di nomina recente. Nel 2013 è stato organizzato un evento dal titolo Il ruolo del Presidente di CL in Medicina, che ha riscosso un grande successo di partecipazione. Il Gruppo si è reso disponibile ad organizzare un nuovo atelier su un altro tema-base di grande attualità, come lo staff development (vedi Tabella).

Le attività del Gruppo si svolgono in continua collaborazione con la Società Italiana di Pedagogia Medica (SIPeM) e con il Segretariato Italiano Studenti in Medicina (SISM) e in stretta intesa con la Presidenza della Conferenza Permanente dei Presidenti di CLM in Medicina.

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Insegnare nelle Università la Fitoterapia e l’Agopuntura?n.60, 2013, pp.2668-2678, DOI: 10.4487/medchir2013-60-1

Abstract

According to National Center for Complementary and Alternative Medicine (CAM)  of NIH,  the CAM terms are used to mean the array of health care approaches with a history of use or origins outside of mainstream medicine. Numerous surveys document high level of interest in use of CAM among the Western public, hence raising the matter of their study in the medical education. Several scientists have subjected  CAM interventions to the same methodological scrutiny responsible for the progress of Western clinical medicine  (that is evidence based), i.e. with the standard of randomized controlled trials. So,  the purpose of this paper was to review the scientific evidences of  two particular CAM, Phytotherapy and Acupuncture, to evaluate their possible involvement in the medical education.

Articolo

Il crescente attuale interesse verso quelle forme di medicina alternativa che coinvolgono medici e pazienti nella ricerca di rimedi terapeutici capaci di lenire le sofferenze, e la percezione che questo mondo al confine con la medicina tradizionale possa, talvolta, ingenerare false aspettative o, peggio ancora, cattiva gestione nell’approccio terapeutico di talune patologie, impone al mondo accademico una riflessione sull’opportunità di avvicinarsi a queste discipline alternative con quel rigore scientifico che vuole slatentizzare falsi miti, ma al tempo stesso esaminare  la possibile validità di un approccio terapeutico che affonda le sue radici in tempi e culture molto lontane dalla nostra.

La medicina moderna ha prodotto i suoi eccezionali risultati grazie all’applicazione estensiva del metodo sperimentale: oltre un secolo di straordinari progressi hanno consentito di spiegare i meccanismi eziopatogenetici e fisiopatologici di diverse malattie e di svilupparne trattamenti terapeutici e preventivi.

L’approccio logico dei fondatori della medicina sperimentale era quello di ricondurre l’eziologia di ogni malattia ad un’unica causa, la cui rimozione avrebbe determinato la remissione dei sintomi e la guarigione della malattia. Tale approccio fu certamente facilitato dal fatto che la maggior parte delle malattie studiate erano di origine microbica e che, pertanto, era facile stabile un rapporto di causa-effetto con la malattia. Certamente questa modalità di rappresentare “l’evento malattia” non teneva conto dell’ingombrante presenza della variabilità biologica individuale che rappresenta l’espressione della natura storica degli organismi viventi, a lungo considerata alla stregua di un fastidioso “rumore di fondo”. Tuttavia questa modalità di approccio fu un passaggio inevitabile perché la medicina cominciasse a darsi una propria identità scientifica e con lo sviluppo della clinica e della genetica è stato più semplice dimostrare che la variabilità individuale è invece la “realtà” con cui non può non avere a che fare il medico.

La medicina moderna si è poi arricchita con il metodo statistico matematico che, applicato in ambito sanitario, ha permesso di ottenere un’osservazione epidemiologica complessa ed elegante che consente, attraverso trials clinici e meta-analisi, sia di ricercare le cause di malattia, sia di fornire una base obiettiva alle decisioni cliniche. Nella pratica medica, questo concetto ha favorito l’affermarsi della medicina basata sulle prove, EBM (Evidence Based Medicine) che mira a una standardizzazione e ottimizzazione delle procedure di scelta in medicina per cui risultati degli studi clinici, accessibili attraverso la letteratura, sono fondamentali per la valutazione degli interventi e della pratica medica in generale.  Questo approccio consente inoltre di  stimolare i medici e gli studenti ad un confronto risolutorio delle problematiche che vengono affrontate mediante l’utilizzo di banche dati disponibili sul WEB anche se, nella visione corrente dell’EBM, l’individualità dei pazienti tende a essere svalutata e pertanto l’obiettivo della pratica clinica si sposta irreversibilmente dalla cura degli individui a quella delle popolazioni. L’approccio medico più completo è pertanto quello che riesce fare convergere la dimensione sperimentale, che per sua natura tende a ignorare le dimensioni socio-culturali della malattia e la dimensione epidemiologica che tende invece a sminuire il valore del dato biologico ed a spersonalizzare il rapporto con il paziente.

Tale completezza ha una duplice connotazione: da una parte sta la consapevolezza che la medicina, pur avvalendosi dei metodi scientifici e matematici come logica di approccio, rimane una scienza capace di farsi carico dell’essere umano che difficilmente può essere “ingabbiato” in schemi e formule; dall’altra sta la percezione che l’individuo, in quanto paziente, riesce ad avere del medico cui si affida: paradossalmente, mentre la medicina scientifica raggiungeva nuovi traguardi e si spostava verso un approccio più preciso, sofisticato ed ultraspecialistico, essa era percepita dai pazienti come inefficace poiché, evidentemente, l’evoluzione scientifica ha finito per compromettere la relazione medico-paziente. La nascita delle specialità mediche sta infatti, comportando la frammentazione della relazione con il medico curante (ossia del medico che si prende cura del paziente), in molteplici rapporti parziali con esperti in specifiche aree cliniche capaci di prescrivere cure.

A tutto questo si aggiunge il contributo tecnologico, che, se da una parte consente di affinare le indagini e rendere univoche le diagnosi, d’altra parte spersonalizza la relazione e compromette la diagnosi clinica, poiché  riduce significativamente il tempo dedicato all’anamnesi ed alla visita medica, sminuendo il valore della relazione interpersonale che nel corso dei millenni, è stata la pietra miliare del contributo terapeutico della medicina: dallo sciamano al clinico medico del novecento, l’attenzione all’essere umano è stata  base e fondamento dell’atto medico. Proprio questo aspetto appare essere il punto di fragilità della moderna medicina scientifica occidentale: l’ingenerarsi di una progressiva e graduale insoddisfazione dei pazienti è tra i motivi per cui le medicine alternative e complementari trovano sempre più spazio nell’opinione pubblica, identificando il medico umanista, empatico e compassionevole, con il cultore delle terapie alternative, non scientifiche.

In realtà la medicina scientifica e la medicina umanistica devono essere due facce della stessa medaglia perché la relazione medico-paziente non è una relazione magica, ma una relazione interpersonale di per sé “terapeutica” che affonda le sue radici evolutive nelle emozioni che si attivano quando un individuo chieda aiuto ed un altro accolga questa richiesta e che come tale è suscettibile di una rigorosa analisi scientifica.

Per questo motivo appare ragionevole un’apertura a forme di approccio medico alternative se possono costituire motivo di arricchimento scientifico e umano per il medico moderno.

Medicine alternative e complementari (CAM)

L’espressione con cui in genere ci si riferisce a tutte quelle pratiche mediche non riconosciute dalla medicina ufficiale è Medicine Complementari e Alternative, (CAM, Complementary and alternative medicines), intendendo un insieme molto esteso ed eterogeneo di pratiche diagnostico-terapeutiche che non sono ufficialmente incorporate nella moderna medicina scientifica e che non formano un corpo unico di conoscenze né un insieme omogeneo di discipline, anzi nella loro eterogeneietà risiede proprio la loro peculiarità.

I termini “complementare” ed “alternativa” non sono intercambiabili, in quanto alternativo si riferisce all’uso esclusivo di questi approcci diagnostici terapeutici, mentre complementare si riferisce al loro uso integrato alla medicina cosi detta “convenzionale”. Le teorie alla base di queste pratiche talvolta però, rappresentano approcci alla gestione della salute e della malattia che differiscono fortemente dalla prospettiva su cui si fonda la medicina scientifica e in taluni casi si fondano sul principio di esistenza di una forza vitale che non riconosce specifici meccanismi biologici alla base dei fenomeni patologici: ciò fa sì che il problema della valutazione della loro utilità clinica in termini di efficacia e di sicurezza sia di enorme complessità, poco affrontato e solo in qualche caso risolto.

Data l’estrema diversità delle CAM è particolarmente complesso inquadrarle in un sistema di classificazione esaustivo. Un tentativo è stato fatto dal National Center for Complementary and Alternative Medicine negli Stati Uniti, che ha proposto di classificare le CAM in cinque categorie (Tab. 1).

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L’elenco non è ovviamente completo e deve essere considerato semplicemente esemplificativo, essendo impossibile il censimento completo di queste pratiche terapeutiche. Inoltre, le categorie non sono tra loro mutuamente esclusive e alcune delle pratiche citate potrebbero essere classificate in più di una categoria, a ulteriore riprova della eterogeneità delle CAM.

La scelta di questo lavoro è quella di focalizzare l’attenzione sull’Agopuntura e sulla Fitoterapia, perché sono i soli due approcci di CAM per i quali sono disponibili evidenze scientifiche che in qualche modo giustificano l’interesse della medicina scientifica. D’altro canto, Agopuntura e Fitoterapia riscuotono un certo successo nella pubblica opinione sia perché non prevedono l’uso di farmaci chimici (vedasi dopo, paragrafi sulla  Fitoterapia), sia per l’approccio relativista[1] del nostro tempo che, subendo il fascino delle culture orientali, induce a considerare tutti i prodotti delle differenti culture come intercambiabili ed addirittura alternativi tanto da dare uguale valenza alla Medicina Occidentale e a quel sistema di teoria medica e pratica che viene spesso definito Medicina Tradizionale Cinese (MTC, Box 1).

Box 1 – La Medicina Tradizionale Cinese (MTC) e la Medicina occidentale.

La MTC abbraccia un antico sistema filosofico, il Taoismo (l’uomo deve seguire il Tao, astrazione metafisica che indica la legge universale della natura, nel senso che non deve modificare l’armonia dell’universo). Essa  non è basata quindi sull’empirismo scientifico, ma su presupposti filosofici e vede la salute come il risultato di un’armonia tra le funzioni corporee e tra il corpo e la natura. Gli uomini sono intesi come microcosmo del più grande universo, microcosmi interconnessi con la natura e soggetti alle sue forze. Il corpo umano è considerato come un’entità in cui le varie parti hanno funzioni distinte ma sono tutte interdipendenti. Quindi la salute e la malattia sono correlate all’equilibrio delle funzioni. Varie sono i componenti chiave di questa filosofia, ricordiamo solamente la teoria Yin-yang dei due principi opposti ma complementari che modellano il mondo e tutta la vita, e, più importante per l’agopuntura, l’esistenza di un’energia vitale, chiamata Qi, che circola nel corpo attraverso un sistema di canali chiamati meridiani, 12 primari e 8 secondari e la salute è un processo di mantenimento dell’equilibrio ed armonia nella circolazione di Qi (una disarmonia interna causerebbe il blocco dell’energia vitale del corpo, di qui il trattamento con l’inserzione degli aghi).La MTC prevede l’esame del paziente (in particolare la palpazione del polso) ed enfatizza i trattamenti individualizzati; oltre all’agopuntura abbiamo prodotti fitoterapici, e terapia dietetica tra le altre pratiche. Va notato che la conoscenza di salute e malattia in Cina si sviluppò puramente dall’osservazione di soggetti viventi perché la dissezione era proibita, quindi le conoscenze anatomiche erano pressocché inesistenti.Anche nella medicina prescientifica occidentale ippocratica la malattia veniva considerata come una rottura dell’equilibrio armonico tra quattro umori – sangue, flemma, bile gialla e bile nera– individuati sulla falsariga dei quattro elementi della filosofia empedoclea – terra, aria, fuoco e acqua – e delle corrispondenti qualità – secco, freddo, caldo e umido. Nella concezione ippocratica c’è malattia quando uno di questi principi è in difetto, in eccesso o, isolandosi nel corpo, non è combinato con tutto il resto. Il ciclo degli umori è sottoposto al ciclo delle stagioni ed è influenzato dall’ambiente inteso in senso lato, dal clima, alle abitudini alimentari, al regime politico. In realtà già nell’antichità, le varie scuole mediche ridefinirono ed arricchirono il sapere empirico accumulato in migliaia di anni di pratiche sciamaniche attraverso un approccio naturalistico. Nasceva così il metodo clinico e l’insegnamento all’uso dell’osservazione dei singoli malati e del ragionamento fondato sul modello funzionale del corpo. Il passaggio alla medicina scientifica, cioè ad un concetto anatomo-fisiologico della malattia, fu un processo lento che abbisognò di molti secoli per svilupparsi e che ha avuto bisogno di conoscenze anatomiche e fisiologiche di base sia degli animali ex vivo sia nell’uomo post-.mortem.Ci si potrebbe chiedere perché questa evoluzione si è verificata  in Europa e non in Cina che pure nel corso dei secoli raggiunse risultati tecnologici notevoli (basti pensare alla bussola ed alla polvere da sparo): la Cina è rimasta chiusa nel suo mondo per millenni, nella convinzione profonda che essa fosse l’unica vera civiltà; in grado nel 1405 di costruire una flotta gigantesca che avrebbe potuto solcare tutti i mari del mondo, la distrusse dopo 30 anni perché nulla di veramente importante ed utile si poteva trovare al di fuori dell’Impero.Il Mediterraneo e l’Europa sono stati invece per secoli terre di contaminazione e di scambi culturali e solo gli scambi e le contaminazioni permettono il progresso della scienza3

Definizione e storia dell’Agopuntura

Il termine “Agopuntura” descrive un gruppo di procedure, praticate in Cina ed in altre zone dell’Asia per migliaia di anni, caratterizzate dalla stimolazione di punti nel corpo con varie tecniche. Si ritiene che abbia avuto origine in Cina, dove è rimasta una componente fondamentale della MTC e, ad oggi, è la tecnica orientale più conosciuta e studiata. Si caratterizza per l’inserimento di sottili aghi metallici, solidi in o attraverso la cute in siti specifici per stimolare gli impulsi nervosi. Ciò dovrebbe promuovere il corretto flusso di energia vitale, “Qi”, che i terapeuti cinesi ritengono muoversi attraverso il corpo lungo specifici canali chiamati “meridiani”. La profondità di inserzione dell’ago (6,4-38,1 mm), il diametro (0,1- 0,3 mm), la lunghezza (12,7 -76,2 mm), ed il numero (4-20) degli aghi usati, variano a seconda delle scuole di agopuntura, così come il numero delle sedute.

L’origine storica di questa tecnica è ancora oggetto di dibattito, sopratutto per quanto attiene all’epoca cui far risalire le prime sistematizzazioni dell’agopuntura. Prove documentali ritrovate in una tomba del II secolo a.c. fanno riferimento ad un sistema di meridiani, sia pure diverso da quello sistematizzato in seguito. D’altronde occorre tenere conto del fatto che, nel corso dei secoli, si sono affermate parecchie scuole in competizione tra loro e quindi è possibile che ciascuna avesse un proprio schema di trattamento.

Di un certo interesse è stato il ritrovamento di statue in bronzo risalenti al XV secolo che mostrano con chiarezza i punti di inserimento degli aghi in uso attualmente: per l’epoca cui vengono fatte risalire, la loro esistenza appare però verosimilmente correlata ad uno scopo didattico più che ad un tentativo di sistematizzare la metodica.

Certo è che durante la dinastia Ming (1368-1644), fu pubblicato il Grande Compendio di Agopuntura e Moxibustione2, dove è chiaramente descritta la serie completa di 365 punti che rappresentano le aperture per i canali attraverso i quali gli aghi possono essere inseriti per modificare il flusso dell’energia Qi .

Nel corso dei tempi, l’Agopuntura conobbe anche fasi di declino poiché l’interesse in Cina diminuì a partire dal XVII secolo, fino ad essere esclusa dall’Istituto Medico Imperiale nel 1822. La “filosofia” legata al mondo dell’Agopuntura però non fu di semplice contenimento, infatti, nonostante tutto, la tecnica continuò ad essere praticata nell’immenso mondo rurale cinese ed a continuare a diffondersi in altri paesi asiatici, finché nel 1929 fu dichiarata fuori legge insieme alle altre pratiche tradizionali.

Bisognerà aspettare l’insediamento del governo comunista nel 1949 per riabilitare e reintegrare le forme tradizionali della medicina, tra cui l’Agopuntura. Questa nuova considerazione di tali discipline portava in sé sia aspetti nazionalistici, sia il tentativo di fornire una qualche forma di terapia ad un’enorme popolazione povera e sofferente. Si racconta, infatti, che il presidente Mao, da malato, preferisse la medicina occidentale all’Agopuntura.

Sotto il regime comunista gradualmente si raggiunse il consenso per la realizzazione di una MTC standardizzata con la creazione di istituti di ricerca e reparti all’interno di ospedali di stile occidentale, sia di Medicina Tradizionale sia di Agopuntura.

Mentre tutto questo avveniva in Oriente, nel corso dei secoli l’Agopuntura fu conosciuta da molti viaggiatori europei; la prima descrizione medica risale al 1680 ad opera di un medico europeo che lavorava in Giappone per la Compagnia delle Indie Orientali.

Nella prima metà del XIX secolo, l’interesse si spostò anche in America e in Europa, come documentato da uno storico Editoriale di Lancet del 1823, intitolato Acupuncturation, anche se entro la metà del secolo l’agopuntura cadde in discredito.

Con la riapertura dei rapporti tra Stati Uniti e Cina in seguito alla visita del Presidente Nixon, si riaprì l’interesse del mondo occidentale per la MTC: in particolare si cercò di capire se l’agopuntura potesse essere utilizzata come antidolorifico, con risultati negativi, dopo gli interventi chirurgici data la segnalazione di un giornalista del New York Times che riferì di essere stato curato con l’agopuntura per il controllo del dolore dopo un intervento di appendicectomia.

Agopuntura, procedure terapeutiche

Nella pratica tradizionale, l’inserimento dell’ago può essere accompagnato da altre procedure di contorno, proprie della MTC. In che misura, tali procedure possano contribuire all’aspettativa (speranza) di guarigione e quindi all’efficacia del trattamento non è conosciuto.

Dopo l’inserimento degli aghi, si richiede al paziente di rilassarsi, riposando con gli aghi inseriti per 15-30 minuti. Gli aghi possono essere stimolati manualmente dal medico per suscitare nel paziente una sensazione dolorosa sorda e localizzata, definita “de qi”e l’agopunturista percepisce una reazione di restringimento dell’ago causata da un fenomeno biomeccanico di avvolgimento del tessuto connettivo, che richiede un aumento della forza necessaria per ulteriori movimenti dell’ago.

Lo sforzo della comunità scientifica sta nella possibilità di caratterizzare gli effetti dell’agopuntura in termini di principi di fisiologia medica, fondamento e pilastro della medicina occidentale. Il limite di questo approccio sta nella difficoltà di standardizzare l’influenza del contesto e del rapporto con il medico sull’efficacia terapeutica. Tuttavia, alcuni dati sperimentali sono stati ottenuti, anche se queste osservazioni non permettono di elaborare una teoria unificante sugli effetti dell’agopuntura sui meccanismi del dolore cronico (Box 2).

Box 2 – Possibili meccanismi fisiologici dell’azione terapeutica dell’agopuntura.

I risultati degli studi condotti sull’uomo con la PET o la RMN risentono fortemente dell’aspettativa di un risultato terapeutico positivo, che attiva quindi regioni cerebrali specifiche e che, come accennato nel testo, di per sé può essere la causa effettiva del miglioramento clinico. Studi di risonanza magnetica funzionale hanno mostrato effetti immediati di una prolungata stimolazione con agopuntura in aree limbiche e basali del proencefalo, correlate alle funzioni somatosensoriali e affettive coinvolte nel processamento del dolore, ma risultati almeno in parte sovrapponibili sono ottenuti con la falsa agopuntura (può consistere in una inserzione poco profonda o simulata o gli aghi sono inseriti in punti non canonici). Comunque, l’Agopuntura induce il rilascio di oppioidi endogeni nel tronco cerebrale, sottocorticale, e nelle strutture limbiche e la PET ha dimostrato che l’Agopuntura aumenta il potenziale di legame dei µ-oppioidi per diversi giorni in alcune delle stesse aree cerebrali. Una linea di ricerca si è dedicata principalmente agli effetti dell’agopuntura sui tessuti, in particolare sul tessuto connettivo. I meridiani sono per lo più localizzati lungo i piani connettivali tra i muscoli o tra i muscoli e le ossa. Così gli aghi interagirebbero con il tessuto connettivo interstiziale, stimolando meccanicamente i fibroblasti: stimolazione avvertita dall’agopunturista come una reazione di restringimento dell’ago (vedasi testo). Il conseguente rimodellamento del citoscheletro dei fibroblasti avrebbe effetti sulla trasduzione del segnale , sull’espressione genica, con rilascio di mediatori che possono interagire con le fibre nervose sensitive e con l’adesione alla matrice. In linea con gli effetti locali vi è il dato che l’anestesia locale ai siti dell’inserzione degli aghi blocca completamente gli immediati effetti analgesici dell’agopuntura, indicando che questi effetti dipendono dall’innervazione.

Diversi trial clinici hanno valutato l’efficacia dell’agopuntura nel trattamento delle varie patologie, anche se gli unici dati scientificamente positivi riguardano il trattamento di alcune algie osteoarticolari ed in particolare della lombalgia: si stima che circa il 70% delle persone nei paesi occidentali industrializzati soffra od abbia sofferto di lombalgia e che questa costituisca nel mondo occidentale uno dei motivi più comuni per la richiesta di consulenza medica.. Nella storia naturale della patologia, il 90% circa degli episodi acuti si risolve entro 6 settimane, tuttavia il 25% dei pazienti hanno una ricaduta entro l’anno successivo e sviluppano una lombalgia cronica refrattaria ai trattamenti convenzionali nel 7% dei casi.

Dal punto di vista eziopatogenetico, la diagnosi differenziale è ampia, ma la forma più comune (85%) è la lombalgia idiopatica, spesso associata a sintomi cronici o ricorrenti con una rilevante morbilità.

L’osservazione che alcuni pazienti migliorano dopo aver ricevuto il trattamento può produrre il convincimento che il miglioramento possa essere causato dal trattamento. Questo convincimento però esemplifica un errore che nasce dal fatto che i miglioramenti osservati potrebbero infatti essere dovuti a molteplici fattori, diversi dalla efficacia del trattamento, quali il decorso benigno della patologia, l’attenuazione dei sintomi, la remissione spontanea della malattia, l’effetto placebo legato all’aspettativa di guarigione.

L’approccio più rigoroso che consente di discriminare gli effetti veri di un trattamento è quello della sperimentazione clinica controllata (RCT, Randomised controlled trial) e delle relative meta-analisi che ne permettono un’analisi combinata.

Una meta-analisi del 2008 che includeva 6359 pazienti, ha dimostrato che l’agopuntura non è più efficace della “falsa” agopuntura, ma che entrambe furono più efficaci rispetto all’assenza di trattamento, suggerendo che l’agopuntura possa essere un utile supplemento ad altre forme di terapia per il trattamento della lombalgia. Queste conclusioni sono state confermate in una successiva meta-analisi pubblicata nel 2010.

Risultati più rilevanti sono stati ottenuti, infine, in una meta-analisi pubblicata nel 2012 su Archives of Internal Medicine che, attraverso l’analisi di 29 trials (complessivamente 17922 pazienti) relativi al trattamento di vari tipi di dolore osteoarticolare o cefalea, ha dimostrato una certa efficacia dell’agopuntura sul dolore cronico, suggerendo che gli effetti benefici del trattamento siano la summa di due componenti: una maggiore che è l’aspettativa (speranza) di guarigione (effetto placebo, effetto contesto) ed una minore che è legata all’effetto specifico che la collocazione degli aghi e la loro profondità permette di evocare.

Questo dato suggerisce, quindi, che l’agopuntura, per alcuni tipi di dolore, potrebbe essere considerate un’opzione terapeutica.

Per quanto riguarda gli effetti avversi, uno studio tedesco condotto su due milioni di trattamenti in 229.230 pazienti ha registrato la presenza di almeno un evento avverso nel 8,6% dei casi ma solo nel 2,2% dei casi questi richiedevano il ricorso a terapia . Gli effetti avversi più comunemente segnalati sono stati il sanguinamento o ematomi (6,1%) e dolore (1,7%).

Definizione e storia della Fitoterapia

Come suggerisce il nome, la Fitoterapia impiega piante ed erbe medicinali ai fini terapeutici. Definita anche come herbal medicine, fa parte della variegata e disomogenea costellazione delle cosiddette CAM, ma di queste a rigor di logica non dovrebbe far parte, dal momento che, tradizioni popolari a parte, da secoli le piante sono usate a fini terapeutici e da esse vengono ricavate sostanze, principi attivi e farmaci per curare numerose malattie. D’altra parte, la storia della farmacologia trae largamente origine dall’impiego dapprima di erbe e piante medicinali, quindi dall’estrazione sempre più sofisticata ed appropriata di sostanze e rimedi preparati sotto svariate forme farmaceutiche, fino al riconoscimento dei cosiddetti principi attivi, cioè di quelle sostanze chimiche contenute nella pianta, dotate di un’azione farmacologia specifica e ben definita, utile ai fini terapeutici, che ha rappresentato le basi cognitive per il passaggio alla produzione degli stessi principi non più estrattivi, ma sintetizzati dall’industria farmaceutica attraverso una sempre più sofisticata tecnologia.

Almeno una trentina di farmaci di rilevante importanza derivano da piante: dalla più antica (e storicamente importantissima) corteccia di china (il chinino), alla cannabis sativa (farmaci analgesici), alla notissima digitalis purpurea (digitale), al colchicum autunnalis (colchicina) fino al più sofisticato Tolypocadius inflatus (ciclosporina) ed alla vinca ossa (vinblastina, vincristina). Notissima e presente anche nei nostri giardini la pianta di San Giacomo (iperico) da cui si estrae un principio ad attività antidepressiva, di largo uso nei paesi del centro Europa. Un enorme potenziale curativo è quindi presente nel mondo vegetale.

Chi visitasse una vecchia farmacia od un museo farmaceutico vedrebbe una grande varietà di strumenti per l’estrazione e la produzione di infusi, decotti, tisane, pillole, granuli, pomate, creme, cataplasmi, fiale, etc ed apprezzerebbe l’elegante teoria di vasi contenenti varie forme di estratti di erbe e piante medicinali, dalla semplice menta e camomilla al più sofisticato iperico. Non dimentichiamo che fino ai primi del novecento la botanica era importante materia di insegnamento per lo studente in medicina e  che ancora negli anni ’60 alcuni professori di farmacologia esigevano  all’esame la conoscenza di un centinaio di ricette galeniche, molte delle quali derivate da piante ed erbe medicinali. Tutti ricordiamo le caramelle, ma anche i cataplasmi contenenti eucalipto (eucaliptolo) per la tosse. Non è sfuggita alla pratica di molti medici la proprietà astringente della carruba, e non ha mistero l’analoga proprietà dell’acqua di riso dove il cereale bollito a lungo rilascia un peptide con proprietà antidiarroiche, così come la presenza di un principio attivo nelle prugne, usate comunemente per la stipsi.

La Fitoterapia appare come una forma naturale di terapia, nella quale quello che oggi usiamo come principio attivo non sarebbe che la componente attiva contenuta nel suo “contenitore naturale”, cioè nella pianta medicinale. Sembrerebbe quindi logico considerare, oltre che per le sue origini popolari ed antiche, e per il radicamento nella medicina tradizionale di popolazioni a lungo rimaste al di fuori del circuito della ricerca e dell’innovazione come la conosciamo noi occidentali (come è il caso dell’Africa sub-sahariana, di aree del sud-America), od ancora per la sua presenza in aree nella quali si consolidata una cultura medica del tutto particolare (es.: Cina), questo tipo di terapia come la “madre” della farmacologia moderna e sembrerebbe perciò logico ricercare, estrarre, purificare e quindi impiegare i principi attivi, “liberati” dal loro originario involucro vegetale e, come passo successivo, i principi attivi sintetizzati.

È invece cruciale capire che la caratteristica fondamentale della Fitoterapia non sta nell’impiego di un principio attivo estratto e purificato, per quanto con l’aspetto di un prodotto naturale, ma nell’utilizzo delle parti delle piante (raccolte e trattate nel cosiddetto periodo “balsamico”) e non la sostanza chimica in se stessa. In questa accezione canonica, la Fitoterapia non si pone come modalità di trattamento che usa sobriamente dei principi attivi “donati” dalla natura ed isolati da un contesto fisico-chimico botanico nel quale sono contenuti, ma di utilizzarli come sono naturalmente presenti nel loro stesso contesto, cioè di utilizzare la pianta o erbe medicinale. Si tratta di un vero e proprio metodo specifico di terapia che trova nelle erbe medicinali non solo le sostanze terapeuticamente utili, ma una modalità di approccio che vede nella pianta il veicolo di proprietà peculiari che, in quanto naturali ed insite nel contesto dell’elemento vegetale, conferirebbero una sorta di plusvalore terapeutico all’insieme di prodotti e composti in essa contenuti.

Inoltre, se parte importante della Fitoterapia si basa sull’uso di singole “erbe” contenenti un principio attivo noto e testato, per lo più la Fitoterapia si avvale di miscele di erbe e piante, in composizioni e proporzioni anche codificate, molte di uso comune alle quali, da sole o in combinazione, sono attribuite proprietà curative. Se ad esempio piante come senna, cascara, frangula, plantago ovata, rabarbaro hanno documentatamente effetto lassativo o procinetico sull’apparato digerente e quindi l’indicazione è la stipsi, l’aloe (radici) ha un effetto antinfiammatorio e viene impiegata in numerosi preparati farmaceutici anche topici, ed è noto l’effetto ipertensivizzante e sodio-ritentivo della liquirizia, così come quello papaverino-simile della menta piperita, è meno noto come ad altre piante di comune impiego in cucina come l’aglio, il prezzemolo, il sedano, i chiodi di garofano, ma anche il carciofo, il ginepro, l’alloro, il rafano, il peperonicino (procinetico gastrico), lo zenzero, la carota, la salvia siano attribuite svariate, e talora tra loro molto diverse, siano attribuite proprietà terapeutiche . Effetti documentati, ma anche solo vantati o terapeuticamente irrilevanti possono coesistere nella Fitoterapia come, a nostro avviso, un portato della ricerca, ma anche della cultura e delle tradizione popolari. Insomma, una cultura consolidata dal tempo e dalla tradizione, oltre che dai cultori dell’erboristeria, da secoli presente nella medicina popolare e nelle medicine tradizionali/etniche. Nessuno si potrà sorprendere delle proprietà sedative della camomilla (i fiori) e della valeriana. Una vera e propria conoscenza popolare, ma anche l’osservazione,  spesso solo descrittiva e acritica, della medicina fino al XIX secolo hanno portato all’accumularsi di conoscenze o di convincimenti sull’uso di  centinaia di erbe medicinali  e piante che sono entrate nella farmacopea antica e popolare, e che, perfezionate da più recenti ed importanti acquisizioni, nella farmacopea del quotidiano.

L’origine popolare della Fitoterapia, assieme ad una lunga appartenenza alla ricerca accademica quando erano costruiti i primi orti botanici con ampi spazi per piante officinali ed erbe medicinali (giardino dei “semplici” o dei rimedi semplici), forniscono forti basi storiche e culturali per la Fitoterapia.

La Fitoterapia come alternativa alla terapia farmacologica

In tempi più recenti, a fronte di un approccio tecnologico alla medicina, si è sviluppata una cultura più “ecologica” del curare che considera il prodotto naturale come un rimedio meno “aggressivo”, più dolce, più rispettoso del rapporto fra il corpo del paziente e la natura che lo circonda, forse più ingenuamente attento alla relazione tra “malattia” o “disturbo”, medico (o colui che cura) e rimedio fino a realizzarsi in un semplicistico (e banalizzante) cortocircuito malattia-rimedio. Se nella medicina l’indicazione ad un trattamento farmacologico transita attraverso una sofisticata ricerca di una “regola” universale con solide basi derivate dalla sperimentazione empirica, che ci dirà a quali pazienti, in quali condizioni, in quali circostanze, con quali limiti, con quali precauzioni, a quali dosi, in quali tempi, etc. potremmo o dovremmo somministrare un trattamento (in questo caso un farmaco), nella Fitoterapia la semplificazione di questa relazione è palese.

Se singoli rimedi possono giovare pazienti con specifiche patologie, più spesso numerosi rimedi vegetali sarebbero in grado di curare patologie assai vaste e variegate, che troverebbero oggi spazio in interi capitoli di un trattato di patologia, così come il numero di patologie che potrebbero giovarsi di erbe medicinali o di piante anche comuni sono innumerevoli e molto diverse tra loro. Patologie per le quali non si conosce trattamento o che richiedono terapie molto complesse sembrerebbero affrontabili anche con miscele di piante molto comuni come le patate, la cipolla, l’origano, il basilico, il cavolo; situazioni molto serie, come il diabete, potrebbero giovarsi di mirtillo, cicoria, artemisia (usata anche in una particolare forma di agopuntura associata a moxibustione, vedasi nota 2), l’osteoporosi essere trattabile con il limone ed il cavolo, così come piante molto comuni avrebbero effetto sulla febbre, l’inappetenza, le malattie polmonari. Interessante, percorrendo siti di informazione su Fitoterapia, come la stessa pianta possa trovare indicazione in decine di disturbi diversi ed alcune particolari piante, come il “ginseng”, rappresenti una vera e propria panacea nei confronti di innumerevoli e diversissimi disturbi.

Sorprendente che, nelle informazioni rinvenibili sui siti che pubblicizzano prodotti fitoterapici, si affermi come un prodotto, come singolo principio attivo o una miscela di più composti, sia utile su “le malattie del fegato”, le “malattie della vescica”, le “affezioni respiratorie”, a significare in modo inequivocabile che il bersaglio cui l’informazione – se così può essere chiamata – si rivolge non sono certo i medici, ma direttamente il consumatore e che l‘estensore dell’informazione non ha, nella meno maliziosa delle ipotesi, idea alcuna di medicina. Peraltro, chiunque frequentasse un cosiddetto centro benessere si troverebbe oggetto di informazioni e consigli su prodotti “salutistici” naturali da parte di “operatori del benessere” la cui competenza in fitoterapia rimane non definita, per non parlare di quella in medicina.

Pur riconoscendo che negli ultimi tempi non poca ricerca è stata condotta in ambito fitoterapico, si deve sottolineare che il possesso da parte di una erba medicinale di alcune azioni farmacologiche specifiche, quindi di proprietà terapeutiche potenziali, non significa affatto che essa sia efficace, cosa che può essere documentata solo attraverso la metodologia degli studi controllati, randomizzati, a doppio cieco, ove possibile, cui la Fitoterapia non può sottrarsi in linea di principio, anche se la regolamentazione consente il commercio di prodotto che seguono percorsi facilitati rispetto al farmaci. Va anche sottolineato come la gran parte degli studi ben condotti non hanno documentato, se non in pochi casi, un’efficacia superiore al placebo  o superiore a farmaci disponibili per la stessa specifica affezione. Per cui la loro usabilità nella pratica clinica appare per lo più dubbia o discutibile. La qualità degli studi, indagata nelle rassegne sistematiche della Cochrane, appare spesso scadente, tale da non permettere spesso le meta-analisi. Il numero assai limitato di risultati inequivocabilmente postivi sull’efficacia di fitoterapici cozza con l’enorme numero di patologia e sintomi sui quali un vastissimo numero di piante ed erbe medicinali sarebbe attive e terapeuticamente utili. Inoltre, non si vede perché, a fronte di una patologia seria per la quale esiste trattamento efficace e sicuro, si debba ricorrere a prodotti poco sperimentati e molto probabilmente meno efficaci. Se un’alternatività di trattamenti in queste circostanze non è concepibile, risulta anche difficile comprendere che cosa significhi il più moderato termine di “complementare”, in quanto non si capisce che cosa un prodotto naturale debba o possa essere di complemento  rispetto ad un trattamento efficace ed altrettanto sicuro.

In effetti, una realtà così articolata, per essere appresa e praticata con la serietà che la professione medica impone, richiederebbe un percorso formativo molto serio e approfondito, con tutte le conoscenze proprie del medico e le specifiche conoscenze delle proprietà farmacologico-terapeutiche fornite da numerose piante. Va sottolineato che una certa attività di ricerca, con finanziamenti privati (industria farmaceutica ed industrie moderne di fitoterapici), ma anche pubblici (NIH) porta da un lato ad un miglioramento nella qualità della produzione con una maggiore standardizzazione ed affidabilità dei preparati in commercio, dall’altro ad una serie di nuove acquisizioni, ma anche al vaglio del metodo degli studi controllati e randomizzati alcune più diffuse forme di Fitoterapia. Inoltre, senza approfondire aspetti regolatori, l’autorizzazione al commercio di fitoterapico segue procedure molto più semplici, e certamente assai meno rigorose, di quelle adottate a livello internazionale ed europeo per i farmaci propriamente detti.

Entrando oggi in una farmacia, non si vedrebbero più mortai, alambicchi, vasi decorati, ma neppure si vedrebbero farmaci, ma la versione moderna dei primi, sotto l’esplicita presentazione di Fitoterapici, spesso sotto l’equivoca (e di per sé falsa) dizione di prodotti omeopatici (che svilisce la stessa Fitoterapia). Questa abituale esibizione di prodotti deriva in larga misura dal fatto che essi non richiedono necessariamente una prescrizione medica (ricetta) e da una più semplice commercializzazione di fitoterapici, si rivolgono alla gestione sintomatica di disturbi comuni, ma minori o funzionali, sono praticamente privi di rischi nell’uso, non richiedono uno specifico controllo medico. Infatti, l’assenza dell’obbligo di esibire prove accertate di efficacia terapeutica, ma solo di una generica affermazione della non nocività del prodotto, favorisce la loro commercializzazione come prodotti “da banco” (per alcuni dei quali la richiesta di uno studio controllato, randomizzato, a doppio cieco in effetti suonerebbe ridicola, per esempio per la camomilla) che non necessitano di ricetta medica, potendo quindi essere autoprescritti, come peraltro accade per alcuni farmaci di larghissimo impiego – di per sé non privi di effetti indesiderati, quali l’acido acetisalicilico ed il paracetamolo. L’uso sempre più diffuso dei fitoterapici, soprattutto in Paesi come Germania, Francia, Stati Uniti e, ad una qualche distanza, anche Italia, impone una seria conoscenza del fenomeno, delle sue motivazioni, dei potenziali vantaggi ed opportunità che la Fitoterapia può fornire in determinate condizioni e contesti, ma anche dei rischi sistematici e specifici che questo tipo di trattamento comporta o che è proprio di specifiche piante e loro derivati.

Possibile tossicità dei trattamenti fitoterapici

Poco si riflette sul fatto che le piante possono contenere composti chimici dotati di azione farmacologia utile, ma anche dannosa e che specifiche parti di una pianta, magari raccolte in uno specifico momento del suo ciclo biologico, sono utili oppure dannose. Inoltre, area di provenienza, caratteristiche del terreno, condizioni climatiche, tempo di raccolta, tecniche di conservazione, procedure di estrazione ed altre ancora condizionano il contenuto e quindi l’effetto del prodotto fitoterapico. La complessità di queste variabili trova oggi, a differenza di ieri, nelle moderne tecniche analitiche una certa garanzia di “purezza” dei preparati, ma che cosa si può dire di preparazioni provenienti da paesi esotici, privi di qualsiasi controllo? La composizione completa di quanto è contenuto nella formulazione commerciale è cruciale , ma possono non essere riportate le quantità effettive del principio o dei principi attivi, degli eventuali eccipienti, la possibile presenza di contaminanti, data la loro natura essenzialmente estrattiva, con possibili rilevanti discrepanze per lo stesso principio attivo (es.: ginseng) tra le varie confezioni (anche di 10 volte; dose comunque non indicata). Altrettanto rilevante è la possibile omissione di attività presenti, ma non dichiarate.

Un altro punto rilevante è dato dal fatto che i fitoterapici, benché naturali, non sono privi di effetti indesiderati o addirittura tossici. L’informazione a questo proposito è praticamente nulla sia per i medici che, ovviamente, per i pazienti, il tutto aggravato dal fatto che la sperimentazione su questi prodotti è molto meno rigorosa e sistematica rispetto ai farmaci. La conoscenza accurata dei possibili effetti tossici dei fitoterapici ha livelli di accuratezza ben diversa da quella sui farmaci, basandosi su dati aneddotici, su segnalazioni spontanee. La cosa non è irrilevante in quanto, se misurata, la presenza di reazioni avverse, pur in genere minori, riguarderebbe un paziente su 4 se trattato con un solo principio attivo e di uno su tre se con più erbe medicinali o principi attivi. Di ancora più rilevante importanza sono le possibili interazioni tra erbe medicinali e farmaci. È un rischio largamente sottostimato, se non ignorato nella pratica medica quotidiana, specie ambulatoriale. Interazioni con anticoagulanti, diossina, antiipertensivi, antiaritmici, alcuni antibiotici, immunosoppressori, antistaminici, farmaci attivi sul sistema nervoso centrale, sul sistema endocrino, ed altri ancora sono segnalati.

Qualche riflessione, infine, sull’uso dei prodotti fitoterapici in patologia oncologica: se ipotetici benefici antitumorali sono stati riconosciuti in alcune piante e preparati contenenti una varietà di preparati vegetali avrebbero fornito dati interessanti, pur se non controllati, per espressa affermazione di comitati di esperti sugli effetti antitumorali derivati da pratiche di medicine alternative e complementari, si auspicano necessari studi seri e approfonditi su questa materia. Le relazioni tra tumori e Fitoterapia meriterebbero argomentazioni approfondite. Per lo scopo di questo articolo, è doveroso sottolineare che, a fronte di alcuni effetti interessanti e promettenti sull’azione antitumorale di alcune sostanze contenute in particolari piante, nei siti e nella letteratura si raccomanda sempre di usare prodotti fitoterapici come adiuvanti, complementari, sempre in combinazione con il trattamento oncologico complessivo. Tale affermazione appare in quanto meno ambigua, se non censurabile quando appare fortemente inquinata da affermazioni e suggerimenti assolutamente inaccettabili. Inoltre, il recente caso della richiesta di ritiro di fitoterapici contenenti della gingka biloba, fitoterapico di larghissima diffusone, per la sua capacità in condizioni sperimentali di indurre carcinoma del fegato nei ratti, aprendo vaste polemiche tuttora in corso, ci deve far riflettere sul problema della sicurezza, ed assolutamente critici sull’uso di fitoterapici, anche come “adiuvanti”, in pazienti neoplastici

La lezione che si trae è quella di un notevole ambito di potenziale interesse, di una grande varietà di prodotti che vedono un miglioramento nei sistemi di produzione, ma anche una inadeguatezza del medico nel dare risposte al paziente che approccia trattamenti con erbe medicinali. Un’altra lezione che si trae è quella data dalla necessità di perfezionare le capacità di raccolta di informazioni considerando non rinunciabile la rilevazione sistematica, nell’anamnesi farmacologica del paziente, dell’uso di erbe medicinali, fitoterapici ed integratori alimentari.

Conclusioni

Nel documento della FISM sulla formazione nelle medicine e pratiche complementari non convenzionali riservato a medici chirurghi ed odontoiatri, la Fitoterapia è definita come un “Metodo terapeutico basato sull’uso delle piante medicinali o di loro derivati ed estratti opportunamente trattati, uso che può avvenire secondo codici epistemologici appartenenti alla medicina tradizionale oppure anche all’interno di un sistema diagnostico-terapeutico sovrapponibile a quello utilizzato dalla medicina convenzionale”. I due aggettivi “tradizionale” (riferito ai codici epistemologici) e “convenzionale” chiariscono due facce possibili della Fitoterapia, ma la cosa più rilevante del documento della FISM è che si riserva la formazione ai laureati in medicina (od odontoiatria), come i soggetti qualificati alla prescrizione di fitoterapici nel contesto quindi di un relazione medico-paziente.

La Fitoterapia comprende un mondo farmacologico-terapeutico assai complesso ed articolato, popolato anche di evidenze scientifiche (principi attivi identificati e con riconosciute proprietà farmacologiche), così come di tradizioni popolari, alcune anche di rilievo nella pratica quotidiana e in disturbi per così dire minori. Essa può esprimersi in un cotesto culturale “popolare” e tradizionale  nel quale la “naturalità” dell’approccio terapeutico, la presunta non nocività e non “invasività” di ciò che è naturale e tradizionale si contrappone in varia misura con tutto ciò che è “artificiale”, “chimico”, in qualche modo estraneo al nostro organismo.

Va peraltro sottolineato come la Fitoterapia dovrebbe essere praticata solo da laureati in medicina che sono in grado di applicare un corretto metodo di approccio al paziente, alla diagnosi ed alla terapia, dando garanzia che trattamenti ed approcci efficaci e comprovati da evidenze scientifiche non siano sostituiti da trattamenti privi o poveri di evidenze scientifiche. Sia chiaro che il riferimento all’EBM non può trovare eccezioni in funzione del “metodo” terapeutico che si usa.

Esistono quindi presupposti concreti, di diversa natura, per una riflessione ponderata ed equilibrata seria sulla Fitoterapia: le basi storiche e scientifiche di questa branca della farmacologia, il riconoscimento nelle piante di un gran numero di principi attivi utili ai fini terapeutici, la presenza – con i suddetti limiti – di una ricerca in progressivo sviluppo, che trova a valle però un rilevante limite nelle procedure semplificate (di fatto elusive nei confronti della documentazione di efficacia e in qualche misura di sicurezza) per la commercializzazione, alcune consolidate conoscenze appartenenti alla tradizione ed alla consuetudine (specie per disturbi minori e molto comuni). Ciò non toglie tuttavia le numerosi incongruenze nell’uso pratico di innumerevoli preparati, miscele, cui vengono attribuiti effetti indimostrati, capacità di intervenire terapeuticamente su innumerevoli patologie, anche molto diverse tra di loro.

La Fitoterapia, uscita dalla porta del tempo, quasi completamente esaurito il suo nobile compito di fornire medicamenti e rimedi nei tempi passati, resa obsoleta dallo sviluppo dell’industria chimico-farmaceutica, ma anche dall’avvento di nuove metodologie di approccio alla ricerca su farmaci e trattamenti  e dall’adozione in tempi recenti nella cultura medica dell’EBM, può rientrare dalla finestra nella pratica clinica e nella formazione medica? La risposta non può stare in un remake di tempi passati, in una semplicistica (e non vera) equazione di naturale = buono, sano, non dannoso o nella vaghezza equivoca che può derivare da un generico ed ingenuo atteggiamento “ecologico” nei confronti della terapia, né transitare attraverso un’informazione incontrollata (quale può esservi su Internet), e neppure sul pur legittimo interesse di produttori e distributori al pubblico. Tuttavia, essa non può neppure trovare mancanza di risposta per omissione di informazione ed assenza di strumenti culturali appropriati da parte dei medici stessi. Data la larga diffusione della Fitoterapia, facilmente percepibile dal diffondersi di Erboristerie e dalla quasi ubiquitaria presenza di prodotti fitoterapici in primo piano nelle farmacie, esiste, oltre ad un bisogno percepito da parte dell’utenza,  un bisogno professionale quanto meno sui principi generali di Fitoterapia da parte del medico e, quindi, un bisogno formativo per lo studente di medicina.

La formazione dello studente in medicina deve basarsi sull’acquisizione di metodologie e contenuti che hanno solide basi scientifiche, con costante riferimento alla Medicina Basata sulle Evidenze, come più volte ribadito dalla Conferenza Permanente dei Presidenti di Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia a proposito delle CAM. Lo studente in medicina deve esser consapevole del fatto che la medicina che è basata sull’uso di erbe medicinali (Fitoterapia) rappresenta una realtà alla quale dovrà essere in grado di fornire una risposta al paziente. Egli dovrà  conoscerne i principi fondanti, ed essere dotato di alcune informazioni fondamentali sulla sicurezza dei trattamenti, i rischi e le interazioni con altri farmaci, ed acquisire la capacità di rilevare nella raccolta anamnestica l’uso di erbe medicinali e fitoterapici. La formazione dello studente, che prevede in 6 anni l’acquisizione di una mole rilevante di conoscenze, non può contenere negli obiettivi del core curriculum la conoscenza della fitoterapia in misura tale da sviluppare capacità prescrittive (la mole di conoscenze interdisciplinari che uno studente dovrebbe acquisire rende impercorribile lo studio specifico della Fitoterapia, a fronte di un’utilità assai limitata) quanto per gestire con appropriatezza il paziente che usa prodotti naturali, per fornirgli una corretta informazione, renderlo consapevole dei potenziali rischi e delle interazioni – talora rilevanti – con farmaci, oltre che della intrinseca distanza che distingue un trattamento vagliato dalle Autorità regolatorie europee e nazionali, sotto regole definite e assi rigorose, da altri trattamenti, pur di lunga tradizione e non privi di una certa ricerca scientifica in anni più recenti, ma che sono molto meno sottoposti ad un controllo così puntuale e capace di fornire tutte le garanzie possibili di efficaci e sicurezza per il cittadino.

L’obiettivo didattico è quello di fornire allo studente in medicina innanzitutto la consapevolezza di un’area della farmacologia-terapia che si avvale di erbe e piante, delle dimensioni della questione, la capacità di percepire l’uso di questi prodotti nel paziente, di apprezzarne e comprenderne le motivazioni, di identificare la tipologia del prodotto (eventualmente richiedendo di vedere la confezione), gli scopi terapeutici, gli effetti, i rischi, le modalità ed i contesti prescrittivi, l’origine del prodotto (se da una moderna industria di prodotti fitoterapici o di provenienza popolare o da paesi esotici-orientali), di identificare la fonte prescrittiva e/o il circuito informativo cui egli ha accesso (es: siti Internet), di gestire un dialogo rispettoso, ma rigoroso con il paziente, fornirgli le informazioni relativamente al contesto clinico entro il quale il fitoterapico viene usato, di rassicurare il paziente sull’assenza di rischi e sui possibili benefici, ma anche cautela fino alla sospensione se si ravvisino potenziali rischi o se il loro uso appare alternativo a trattamento più efficaci e sicuro, soprattutto in presenza di malattie gravi e soprattutto di patologia oncologica.

Una trattazione sulla Fitoterapia, dedicando una lezione od una discussione di uno o più casi clinici emblematici nell’ambito della disciplina Farmacologia, potrà fornire allo studente le informazioni essenziali su questo metodo di terapia per il raggiungimento degli  obiettivi formatici già menzionati.

Nel documento della FISM sulle CAM citato precedentemente, l’Agopuntura è definita un Metodo diagnostico e terapeutico appartenente alla MTC, che si avvale dell’infissione di aghi metallici in ben determinate zone cutanee (punti e meridiani cutanei), per ristabilire l’equilibrio di uno stato di salute alterato. Anche per l’Agopuntura, si riserva la formazione ai  laureati in medicina (od odontoiatria), come i soggetti qualificati al metodo, nel contesto quindi di un relazione medico-paziente.

Prescindendo dai meccanismi di azione, che ovviamente non sono quelli sostenuti dalla MTC, è fuor di dubbio che, come discusso, il trattamento con l’Agopuntura è di qualche utilità per i pazienti con alcuni tipi di dolore cronico resistente alla terapia, tant’è che negli Stati Uniti nelle linee guida per il trattamento della Lombalgia, redatte dall’American College of Physicians e dall’American Pain Society, si consiglia di considerare l’agopuntura come una possibile opzione per i pazienti che non rispondano alla terapia convenzionale.

Visto il ristretto ambito specialistico, è impensabile che nel Corso di Laurea si debba dare spazio all’insegnamento dell’Agopuntura, che esula dallo scopo formativo del Corso di Laurea, ma se ne dovrebbe discutere, insieme con le altre opzioni per il trattamento del dolore nei Corsi di Anestesia e Rianimazione.

Lo scopo del Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia è quello di formare  un medico a livello professionale iniziale con una cultura biomedico-psico-sociale, che possieda una visione multidisciplinare ed integrata dei problemi della salute e della malattia, con una educazione orientata fondamentalmente alla promozione della salute, e con una cultura umanistica nei suoi risvolti di interesse medico.

La risposta alla disaffezione dei pazienti verso la Medicina Scientifica, di cui si scriveva all’inizio del lavoro, deve consistere nel rafforzare la formazione “umanistica” del medico. Lo studente deve essere educato a comprendere quello che nella lingua inglese è definito come “illness” (piuttosto che disease che si riferisce ai segni e sintomi della malattia) e cioè il disagio del paziente per le alterate condizioni di benessere e le sue aspettative, ad ascoltare quindi la sua storia di malattia, il suo vissuto (Medicina Narrativa) per comprendere quale sia la richiesta di aiuto che il paziente in realtà pone. Così imparerà a considerare ogni paziente, non come un insieme di sintomi da chiamare con il nome di una malattia, ma un individuo unico per costituzione genetica e per esperienze di vita che cerca sollievo per il proprio disagio.



1 Come magistralmente puntualizzato da Claudio Magris, relativismo non deve significare, però, negazione della verità e  della necessità della sua ricerca.

2 Tecnica di stimolo dei punti di Agopuntura attraverso il calore generato dalla combustione di coni o sigari di Artemisia secca.

3 Paul Valery ha definito il Mediterraneo macchina per produrre civiltà.

Bibliografia

Per la Storia della Medicina Scientifica e per l’Effetto Placebo e l’Aspettativa di Guarigione, il lettore interessato troverà ulteriori informazioni rispettivamente nei libri di Gilberto Corbellini e di Fabrizio Benedetti, dai quali alcuni concetti sono stati ripresi:

Benedetti F. Il Cervello del Paziente. Le Neuroscienze della Relazione Medico-Paziente, Giovanni Fioriti, Roma, 2012.

Corbellini G. EBM, Medicina basata sull’Evoluzione, Laterza, Bari-Roma, 2007

Per le CAM esistono parecchi documenti della FISM e della FNOMCO e due lavori della Conferenza Permanente dei Presidenti dei Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia; è ricco di informazioni per il pubblico e per i sanitari, il sito dedicato della NIH.

http://nccam.nih.gov/

Lechi A, Vantini I: Riflessioni sulle medicine alternative e complementari ed il corso di laurea   specialistica in medicina e chirurgia. Med Chir 2004; 24: 919-923.

Macrì F, Natale N: Documento sulla formazione nelle medicina e pratiche complementari/non convenzionali riservato a medici chirurghi e odontoiatri. Commissione FISM per le Medicine Complementari/Non Convenzionali, 2012 (scaricabile dal sito www.fism.it)

Vantini I, Caruso C, Craxì A: L’insegnamento delle Medicina Alternative e Complementari(CAM) nel Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia: Posizione della Conferenza Permanente dei  Presidenti di Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia (CPPCLM). Med Chir 2011; 53: 2331-2

Per la Fitoterapia:

Dobrilla G, Corazzi G: Fitoterapia. Erbe medicinali tra evidenze d’efficacia ed effetti indesiderati. Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2005

Dobrilla G. Le alternative. Guida pratica alle cure non convenzionali. Zadig Editore, Roma 2008, pp 1- 302.

Per l’Agopuntura, il lettore interessato ai meccanismi di azione troverà ulteriori informazioni nei lavori di Langevin, rintracciabili su Pubmed, e di cui si cita il sito di una rassegna su Scientist, scaricabile dal sito:

Berman BM, Langevin HM, Witt CM, Dubner R. Acupuncture for chronic low back pain. N Engl J Med. 2010;363:454-61 http://www.the-scientist.com/?articles.view/articleNo/35301/title/The-Science-of-Stretch/

Vickers AJ, Cronin AM, Maschino AC, Lewith G, MacPherson H, Foster NE, Sherman KJ, Witt CM, Linde K; Acupuncture Trialists’ Collaboration. Acupuncture for chronic pain: individual patient data meta-analysis. Arch Intern Med. 2012;172:1444-53.

White A, Ernst E .A brief history of acupuncture. Rheumatology (Oxford). 2004;43:662-3.

Cita questo articolo

Calogero C., Rizzo C., Vantini I., Insegnare nelle Università la Fitoterapia e l’Agopuntura?, Medicina e Chirurgia, 60: 2668-2678, 2013. DOI: 10.4487/medchir2013-60-1

L’integrazione del territorio nel sistema delle cure. Ricadute sul processo formativon.58, 2013, pp.2599-2605, DOI: 10.4487/medchir2013-58-9

Abstract

Aim of the present article is to report the conclusions of an educational workshop on the teaching opportunities deriving from community-based medical education.

The workshop started with a briefing illustrating why, how and when the hospital and community settings should be integrated in planning an undergraduate curriculum in Medicine. After that, participants have been divided into four parallel workshops respectively dealing with; i) physician-patient-family interaction; ii) management of frail patients in the community; iii) health care in the community; iv) management of healthcare resources in the community.

The final debriefing and discussion has allowed some conclusions to be drawn: i) integration of the hospital and community settings in medical students education is both necessary and useful, taking profit of the natural features of the two settings, respectively favouring the study of disease and illness; ii) such an integration should not be limited to the last years of the medical curriculum, but be spread along all the six years, starting from an early clinical contact in the first year; iii) some educational tools and methods appear to be particularly suitable in the community context, e.g. narrative medicine (and board diary in particular) and problem solving (not limited to individual medical histories but extended to community health problems); iv) aim of community-based medical education is not only to develop students’ knowledge, skills and professional competence, but also to help students acquire a comprehensive vision of healthcare management.

Articolo

Premessa

Scopo di questo articolo è riferire sui contenuti dell’atelier pedagogico che il Gruppo di Studio Innovazione Pedagogica ha organizzato per la Conferenza Permanente dei Presidenti di CL in Medicina. L’atelier (Tab. 1) si è svolto in occasione della riunione della Conferenza che si è tenuta a Firenze, il 5 Ottobre 2012.

L’atelier ha preso l’avvio con una riflessione su tre domande: perché realizzare l’integrazione sul territorio del sistema delle cure? E come realizzarla? E, infine, quando, in quale fase del curriculum degli studi, realizzarla?

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Tab. 1 – Programma dell’atelier “l’integrazione nel territorio del sistema delle cure: ricadute sul processo formativo” (Firenze, 5 Ottobre 2012).

Perché un CL in Medicina dovrebbe realizzare l’integrazione del territorio nel sistema delle cure?

La riflessione della Conferenza è stata che l’integrazione nosocomio-territorio nella formazione dello studente in Medicina è intanto necessaria, ed è sopratutto utile. La necessità di questa integrazione deriva dal patto formativo tra Università e Studenti, che prevede che non sia corretto sottoporre a verifica certificativa ciò che non è stato insegnato. Al contrario, l’attuale normativa prevede che l’esame di stato per l’abilitazione alla professione medica includa un tirocinio valutativo sul Territorio e, nello specifico, presso gli studi dei Medici di Medicina Generale. È evidentemente necessario che l’Università organizzi un tirocinio formativo prima della laurea, in modo da preparare i propri studenti all’esame di stato. Al momento, il tavolo tecnico insediato presso il Ministero della Salute sta valutando l’ipotesi di inserire organicamente nel curriculum degli studi medici un tirocinio sul territorio che sia insieme formativo e valutativo, aprendo la strada alla trasformazione dell’esame di laurea in Medicina in una laurea abilitante. La nostra Conferenza auspica da tempo questa soluzione, vedendovi un’utile opportunità didattica. Infatti, il Territorio si presta meglio del Nosocomio per l’insegnamento di significativi aspetti della professione medica, quali:

– la relazione medico-famiglia-paziente, con tutte le implicazioni della visita domiciliare;

– la relazione interprofessionale tra i diversi professionisti della salute, che trova ambiti privilegiati nel territorio;

– la metodologia didattica dell’approccio clinico per problemi, che include tanto problemi di salute del singolo paziente, che problematiche di epidemiologia e prevenzione dell’intera popolazione;

– l’approccio privilegiato al paziente fragile, in un contesto di prevalenza di problemi di salute cronici assai diverso da quello nosocomiale;

– l’insegnamento sul campo della struttura e delle funzioni del sistema sanitario nazionale e delle cure primarie;

– l’insegnamento dei principi del management sanitario e della sostenibilità dell’impegno sanitario sul territorio;

– Un approccio più sistematico di quanto sia possibile realizzare nel nosocomio ai principi della salute globale e della medicina delle migrazioni.

Infine, mostrare allo studente in Medicina l’importanza della gestione del benessere e della salute della popolazione è un modo per migliorare la qualità (ed accrescere la quantità) delle vocazioni rispetto alla medicina di base e per innescare una preparazione remota all’impegno attivo sul territorio.

Come un CL in Medicina dovrebbe realizzare l’integrazione del territorio nel sistema delle cure?

L’integrazione nosocomio-territorio è solo un caso particolare di quell’integrazione didattica (trasversale vs. longitudinale, interdisciplinare vs. interprofessionale) di cui la Conferenza Permanente dei Presidenti di CL in Medicina ha da tempo riconosciuto la necessità e il valore pedagogico. La Conferenza si è espressa più volte in favore del superamento della mera multi-disciplinarità, intesa come “somma” di discipline; del raggiungimento di una effettiva interdisciplinarità e interprofessionalità; e della progressione verso la transdisciplinarità, con un insegnamento che prescinda dall’appartenenza disciplinare dei docenti e tenda al superamento del concetto stesso di settore scientifico-disciplinare.

Quando, in quale fase del curriculum, un CL in Medicina dovrebbe realizzare l’integrazione sul territorio del sistema delle cure?

Al momento attuale, la tendenza maggioritaria nei CL in Medicina italiani è quella di realizzare l’integrazione del sistema delle cure nel territorio nell’ultimo anno del corso di laurea in Medicina, favorendo l’integrazione didattica dei medici di medicina generale con i docenti di medicina interna e/o di sanità pubblica. Al contrario, in un curriculum degli studi a forte integrazione longitudinale1, nel quale le attività professionalizzanti siano “spalmate” in diversi e successivi anni di corso, si può ipotizzare una collocazione più ampia del contributo offerto dal territorio.

Al termine di questa introduzione, i partecipanti all’atelier si sono suddivisi (Tab. 1) in quattro laboratori distinti, diversificati per tema.

Laboratorio No. 1: L’interazione medico-paziente-famiglia

Il Laboratorio No. 1, condotto da Luciano Vettore e animato da Massimo Casacchia e Maria Stella Padula si è dato un titolo articolato e programmatico: “Le differenze nelle relazioni tra medico, paziente e famiglia negli ambiti professionali della medicina ospedaliera e – rispettivamente – della medicina generale; possibilità d’integrazione e peculiarità che meritano di essere insegnate: quando, come e da chi?

Dopo una breve premessa iniziale del conduttore sulle “regole del gioco”, i due “discussant” hanno presentato come “trigger” della discussione due storie di relazioni tra medico, paziente e famiglia.
La prima “storia” nel contesto ospedaliero, presentata da Massimo Casacchia, narra il ricovero nella “reparto-tenda” di Psichiatria nel dopo-terremoto dell’Aquila di un ragazzo di 24 anni per peggioramento del quadro clinico, su iniziativa del suo  Medico di famiglia (MdF), che aveva riorganizzato la sua azione di cura nelle tendopoli. La madre del paziente, ospitata nella struttura (a differenza di quanto sarebbe potuto accadere nel reparto ospedaliero in muratura), collabora con medici e infermieri nell’assistenza al figlio e diventa in ciò “esperta”, continuando questo suo apporto anche dopo la dimissione. Anche dopo di questa l’MdF continua a seguire il paziente per i problemi medici in stretta relazione con la madre.

La seconda “storia” nel setting della Medicina Generale (MG), presentata da Maria Stella Padula, è stata scritta da una studentessa: narra una visita domiciliare a una paziente ultraottantenne emiplegica, assistita dalla figlia precocemente vedova, che presenta una amputazione all’arto superiore all’altezza del gomito; essa ha a sua volta tre figlie adolescenti, due delle quali con problemi di salute e psicologici. Tutto ciò fornisce un quadro esistenziale di sofferenza dell’intera famiglia, e i problemi delle figlie diventano il vero oggetto della visita, mentre le condizioni fisiche della nonna diventano alla fine solo il pretesto della visita domiciliare. Il racconto della studentessa è molto “partecipato” anche dal punto di vista emotivo e rivela i molti interrogativi che questa si pone come riflessione su ciò a cui ha assistito, tanto che ha intitolato la sua storia “Una famiglia da curare: un puzzle della sfortuna”.

Alla conclusione della presentazione delle due storie la discussione risponde sostanzialmente a tre domande:

1) Cosa abbiamo imparato dalle narrazioni?

2) Cosa possono imparare gli studenti dagli eventi narrati per farne tesoro quando nella loro professione futura dovranno porre attenzione alla relazione tra medico, paziente e suoi familiari, sia all’interno dell’ospedale che sul territorio.

3) Quale contributo formativo differente, ma sperabilmente integrabile perché complementare, possono dare riguardo a ciò la Medicina dell’Ospedale e la Medicina generale?

Infine l’ultima parte del Laboratorio è dedicata alla presentazione di un progetto, consistente in due moduli didattici.

Il primo modulo propone un progetto di lettera di dimissione dall’ospedale con i contenuti di seguito indicati, in buona parte attinenti alle relazioni con il MdF e con la famiglia.

– Le ragioni del ricovero, la diagnosi, la sua gravità e la prognosi;

– le possibili conseguenze della malattia sulla vita del paziente negli aspetti lavorativi, familiari, relazionali e comportamentali (per es, stili di vita);

– l’eventuale presenza di co-morbidità e di fattori di rischio;

– il grado di consapevolezza del paziente sulla sua condizione;

– il presumibile carico familiare dell’assistenza;

– il progetto terapeutico non solo con le prescrizioni, ma anche con le indicazioni dei possibili supporti che potranno venire dall’ambulatorio divisionale e dal day hospital;

– i possibili segni premonitori di un’eventuale riaccensione della malattia, nei confronti dei quali lo staff ospedaliero dichiara la propria disponibilità a fornire tempestivamente consulenza telefonica o via mail;

– l’invito esplicito e la piena disponibilità a continuare la collaborazione nel prosieguo delle cure con il MdF, con i familiari di riferimento e con gli eventuali care giver.

Le caratteristiche di tali contenuti acquisiscono valenza formativa se di esse è reso partecipe lo studente che conosce quel paziente.

L’obiettivo didattico del modulo si propone di stabilire nel processo comune di cura relazioni reciproche tra staff ospedaliero, MDF e famiglia.

La metodologia didattica consiste nella preparazione e nella consegna della lettera in presenza dello studente. Sarebbe poi auspicabile che ogni studente potesse accompagnare almeno una volta uno dei pazienti che ha seguito durante il ricovero alla prima visita del MdF dopo la dimissione, ma ciò sarà possibile solo con studenti già in possesso di discrete competenze cliniche e con MdF adeguatamente formati alla funzione tutoriale.

La collocazione temporale nel curriculum di fatto coincide con il periodo nel quale lo studente frequenta il reparto.

Il secondo modulo propone il progetto “Adottare un paziente cronico”.

Si tratta di un iter guidato della durata di 3 anni, nel quale uno studente deve seguire un paziente cronico e la sua famiglia nei percorsi di diagnosi e cura, sia nell’Ospedale che sul Territorio. Lo studente deve compilare un diario di bordo “strutturato”, costituito cioè da numerose “griglie” nelle quali annotare i problemi e le informazioni anagrafiche del paziente e della sua famiglia, i dati e le motivazioni del follow up clinico (osservazione delle visite, eventi intercorrenti, approfondimenti diagnostici, decisioni terapeutiche e loro motivazioni); sono presenti inoltre schede di autovalutazione delle capacità comunicative e dell’emotività, nonché spazi “narrativi” per le note personali sul caso, su ciò che lo studente ritiene di aver imparato, ma anche sulle proprie reazioni emotive suscitate da esso, fornendo così un forte stimolo all’apprendimento metacognitivo.

L’obiettivo didattico del modulo è quello di stimolare lo studente a osservare e narrare per imparare a riflettere su ciò che sta imparando.

La metodologia didattica si sostanzia di un diario di bordo strutturato con le caratteristiche sopra descritte.

La collocazione temporale nel curriculum è longitudinale: per es., al CdLM in Medicina di Modena, dove il progetto è in sperimentazione, è situata continuativamente dal 3 al 6° anno.

Laboratorio No. 2: La gestione del paziente fragile sul territorio

Conduttore Giuseppe Familiari, Discussant Anna Paola Mitterhofer e Giulio Nati

Definizione di paziente fragile

La descrizione del paziente fragile è piuttosto complessa e ancora in via di definizione poiché oltre a far riferimento ad aspetti di tipo clinico, raccoglie le problematiche di tipo socio-assistenziale che generalmente coesistono in questo tipo di paziente.

Nei pazienti fragili si osserva generalmente la presenza di più malattie croniche. Si tratta di pazienti generalmente anziani, disabili o con malattie disabilitanti, talvolta malati psichiatrici con comorbidità e di difficile gestione assistenziale, il cui outcome è quasi sempre negativo. Operativamente, la fragilità può essere quindi letta secondo alcuni aspetti/domini peculiari quali lo stato socio-ambientale critico, la ridotta autonomia funzionale, l’invecchiamento avanzato, la coesistenza di malattie croniche e la polifarmacoterapia.

La fragilità dovrebbe essere, però, più della somma di singole condizioni patologiche e andrebbe interpretata come una patologia complessa e unica, la cui gestione non si risolve sommando più consulenze specialistiche (più prestazioni professionali, più linee guida, più diagnosi, più prescrizioni terapeutiche), ma praticando realmente la cooperazione e l’interazione di più professionisti, del paziente, del suo nucleo familiare e sociale connessi in rete2.

Il rapporto didattico-assistenziale con il paziente fragile

I principali punti del rapporto didattico-assistenziale con i pazienti fragili sono basati su problematiche legate alla condizione geriatrica, al ruolo delle cure palliative, all’autonomia di questi pazienti e all’organizzazione dell’ambiente sociale3.

La condizione geriatrica a causa della multimorbidità e la presenza di disfunzioni disabilitanti come il difficile controllo vescicale, l’incontinenza e la riduzione del visus, richiede un approccio olistico ed un giusto timing dei ricoveri ospedalieri. Le cure palliative svolgono un ruolo cruciale nel controllo del dolore e la libertà dal dolore è una condizione necessaria per il miglioramento dello spirito e quindi lo stato psicologico di questi pazienti, influenzando positivamente loro autonomia. L’organizzazione dell’ambiente sociale condiziona e definisce il contatto con i curanti, è di estrema importanza per il paziente fragile, e sembra esserlo più di quanto i pazienti non riferiscano.

Gli obiettivi didattici nel Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia si debbono prefiggere di sensibilizzare gli studenti al tema della fragilità con l’esposizione precoce sin dal primo anno di corso (Early Clinical Contact, ECC) per una migliore empatia con il malato, di indurre motivazioni alla cura di condizioni di difficoltà sociale associate a disabilità mentale o fisica rinforzando l’aspetto sociale della cura medica, indurre riflessioni sull’assistenza e la comprensione di pazienti che manifestano fragilità, insegnare il comportamento più adatto nella gestione dei pazienti fragili, acquisire capacità di comportamento sia in ambito bio-medico che psico-sociale4-10.

Modelli adeguati di Curriculum medico dovrebbero inoltre prevedere un insegnamento interdisciplinare e interprofessionale (IPE), quest’ultimo rivolto a gruppi di infermieri e studenti di medicina, dedicato alle cure palliative e con gli obiettivi didattici specifici studiati su pazienti fragili anziani (geriatrics, palliative care, communication and patient autonomy, organization and social networks) allo scopo di formare futuri gruppi di lavoro più affiatati e quindi più efficaci9.

Deve poi essere sottolineata la necessità, per gli studenti, della figura di riferimento definita come “individual lead o champion”, intesa come docente fortemente motivato sull’importanza dell’insegnamento medico e capace di trasmettere con entusiasmo agli studenti un approccio sempre positivo verso il malato3. Il ruolo del docente in questo contesto si dimostra essere fondamentale per il semplice presupposto, ampiamente dimostrato, che gli studenti osservano e copiano i comportamenti dei loro docenti, ed il loro ruolo diventa un modello comportamentale per il carattere futuro degli studenti stessi11.

Il gruppo di lavoro ha anche ritenuto che fosse importante saper identificare precocemente i sintomi ed i segni che caratterizzano i pazienti fragili, in particolare per gli aspetti psichiatrici, per intervenire il più tempestivamente possibile ed arrestare il processo evolutivo della/e patologia/e.

Per quanto riguarda gli strumenti, si è ritenuto di dover sottolineare il valore didattico del tirocinio professionalizzante, in particolare se sostenuto da momenti d’aula sia prima (come introduzione) che dopo (come conclusione) del periodo di pratica.

La gestione del paziente fragile sul territorio

La definizione di tale obiettivo didattico è costituita dalla risposta alla domanda su quali tra le competenze specifiche un MMG debba saper mettere in atto per gestire i pazienti fragili, sempre nel riferimento alle caratteristiche di tali pazienti, per poi identificare quali competenze specifiche debbano essere messe in atto dalla Medicina Generale sul territorio.

Per quanto attiene specificamente alla Medicina Generale, è necessario fare riferimento allo specifico core curriculum per l’insegnamento, che descrive sei competenze specifiche (gestione delle cure primarie, centralità del paziente, risoluzione di problemi specifici, approccio multidisciplinare, orientamento alla comunità, approccio olistico), all’interno delle quali si possono identificare gli aspetti rilevanti nella presa in carico territoriale del paziente fragile12.

Laboratorio No. 3: La tutela della salute sul territorio

Conduttore Fabrizio Consorti, Discussant Maria Luisa Sacchetti e Loris Pagano

Il punto di partenza per poter parlare di tutela della salute sul territorio è la considerazione complessiva dell’intero sistema delle cure primarie, che si estende ben oltre la medicina generale, per quanto quest’ultima rivesta un ruolo “pivotale”. Infatti oltre alle diverse figure mediche coinvolte (pediatri di libera scelta e altri specialisti), bisogna considerare la complessa rete di strutture organizzative esistenti ed operanti nel territorio. Esistono infatti i Centri di Assistenza Domiciliare (CAD) e i servizi di Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) e Programmata (ADP), ognuno dotato delle sue specificità, risorse e normativa. Non vanno dimenticati infine i grandi ambiti della Salute Mentale (CSM) e dei consultori materno-infantili. Tutte queste strutture devono poter trovare posto in un progetto organico di formazione al concetto di tutela della salute, che si pone come obiettivo non la cura della malattia acuta o cronica ma la promozione di stili di vita corretti, la diffusione di informazioni utili al mantenimento della salute, la prevenzione primaria, secondaria e terziaria.

Una nota particolare durante il laboratorio è stata fatta a proposito del ruolo delle associazioni di volontariato, che possono costituire una ulteriore risorsa per la progettazione didattica, rappresentando spesso un ambiente privilegiato perché uno studente possa sperimentare le attività di prevenzione o avere contatto con ambiti particolari come le malattie rare, ad esempio per il counselling familiare.

Obiettivi formativi

Se si volessero delineare possibili obiettivi e competenze per l’ambito della tutela della salute nel territorio, si dovrebbe innanzitutto partire dalla caratteristica dominante del territorio stesso, per come delineato in precedenza, cioè dalla sua “complessità”.

Un primo obiettivo potrebbe perciò essere quello di consentire l’acquisizione da parte dello studente della visione e conoscenza complessiva del sistema delle “cure primarie”.

La frequenza delle strutture territoriali dovrebbe essere indirizzata a che lo studente possa esplorare

– il “ruolo” del medico nel territorio

– la complessità delle condizioni di salute

– il reale valore dei determinanti di salute

cogliendo l’importanza del lavoro coordinato e di équipe.

Temi particolari, tipici di questo ambito e molto attuali potrebbero essere le dipendenze:

– alcool

– sostanze da abuso

– gioco

Una funzione molto importante e che dovrebbe avere notevole rilievo è quella del ruolo informativo verso i pazienti, soprattutto per quanto riguarda gli stili di vita (alimentazione, attività fisica, fumo e altri fattori di rischio, igiene sessuale), la capacità di leggere in maniera critica le informazioni provenienti dai media e da Internet, il counselling genetico anche in funzione dei programmi di screening e i programmi vaccinali.

Tutto questo infine dovrebbe consentire allo studente di sperimentare come la pratica clinica basata su evidenze sia possibile anche nella complessità del territorio.

Collocazione curriculare e criticità

Come si vede non si tratta di obiettivi e competenze che possano essere risolti con qualche seminario, ma si richiede una riorganizzazione organica del curriculum, perché si possa essere efficaci.

In particolar modo sembra importante che le attività formative indirizzate a questo ambito siano collocate fin dall’inizio degli anni clinici (4° anno), avendo allocate una quantità di CFU significativa, basata soprattutto su didattica professionalizzante (fra 2 e 5 CFU), integrata da poca didattica frontale. Non si tratta della solita richiesta di “più spazio curriculare” di una nuova disciplina che si affaccia all’agone accademico, ma unicamente della considerazione che ci si sta avviando a trasferire il mese valutativo in Medicina Generale dell’esame di stato al’interno del corso di laurea. Si colga dunque l’occasione per caricare di significati didattici quell’esperienza.

Le principali criticità individuate consistono soprattutto nella miglior definizione della figura del tutor (riconoscimento e retribuzione, formazione e valutazione), nell’integrazione con le strutture del territorio – probabilmente più complessa ancora che con quelle ospedaliere – e nel rapporto politico coi decisori regionali. Da ultimo di sottolinea come un cambiamento di questa portata sarà possibile solo se preceduto dalla preparazione di un “terreno fertile” nei corsi di laurea, sostenuto da iniziative come quelle intraprese in maniera lungimirante dalla Conferenza.

Laboratorio No. 4: La gestione delle risorse sanitarie sul territorio

Il Laboratorio n. 4 è stato condotto da Carlo Della Rocca, ed animato dallo stesso e da Carlo Saitto.

Le tesi proposte all’inizio del lavoro sono state le seguenti:

– l’ottimizzazione delle risorse nella gestione della salute sul territorio è possibile tramite l’integrazione delle attività socio-sanitarie ed il continuo aggiornamento delle metodologie di prevenzione, diagnosi e cura

– questo approccio “aperto” e “lungimirante” alla gestione della salute pubblica deve essere patrimonio del medico e quindi merita di essere insegnato: quando, come e da chi?

Le modalità di lavoro adottate hanno seguito il seguente schema:

– Il Coordinatore ha brevemente introdotto il tema

– I due “Discussant” hanno presentato due esempi/proposte di ottimizzazione delle risorse per la gestione di interventi di sanità territoriale

– Il Gruppo ha effettuato un’ampia discussione collegiale sul tema dalla quale è scaturita una  proposta di un “modulo didattico” con i suoi obiettivi, metodologie didattiche e collocazione temporale nel  curriculum.

La considerazione preliminare è stata quella che la necessità di rendere “sostenibile” un sistema sanitario che si prenda cura in modo equo della totalità dei soggetti rende indispensabile che ogni singolo operatore sia consapevole della problematica dell’ottimizzazione delle risorse. In particolare il medico, per le sue prerogative di Dirigente, ovunque svolga la propria attività, mette in essere quotidianamente atti che comportano l’impiego di risorse o direttamente gestite o indirettamente coinvolte sia a livello di ospedale sia di territorio.  È ovvio che non è possibile, quindi,  escludere dall’iter formativo del medico una specifica informazione sulle conseguenze economiche delle sue scelte operative e l’esposizione alla problematiche della gestione delle risorse. Non è un caso, infatti, che ormai pressoché tutti i CLMMC d’Italia (fonte: site visit) prevedano nell’ambito dei loro curricula la presenza di corsi/moduli di “economia sanitaria/management”. Peraltro, nella maggioranza dei casi, i contenuti di tali corsi appaiono scarsamente integrati con le problematiche cliniche, come se fossero “a latere” delle stesse. In realtà è opinione del gruppo che la gestione delle risorse più che essere un argomento “aggiuntivo” da studiare, dovrebbe essere una chiave per  riordinare le conoscenze cliniche dello studente (e del docente). Le risorse, infatti, non vanno considerate come solo un mero problema di costi e la loro gestione è ormai diventata a tutti gli effetti parte integrante della qualità stessa delle cure. In questo senso la loro corretta gestione trasforma la conoscenza medica in assistenza, colloca l’assistito all’interno della sua storia e del suo sistema di relazioni, e inserisce la dimensione individuale dell’assistenza in un sistema di cura e di tutela della salute. Le conseguenze possibili di un approccio di questo tipo sul “sapere medico” coinvolgono sia gli aspetti della conoscenza, sia del conseguimento delle abilità e delle competenze, sia della visone stessa dell’apprendimento dello studente. Nello specifico settoriale del territorio sono considerabili due approcci esemplificativi: le risorse interpretate intorno al paziente con risvolti evidenti e immediati sulle problematiche di governo clinico e le risorse interpretate  intorno al bisogno di salute della popolazione con evidenti implicazioni di Sanità Pubblica.

In definitiva il gruppo ha condiviso che il tema della gestione delle risorse rimanda, in ultima analisi, alla definizione di un’etica delle responsabilità che è forse la sostanza della stessa idea di cura.

Alla luce di quanto discusso, il gruppo ha proposto il seguente “modulo didattico”:

• Obbiettivi (conoscenze, abilità, competenze, visione)

– saper agire, nel suo essere clinico (diagnosta e terapeuta), in modo “economicamente congruo”

– essere partecipe ed attore di strategie in continua evoluzione che devono portare al ripensamento continuo dei percorsi di prevenzione e diagnostico-terapeutici in base al progredire delle conoscenze e delle tecnologie

– interagire e coinvolgere altri soggetti in termini di sinergie di azioni e di interessi e di         integrazione socio-sanitaria

• Metodologia didattica

– Problem solving

– Stages

• Collocazione temporale

–  Spalmato tra metodologie – patologie integrate – medicine e chirurgie in forma di UDE (Unità Didattiche Elementari) su specifici problemi di ampia rilevanza (es. screening del carcinoma della cervice uterina; il diabete; ecc.)

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Tab. 2 – Ipotesi di lavoro, emersa a conclusione dell’atelier “l’integrazione nel territorio del sistema delle cure: ricadute sul processo formativo”, su una possibile distribuzione longitudinale della didattica sul territorio nel curriculum degli studi.

Conclusioni

Al termine del lavoro nei quattro laboratori, si è tenuto un debriefing di restituzione in assemblea plenaria. I Conduttori dei laboratori hanno riferito su quanto emerso nei rispettivi gruppi di lavoro e l’assemblea ha animato un dibattito.

Tutti hanno convenuto sull’opportunità dell’integrazione nosocomio-territorio nella formazione dello studente in Medicina, sfruttando le differenze naturali tra i due diversi setting, ad esempio privilegiando lo studio della disease in ambito ospedaliero e della illness sul territorio.

Un’altra conclusione sulla quale si è registrato un consenso unanime, è l’opportunità di non limitare l’apporto del territorio ad un tirocinio valutativo nell’ultimo anno del corso di laurea ma di distribuire la didattica in questo setting in numerosi anni, sfruttando esperienze di “dorsale metodologica” quali il corso integrato di Metodologia Medico-Scientifica che si estende dal I al VI anno nei corsi di laurea della Sapienza di Roma. Il dibattito si è animato sulla quantità di CFU che è necessario allocare per coprire la didattica sul territorio, specie se distribuita su diversi anni: c’è chi ritiene sia necessario riservare alla medicina sul territorio un elevato numero di CFU, e chi pensa che sia possibile inserirla come didattica integrata nei corsi esistenti senza dover ogni volta creare moduli didattici autonomi e allocare CFU specifici. La didattica sul campo solleva comunque il problema, tutt’altro che secondario, di formare, valutare e incentivare (retribuire?) i tutor.

Il dibattito ha incluso anche il suggerimento di strumenti didattici specifici per la didattica sul campo, quali la medicina narrativa (è di grande utilità e pertinenza l’uso del diario di bordo), il problem solving (non limitato ai problemi di salute del singolo ma anche a quelli della comunità). Il fine è quello di aiutare lo studente a sviluppare non solo conoscenze, abilità e competenze professionali, ma anche una visione complessiva della gestione della salute.

Infine, il dibattito emerso nei laboratori, ed illustrato in plenaria (Tab. 2), ha permesso di formulare una ipotesi di lavoro, che verrà ripresa nel Forum che il Gruppo Innovazione Pedagogica organizzerà per la riunione di Palermo, sulla possibile distribuzione nei sei anni di corso dei contenuti della didattica sul territorio.

Bibliografia

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Cita questo articolo

Gallo P., Consorti F., Studio individuale e studio guidato. Concetti, bisogni e approcci, Medicina e Chirurgia, 58: 2599-2605, 2013. DOI:  10.4487/medchir2013-58-9