Risvegli. La neurologia letteraria di Oliver Sacksn.71, 2016, pp. 3251-3253, DOI: 10.4487/medchir2016-71-7

Abstract

At the end of World War I a strange disease appeared first in Europe and then all over the world: the encephalitis lethargica. Patients that survived infection developed, sometimes immediately, sometimes after many years, a post-encephalitic syndrome, characterized primarily from an atypical form of Parkinsonism. In the Thirties these patients were treated with a vinous decoction of nightshade, introduced by the popular Bulgarian healer Ivan Raev. But over the years, no therapy was effective in relieving symptoms of these patients, “frozen” in a long sleep, who populated the hospices and hospitals for the chronically ill. When, in the Sixties, the treatment with L-dopa was introduced for Parkinson’s disease, the British neurologist Oliver Sacks had the opportunity to investigate the effects of this drug on post-encephalitic patients, an experience that shook his scientific and literary life. The passionate book Awakenings, written by Sacks, is an inspiring exploration of the transformations that these patients underwent after the administration of L-dopa. A masterpiece of medical narrative, it addresses fundamental questions of human life: suffering, illness, health, cognitive empathy with the sick.

Parole chiave: Sindrome post encefalitica – Morbo di Parkinson – L-dopa

Key Words: Post-encephalitic syndrome – Parkinson’s disease – L-dopa

Articolo

Da ragazzino voleva fare il chimico. Era affascinato dalla tavola periodica degli elementi di Mendeleev – quel modo scoperto dallo scienziato russo di disporre razionalmente i mattoni fondamentali allora conosciuti della materia, sulla base delle loro proprietà – che lasciava immaginare la possibilità di imbrigliare in uno schema razionale l’ordine elementare della natura. Così Oliver Sacks trascorse i suoi anni giovanile quasi in un dialogo serrato con le sostanze elementari, che parlavano attraverso le proprietà, l’odore, il colore, la lucentezza delle loro superfici, i riflessi cromatici che emettevano alla fiamma. Un ricordo intenso che lo accompagnò tutta la vita fu la visione della grande tavola periodica esposta nel Museo della Scienza di South Kensington a Londra alla sua riapertura nel 1945, appena terminata la guerra. In realtà si trattava di una gigantesca vetrina di legno con tanti scomparti, ognuno dei quali etichettato dal nome di un elemento, il suo simbolo chimico e l’indicazione del peso atomico. Tutti distribuiti in una precisa posizione, dipendente dalle loro proprietà. Colpiva soprattutto, nello scomparto della vetrinetta corrispondente, la presenza di un campione di ogni singolo elemento, quando ottenuto in forma pura ed esponibile in condizioni di sicurezza. Oliver Sacks li osservava affascinato, percorrendo con lo sguardo quella sorta di “regno geografico” popolato da tanti enti chimici diversi disposti in gruppi, che definivano come dei territori, separati da precisi confini. Tornò più volte ad osservarla e fu una delle esperienze emotivamente memorabili della sua vita. Una passione, quella per la chimica, propiziata da Dave, “zio Tungsteno”, lo zio che fabbricava lampadine con filamenti di tungsteno1. Negli anni dell’infanzia e della prima adolescenza la chimica diventò un porto sicuro per Sacks, fatto di certezze e fenomeni affascinanti. Era un ragazzino timido e insicuro, che nella danza delle sostanze – e nella regolarità dei fenomeni che da loro sprigionava – trovava il modo per combattere l’introversione che ingabbiava la sua vita. Così usciva dalla grande casa edoardiana di Londra della famiglia – dove la musica era dappertutto – e si rifugiava nello stabilimento di zio Tungsteno a sentire racconti chimici affascinanti sui diversi metalli che componevano i filamenti delle lampadine, su come erano stati scoperti, le procedure per purificarli, quali fossero più adatti, luminosi e resistenti.

La chimica fu un passaggio del suo innamoramento per il mondo. Una passione precoce destinata però a mutare nel tragitto burrascoso e disordinato all’età adulta. Seguendo la tradizione familiare Oliver si iscrisse a medicina affrontando lo studio del corpo con una mentalità naturalistica. Poi si trasferì negli Stati Uniti e diventò neurologo al Mount Zion Hospital di San Francisco e all’Università della California a Los Angeles iniziando a pubblicare lavori scientifici e un libro dedicato all’emicrania. Aveva passione per lo studio degli stati del cervello e della mente, anche quando indotti dal consumo delle sostanze psicotrope. Sentiva che avvicinarsi ai fenomeni neurologici portava direttamente al cuore degli aspetti conoscitivi ed emozionali dell’esperienza umana.

Due incontri scientifico-culturali gli cambiarono la vita. Il primo con le opere di Aleksandr Romanovicˇ  Lurija, un famoso psicologo russo noto per i suoi studi sulla memoria e sulle funzioni corticali dell’uomo. Oliver Sacks lesse con ammirazione la sua descrizione dei pazienti con lesioni dei lobi frontali. Due anni dopo si imbatté in un piccolo libro scritto da Lurija dal titolo Una memoria prodigiosa e iniziò a leggerne le prime trenta pagine “pensando che fosse un romanzo”, poi capì che “in realtà era la descrizione di un caso clinico”, la più “dettagliata e profonda” che avesse mai letto “con la potenza drammatica, il sentimento e la struttura di un romanzo”2. Era quella particolare combinazione “del classico e del romantico, della scienza e della narrazione di storie” che lo colpì come una specie di rivelazione. Presto la fece totalmente sua e quel piccolo libro di Lurija riorientò la sua vita. Ma nel frattempo si verificò un altro incontro memorabile. Trasferitosi al Mount Carmel Hospital di New York, un ospedale per malati cronici, Sacks venne a contatto con un cospicuo gruppo di pazienti – circa duecento soggetti – affetti dai postumi di una singolare malattia, l’encefalite letargica, esplosa alla fine della prima guerra mondiale e durata qualche anno con diffusione mondiale. All’esordio la malattia colpiva tutte le fasce d’età, ma con preferenza individui nel momento più fiorente dell’esistenza, fra i dieci e i quarant’anni. Ne furono colpiti, tra gli altri, il famoso pediatra Scipione Riva Rocci, – inventore dello sfigmomanometro – e il poeta Emanuel Carnevali. La mortalità era elevata, a seconda delle casistiche fra il 30 e il 50 % dei soggetti colpiti. Chi sopravviveva poteva seguire nell’immediato un duplice destino: l’apparente guarigione clinica oppure lo scivolamento in una forma di parkinsonismo – parkinsonismo post-encefalitico – caratterizzato da grande ipocinesia, tremori e da un comportamento psicopatico e sociopatico. Il gruppo di pazienti che apparentemente guarivano, tornavano alla normalità per mesi e anni, ma poi sviluppavano anche loro, a scoppio ritardato, la grave affezione extrapiramidale. Negli anni Trenta questi ammalati erano stati curati con una strana terapia erboristica – un decotto vinoso di belladonna – inventata dal guaritore popolare bulgaro Ivan Raev3. La pozione veniva somministrata più volte al giorno e aveva l’abilità di ridurre drasticamente il tremore e di migliorare il movimento. Il trattamento era stato accolto con entusiasmo dalla Regina Elena di Montenegro – moglie di Vittorio Emanuele III – grande appassionata di medicina e ostetricia, la cui figlia Giovanna era la moglie dello zar di Bulgaria, Boris III. Proprio attraverso i suoi legami familiari con la dinastia regnante nello stato balcanico, la sovrana italiana aveva saputo delle qualità curative dell’intruglio inventato da Raev. Su suo impulso la  strana terapia venne sperimentata a Roma dal neurologo Giuseppe Panegrossi in una sezione clinica speciale dell’Ospedale  Umberto I e poi si diffuse in tutto il mondo venendo utilizzata per anni. Naturalmente all’intruglio originale si sostituirono poi formulazioni farmaceutiche più maneggevoli, come le compresse prodotte dall’Istituto Sieroterapico Milanese. Tuttavia, con il passare dei decenni, i sintomi della malattia si sclerotizzavano in una esasperante immobilità, una prigione dei movimenti che impoveriva la vitalità dei colpiti, irrigiditi in posture fisse, come statue di cera solidificata. Purtroppo anche la terapia con la belladonna perdeva allora di efficacia. In questa situazione Oliver Sacks trovò i pazienti nel 1966 quando assunse il ruolo di medico neurologo nel Mount Carmel Hospital di New York, un ricovero dove gli eccezionali encefalitici che avevano contratto la malattia acuta decenni prima trascinavano nell’acinesia la loro esistenza, accuditi pazientemente dal personale infermieristico. Corrispondevano esattamente alla definizione di “vulcani spenti” introdotta dal neuropsichiatra austriaco Constantin von Economo, il medico che per primo aveva identificato la malattia verso la fine della Prima Guerra Mondiale. Privi di qualsiasi prospettiva terapeutica popolavano le corsie dell’ospedale dando quasi la sensazione che nell’insieme costituissero un singolare museo delle cere viventi. Nel frattempo, tuttavia, una novità terapeutica era apparsa improvvisamente sulla scena neurologica mondiale. Lo studio del morbo di Parkinson aveva permesso di identificare nel depauperamento in dopamina del sistema nigro-striatale una delle cause patogenetiche della malattia. Da queste osservazioni sperimentali era nata l’idea di tentare il trattamento di questi pazienti con un precursore di questo neurotrasmettitore, la levo-diidrossifenilalanina o L-dopa, in grado di attraversare la barriera emato-encefalica e raggiungere così il cervello e i sistemi neuronali compromessi nella malattia. All’inizio del 1967 il medico greco-americano George Constantin Cotzias e i suoi collaboratori poterono annunciare l’efficacia del trattamento con L-dopa dei pazienti affetti da morbo di Parkinson. La notizia si diffuse in un baleno a livello mondiale, ma le applicazioni erano limitate dal costo elevato del farmaco, oltre 2000 sterline per una libbra, 454 grammi. Questo fatto limitò subito la possibilità del trattamento con L-dopa dei pazienti post-encefalitici del Mount Carmel Hospital “che era un istituto di carità, povero, sconosciuto, senza collegamenti con alcuna università o fondazione, ignorato dall’industria farmaceutica e privo di sponsor nel mondo economico o presso le autorità”4. I pazienti affetti da parkinsonismo post-encefalitico, non popolavano le corsie ospedaliere dove si faceva ricerca clinica, ma si trovavano prevalentemente confinati negli ospizi per cronici ”dove la Medicina odierna non si prende cura di scendere”. Pochi erano i medici, come Sacks, “entrati nelle sale e nelle corsie più appartate degli ospedali e dei ricoveri per cronici, e pochi avevano la pazienza di ascoltare e di osservare, di scandagliare la fisiologia e il dramma umano di questi pazienti sempre più inaccessibili”.

Le condizioni mutarono decisamente verso la fine del 1968 quando il prezzo del farmaco si abbassò drasticamente rendendo possibile il trattamento anche degli ammalati del Mount Carmel Hospital. Sacks non perse l’occasione che la vita gli stava riservando, si trovava in una situazione favorevole e ottimale per provare la L-dopa nei post-encefalitici così numerosi del ricovero. Se il farmaco aveva dimostrato una sua efficacia nel morbo di Parkinson, niente vietava di pensare che potesse possedere un’efficacia anche nelle simili forme dovute all’encefalite letargica. Come Sacks ricordò molti anni dopo: “Fui eccezionalmente fortunato nell’incontrare quei pazienti in quel determinato momento e in quelle condizioni di lavoro”5. Iniziò così un’esperienza scientifica e umana straordinaria. Perché gli effetti del farmaco si rivelarono subito sconvolgenti. Un grande fuoco covava sotto la cenere. I vulcani spenti si risvegliarono. Con sorpresa, entusiasmo e costernazione, Sacks assistette al ritorno alla vita, purtroppo soltanto transitorio e in situazioni spesso drammatiche, dei suoi pazienti trattati con L-dopa, che si risvegliavano dal carcere fisico e mentale in cui la malattia li aveva progressivamente relegati. “Davanti a tutti i nostri pazienti” – ricordò Sacks – si riapriva, almeno nell’immaginazione, la vita; per la prima volta da quarant’anni potevano credere in un avvenire migliore”6. L’atmosfera che si diffuse fra i pazienti era di un’esaltazione “quasi elettrica”. Leonard L., uno dei ricoverati “batté sulle lettere della tastiera di legno con cui comunicava, in un misto di entusiasmo e di ironia: «La Dopamina   è Resurrectamina. Cotzias è il Messia Chimico»”. Sacks era particolarmente entusiasta per quanto si svolgeva sotto il suo sguardo, ad appassionarlo era una malattia “diversa per ciascun paziente, una malattia che poteva assumere ogni forma possibile, ben a ragione chiamata «fantasmagoria» da coloro che per primi l’avevano studiata”. Finalmente aveva la possibilità di applicare l’insegnamento scientifico e letterario di Lurija, giungere alla scienza attraverso la biografia e la narrazione letteraria dei casi che con meraviglia mostravano tutta la ricchezza di drammi umani inimmaginabili. Il racconto di pazienti che improvvisamente avevano la possibilità di mostrare tutta la gioia di una rinascita ma anche la terribile frustrazione dell’ingiustizia che avevano patito, sentendosi defraudati da un’esistenza mancata. Per alcuni era come se il risveglio corrispondesse a una contrazione del tempo, come se fosse avvenuto nel giorno seguente il momento in cui la malattia aveva colpito. La sensazione di aver viaggiato in avanti lungo gli anni ritrovandosi proiettati nel futuro. Ma chi poteva ripagarli di quanto avevano perso, di tutto quel tempo in cui il mondo era cambiato mentre la loro esistenza si era fermata? Il risveglio dal “sonno” mentale era parallelo a quello fisico, impoveriti da decenni sul piano motorio, sotto l’effetto della L-dopa potevano ora effettuare movimenti sopiti tanti anni prima. E Sacks li osservava, registrando gli effetti del farmaco, interrogandoli, entrando in profonda identificazione empatica con loro. Se dapprima si sentiva come un naturalista che osserva e descrive, ben presto diventò qualcosa di più. Attraverso i pazienti Sacks poteva indagare “ciò che significa essere umani, e rimanere umani, di fronte ad avversità e minacce inimmaginabili”7. Oggetto dei suoi studi diventò “la loro identità e la loro lotta per mantenere un’identità”. Un’impresa che stava nel punto di intersezione “fra Biologia e Biografia” secondo la migliore lezione di Lurija. Da questa straordinaria – e per tanti versi sconvolgente – esperienza umana, scientifica e professionale nacque Risvegli, un capolavoro di scienza narrata, un libro colmo di empatia e di umana comprensione delle tragiche condizioni che talvolta riserva la vita.

Bibliografia

1Sacks O., Zio Tungsteno. Milano, Adelphi, 2002.

2Sacks O., In movimento. Milano, Adelphi, 2015, p. 187.

3Mazzarello P., L’erba della regina. Storia di un decotto miracoloso. Torino, Bollati Boringhieri, 2013.

4Sacks O., Risvegli. Milano, Adelphi, 1987, p. 72.

5Ibid., p. 20.

6Ibid., p. 23.

7Ibid., p. 25.

Cita questo articolo

Mazzarello P., Risvegli. La neurologia letteraria di Oliver Sacks, Medicina e Chirurgia, 71: 3251-3253, 2016. DOI:  10.4487/medchir2016-71-7

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