La Scuola di Melli Zanussin.64, 2014, pp.2907-2912

Dopo tanti anni di esperienza di medicina e di università credo di essermi chiarito il concetto di “Scuola” in ambito accademico. Questa non è tanto legata alle opportunità intellettuali e di affermazione personale che un professore autorevole può offrire ai suoi allievi, che è pure importante, ma è soprattutto consistente nella trasmissione di uno stile di pensiero e di una specie di ispirazione di fondo che un caposcuola sa comunicare. In questo senso le scuole mediche italiane non possono essere circoscritte a singole personalità, ma si sono svolte nel tempo con la successione di maestri e allievi che, a loro volta, divenivano maestri, stabilendo ramificazioni con una continuità che ancora dura. In questo senso io ho avuto la fortuna di essere inserito in una delle più prestigiose scuole italiane, quella di Orsi, Grocco, Frugoni, Melli e Zanussi.

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Questo accadde per caso quando da studente feci l’esame di Patologia Generale. A differenza dei più, io avevo scelto gli studi medici non pensando di fare il clinico, ma desideroso di dedicarmi alla ricerca di base.  Perciò ambivo a frequentare come studente interno l’Istituto di Patologia Generale, allora diretto dal professor Pietro Rondoni, accademico pontificio, direttore scientifico dell’Istituto dei tumori di Milano, autore del più rinomato testo di Biochimica di quei tempi e di un’opera originale (che ancora conservo) intitolata “Il cancro”.

Ma mi era stato detto che Rondoni accettava studenti interni solo dopo che avessero sostenuto l’esame di Patologia Generale e avessero preso trenta.  Io ero fiducioso dato che avevo riportato questa votazione in quasi tutti gli esami sostenuti, ma mi sbagliavo perché all’esame con Rondoni presi solo ventotto.

Perciò rinunciai alla Patologia Generale e feci domanda d’internato e fui accettato in Patologia Medica, senza sapere bene in che cosa differisse da quella Generale. Fu così che si decise tutto il mio avvenire perché, ai miei primi contatti con gli ammalati, capii che non potevo che fare il clinico. Ma questa è un’altra storia e il fatto importante è che così feci le mie prime armi in una delle più prestigiose scuole mediche italiane, alla quale dovevo restare legato per tutto il resto della mia carriera. So molto di questa scuola grazie a un libro, “Ricordi e incontri”, che Cesare Frugoni pubblicò nel 1974, quando aveva 93 anni, e che io recensii, senza firmarmi, sulla rivista Tempo Medico. La recensione gli piacque tanto che egli volle sapere il nome dell’autore e poi mi scrisse una gentilissima lettera di ringraziamento, alla quale io risposi dichiarandomi, come allievo di un suo allievo, un suo nipote scientifico, e questo fu l’inizio di un breve scambio epistolare che io ricordo con un certo orgoglio.

Capostipite della scuola fu Francesco Orsi di Pavia (1828-1909), studioso di semeiotica fisica cardiaca, che dette, insieme al suo allievo Pietro Grocco (1856-1916) , clinico medico di Firenze, il nome a un segno ottenibile con la percussione, detto anche del cappuccio di Grocco, per riconoscere la dilatazione dell’atrio sinistro, segno che credo che nessun medico odierno, io per primo, sarebbe in grado di cogliere. Ma a quei tempi  non esisteva alcun mezzo strumentale per studiare il cuore e i medici supplivano con dei virtuosismi di semeiotica  che sono andati perduti.

Come si è visto, l’origine della scuola è cardiologica, ma l’indirizzo che doveva prevalere in seguito fu dato proprio da Cesare Frugoni, uno degli allievi di Grocco che ne continuò la scuola prima a Padova e poi a lungo e con grande successo  a Roma (gli altri allievi di Grocco che occuparono cattedre di prestigio furono Raffaello Silvestrini a Perugia e Pio Bastai a Torino). Fu Frugoni che per primo si avventurò, per quanto i suoi tempi lo consentissero, sul terreno dell’immunologia, arrivando addirittura a pensare ai trapianti,  come risulta dal suo libro già citato. Ma, in realtà, più che ai trapianti pensava all’allergia.

Infatti, a quei tempi, la moderna immunologia doveva ancora nascere e l’allergia era il territorio sul quale si appuntavano prevalentemente le curiosità scientifiche dei precursori di questo settore del sapere medico. In Italia se ne era occupato Cesare Frugoni, che già nel 1935, insieme a Giuseppe Sanarelli e Amilcare Zironi, aveva fondato la prima rivista europea di allergologia, i “Quaderni dell’allergia”. In seguito, era stata creata l’ “Associazione italiana per lo studio dell’allergia”, con presidente Zironi e vice-presidente Guido Melli, l’allievo di Frugoni che sarebbe stato il maestro di Carlo Zanussi e mio, e successivamente la “Società Italiana di Allergologia” con presidente onorario Frugoni, presidente Antonio Lunedei e segretario Serafini. Melli fu presidente della società dal 1965 al 1968, quando questa cambiò nome e divenne la  “Società Italiana di Allergologia e Immunologia Clinica”. In seguito fu il primo presidente della “Società Italiana di Immunologia e Immunopatologia”.

Ma Frugoni fu anche un protagonista negli altri campi della medicina interna, e fu un clinico di grande successo che si occupò della salute di vari personaggi illustri, e fu all’origine di una notevole ramificazione della sua scuola, mettendo in cattedra allievi di grande spessore, come (in ordine alfabetico) Virgilio Chini a Bari, Mario Coppo a Modena, Giuseppe Giunchi a Roma, Aldo Luisada a Chicago, Flaviano Magrassi a Napoli, Gino Meldolesi a Palermo, Guido Melli a Milano, Mariano Messini a Roma, Umberto Serafini a Firenze.

Ma torniamo alle mie esperienze come neofita alla scuola di Melli. A quell’epoca (anno accademico 1950-1951) il mio futuro maestro, nato nel 1900, era da poco tempo a Milano. In realtà era già divenuto, quando non ancora aveva 40 anni, professore ordinario di Patologia Medica all’Università di Parma, e ne era stato scacciato nel 1938 in seguito alle leggi razziali del regime fascista, dato che era ebreo. Aveva trascorso gli anni seguenti parte in Italia, lavorando per un’industria farmaceutica, e poi in Svizzera durante il periodo dell’occupazione tedesca. Ora i suoi diritti gli potevano essere restituiti. Ma il suo posto a Parma era già stato occupato da un altro valente collega, perciò fu una buona occasione che si fosse resa disponibile una cattedra di Patologia Medica a Milano dove alla fine fu chiamato.

Vale la pena di ricordare la storia di questa cattedra. L’Università statale di Milano era giovane, essendo stata fondata dal ginecologo Mangiagalli nel 1928. Inizialmente il clinico medico era Luigi Zoia e il patologo medico Domenico Cesa Bianchi, poi, con il pensionamento di Zoia, Cesa Bianchi era divenuto clinico medico e in Patologia Medica era stato chiamato Luigi Villa. Intorno al 1945 o poco dopo Cesa Bianchi fu colpito da un ictus che lo costrinse a lasciare il servizio. Questo rese, per così dire, orfani i suoi allievi e in modo particolare quelli che ambivano a divenire professori ordinari, in modo particolare Marcello Cellina ed Enrico Poli. Villa divenne infatti clinico medico, condusse con se i suoi allievi e dirottò quelli di Cesa Bianchi (tranne Cellina che divenne primario a Monza) sulla Patologia Medica , che era la cattedra sulla quale era stato chiamato Melli.

Perciò, quando io misi piede nell’istituto diretto dal mio futuro maestro, la scuola vera e propria doveva ancora concretizzarsi. Convivevano, infatti, nella stessa sede allievi  delusi di Cesa Bianchi con altri colleghi che avevano seguito Melli provenendo da altre università. Da Parma era venuto il primo aiuto, Cesare Bartorelli, che era nato fisiologo, ma si era convertito alla clinica studiando l’ipertensione arteriosa e aveva appena tenuto, insieme a Melli,  su questo argomento una relazione al Congresso di  Medicina Interna. Bartorelli aveva una notevole personalità ed era destinato a una brillante carriera, divenendo nel 1956 ordinario di Patologia Medica all’ università di Siena, e poi, 10 anni dopo, tornando a Milano per occupare il posto reso vacante quando Melli si trasferì in Clinica Medica in seguito al passaggio fuori ruolo di Villa. In queste sedi fondò una vera e propria nuova scuola caratterizzata da un’impronta, per quei tempi nuova e originale, di interpretazione fisiopatologica della clinica. Bartorelli, a sua volta, mise in cattedra numerosi suoi allievi: prima Alberto Zanchetti e Arnaldo Libretti, entrambi destinati alla Clinica Medica a Milano, e poi altri, tra i quali mi piace ricordare, in Patologia Medica, Alberto Malliani, al quale, purtroppo prematuramente scomparso, sono stato legato da amicizia personale e da una specie di sintonia intellettuale.

La partenza di Bartorelli per Siena, tuttavia, non fece scomparire nel nostro istituto il nucleo di ricerca cardiologica che egli aveva fondato, che fu mandato avanti con successo da Giuseppe Folli, a sua volta destinato a divenire ordinario di Patologia Medica, prima a Milano, e poi alla Università Cattolica a Roma, dove successivamente passò alla Clinica Medica.

Altri due collaboratori di Melli, Vincenzo Grifoni e Carlo Zanussi, provenivano da Roma ed erano originariamente allievi di Frugoni. Grifoni s’interessava di Ematologia e trascorse un certo periodo a perfezionarsi negli Stati Uniti. Era un bravo clinico e un accurato ricercatore, ma era di una pignoleria leggendaria. Scherzando, non senza sfumature maligne, si diceva che un suo stretto collaboratore era stato valorizzato perché faceva bene la punta alle matite. Io stesso posso testimoniare che, dovendo inviare insieme una lettera a Lancet, iniziammo dedicando non poco tempo alla scelta della carta su cui scrivere. Ma, al di là di certe singolarità caratteriali, Grifoni era certamente di eccezionale cultura e con aperture al futuro che a quei tempi pochi coltivavano.  Io stesso gli sono debitore per avermi indirizzato allo studio dei linfociti, che nel 1960 Nowell aveva scoperto non essere cellule terminali, ma capaci di trasformarsi in blasti e moltiplicarsi sotto varie sollecitazioni, tra le quali la più popolare era la fitoemagglutinina. Era la nascita della moderna immunologia e gli studi sui linfociti dovevano segnare il passaggio dei miei interessi scientifici dalla ematologia alla immunologia clinica, un campo al quale, da allora in poi, sono rimasto fedele. Devo pure a Grifoni di essere stato iniziato allo studio della statistica. Oggi, che la Statistica viene studiata di regola in tutti i corsi di Medicina, questo mio ricordo può sembrare sorprendente, ma a quei tempi nessuno teneva corsi di questa disciplina e la ricerca clinica era più qualitativa che quantitativa. Grifoni invece me ne parlò e mi suggerì lo studio del testo americano di Snedecor e Cochrane, che per qualche anno fu la mia Bibbia.

Grifoni divenne poi, prima professore ordinario di Patologia Medica a Cagliari, e poi di Clinica Medica a Genova, e venne a mancare improvvisamente poco prima di lasciare per anzianità questa cattedra.

Ma il vero continuatore della ispirazione originale di Frugoni e Melli fu Carlo Zanussi, che fondò nel nostro istituto un nucleo vivacissimo di ricercatori che aveva per tema l’allergia.  Questo gruppo fu molto attivo e si distinse per l’originalità di molte ricerche e per la anticipazione di molti temi della moderna immunologia clinica che, nel frattempo, si stava affermando. Avrebbe poi incluso varie personalità importanti per la immunologia italiana, come Domenico Mazzei, Fulvio Invernizzi, Sergio Del Giacco, Roberto Cattaneo e Claudio Ortolani. Anche personaggi destinati a posizioni di rilievo in altre specializzazioni fecero le prime armi in quel gruppo, come l’oncologo Gino Luporini e gli infettivologi Mauro Moroni e Francesco Milazzo. Purtroppo, Mazzei nel 1979, poco più che cinquantenne, e Invernizzi nel 2007 ci hanno lasciato. Il primo era divenuto ordinario di Immunologia Clinica della Università di Milano e il secondo ordinario di Patologia Medica sempre della stessa università.

Nel 1965 Zanussi vinse un concorso di professore ordinario di Malattie Infettive alla Università di Sassari e si allontanò da Milano con Moroni, che lo seguì in Sardegna. Doveva ritornare a Milano pochi anni dopo, prima come professore di Malattie Infettive e poi di Semeiotica Medica e infine, nel 1971, come professore di Patologia Medica ed erede della scuola fondata dal suo maestro Melli e da lui stesso resa tanto importante e attiva. In seguito sarebbe stato Clinico Medico e con questa qualifica sarebbe andato fuori ruolo nel  1995. Quando, tre anni dopo, andò in pensione, fu nominato professore emerito della Università di Milano.

Vorrei, a questo punto, dire qualcosa di Melli con il quale ebbi molta consuetudine fin da giovanissimo, essendo stato per molti anni uno dei due assistenti addetti al Reparto Solventi (nulla a che vedere con la chimica, in questo caso i solventi erano quelli che pagavano il ricovero), dove il direttore, come allora lo si chiamava, veniva a giorni alterni a visitare i pazienti ricoverati.

Melli era molto alto e, pur non essendo grasso, aveva una figura imponente. Portava i capelli grigi pettinati a spazzola, dei semplici baffi e aveva degli occhi azzurri, apparentemente freddi, ma che io ho visto inumiditi di lacrime al letto di qualche caso pietoso. Era chiuso e molto riservato, tutto quello che si sapeva di lui era che viveva semplicemente con sua moglie e che non avevano figli. Pur avendolo frequentato molto, mi è difficile dire se avesse interessi culturali extramedici: una sola volta in un suo discorso nominò Ernst Mach, che allora conoscevo solo come fisico e non ancora come filosofo. Questo mi fa pensare che avesse una solida cultura umanistica, ma non la esibisse, in accordo con il suo temperamento. Era un grande gentiluomo e trattava con la stessa cortesia una nobildonna nel reparto Solventi e una contadina in un reparto comune, e questo in un’epoca nella quale spesso i medici davano del tu ai ricoverati, indipendentemente dall’età e dal sesso.

Si diceva che non era sempre stato tanto chiuso e riservato, ma anzi che in gioventù fosse stato vivace e amante soprattutto di automobili veloci, una passione che non doveva essergli passata del tutto anche ai miei tempi, se è vero che suscitava le ambasce del prudente Bartorelli quando quest’ultimo doveva salire su un’automobile guidata dal suo capo.   Ma si diceva anche che era cambiato dopo gli anni di persecuzione razziale. In effetti era nato a Ferrara, dove esisteva un’importante comunità israelitica, eternata nei suoi romanzi da Giorgio Bassani. Probabilmente il suo ambiente originale era quello descritto nel “Giardino dei Finzi-Contini”, per fortuna con esiti meno tragici, ma sempre tanto drammatici da segnare un uomo per sempre.

Era certamente un grande clinico. Quello che soprattutto lo caratterizzava era saper distinguere, per così dire a colpo d’occhio, i dati essenziali da quelli che rappresentavano solo un rumore di fondo in un caso clinico complicato. In questo credo che fosse stato influenzato dal suo maestro Frugoni, che pure vidi in azione in un paio di consulti con Melli che venne a fare nel nostro reparto.

Questa capacità del nostro maestro era inizialmente un po’ deludente per noi giovani medici che amavamo le diagnosi brillanti. Ma la lezione di Melli era che il dovere del clinico non è di fare diagnosi brillanti, ma diagnosi corrette. Quando capii questo l’ammirai moltissimo e in più di un’occasione gli chiesi come aveva fatto ad arrivare a certe conclusioni, ma lui fu parco di spiegazioni. Probabilmente pensava che era una questione d’intuizione, non facile a teorizzarsi.

D’altro canto, a quel tempo pochi si ponevano il problema del metodo clinico e il solo Enrico Poli aveva pubblicato nel 1965 un libro intitolato: “Metodologia medica. Principi di logica e di pratica clinica”e il suo unico predecessore era stato, tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento, Augusto Murri, cui non a caso il libro di Poli era dedicato. Ma era stato poco seguito. Si narra che quando Grocco fu gravemente malato e si temette per la sua vita, i suoi allievi suggerirono di chiedere il parere di Murri e l’illustre paziente replicò che aveva bisogno di un medico e non di un filosofo.

Melli aveva molta attenzione per la ricerca nel suo istituto. Da giovane era stato inviato da Frugoni a perfezionarsi in Germania, che a quei tempi era l’equivalente scientifico degli Stati Uniti di oggi, e parlava perfettamente il tedesco. Poco dopo essere venuto a Milano aveva dato un importante contributo alla Immunologia italiana pubblicando un ponderoso volume intitolato “Allergia e malattie allergosimili”, dove per allergosimili si intendevano quelle che ora si chiamano malattie immunopatologiche.

Non amava le teorie complicate cui si interessavano molti dei suoi colleghi ed era incline a un sano scetticismo. Rimase celebre una sua polemica con Lunedei a proposito della iperostosi frontale interna, malattia che, secondo Melli semplicemente non esisteva. Inizialmente, non era tanto il promotore, ma piuttosto un interessato valorizzatore delle ricerche condotte dai suoi collaboratori. Ricordo che, in un’occasione in cui  gli mostrai alcuni  miei  risultati sperimentali e mi attendevo un breve colloquio, mi trattenne invece per più di un’ora a discutere i miei dati e a darmi suggerimenti. Si impegnò molto di più quando, secondando le iniziative di Domenico Mazzei (che aveva preso il posto di Zanussi come coordinatore del gruppo immunologico, dopo che questi si era trasferito a Sassari), fu iniziato nel nostro istituto, in collaborazione con il Clinico Chirurgo Edmondo Malan, un programma pionieristico di trapianti renali. Fu allora che, insieme a Mazzei, fece una relazione al Congresso della Società Italiana di Medicina Interna su “I farmaci immunosoppressori”.

Melli era un docente di grande successo. Le sue lezioni erano sempre affollate e io stesso, e molti altri assistenti, andavamo e sentirle appena era possibile. Sarebbe potuto restare in servizio più a lungo di quanto fece, perché gli era riconosciuto il diritto di recuperare gli anni perduti per le persecuzioni razziali, ma lo fece solo per un anno e ci lasciò a sorpresa. Per combinazione io fui il primo cui comunicò questa inattesa decisione e fui profondamente turbato, così come lo furono anche tutti i miei colleghi, anche tenendo conto delle difficoltà connesse alla successione del proprio Direttore.

In effetti, alcuni passarono a lavorare con Elio Polli, che prese il posto di Melli come Clinico Medico, altri seguirono Folli, che nel frattempo era divenuto uno dei Patologi Medici della nostra Università, altri ancora, e io fra questi, scelsero di andare con Zanussi, che divenne anche lui uno dei Patologi Medici, da professore di Semeiotica che era. Fu una scelta felice perché Zanussi divenne il vero successore del nostro primo maestro e io personalmente ne fui valorizzato e gli devo di essere divenuto a mia volta ordinario di Patologia Medica, sempre all’Università Statale di Milano, ma nella sede convenzionata dell’Ospedale San Raffaele.

Dopo di allora vidi Melli poche volte e il caso volle che dovessi essere io a commemorarlo in  Consiglio di Facoltà in occasione della sua morte nel 1985. Doveva farlo Zanussi, ma quella volta era assente e il Preside chiese a me di farlo. Lo feci male, non solamente perché dovetti improvvisare, ma anche perché mi sentivo impacciato da una strana emozione.

Zanussi era diversissimo da Melli. Era biondo, con  capelli discriminati nel mezzo della testa, così che a tratti dei ciuffi gli ricadevano sulla fronte, aveva un profilo aguzzo e la bocca per lo più atteggiata in un sorriso ironico, ma anche pronta a serrarsi in un’espressione risoluta quando doveva esercitare la sua autorità. Perché, se Melli regnava più che governare, Zanussi invece ci teneva a dirigere con polso fermo tutta la scuola, compresi gli allievi che erano divenuti cattedratici a loro volta.

Io non appartenevo al nucleo originale della scuola di Zanussi per puro caso. Anzi, in seguito, quando vedevo la vivacità di questo gruppo provavo una certa invidia. Come ho già detto, arrivai alla immunologia attraverso l’ematologia, quando si capì l’importanza dei linfociti per il sistema immunitario. Ma, a quell’epoca, Zanussi era in Sardegna e cominciai a collaborare con Mazzei. Quando Melli andò fuori ruolo cominciai a lavorare con Zanussi in maniera molto proficua. Tanto che amavo ripetere che io, nel filone delle sue ricerche, ero come la via alternativa del complemento. Insieme abbiamo fatto varie relazioni a congressi, ho collaborato al suo “Terapia Medica Pratica”.

Ma, se lo ammiro come maestro di medicina, più di tutto lo ricordo per le sue straordinarie qualità personali. Era un uomo di grande cultura non solamente medico-scientifica, di vaste letture, con il quale si poteva sempre fare una conversazione intelligente. Ma tutto questo senza pedanteria, venato sempre di ironia e alleggerito dal suo amore per la vita. Amava l’arte, ma anche i buoni vini e la buona cucina, gli piacevano le espressioni pittoriche, ma anche era capace di apprezzare la bellezza femminile. La sua compagnia era sempre piacevole.

A differenza di Melli, che era un solitario, Zanussi era molto socievole e coltivava numerose amicizie, anche con personaggi di notevole rilievo come, per esempio, il direttore del Corriere della Sera, che allora era Piero Ostellino, che richiese la sua collaborazione per argomenti medici sul suo giornale, anche in prima pagina. Si impegnò anche in politica, con il Partito Socialista e per un breve periodo fu anche direttore della ASL milanese, incarico che lasciò volontariamente dopo brevissimo tempo, forse accorgendosi di quale divario esiste tra l’accademia e la politica.

Ma, prima di tutto, diede un importante impulso alla ricerca in una fase di evoluzione del pensiero immunologico particolarmente vivace. Partecipò attivamente alla vita di molte società mediche, come quella Italiana di Medicina Interna, per la quale fece due relazioni, nel 1990 a Milano sui “Meccanismi di guarigione e cronicizzazione delle infezioni virali”, e nel 1992 a Firenze  su “ I sistemi di controllo endogeno delle malattie infettive e infiammatorie” . Fu anche molto attivo nella Società Italiana di Immunologia e Immunopatologia, della quale per un certo periodo fu anche Presidente, e nella Società Italiana di Allergologia e Immunologia Clinica”. Scrisse dei libri, tra i quali il più famoso è il suo “Terapia Medica Pratica”, uscito in prima edizione presso la UTET nel 1986 ed evolutosi in “Diagnosi e terapia”, sempre presso lo stesso editore nel 1995, un’anticipazione dei suoi interessi clinici della maturità avanzata, che avrebbero portato al suo “Metodologia diagnostica in medicina interna” (UTET 1999), al “Breviario medico” (Selecta editrice 2004) e, infine al “Il metodo in medicina clinica” (Mattioli 2007).

La sua scuola ebbe notevoli successi. Molti allievi di Zanussi sono divenuti professori di prima fascia: nel 1980 a Milano Mauro Moroni in Malattie Infettive, io stesso a Milano, e a Cagliari Sergio Del Giacco (dopo un intermezzo con Grifoni), entrambi in Patologia Medica. Successivamente lo sono divenuti, pure in Patologia Medica e sempre a Milano, Fulvio Invernizzi e Luigi Cantalamessa, Raffaella Scorza in Immunologia Clinica, e, più recentemente, a Brescia Roberto Cattaneo in Immunologia Clinica (che, però, già da tempo in questa sede svolgeva come professore associato funzioni dirigenziali in un importante servizio specialistico) e a Milano Pierluigi Meroni in Reumatologia. Anche altri allievi hanno avuto posizioni di rilevo in campo ospedaliero, tra i quali ricordo Claudio Ortolani, che è divenuto coordinatore del Dipartimento di Allergologia Milanese e ha dato importanti contributi a questa disciplina.

Zanussi come clinico non era inferiore a Melli, si vedeva anche nel suo caso l’influenza di Frugoni, ma con uno stile diverso, più comunicativo, e per questo piaceva molto ai giovani. Era anche lui un docente di grande successo.

Mi sono più volte chiesto se con il suo pensionamento, e più ancora con la sua scomparsa, in qualche modo la scuola iniziata da Orsi sia giunta al suo termine. E’ una riflessione difficile: i tempi sono cambiati e la medicina non è più la stessa. Forse da Orsi al primo Zanussi la medicina è mutata meno che nel periodo seguente. Forse adesso la personalità di alcuni protagonisti conta di meno e la stessa idea di scuola medica si è indebolita.

Ma per me resta come un’ispirazione di fondo che può e deve essere trasmessa e che, per quanto mi riguarda, ho cercato di avere presente, pur senza richiamarla esplicitamente, quando, a mia volta, mi sono trovato a essere professore ordinario, a dirigere una struttura di degenza e di ricerca, e ad avere così degli allievi.  Ho sempre amato molto l’immunologia, ma anche tutta la Medicina Interna e, in particolare, l’arte della clinica. Fortunatamente ho avuto bravissimi allievi: per restare al campo universitario, ricordo Maria Grazia Sabbadini, che è divenuta ordinario di Medicina interna e in qualche modo il mio successore, Ruggero Pardi, attualmente ordinario di Patologia Generale, e i più giovani professori associati Angelo Manfredi in Reumatologia, e Patrizia Rovere Guerini in Medicina Interna, tutti presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.  Auguro loro di essere all’altezza, pur in condizioni tanto diverse, delle vicende umane e scientifiche che sono alle loro spalle.