L’Opera omnia di Marcello Malpighi (1628 – 1694)n.63, 2014, pp.2859-2863, DOI: 10.4487/medchir2014-63-7

Autori: Stefano Arieti

Marcello Malpighi nacque il 6 marzo 1628 da Marcantonio, agricoltore originario di Osimo, e da Maria Cremonini nel fondo “La Bocchetta” sito in Ronchi di Crevalcore, al confine dello Stato Pontificio con il Ducato Estense.

Successivamente la famiglia si trasferì all’interno del paese.

Nel 1645, a 17 anni, fu inviato a Bologna a frequentare le “Scuole Pie”, istituzione voluta dall’arcivescovo di Bologna, Alessandro Ludovisi (1554-1623), per insegnare “gratis e per amor di Dio”. Quattro anni dopo Malpighi si iscrisse all’Università delle Arti, seguendo il corso di Filosofia e Medicina.

Il suo spirito orientato a rifondare le basi della medicina classica si manifestò, già, in quegli anni: infatti la sua dissertazione di laurea, discussa il 26 aprile 1653, era fortemente e coraggiosamente antigalenica.

Dopo la laurea e il matrimonio con Francesca Massari, esercitò per un certo periodo la professione, entrando a far parte, nel 1650, della celebre accademia “Il Coro Anatomico”. Nel 1655 gli fu assegnata la Lettura di Logica, ma l’anno dopo fu chiamato dal Granduca di Toscana, Ferdinando II de’ Medici, all’Ateneo Pisano in qualità di Lettore di Medicina Teorica.

Qui rimase sino al 1659, quando rientrò a Bologna per ricoprire la Lettura ordinaria di Medicina Pratica. Tra il 1662 e il 1666 fu  a Messina, titolare della Prima Cattedra di Medicina.

Il 4 marzo 1669 gli giunse il riconoscimento più importante: secondo fra gli Italiani (il primo era stato il conte Carlo Ubaldo da Montefeltro nel 1667) fu nominato membro della Royal Society.

Un’ulteriore prova del suo valore gli venne da papa Innocenzo XII, quando il 12 luglio 1691 lo nominò archiatra pontificio, volendolo accanto a sé al Palazzo del Quirinale.

Il 25 luglio 1694 fu colpito da un fatto ischemico con emiparesi destra, da cui si riprese grazie alle cure di due grandi medici romani, il Lancisi e il Baglivi.

L’11 agosto gli morì l’adorata consorte. Il 21 novembre dello stesso anno fu colpito da un attacco di calcolosi vescicale, a cui seguì un nuovo attacco ischemico con emiparesi sinistra. Il 29 novembre alle 4 antimeridiane, confortato dalla presenza del papa e di alcuni famigliari, spirò. Le sue spoglie, dopo essere state tumulate provvisoriamente nella Chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio a Roma, dal 10 dicembre 1695 riposano nella Chiesa dei SS. Gregorio e Siro di Bologna.

Condensare il pensiero di Marcello Malpighi in poche righe è assai arduo. Il campo di analisi che egli privilegiò fu quello anatomico, scienza nella quale lo studioso, che pure mai occupò una cattedra d’Anatomia, lasciò ai posteri un’eredità cospicua: dall’apprendimento costante e paziente dell’indagine morfologica fino alla creazione di una nomenclatura appropriata a tanti nuovi reperti.

Fondamentale la dimostrazione, tra il 1660 e il 1661, che il tessuto polmonare risulta di una struttura vescicolare, simile al favo d’api, anziché parenchimatoso, come si era creduto sino ad allora, e che queste “vescicole”, comunicanti fra loro e con le più piccole terminazioni bronchiali, sono circondate da una fitta rete anastomotica artero-venosa.

Descrizione che lo portò a formulare l’ipotesi che l’aria agisce sulla respirazione meccanicamente, distendendo le vescicole e comprimendo le pareti vascolari, e che, pur non entrando in diretto rapporto con il sangue, ne agevola il miscuglio per qualche “principio turbativo” non meglio specificato (De pulmonibus observationes anatomicae, 1661; De pulmonibus epistola altera, 1661).

Nell’ambito degli studi dedicati alla percezione sensoriale grande merito di Malpighi fu quello di aver messo in evidenza nella lingua, dopo che era stata cotta e privata dello strato corneo, lo strato reticolo-mucoso (reticolo del Malpighi) e sotto questo, le formazioni papillari (da lui concepite come estremità periferiche delle fibre nervose centrali) di cui intuì le finalità gustative (De lingua, 1665). Così riconobbe nella cute, sia delle parti glabre che ricoperte da peli, una volta asportata la “cuticola” superficiale e messo a nudo lo strato reticolare mucoso, le terminazioni tattili, oltre alle ghiandole sebacee e sudoripare (De externo tactus organo, 1665).

Non altrettanto geniali i suoi studi sul cervello (De cerebro, 1665; De cerebri cortice, 1666), che considerò come un ammasso centrale di sostanza bianca formata da lunghe e sottili fibre canalizzate, i nervi, il cui estremo prossimale si radica nella sostanza grigia corticale, “a struttura ghiandolare porosa”, dove rilevò la presenza di grandi cellule (le cellule piramidali), mentre quello distale costituisce il tronco midollare dal quale si dipartono le terminazioni periferiche attraverso il cui lume  fluisce il “succo nerveo”, secreto dalla ghiandola corticale stessa, per tutto il corpo: paragonò, così, il cervello a una ghiandola a secrezione interna.

L’attento esame degli organi addominali lo condusse alla scoperta della struttura lobulare del fegato, nei cui acini (piuttosto che nella cistifellea, come era allora opinione corrente) ritenne avesse luogo la formazione della bile, e alla distinzione fra circolazione intraepatica venosa e biliare (De hepate, 1666). Negò, inoltre, al fegato il compito preminente, attribuitogli da Galeno, di formare il sangue nutritizio, mentre gli assegnò una funzione di “filtro” analoga a quella di polmoni, milza, reni.

Osservando quest’ultimi rilevò come la loro parte corticale fosse disseminata da molti globuli (quelli che verranno definiti successivamente “corpuscoli renali del Malpighi”), risultanti di molteplici diramazioni vascolari sanguigne confluenti, secondo lui, nei vasi uriniferi, per cui riconobbe in essi  i veri organi della funzione urinaria che definì conseguente a un vero  e proprio processo di “separazione”, anziché di semplice filtrazione (De renibus, 1666).

Studiò, inoltre, gli involucri della milza, distinguendo la capsula fibrosa dal rivestimento peritoneale, e mise in evidenza nel tessuto splenico quei numerosi corpi biancastri che, sparsi in modo uniforme, vanno ancora sotto il nome di “corpuscoli splenici di Malpighi” (De liene, 1666).

Alcune sue tesi anticipano, con felice intuizione, formulazioni dottrinali e scoperte più tarde: così, ad es., osservò e descrisse correttamente le emazie, pur interpretandole  dapprima, nell’omento dell’istrice (1662), come corpuscoli adiposi e, poi, nel mesentere del gatto (1664), come “passerelle” di sangue coagulato; nel sangue fece, anche, distinzione fra parte sierosa e fibrosa alla quale attribuì il processo di coagulazione (1666).

Considerò il cuore come un muscolo di una “irritabilità insita”, responsabile della sua capacità di contrarsi, e rilevò il decorso a spirale dei suoi fasci. Dimostrando come la temperatura interna di questo organo  non differisse da quella degli altri organi interni, contestò  che esso fosse “il generatore del calore vitale”, così gli negò una funzione secretoria, non essendo riuscito ad evidenziare alcuna struttura ghiandolare intrinseca.

I suoi studi sull’embrione di pollo, compiuti fra il 1672 e il 1675, lo portarono alla descrizione della circolazione vitellina e all’osservazione dei primi rudimenti degli organi del germe: formazione della piega cefalica e della notocorda, dell’abbozzo cardiaco e degli archi aortici, dei somiti e del tubo neurale, delle vescicole cerebrali e ottiche, ecc., tutte scoperte  possibili all’ utilizzo del microscopio.

Non meno interessanti le sue ricerche anatomocomparate sui bachi, sui pesci, sulle vaccine. Così, pure, quelle  condotte nel mondo vegetale.

Anche nel campo della patologia umana emerse il talento e l’intuito innovativo di Malpighi, che sostenne l’uso delle sezioni cadaveriche alla ricerche del nesso esistente fra manifestazioni cliniche e quadro anatomico. Ricerche queste, che permisero, poi, al suo “nipote” spirituale Giovan Battista Morgagni di gettare solide basi per una nuova disciplina medica: l’anatomia patologica.

Le ricerche in campo patologico portarono Malpighi a identificare il cosidetto “polipo del cuore”, le lesioni cardiovascolari di natura aneurismatica, ateromasica e infiammatoria, i calcoli biliari e renali, l’edema infiammatorio da quello da stasi, che distinse chiaramente fra loro e di cui precisò il modo di formarsi.

Per quanto Malpighi prediligesse la ricerca sperimentale, pure esercitò a lungo e, con fortuna, la pratica professionale, come stanno  a dimostrare i tre volumi di Consulti, pubblicati, per la prima volta, in occasione del IX Centenario dell’Alma Mater Studiorum.

La raccolta dei Consulti costituisce un chiaro esempio di come Malpighi fosse medico nel senso più compiuto della parola. In un’epoca ancora ignara di specializzazione, non v’è, infatti, settore della patologia organica in cui egli non sia stato chiamato (da parte di medici curanti, come dei malati stessi o di loro famigliari) a offrire i suoi lumi per riconoscere l’affezione in atto, valutare lo stato del paziente e, di conseguenza, suggerire il trattamento terapeutico.

La bibliografia su Malpighi è sterminata, ma due sono gli studiosi che hanno illustrato la sua figura con contributi fondamentali: Howard B. Adelmann (1898-1988) e Domenico Bertoloni Meli. H.B. Adelmann pubblicò  nel 1966 “Marcello Malpighi and the Evolution of Embriology” e  nel 1975 i cinque volumi dedicati all’epistolario dello stesso (The Corrispondance of Marcello Malpighi).

Domenico Bertoloni Meli ha pubblicato sin dalla fine degli anni 90 del Novecento alcuni studi su Malpighi, che sono stati, poi, compendiati nel volume “Marcello Malpighi, Anatomist and Physician” (Firenze, Olschki 1997) e successivamente in “Mechanism, Experiment, Disease: Marcello Malpighi and Seventeenth-Century Anatomy” (Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 2011).)

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