La Salute Globalen.55, 2012, pp.2430-2435, DOI: 10.4487/medchir2012-55-1

Abstract

What kind of ethics is implied in “teaching” medicine? Needless to say, there is the ethics of the teachers, i.e. their personal behavior and passion towards their students as well as the institutions they work for. At the same time, however, there is the ethics entailed in medical practice as such. By addressing this issue in a “global” perspective and looking at the new global risks for human health, we are confronted with three main responsibilities: benefits sharing, distribution of resources (including human and professional resources), and the overcoming of different kinds of double standard.

Articolo

Il collegamento fra l’etica della docenza e il tema della salute globale può apparire estrinseco. Con la prima – così si potrebbe argomentare – ci si riferisce all’insieme delle regole (più ampie di quelle fissate dagli obblighi contrattuali o comunque giuridicamente vincolanti) e degli stili di comportamento ai quali si dovrebbe ispirare l’attività d’insegnamento. La dimensione globale dei problemi connessi alla tutela della salute riguarda invece il contenuto piuttosto che le modalità di svolgimento di tale attività. Si può fare lezione su questo argomento come su altri: con lo stesso impegno, lo stesso rigore, la stessa serietà. Questa conclusione, evidentemente ineccepibile, è nondimeno una semplificazione, che elude l’ambiguità del genitivo nell’espressione etica della docenza.

L’elenco dei doveri fondamentali dei docenti nei confronti dei loro studenti e delle istituzioni nelle quali e per le quali operano è in fondo piuttosto scontato. Nessuno potrà mai presentare come modello di “buon” professore l’assenteista sistematico, chi cerca di trasformare le sue aule e i suoi studi in platee di cortigiani o chi non è in grado di difendere senza imbarazzi la trasparenza, equità e imparzialità delle sue scelte quando è chiamato a far parte di una commissione di concorso. Questo è però solo uno dei percorsi attraverso i quali l’etica entra nell’attività di chi insegna e trasmette ad altri quel sapere che proprio in questo modo continuerà a crescere. Da questo punto di vista, peraltro, la posizione del docente medico non è sostanzialmente diversa da quella dei colleghi di altre discipline. La riflessione si fa più interessante (e anche complessa e potenzialmente controversa) nel momento in cui ci interroghiamo sulla neutralità, sul carattere puramente tecnico dei contenuti dell’insegnamento. Nel momento in cui, in altri termini, ci domandiamo se nelle Facoltà di Medicina si debba semplicemente insegnare come funziona il corpo umano, a quali rischi di malattia è esposto e come le diverse patologie possono essere efficacemente curate o si debba piuttosto integrare questo fascio sempre più differenziato di competenze in una visione del senso della pratica medica, dei suoi fini e dunque, conseguentemente, dei suoi doveri. Il tema è davvero delicato e i segnali per così dire “istituzionali” sono contrastanti. Il Codice deontologico della Federazione Nazionale Ordini Medici Chirurghi e Odontoiatri (FNOMCeO) non è affatto un testo eticamente neutrale. Basti pensare, oltre all’esplicito richiamo ai «valori etici della professione» (art. 4), all’indicazione inequivocabile che «il medico è tenuto a collaborare alla eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario, al fine di garantire a tutti i cittadini stesse opportunità di accesso, disponibilità, utilizzazione e qualità delle cure» (art. 6). Non si tratta, con tutta evidenza, di uno standard di competenza. Si tratta del dovere morale di opporsi all’idea che ogni cittadino ha diritto alla speranza di salute che è in grado di comprare e nulla più. Questa tesi non si trova nei trattati di anatomia e non corrisponde alle condizioni di esercizio della pratica medica in molti paesi. Fa parte, con altri principi come quello del rispetto dell’autonomia del paziente, di una prospettiva etica, prima ancora che di un quadro normativo giuridicamente vincolante, che si chiede di condividere. E che dunque dovrebbe essere insegnata. Come non sempre accade, almeno in forma curriculare esplicita, visto che la bioetica e l’etica medica continuano a spiccare per la loro assenza in molte delle Facoltà di medicina italiane. Rimane il fatto che i nuovi medici si troveranno, come chi li ha preceduti, di fronte alla responsabilità di combinare e gerarchizzare diversi modelli di professione, fra loro non sempre compatibili. Pedro Laín Entralgo ha tipizzato per esempio quattro profili. C’è l’ego adiuvans della medicina come «vocazione» all’assistenza delle persone sofferenti e bisognose. C’è l’ego sapiens di chi persegue come fine principale la conoscenza scientifica della natura e vede nel malato appunto «un oggetto di conoscenza razionale». L’ego fungens corrisponde all’esercizio della pratica medica come servizio a un’istituzione, sia essa o no statale, che riconosce fra i suoi compiti l’assistenza ai malati, trasformando di conseguenza il medico in un «funzionario». E c’è infine, oggi come sempre, l’ego cupiens dei medici «il cui maggior interesse consiste in una brama di lucro e di prestigio più o meno nascosta» e che, con il loro insegnamento e ancor più con i loro comportamenti, confermano l’amara conclusione affidata da Aristofane ad uno dei suoi personaggi quasi duemilacinquecento anni fa: «Dove non c’è guadagno, non c’è arte» (Il medico e il malato, Apèiron, Bologna 2002, p. 68). Ebbene: è parte integrante dell’etica della docenza anche l’impegno a far crescere negli aspiranti medici la consapevolezza delle faglie di potenziale conflitto fra questi modelli, fornendo allo stesso tempo strumenti di orientamento e decisione fra i valori ad essi sottesi. La salute globale appartiene in questa prospettiva all’etica della docenza, perché affrontarla significa inevitabilmente incrociare la questione della complessità e dell’efficacia con quella dei fini e dei beni.

Rischi senza frontiere e diritti asimmetrici

Contagion, di Steven Soderbergh, è solo l’ultima delle tante trasposizioni cinematografiche della paura che la fine dell’umanità arrivi non dall’infinitamente grande dello spazio con i suoi meteoriti ma dall’infinitamente piccolo del mondo dei batteri e dei virus. La conclusione è sempre, se non lieta, almeno ragionevolmente accettabile. Una parte più o meno grande dell’umanità riesce a sopravvivere e la nostra storia sulla terra può proseguire. Questa rimane per molti la prima e fondamentale prospettiva con la quale guardare al tema della salute globale. Non sono soltanto capitali, merci e persone a muoversi da una parte all’altra del pianeta. Gli agenti patogeni più diversi e pericolosi possono salire in aereo insieme a noi, per non parlare delle zanzare che possono muoversi con le nostre valigie piuttosto che con un carico di vecchi copertoni. La comunità internazionale ha preso in ogni caso sul serio questo rischio. Le International Health Regulations del 2005, entrate in vigore nel 2007 e sottoscritte da quasi 200 stati, sono uno strumento vincolante di diritto appunto internazionale e il loro scopo è esplicitamente quello di «prevenire la diffusione internazionale delle malattie, di proteggere da esse, di controllarle e di offrire una risposta in termini di salute pubblica in forme adeguate e limitate ai rischi ad essa connessi, evitando interferenze non necessarie con i traffici e il commercio internazionali». È scontata l’obiezione che questo obiettivo, alla prova dei fatti, si è dimostrato difficile da raggiungere, anche perché difficile è il calcolo dei rischi rispetto al costo degli interventi per prevenire o almeno contenere una pandemia. L’allarme lanciato dall’Oms nell’aprile del 2009 per l’influenza causata da una variante del virus H1N1 (la famigerata influenza suina) è risultato probabilmente sovradimensionato, traffici e commerci si sono contratti in modo forse non necessario e ingenti risorse finanziarie sono state spese per produrre vaccini rimasti poi inutilizzati. Ma è anche facile rispondere che queste sono le obiezioni del senno di poi. La diffusione di un virus e le trasformazioni che possono renderlo più aggressivo non si possono prevedere con l’esattezza con la quale gli astrofisici sono oggi in grado di calcolare la traiettoria di un corpo celeste. E la possibilità di sbagliare per eccesso di cautela va sempre messa in conto, insieme a quella di una sottovalutazione fatale. È davvero interesse di tutti potenziare strumenti come il Global Outbreak Alert and Response Network, naturalmente con la speranza di non averne mai bisogno.

Almeno due aspetti di questa “globalità” hanno poi un impatto innegabile sul vissuto quotidiano dell’impegno per la protezione della salute. I fattori ambientali sono decisivi per determinare la durata e la qualità della vita degli esseri umani e almeno alcuni di essi dipendono da dinamiche che eccedono di gran lunga le possibilità di controllo dell’individuo, ma anche quelle dei singoli stati. Si pensi solo ai rischi globali che scaricano i loro effetti sulla salute di tutti, che si tratti dell’assottigliamento della fascia di ozono piuttosto che della coltre di inquinanti che, grazie ai satelliti, vediamo coprire ormai interi paesi a seconda del gioco dei venti. Anche questa figura della globalità si infiltra in misura crescente nell’attività del medico, perché si infiltra pervasivamente nell’immaginario collettivo – oltre che nelle responsabilità della politica – e contribuisce a modificare l’ordine delle priorità e delle preoccupazioni delle persone, incidendo in questo modo sulla “domanda di salute” che esse esprimono. Il secondo aspetto della globalità con il quale i medici sono chiamati sempre più frequentemente a confrontarsi è l’erosione degli argini di sicurezza alzati intorno a patologie che alcuni popoli si erano forse illusi di aver definitivamente respinto lontano dai loro confini. I focolai della tubercolosi resistente ad ogni antibiotico conosciuto, per citare solo uno degli esempi che hanno l’impatto più forte e più drammaticamente evocativo, non si lasceranno facilmente circoscrivere. E ciò pone immediatamente due problemi: da una parte quello dell’assistenza sanitaria da garantire appunto agli immigrati e dall’altra quello di una collaborazione internazionale sostenuta ormai non solo dal vincolo tanto nobile quanto fragile della solidarietà, ma anche dalla certezza che i ricchi non sono al riparo dalle malattie dei poveri. E sarà dunque più facile che se ne occupino.

 L’etica medica è da sempre un’etica della paura e dell’angoscia, perché il lavoro del medico è sulla sofferenza e perché la morte, che pure egli può allontanare e rendere meno dolorosa, comunque arriverà. La minaccia globale e fatale, come si mostra, per aprire un’altra parentesi cinematografica, ne L’alba del pianeta delle scimmie, potrebbe anche venire non da qualche nicchia nascosta della natura, ma da ciò che gli uomini stessi hanno prodotto (magari con qualche spregiudicatezza e brama di profitto di troppo) “a fin di bene”, come una cura per l’Alzheimer. La pratica medica, tuttavia, non intercetta semplicemente queste paure naturali e profonde dell’essere umano. I fini e i beni in essa implicati sono anche diritti, così come solennemente riconosciuto nell’articolo 25 della Dichiarazione Universale del 1948 e, in modo ancora più esplicito, nella Costituzione della Organizzazione Mondiale della Sanità: «Il godimento del più alto livello ottenibile di salute è uno dei diritti fondamentali di ogni essere umano, senza distinzione di razza, religione, convinzione politica, condizione economica o sociale». Nell’articolo 14 della Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti dell’uomo, adottata per acclamazione dalla Conferenza Generale dell’Unesco nel 2005, questo riconoscimento è stato ribadito con un significato normativamente coestensivo al principio della «responsabilità sociale» per la salute, cioè all’affermazione che la promozione della salute è uno «scopo fondamentale» per i governi, condiviso da tutti i settori della società. Dunque non soltanto dai professionisti della sanità. Ma certamente e in primo luogo anche da loro. Concentrarsi sul livello globale di questa sfida insieme etica e politica significa oggi concentrarsi almeno su tre questioni cruciali, alle quali corrispondono esempi e dati che non possono più essere ignorati.

Tre punti

La prima decisione da prendere è quella sui limiti della “appropriabilità” del sapere in campo biomedico. La cartina di tornasole è ovviamente la questione dei brevetti e della proprietà intellettuale, rispetto alla quale una educazione alla sanità globale implica necessariamente l’opzione etica e non per questo astratta per la promozione del principio del benefit sharing, che può oggi contare su importanti riconoscimenti di principio e promettenti sperimentazioni di nuove forme di collaborazione.

Una “deprivatizzazione” mirata dei risultati della ricerca scientifica è lo strumento per disarmare il conflitto altrimenti sempre incombente fra il diritto alla proprietà intellettuale – che svolge certamente una funzione importante e deve dunque essere tutelato – e quei diritti fondamentali che non possono venire ad esso subordinati. La Dichiarazione di Doha del 2001 sugli accordi Trips e la salute pubblica già andava in questa direzione, introducendo la possibilità di una adeguata «flessibilità» e dunque di licenze obbligatorie di fronte alla estrema gravità dei problemi che affliggono «molti paesi in via di sviluppo e meno sviluppati». Le spinte a privatizzare restano tuttavia fortissime, con incursioni perfino nei territori apparentemente più protetti. La Dichiarazione universale sul genoma umano e i diritti umani del 1997, per esempio, aveva fissato il principio che «il genoma umano, nel suo stato naturale, non deve diventare fonte di guadagno». Il richiamo allo stato naturale apriva tuttavia una pericolosa breccia. Già nel 1998 una Direttiva dell’Unione Europea sulle biotecnologie specificava che il divieto di brevettare la sequenza anche parziale di un gene non si applica a «un elemento isolato dal corpo umano o altrimenti prodotto attraverso un procedimento tecnico». Quel che è isolato o prodotto può essere considerato come una invenzione, «anche se la struttura di tale elemento è identica a quella di un elemento naturale». È la stessa logica applicata a maggioranza nel luglio del 2011 dalla Corte d’appello del circuito federale degli Stati Uniti, che rovesciando la decisione di una Corte dello Stato di New York ha riconosciuto la brevettabilità del Dna appunto isolato e «chimicamente manipolato» dei geni Brca1 e Brca2, la cui mutazione implica un elevato rischio di carcinoma del seno e ovarico. La conoscenza brevettata è una conoscenza che si condivide solo a pagamento, così come le sue applicazioni dalle quali può dipendere la vita o la morte delle persone, ma per superare l’obiezione che la ricerca ha bisogno di risorse e che quando l’investimento non viene ripagato anche la ricerca è destinata a finire è necessario garantirne finanziamento e remunerazione al di fuori dei vincoli di mercato.

È ciò che alcune organizzazioni non governative stanno già facendo, con risultati spesso apprezzabili e che potrebbero essere decisamente incrementati se i governi dei paesi più ricchi cominciassero ad investire con convinzione e continuità in questa direzione, secondo il modello dei «fondi di innovazione» proposti da Joseph Stiglitz nel suo volume su La globalizzazione che funziona. Si tratterebbe, in concreto, di destinare risorse importanti a chi fa ricerca su malattie altrimenti destinate a restare neglette perché chi ne soffre non può pagare (diversamente dalle malattie rare per le quali l’investimento non conviene perché sono troppo pochi quelli che potrebbero pagare), rendendo immediatamente disponibili i risultati e, nel caso dei farmaci, rendendone immediatamente possibile la distribuzione attraverso produttori generici. Le priorità di questa agenda della ricerca internazionale dovrebbero essere naturalmente fissate insieme ai paesi più esposti alle malattie della povertà e in vista dei loro effettivi bisogni.

Quello della distribuzione delle risorse – e vengo così al secondo nodo cruciale di un’etica della salute globale – è peraltro un problema che non si può ridurre al solo aspetto delle dotazioni finanziarie, che resta evidentemente ineludibile. Il Codice globale per il reclutamento del personale sanitario, adottato dall’Oms nel 2010, è uno strumento nato dalla consapevolezza della specificità e gravità del fenomeno del brain drain per il personale medico e infermieristico. Uno studio pubblicato nel novembre del 2011 sul «British Medical Journal» e realizzato da un gruppo di ricerca guidato da Edward Mills, dell’Università di Ottawa, presenta alcuni dati inequivocabili, con specifico riferimento all’area sub-sahariana. Paesi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Australia e il Canada sono mete di elezione non solo per i giovani più brillanti formati in paesi come l’Italia, ma anche per chi cerca prospettive migliori a partire da situazioni ben più difficili. La delocalizzazione dei servizi sanitari è ormai un fenomeno di dimensioni rilevanti per il suo fatturato e con ricadute problematiche o senz’altro inquietanti dal punto di vista etico, ancor più di quanto ciò valga per il settore manifatturiero. La continua emorragia di medici e infermieri verso il mondo ricco e le sue promesse è l’altra faccia della stessa medaglia. Dal lavoro coordinato da Mills emerge che i nove paesi presi in esame perdono in questo modo non solo un capitale umano creato con molta fatica e non rimpiazzato da un corrispondente flusso in entrata (che resta limitato ad alcune punte vocazionali tanto encomiabili quanto, proprio per questo, numericamente ridotte), ma anche l’equivalente di una ricchezza stimabile in miliardi di dollari, che va ad approfondire anziché ridurre le faglie della disuguaglianza. Il «Policy Brief» dedicato dall’Ocse nel febbraio 2010 a questo tema della migrazione internazionale dei lavoratori della salute, realizzato in collaborazione con l’Oms, evidenzia come la percentuale di questi professionisti che si è formata all’estero sia estremamente variabile: si va nel 2008 da meno dell’1 per cento in Polonia al 39 per cento in Nuova Zelanda, con percentuali fra il 25 e il 35 per cento in Irlanda, Regno Unito e Stati Uniti (l’Italia appare uno dei paesi più “chiusi”, con una percentuale che non arriva al 5 per cento e che è però di poco inferiore a quella della Germania e della Francia).

Il fattore linguistico è evidentemente importante, ma ci sono due ulteriori aspetti che meritano particolare attenzione. Il primo è la constatazione del diverso peso relativo di questi flussi migratori di personale altamente specializzato. In una percentuale significativa si tratta di spostamenti che hanno sia come paese d’origine che come paese di destinazione l’area Ocse e inoltre paesi che contribuiscono in misura significativa in termini di numeri assoluti, come per esempio l’India, soffrono comunque una perdita circoscritta rispetto al totale delle persone formate, anche se è facile immaginare che la perdita si concentri nel segmento apicale per qualità. Ben diversa è la situazione per quei paesi, collocati perlopiù nel continente africano, nei quali la percentuale di espatrio si avvicina al 50 per cento o addirittura lo supera (e ciò vale per l’area francofona non meno che per quella anglofona). Allo stesso tempo, tuttavia, occorre avere la chiara consapevolezza che il problema della carenza di personale sanitario in alcune regioni del mondo non si risolve fermando il brain drain, perché i numeri di tale carenza eccedono di gran lunga quelli dell’emigrazione. Nel 2006, l’Oms stimava ad oltre 4 milioni nel mondo il fabbisogno insoddisfatto di lavoratori del settore sanitario, largamente se non esclusivamente generato nei paesi in via di sviluppo. Non ci si può illudere di rispondere ad una sfida di questa portata impedendo ai medici e agli infermieri di qualche piccolo paese sub-sahariano di andare a vivere e lavorare in Europa piuttosto che in America o in Australia.

Strumenti come il Codice globale aiutano allora a mettere a fuoco le priorità di intervento e cooperazione. Scelte come quella di rinunciare al reclutamento dai paesi con le maggiori criticità, così come il sostegno economico a programmi di formazione che prevedano l’obbligo di restare a svolgere la propria attività nel paese d’origine almeno per un certo numero di anni, possono senz’altro avere un impatto, ma impongono vincoli alla libertà delle persone e sono comunque inadeguate rispetto alle dimensioni del problema. Occorre puntare, soprattutto nel lungo periodo, sui meccanismi in grado di attivare una maggiore “circolarità” dei flussi migratori, in particolare incentivando le dinamiche di “ritorno” delle conoscenze e delle esperienze se non direttamente delle persone. E questo implica, in concreto, la disponibilità di docenti e ricercatori, di medici e infermieri a “viaggiare” non solo verso il Nord ma anche verso il Sud del mondo, magari per periodi di tempo limitati, perché solo così si accorciano le distanze e si fa crescere un “sistema” di educazione e strutture per la protezione della salute e la qualità delle cure.

Il terzo presupposto di un’etica della salute globale coincide con la risposta ad una domanda difficile: si può accettare, per le più diverse ragioni e in contesti e modi diversi, che in tale etica trovi spazio la regola del double standard, che è stata ampiamente discussa e contestata in riferimento alla ricerca biomedica? Sono molti, oggi, gli interrogativi che nascono per il fatto stesso che le applicazioni delle nuove scoperte scientifiche al corpo e ai corpi degli esseri umani si collocano in un orizzonte globale segnato da asimmetrie e rapporti di potere, forza, ricchezza. La Carta di Nizza dell’Unione Europea, per esempio, ha ribadito il principio già stabilito nel 1997 nella Convenzione di Oviedo, secondo il quale deve essere assolutamente bandita la possibilità di trasformare in fonte di guadagno «il corpo umano o sue parti». In gioco c’è ben più che la brevettabilità di frammenti del genoma. Cosa pensiamo e cosa siamo in grado di imporre, a livello appunto globale, rispetto ad un fenomeno come l’outsourcing delle gravidanze in paesi in via di sviluppo, che si presenta come reciprocamente vantaggioso e rispettoso del principio del consenso? Abbiamo o no il diritto “morale” di pronunciarci sulle donne di Anand, alle quali Michael Sandel dedica pagine brucianti del suo volume sulla giustizia (significativamente sottotitolato con un interrogativo: qual è la cosa giusta da fare?) e che hanno fatto di questa pratica un volano di maggior benessere e sicurezza economica? E ancora: come possiamo regolare il crescente commercio di campioni biologici? Come si potrà intervenire su quello degli organi, che non è necessariamente connesso a pratiche di sfruttamento criminale come l’omicidio o il rapimento di vittime inconsapevoli?

Dobbiamo avere l’onestà di riconoscere che la linea di divisione interno/esterno (quel che vale per noi e quel che si può accettare accada agli altri) rimane in molti casi rilevante, se non decisiva. Eppure tale linea rimane un segno di contraddizione per un’etica medica che sia un’etica dei diritti e della dignità di tutti gli uomini e di ciascun uomo, per quanto sfuggente tale concetto possa essere e rimanere. Il consenso preventivo e informato non è solo il principio cardine del nuovo paradigma dell’autonomia che ha sostituito l’antico paternalismo medico. È anche la procedura stabilita nel 1998 dalla Convenzione di Rotterdam, entrata in vigore nel 2004, per regolare il commercio internazionale dei «prodotti chimici pericolosi», il cui uso è stato bandito o sottoposto a restrizioni severe «per proteggere la salute umana o l’ambiente». Ogni Stato membro della Convenzione garantisce che le sostanze incluse nell’Allegato III della Convenzione stessa e quelle bandite o sottoposte a restrizioni severe sul suo territorio vengano, se esportate, accompagnate da una etichettatura che assicuri una adeguata informazione sui rischi, «tenendo in considerazione gli standard internazionali rilevanti». La Quinta Sessione della Convenzione si è svolta a Ginevra nel mese di giugno del 2011. Per la terza volta è stata avanzata la proposta di inserire nella lista l’asbesto crisotilo (amianto bianco) e per la terza volta non è stato possibile raggiungere il consenso necessario per l’inserimento. Nel Rapporto sui lavori della Sessione, che si può leggere sul sito della Convenzione, leggiamo che «due rappresentanti hanno affermato che l’uso dell’asbesto crisotilo non pone rischi per la salute, posto che siano osservati tutti gli standard di sicurezza», che è esattamente la ragione (indipendentemente dal fatto che molti paesi sono giunti alla conclusione, tradotta in chiari provvedimenti legislativi, che non è possibile un uso “sicuro” dell’amianto) per la quale una sostanza viene inserita come pericolosa nell’Allegato III. Questi rappresentanti hanno mantenuto la loro posizione nonostante l’aspro confronto con quanti chiedevano di aggiungere l’asbesto crisotilo alle altre fibre di asbesto già incluse nella lista e hanno infine firmato una dichiarazione nella quale hanno voluto almeno esprimere il loro «disappunto e frustrazione». L’impegno per la salute globale ha bisogno di strumenti efficaci in grado di superare questo tipo di conflitti e contraddizioni. Dunque di abituare i giovani a conoscerli, giudicarli, governarli.

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Semplici S., La Salute Globale, Medicina e Chirurgia, 55: 2430-2435, 2012.
DOI:  10.4487/medchir2012-55-1

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