Anche se il termine clinica è iniziato ad essere usato correntemente tra il XVI e il XVII secolo (secondo quanto registrato dallo Zingarelli) la clinica, intesa come la medicina volta a risolvere i problemi di salute del singolo malato, per lungo tempo non venne considerata una disciplina distinta dal sapere medico generale, così come la figura del medico è stata a lungo considerata unica, sia che questi si limitasse a curare i pazienti nell’attività clinica propriamente detta, sia che si dedicasse anche alla sperimentazione sugli animali e/o alle indagini morfologiche.
Il percorso culturale che portò a ritenere la prassi medica alletto del malato come una disciplina autonoma, sostanzialmente diversa e distinta dalla patologia speciale medica ed ancor più dalla patologia generale, è iniziato nel XVII secolo, venendo a conclusione nella prima metà degli anni ‘90 con gli insegnamenti di Augusto Murri. Questo lungo cammino ideale ha finito per coinvolgere molte figure celebrate dalla Storia della medicina ed è quindi arduo indicare tutti gli attori di questa innovazione del concetto di Clinica. Appare comunque possibile riconoscere tra i suoi protagonisti almeno tre figure chiave: l’olandese Hermannus Boerhaave, principale oppositore delle fantasiose teorie della cosiddetta medicina dei sistemi, il cesenate Maurizio Bufalini, primo avversario in Italia della didattica accademica facente riferimento ai medesimi principi e il marchigiano, Augusto Murri, Clinico Medico all’Università di Bologna ed indiscusso Maestro di Metodologia medica.
Il presente scritto si propone di illustrare- mediante alcuni cenni concernenti le opere di questi AA. – il significato culturale rappresentato dalla precisazione del concetto di clinica per la gnoseologia medica.
Per presentare la figura scientifica di Augusto Murri si è soliti utilizzare l’appellativo di “grande clinico” ma – verosimilmente – non tutti coloro che adoperano questo appellativo sono pienamente consapevoli del preciso significato di questo termine. Si dice che Murri fu un grande clinico perché ebbe successo come medico? O grande clinico perché seppe formare egregiamente, con il suo efficace insegnamento, un’intera generazione di giovani medici? O per aver approfondito alcune problematiche relative a particolari malattie come le emoglobinurie o la fisiopatologia della febbre? Certamente Augusto Murri fu anche tutte queste cose e tuttavia il termine “clinico” allude ad un significato distinto da tutte queste accezioni e fa riferimentto ad una ben precisa fase – e alquanto travagliata vicenda storica della medicina, quella del riconoscimento del concetto stesso di clinica e della sua autonomia come disciplina scientifica. Di questo riconoscimento Augusto Murri deve essere considerato il principale artefice: pertanto il presente scritto si propone di presentarne la figura non tanto – o non solo – come medico di successo o come magistrale docente accademico, bensì come promotore di un modo di svolgere la professione fondato sul ragionamento logico e sulla critica che- come egli stesso precisò – “non è altro che la logica esercitata sul pensiero”. (Scritti Medici, p. 530).
Appare quindi appropriato iniziare quest’esposizione con alcune considerazioni relative alla pratica medica.
Anche se il termine clinica ha cominciato ad essere usato correntemente tra il XVI e il XVII secolo (secondo quanto registrato dallo Zingarelli) la clinica, intesa come la medicina volta a risolvere i problemi di salute del singolo malato, per lungo tempo non venne considerata una disciplina distinta dal sapere medico generale, così come la figura del medico è stata a lungo considerata unica, sia che questi si limitasse a curare i pazienti nell’attività clinica propriamente detta, sia che si dedicasse anche alla sperimentazione sugli animali e/o alle indagini morfologiche. Anche più tardi, quando per il progressivo viluppo degli studi di fisiologia, di medicina sperimentale, di patologia generale e di anatomia patologica, l’attività dei ricercatori divenne particolarmente caratterizzata distinguendosi sempre più da quella del curante così da far sorgere l’esigenza dell’istituzione di specifiche cattedre relative a queste discipline inducendo i ricercatori ad occuparsi specificatamente di questi settori del sapere medico e ad occuparsi sempre meno della diagnosi e della cura dei malati dedicandosi esclusivamente dello studio teorico-sperimentale dei fenomeni fisiologici e patologici.
Specchio di tali orientamenti può essere considerata l’organizzazione delle Scuole mediche e delle Facoltà mediche ottocentesche i cui corsi erano denominati “Istituzioni Mediche” a contenuto prevalentemente nosologico. Anche se in alcune università potevano essere impartite lezioni al letto del malato, che potrebbero essere viste come i primi abbozzi delle più recenti cattedre di Clinica Medica (può essere citata a questo proposito il celebre insegnamento tenuto a Padova da Giovanni Battista dal Monte (1489-1551), ritenuto – anche se non del tutto provato – il primo esempio di autentica Scuola a carattere clinico nella Storia della Medicina (Gasbarrini). Tuttavia, anche questo tipo di didattica veniva svolta più al servizio della nosografia che della clinica medica quale viene attualmente considerata, dato che l’osservazione dei malati serviva come esempio di quadri morbosi già codificati anziché costituire essa stessa occasione di studio e di ricerca. Ed anche dopo che Claude Bernard ebbe inidicato un fondamento concettuale rigoroso alla metodologia della ricerca biomedica, restava ancora da mettere in chiaro quale fosse la natura della pratica esercitata al letto del malato rimanendo assorbita nell’appellativo generico di medicina.
Fu ancora Padova – come ricorda Antonio Gasbarrini – la sede (o una della prime sedi) in cui il termine di “Cattedra di Medicina Clinica” trovò la sua denominazione ufficiale.
L’avvenimento si realizzò alla morte di Andrea Comparetti, che fu insegnante dal 1782 al 1801 di Medicina Sperimentale e, contemporaneamente, titolare della Schola Institutionum Medicarum o Scuola dei trattati teorico-pratici. Alla sua scomparsa, i due insegamenti vennero scissi: il primo, venne affidato a un suo allievo, Domenico Marani, assumendo la denominazione di Schola Medicinae Praticae in Nosocomio mentre l’altro insegnamento fu assegnato a Francesco Luigi Fanzago.
Quattro anni più tardi, nel 1806, le denominazioni di entrambe le cattedre vennero ulteriormente cambiate: la prima, quella affidata a Marani divenne la Cattedra di Clinica e terapia speciale per medicina interna, la seconda assegnata al Fanzago, Cattedra di Patologia Speciale.
La denominazione di Cattedra di Clinica Medica comparve pressappoco negli stessi anni anche in altre sedi universitarie: ad esempio a Bologna ad opera di Antonio Testa, nel 1802.
Questi avvenimenti avrebbero potuto chiarire definitivamente il problema della natura epistemologica della prassi medica come disciplina autonoma, meritevole di un insegnamento distinto dalla nosografia; non tutti gli studiosi del tempo ritennero giustificata la divisione tra medicina teorica e medicina praticata, ritenendo, quest’ultima nient’altro che l’applicazione dei principi propri della prima. Ed ancora negli anni seguenti, fino al XX° secolo, fra i clinici di diversi paesi europei – Polonia e Italia soprattutto – continuarono a confrontarsi due differenti orientamenti epistemologici. Da un lato veniva ritenuto che la medicina dovesse comunque mantenere un assetto unitario e che l’attività clinica, sia che fosse dedicata alla diagnosi e alla terapia, sia che fosse rivolta alla costruzione di teorie patologiche, costituisse comunque un unicum nel quale non era possibile distinguere parti diverse. Così, per esempio, il più deciso difensore di questo punto di vista – il clinico padovano Achille De Giovanni (1838-1916) – ha sostenuto l’idea che la medicina clinica sia una disciplina biologica, simile a tutte le altre e che l’attività professionale dei medici debba essere considerata una scienza unica, a un tempo teorica e pratica. L’altra prospettiva epistemologica, invece, vedeva nella prassi medica una disciplina sostanzialmente diversa e distinta dalla patologia speciale, e ancor più dalla patologia generale. Era considerata una scienza rivolta non a chiarire i fenomeni biomedici generali, ma gli eventi patologici riscontrabili nei singoli pazienti. (Filosofia della Medicina a cura di G. Federspil, P.D. Giaretta, C. Rugarli, C Scandellari e P. Serra; Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008, pp. 177 e segg)
Va del resto rilevato come negli stessi ambienti accademici la distinzione tra i due tipi di attività non sia stata correttamente compresa, a tal punto che (ancora nella seconda metà del secolo scorso) molti Docenti di Clinica Medica svolgevano il loro corso replicando i contenuti propri della Patologia Speciale Medica.
La dicotomia tra medicina teorica e pratica medica non è questione solo semantica o circoscritta ad eventi di politica accademica. In realtà la questione è sostanziale. Infatti, come ha fatto notare anche Giovanni Federspil, mentre nelle discipline mediche teoriche, dalla fisiologia alle patologie speciali, le osservazioni riguardano sempre classi di oggetti, in clinica non esistono più affermazioni generali, ma soltanto casi clinici singoli e «spiegazioni» di questi casi. Il clinico, in quanto tale, non si interessa più della legge. Con una felice immagine, Giacinto Viola espresse questo medesimo concetto: “Riferendoci alla curva degli errori, mentre la patologia speciale medica si occupa, per cosi dire, dei centri della curva di seriazione, la clinica si occupa invece di tutti gli sbandamenti da quel centro, della loro posizione rispetto a quel centro e della speciale e sempre nuova combinazione loro nel sistema patologico individuale che viene a formarsi. Impossibile quindi in clinica prestabilire e sistematizzare. In clinica tutto è improvvisazione, caso per caso, e gli ammalati cosi diversi sempre, anche quando hanno la stessa malattia, sono poi così mobili nei loro sintomi e fatti obiettivi, che spesso ciò che di essi si dice alla sera non è più vero al mattino. Invece in patologia medica i quadri morbosi sono statici, sono la codificazione dell’esperienza secolare della medicina, sono espressioni medie e solo lentamente e insensibilmente si evolvono con il progresso delle conoscenze. Insomma la clinica descrive, diagnostica, prognostica e cura l’«ammalato», la patologia speciale descrive, diagnostica, prognostica, cura le «malattie». La prima si occupa sempre di un avvenimento concreto, la seconda sempre di avvenimenti ideali (in: Grande Dizionario Enciclopedico UTET, 14-15).
Pertanto se ci limitasse a considerare il riconoscimento formale dell’espressione “clinica medica”, come una questione solo semantica, non si renderebbe giustizia né del lungo travaglio con cui si è giunti a questo risultato né allo svolgimento del lungo lavorio intellettuale che ne sta alla base né infine, ai dibattiti – e ai loro protagonisti – che hanno portato il mondo medico a riconoscere il giusto significato epistemologico della loro professione. E a questo proposito, anticipando in parte un pensiero assai noto di Augusto Murri secondo cui.” il segreto per riuscire nell’esercizio della medicina non sta tutto nell’acquisto di un gran sapere, né nell’aver veduto un gran numero di malati. Queste son due condizioni certamente utilissime, ma il più essenziale sta nel loro intermedio, ossia nella facoltà di applicare le nozioni acquisite a ogni caso singolo (37, I0). Questo insegnamento – correttamente inteso – intende affermare che la pratica medica si perfeziona mediante lo sviluppo di metodi nuovi più di quanto non si ottenga mediante l’accumulo di conoscenze.
Non è possibile – se non altro per ragioni di spazio – esporre dettagliatamente le vicende che hanno caratterizzato il percorso tracciato dagli studiosi che si sono impegnati in questa impresa. Ma procedendo lungo questa linea di pensiero che – di fatto – pone una sorta di equivalenza tra pratica medica e metodologia, sarà sufficiente qui ricordare – sia pure succintamente – il contributo dato alla questione da tre grandi protagonisti: Hermannus Boerhaave, Murizio Bufalini e principalmente, Augusto Murri.
Hermannus Boerhaave nacque a Leiden in Olanda. Studiò nella sua città natale e nel 1701 ebbe la cattedra di medicina teorica. Insegnò inoltre botanica e chimica aderendo a concezioni meccanicistiche e materialiste. Come medico e consulente, riscosse uno straordinario successo divenendo famoso in tutta l’Europa; venne consultato dalle più celebri personalità della cultura e della politica del tempo. Il grande Albert von Haller che fu anche suo allievo e che scrisse i Commentarii alle Istituzioni di Boerhaave, lo definì communis totius Europae preceptor . Alla sua morte, Boerhhaave lasciò un’ingente fortuna, frutto della sua attività di grande successo come medico e di consulente.
Per comprendere appieno l’importanza del pensiero sostenuto da Boerhaave è necessario ricordare l’influsso che i cosiddetti sistemi medici avevano esercitato e continuavano ad esercitare sulla prtica medica, nei secoli XVIII e XIX
A quei tempi , in contrasto con il principio dominante in medicina che affermava la necessità di una spiegazione chimica e fisica di tutti i fenomeni della vita (Castiglioni p. 516) sorge con Giorgio Ernesto Stahl autore della sua opera principale, nella quale asserisce essere principio supremo della vita, l’anima, la quale provoca nell’organismo una serie di movimenti dai quali dipende la vita sana, normale e la cui eventuale alterazione determina la malattia. Il carattere esclusivamente speculativo delle affermazioni di Stahl si prestarono a far nascere, ad opera di vari Autori , di dottrine più o meno disparate essenzialmente basate all’assunzione dell’esistenza di diversi principi primordiali origine di tutta una serie di fenomeni osservabili nell’organismo sano e in quello malato.
Ognuno di questi autori, si ritenne autorizzato, pur in assenza di elementi di prova oggettivi, a farsi assertore e sostenitore di un sistema teorico che pretendeva di spiegare tutti i fenomeni degli organismi viventi: al sistema animistico di Stahl si sostituirono via via dottrine che finirono per caratterizzare un’epoca della storia della Medicina, nota attualmente come Medicina dei, sistemi: appellativo derivato o, per lo meno riecheggiante – dal titolo di un’opera la Medicina Rationalis Systematica scritta da uno di questi Autori, Federico Hoffmann (1660-1742). Così nei secoli seguenti – dal XVII al XIX – si susseguirono nella pratica medica vere e proprie concezioni filosofiche, dalla concezione animistica dello Stahl, al vitalismo di William Cullen(1712-1790) e di Alberto von Haller (1708-1777) ,al brownianismo di John Brown (1735-1788) fino al mesmerismo fondato di Francesco Mesmer (1734-1815) che può essere ritrovato sia pure con accezioni molto modificate, anche in attuali tecniche terapeutiche (magnetoterapia, pranoterpia.
La comparsa sulla scena medica europea dell’olandese Hermannus Boerhaaven segna una fondamentale svolta che modifica profondamente il pensiero e la pratica medica del tempo
Boerhaavesi oppose con autorevolezza alle astrazioni degli aderenti ad ogni tipo di sistema medico e affermando con forza la necessità di fondare il pensiero medico non tanto sul solo studio dei classici, svincolandolo da discussioni filosofiche e metafisiche e rivolgendosi piuttosto all’esame del malato secondo il concetto essenzialmente ippocratico. Nel suo insegnamento afferma il principio secondo cui bisogna considerare l’organismo sano o malato indipendentemente da ogni dogmatismo: al letto del paziente deve cessare ogni discussione teorica, poiché scopo della medicina non è quello di interpretare le origini del male quanto piuttosto quello di perseguire la guarigione del paziente, in un contesto genuinamente ippocratico. In sostanza, Boerhaave capovolge il principio sostenuto, fino all’estremo, dai sistemisti dottrina consisteva nel “costruire dapprima le teorie sulle quali adattati gli esperimenti ed adagiato il malato” (Castiglioni, p.540).
A quel tempo tuttavia l’invito di esaminare accuratamente il malato risultava praticamente sterile anche per la mancanza di standardizzati procedimenti d’esame dei malati. Se ne rese conto lo stesso Boerhaave il quale, nel 1751 si pose questo problema e tentò di risolverlo pubblicando egli stesso il De Methodo Studii Medici Prolegomena, in due volumi, vero e proprio trattato (Fig. 2) su tutte le materie ritenute al tempo utili all’insegnamento della medicina, ivi comprese nozioni di geometria, di meccanica fisica, di botanica, oltre – naturalmente – a nozioni specifiche di anatomia, di chimica, di patologia e di materia medica. Ma la caratteristica estremamente innovativa e che più interessa l’analisi che si sta facendo, è costituita da un corposo capitolo (Fig. 3) – la pars X – dedicata alla Semeiotica.
La fama acquisita da Boerhaave in tutta Europa per le sue doti di medico, di diagnosta e di terapeuta si mantiene anche attualmente; il suo pensiero trova ampia descrizione sui testi di Storia della Medicina soprattutto per aver saputo riportare la medicina nell’ambito delle concezioni tipicamente ippocratiche; non minor merito sembra a chi scrive fu l’aver completato il corpus didattico della medicina indicando le basi di quella disciplina – la metodologia medica – naturale ed indispensabile perfezionamento di ciò che sarà il futuro insegnamento clinico.
Il successo e la fama di Boerhaave come medico non furono tuttavia sufficienti a persuadere il mondo medico dell’inconsistenza delle idee sostenute dai sistemisti i quali continuarono almeno fino la seconda metà del de XIX secolo – a professare e ad insegnare i loro principi. Tra loro vanno ricordati almeno Antonio Giuseppe Testa (1/56-1814), Giovanni Rasori (1766-1837) e Giacomo Tommasini (1768-1846).
Ma in questi stessi anni, cominciarono a manifestarsi anche alcune ferme critiche nei riguardi dei sistemi medici, sollevate, in ambito accademico, da un giovane assistente di Clinica Medica a Bologna: Maurizio Bufalini.
Maurizio Bufalini, nato a Cesena nel 1787, era un giovane assistente di Antonio Testa allora titolare della Cattedra di Clinica Medica all’Università di Bologna da lui istituita nel 1802, assertore della concezione vitalistica. Ancora da studente, nel 1813, Bufalini aveva scritto un saggio “Della dottrina della vita” nel quale affermava, contrariamente alle tesi del suo Direttore, che la vita è un fenomeno complesso che non può essere definito se non dalla conoscenza di tutti i fatti minori che la costituiscono, e sostenendo di conseguenza, che il semplice dinamismo – uno dei sistemi medici dei quali si è detto – è un assurdo. Qualche anno più tardi, nel 1819 scrisse “I fondamenti della patologia analitica” nei quali proclamava, a fondamento della scienza medica, l’esame dei fatti. (Castiglioni, p. 607).
Nel 1814 Antonio Testa moriva e nelle more della nomina del successore l’insegnamento venne affidato per incarico per un anno, al giovane Bufalini, dalle idee del tutto diverse ed opposte a quelle diffuse dallo stesso Testa a da Giacomo Tommasini. che sarà, nel 1815, il reale successore titolare del Testa. Nel breve tempo in cui insegnò a Bologna, Bufalini si adoperò a contrastare l’uso di teorizzazioni, dei sistemi e delle interpretazioni solo “filosofiche” dei fenomeni della natura, cercando di persuadere i colleghi della necessità di sostituirvi il metodo sperimentale, fondato sulla osservazione dei fatti e sulla loro interpretazione critica: in questo modo, Bufalini andava ponendo le basi di quel razionalismo critico che doveva ricevere la completa maturazione e il pieno sviluppo da parte di Augusto Murri, salito più tardi nel 1875 alla cattedra di Clinica Medica bolognese. Tuttavia le esortazioni di Bufalini non riscossero a Bologna molta considerazione e nel 1829 gli fu negata la successione al Tommasini. Trasferitosi il Tommasini a Parma, la carriera di Bufalini continuò poi dopo un periodo di difficoltà familiari, a Firenze ,dove fu chiamato nel 1835 dal locale Governo Granducale a insegnare Clinica Medica, proprio quando in Italia il vitalismo, altamente proclamato dalle scuole dominanti di Rasori e di Tommasini, era giunto all’apogeo. Anche più tardi, morti il Rasori (1837) e il Tommasini (1846), e pur smorzatisi i clamori e le avversioni, i consensi nei confronti di Bufalini non furono mai pieni.
Il ruolo della metodologia in medicina ha rappresentato – assieme alla confutazione delle teorie vitalistiche – il nucleo più importante dell’opera di Bufalini. Sarà qui bastevole per dare un saggio del pensiero metodologico bufaliniano, la citazione di questi primi capoversi dei Canoni sui primi più generali fondamenti del metodo scientifico:
“Io non ammetto i così detti principi a priori, perché non credo che uomo alcuno abbia la facoltà di crearli, come di leggieri può a ognuno fornirne argomento la propria coscienza. [ … ]
Io non ammetto che le cognizioni dei fatti, e perciò non altro che scienza empirica o sperimentale, come comunemente si dice.
Intendo essere un fatto ciò che nell’ ordine dell’universo sappiamo avere un’esistenza, o permanente o transitoria. [ … ]
Ogni fatto non si conosce, che o per osservazione diretta, o per avvertimento della coscienza
La relazione di causa e d’effetto non si può conoscere, se non si osserva la cagione nell’ atto di operare il suo effetto: perciò ogni volta che, come accade spesso, si presentano più cagioni possibilmente acconcie alla generazione d’un effetto noi non sappiamo quale di esse veramente lo generi, se non, rimuovendole a una a una, scorgiamo infine quella, che non si può rimuovere, senza che pur se ne tolga l’effetto, né si può variare, senza che similmente vari l’effetto. In tale modo soltanto noi possiamo osservare il fatto della relazione di causa e d’effetto (citati da. Filosofia della Medicina, p. 184 ).
Specie in quest’ultimo canone, che riecheggia quello che sarà il cardine del principio falsificazionista popperiano, mostra tutta la modernità del pensiero bufaliniano. Certamente la più evoluta e rigorosa concezione metodologica di Bufalini non può essere paragonata per contenuti al Methodus di Boerhaave, è tuttavia possibile ravvisare almeno una continuità ideale con l’Autore olandese, sulla base della comune convinzione dell’essenzialità del metodo per la formazione medica. Una più stretta continuità di pensiero e di esposizione è presente invece, tra il pensiero metodologico del Bufalini e quello di Augusto Murri.
Augusto Murri nacque a Fermo il 7 settembre 1841. Nel 1863 conseguì il diploma di dottore in Medicina e Chirurgia a Camerino e il 23 novembre 1864, dopo un periodo di pratica a Pisa e a Firenze ottenne in quest’ultima città, il grado di laureato in Medicina.
Appena laureato ottenne borse di studio per l’estero con le quali si recò a Parigi dove conobbe e studiò con Bouillaud, Bazin, Hardy, Ricord, Fournier, Piorry e specialmente Trousseau. L’anno successivo fu a Berlino dove frequentò le cliniche di Frerichs e di Traube. Al periodo berlinese (1864-66, circa) appartengono le ricerche sull’itterizia che, pubblicate nel 1868 in Italia, avranno molta importanza sulla sua vita professionale. In questo lavoro sostenne, contro il parere di Leyden e di Frerichs, che l’atrofia giallo acuta del fegato non è tanto una malattia a sé, quanto la possibile fase finale di varie malattie del parenchima epatico e che essa è sperimentalmente riproducibile mediante intossicazione con fosforo.
Tra il 1866 e il 1869, dopo il ritorno in Italia, fu per un certo periodo disoccupato. Ottenne poi un interinato di sei mesi a Sanseverino Marche poi una condotta a Cupramarittima, poi a Fabriano e infine a Civitavecchia. Nel 1868 compare su “Lo Sperimentale” il lavoro eseguito a Berlino: “Sulla natura del processo morboso dell’itterizia grave” e l’anno dopo, nel 1869, Baccelli, Clinico Medico di Roma, colpito favorevolmente dal lavoro di Murri, lo invitò a concorrere per l’assistentato nella sua Clinica Medica di Roma. Così, nel 1870, Murri divenne assistente di Baccelli ed iniziò gli studi sulla genesi della febbre. L’anno dopo, nel 1871 divenne Aiuto alla Clinica Medica di Roma diretta dallo stesso Baccelli e negli anni seguenti, pubblicò “Del potere regolatore della temperatura animale” (1873) e “Sulla teoria della febbre” (1874).
Nello stesso anno, 1874, consigliato da Baccelli partecipò ad un concorso per esami alla Cattedra di Clinica Medica di Torino. Nonostante le assicurazioni di Baccelli, risultò terzo, sembra perché, pur avendo tenuto una lezione dai contenuti eccellenti, aveva sbagliato i tempi dell’esposizione.
Nel 1875, il ministro Bonghi gli fece chiedere se avrebbe accettato di andare a Padova dove era divenuta vacante la cattedra di Clinica Medica, in seguito alla scomparsa di Vincenzo Pinali. Ma Luigi Concato, di origini padovane ed allora alla Clinica Medica di Bologna, reclamò per sé il ruolo di Padova. Il ministro nominò allora Murri alla Clinica Medica di Bologna.
La città di Bologna non accettò di buon grado né la partenza di Concato né la nomina del quasi sconosciuto Murri: nacquero polemiche sui giornali e negli ambienti accademici. Ma Il ministro confermò comunque la nomina e quindi Murri approdò a Bologna in un clima a lui ostile. Il 19 gennaio 1876, Murri, tenne la prolusione all’insegnamento della Clinica Medica con un discorso dotto e, nello stesso tempo, equilibrato guadagnando la stima della cittadinanza bolognese nonché quella di quasi tutti i Colleghi (rimarranno ancora per qualche anno alcuni cosiddetti “concatiani” a lui non favorevoli).
Il 19 gennaio 1902, si festeggiò la conclusione di 25 anni di insegnamento di Clinica e in tale occasione, gli venne conferita la cittadinanza onoraria di Bologna. Sempre in tale occasione, un folto comitato di Colleghi, allievi ed estimatori, si fa promotore della ristampa (Fig. 4) di numerosi lavori scientifici di Murri che vengono pubblicati in tre volumi dalla Casa Editrice Gamberini e Parmeggiani di Bologna sotto il titolo di “Scritti Medici di Augusto Murri” .
ll 1902 è anche l’anno in cui inizia l’avvenimento più tragico della vita di Augusto Murri e della sua famiglia. Il 2 settembre di quell’anno, il conte Francesco Bonmartini, marito della figlia di Murri, Linda, viene trovato ucciso nella sua casa mentre la famiglia era in ferie a Venezia. Pochi giorni dopo, Murri viene a sapere dal fratello di lui, avvocato Riccardo, che il figlio Tullio, si era rivolto a lui confessandosi autore dell’uccisione del cognato e chiedendogli un consiglio legale. Murri alla polizia invitando il figlio a costituirsi. Il 14 settembre 1902, venne arrestata anche la figlia Teodolinda (Linda) quale sospetta ispiratrice e complice dell’assassinio del marito e pochi giorni dopo Tullio si costituì. I due vennero giudicati a Torino nel 1905: Tullio fu condannato a 30 anni di reclusione e Linda a 10.
Sconvolto da queste vicende, Murri chiese un’aspettativa di due anni per motivi di salute ed il suo insegnamento si interruppe temporaneamente. L’anno successivo chiese addirittura l’esonero definitivo dalla docenza. Ma il ministro Nasi lo invitò a fruire interamente del suo periodo di aspettativa esprimendo tuttavia la speranza che egli ritornasse poi all’insegnamento.
Così, il 14 gennaio 1905, terminato il periodo di aspettativa e su pressione di personalità e di studenti, Murri tornò ad insegnare, nonostante che la vicenda familiare fosse tutt’altro che conclusa ed anzi si stesse per avviare verso la fase più dolorosa ed impegnativa, quella del processo. In quest’occasione Murri pronunciò le sue più famose lezioni su “Il pensiero scientifico e didattico della Clinica Medica bolognese”, vera pietra miliare della metodologia medica.
Nel 1912 al compimento di 35 anni di insegnamento, viene pubblicato su iniziativa della Società Medica Chirurgica di Bologna, un volume collettaneo dal titolo “Scritti Medici in omaggio ad Augusto Murri” (da non confondersi con il precedente del 1902 dal titolo assai simile) che raccoglie lavori di vario argomento redatti da vari autori appartenenti o vicini alla Scuola murriana. La dedica è assai eloquente in relazione alla notorietà ed alla stima che Murri aveva acquistato tra la classe medica bolognese: “Ad Augusto Murri Maestro insigne di Clinica Medica che rinnova nella forza del pensiero filosofico nella purezza dello stile e della parola nella vastità della dottrina nella meraviglia della didattica l’antico genio della stirpe nostra nel XXXV anno di insegnamento questo volume la Società Medica Chirurgica di Bologn dedica”
Nel 1913 Murri si ammalò e dovette sottoporsi ad un importante intervento chirurgico addominale. Ma la sua attività di clinico e di studioso continuò: nel 1914 comparve una delle sue opere più famose: “Il Medico Pratico”
Nel 1916, raggiunto il 75° anno di età fu collocato a riposo Ma la sua attività di studioso continuò fino a tarda età: nel 1918 pubblicò il “Saggio di perizie medico-legali” seguita da “Dei medici futuri” (1922); infine, all’età di 82 anni, nel 1923, pubblicò “Nosologia e psichiatria”, nella quale avversò nuovi tentativi di rinascita di vitalismo in medicina.
Nel maggio del 1931, durante il festeggiamento del novantesimo compleanno di Murri, il podestà di Bologna G. Berardi lo nominò cittadino onorario di Bologna. Fu questa l’ultima onorificenza tributata a Murri: l’anno seguente, l’11 novembre 1932, Augusto Murri muore nella sua casa a Bologna all’età di 91 anni. E’ tumulato nella tomba di famiglia nel cimitero di Fermo.
Nella piuttosto vasta produzione editoriale di Murri, l’opera più nota più letta e più citata è senza dubbio la raccolta delle sue lezioni cliniche (Lezioni di clinica medica 1905-1906 Società Editrice Milano, 1919 (Fig. 5) [La prima edizione è del 1908]). In realtà una raccolta di Lezioni di Clinica Medica di Augusto Murri venne effettuata nel 1883-1884 da Alessandro Codivilla e da Napoleone Cavara; una copia di queste “dispense” (Figg. 6-7) fu trovata da Giovanni Danieli nella biblioteca di famiglia e dallo stesso pubblicata nel 2001 in mille esemplari numerati, fuori commercio, con la prefazione di chi scrive.
Meno letta e meno conosciuta – ma non meno significativa – è invece la sua più corposa opera collettanea ”Scritti medici di Augusto Murri in tre Tomi, Tipografia Gamberini e Parmeggiani, Bologna, 1902” che raccoglie la produzione scientifica relativa ai primi anni del suo magistero, comprendente i testi di varie conferenze e di relazioni congressuali.
Nel primo tomo, sono comunque comprese quattro Prelezioni: quella pronunciata il 20 novembre 1876 (La clinica come scienza e come arte); La prelezione 1881 (Della Scienza sperimentale e della teoria cellulare rispetto alla Clinica (in due lezioni); la prelezione 1883 (Se e come l’opera dei medici riesce utile); e la prelezione 1889 (Del buon senso nella Medicina pratica) Nello stesso volume si trova il testo della famosa Prolusione al Corso di Clinica Medica che – letta il 19 gennaio 1876 capovolse l’opinione inizialmente ostile a Murri, della Facoltà medica e della cittadinanza bolognese.
In generale la produzione di Murri risente di uno stile tipicamente didattico: ne è conseguito che negli anni successivi commenti, citazioni e riproposizioni del suo pensiero siano stati riportati, da parte dei vari AA. che se ne sono occupati, mediante estrapolazioni di frasi simili a massime di comportamento o a sentenze a carattere filosofico: in breve in forma assai simile a quella propria degli aforismi. Forse lo stesso Murri si accorse di questo possibile distorsione – cui potevano andare incontro i suoi insegnamenti e volle chiarire senza mezzi termini la sua posizione: “Una delle tendenze antiche, ch’ io però combatto sempre più, perché molti moderni la propugnano senz’avvedersene, è quella degli aforismi e delle regole nette e precise. Questa specie di sapienza medica arieggia assai quella popolare della filosofia dei proverbii e perciò trova molto favore. È certo, che il condensare in poche parole una serie di osservazioni è utile per tutti, massime per chi deve imparare. Ma c’è anche un gran pericolo in tutte le formule generali, perché non ce n’è una, che resista a tutte le prove.”. Aggiungendo: “Ci sono tuttora dei Clinici che insegnano per sentenze, per aforismi e hanno gran fortuna come maestri, perché lo scolaro torna a casa credendo d’avere con se un tesoro. E sarà ben così il più spesso. Ma anche il professore erra e lo studente porta seco anche gli errori del maestro, se non ha l’abitudine di esaminare col proprio cervello le sentenze di tutti” (Lezioni cliniche, p. 60).
Tuttavia la sua produzione scientifica venne criticata perché troppo settoriale e complessivamente carente delle classiche trattazioni sistematiche su qualche argomento medico, e quindi non sarebbe stata in grado di contribuire ad un efficace progresso della medicina. L’insegnamento metodologico, al tempo, era considerato di secondaria importanza specie se condotto sotto forma di un razionalismo eminentemente critico.
Lui tuttavia si difendeva dicendo : “Non tutti, certo, pensano così: il metodo critico è faticoso e dispiace a molti; ma, s’esso è veramente necessario per giungere alla verità, bisogna subirlo o bisogna rinunziare a coltivare una scienza. Qualche collega non malevolo, un po’ infastidito da qualche obbiezione mossagli, si sfoga dandomi dell’ipercritico, ma questa è una parola, non una ragione. [Scritti Medici, 502) “In vero, se io avessi potuto aspirare ad una lode, nessuna mi sarebbe giunta sì ambita come questo rimprovero. Un eccesso di critica, come si concepisce?” (Lezioni cliniche, p. 13).
Per quanto riguarda la citata critica all’opera di Murri, di essere cioè troppo settoriale e priva di contenuti specifici della patologia, potrebbe essere condivisa solo se si trascurassero i più volte citati “Scritti medici” nei quali sono riportati studi approfonditi a carattere monografico su precisi argomenti: vedi ad esempio, il complesso di considerazioni sulle emoglobinurie (da frigor, sifilitica, da chinina) o quelle in tema di aritmie cardiache, di problemi pneumologici e sul meccanismo del fenomeno di Cheyne Stokes, o infine sulla termogenesi e sulle diverse manifestazioni del fenomeno della febbre: veri capitoli di fisiopatologia sicuramente attuali ed innovativi considerata l’epoca.
Il pensiero metodologico di Murri sui compiti del clinico e del medico in generale è il risultato di un’analisi acuta e lineare dei difetti della professione medica di allora e sui rimedi necessari. Murri afferma, innanzitutto, che la diagnosi medica è un atto squisitamente intellettuale e non un semplice atto classificatorio
“Messi davanti ad un uomo ammalato, il nostro obbligo intellettuale è di scoprire il perché dei suoi disordini”. (Citato da: Augusto Murri di Aldo Spallicci, p.132)
“Più invecchio e più vedo chiaro, come l’esercitare per bene la medicina sia cosa ardua. I profani non hanno neppure una lontana idea di questo: tu inciampi ad ogni piè sospinto in qualche persona d’ingegno, che ti chiede il rimedio per la tal malattia, persuaso che la patologia sia una specie di ufficio postale, in cui non s’ha da far altro che mettere o togliere le lettere nelle caselle, secondo l’ordine alfabetico. Ma anche nei medici è rarissimo un esatto concetto dell’ufficio del pratico. Molti mandano a memoria le sentenze apprese in scuola o nei libri e vanno innanzi con esse senza addarsi mai della fallacia d’alcune di esse; altri s’invogliano di qualche dottrina e su quella modellano ogni particolare loro giudizio. … [Ma] la dote più eccellente per un pratico è … la sua critica. Inutile ch’egli abbia pieno di notizie il cervello se non sa misurarne il valore” (Psicopatie gastriche …, Rif. Med., 1911).
E’ quindi errato credere che il problema clinico possa essere risolto per semplici collegamenti analogici tra ciò che si vede in un malato e ciò che si è letto nei libri o si è visto in altri pazienti, perché “non c’è un malato che sia eguale all’altro”.
“E’ facilissimo di concluder male, quando si trae la diagnosi da pochi sintomi anzi che da tutti. …. Capitano ad ogni passo sillogismi come questo: “la malaria dà la febbre intermittente; il paziente abita in una zona malarica e ha la febbre intermittente, dunque la sua intermittente è da malaria”…. Bisogna guardare più addentro, non contentarsi di conoscere ciò che ci fu, bisogna sapere ciò che c’è bisogna cercare, cercar sempre e forse allora sarà svelato un fatto che mostri come nessuna di queste cause esistenti sia quella che nell’individuo dà veramente origine all’intermittente, un fatto al quale non s’era neppur pensato” (Il medico pratico, p. 26-27).
In sostanza il metodo clinico secondo Augusto Murri poggia essenzialmente su tre pilastri fondamentali: osservare molto; criticare tutto e dubitare di tutto; ragionare rigorosamente.
Osservare:
“Un clinico dovrebbe guardare, tastare, ascoltare, percuotere, pesare, misurare, consumare quanti più reagenti chimici che può, applicare congegni meccanici… studiar preparati microscopici, sperimentare sugli animali, fare indagini batteriologiche. Però dovrebbe parlare il meno possibile – molti fatti e punto chiacchere – ecco il Clinico vero!” (Lezioni cliniche, p. 39)
Criticare:
“Nella clinica, come nella vita, bisogna avere un preconcetto, uno solo, ma inalienabile – il preconcetto che tutto ciò che si afferma e che par vero può essere falso: bisogna farsi una regola costante di criticare tutto e tutti, prima di credere: bisogna domandarsi sempre come primo dovere; “perchè devo io credere a questo”?” (Lezioni cliniche, p. 21)
Ragionare:
“Ma come ricostruire [il processo morboso]? Lo ripeto: ciò è possibile solo colla ragione. L’immaginazione, rigorosamente contenuta dalla critica, permette di ricongiungere con un’ipotesi ragionevole le parti empiricamente note. Se il clinico non deve far questo, rinunzi allora a comprendere: ma se vuole comprendere, non può fare che così” (Lezioni cliniche, p. 41).
Cos’è quindi per Augusto Murri la Clinica? Come si è già detto, la clinica non consiste solo in un gran sapere, ma nel saper applicare le nozioni acquisite ad ogni caso, non è tanto erudizione quanto intelligenza e perspicacia nell’agire. Per Murri, quindi l’attività del clinico è prevalentemente educazione mentale e sotto questo aspetto, la Clinica va considerata come una disciplina del tutto particolare essa: infatti non si occupa di quelle realtà astratte che sono le malattie, ma di quei problemi reali che sono le situazioni patologiche presenti nei singoli pazienti.
Murri ha dimostrato che la Clinica è di fatto fondata sulla Metodologia. Una metodologia che risente delle prospettive epistemologiche di Autori come Stuart Mill e Claude Bernard, applicate alle specifiche situazioni della diagnosi Tuttavia, pur nell’ambito di un’epistemologia sostanzialmente induttivista ha saputo liberarsi da una concezione metodologica troppo rigida, riconoscendo il ruolo fondamentale della critica razionale e dell’analisi dell’errore nell’attività del medico, sì da poter essere a ragione considerato un precursore delle impostazione ipotetico-deduttive e fallibiliste che molta fortuna avrebbero conosciuto nel dibattito epistemologico successivo.
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