In his Canon, encyclopaedic treatise on medicine. Avicenna (Ibn Sīn, d. 1037) exhibits at the same time all the medical knowledge that existed in the world up to his time, his personal achievements and advancements, and the method he followed in the study of medicine. This work, translated for the first time into Latin at the end of the twelfth century, and adopted since the thirteenth century as a textbook in european universities, has over the centuries an immense fortune, due in part to the amplitude and to the rational character of his teaching, and also. in part, to the space granted to practice, both in medicine and pharmacology. The Canon is used in European medical schools as late as the half of 17th century; so, in the history, not only of medicine, it is perhaps the scientific text remained unsurpassed for the longest time.
Accostarsi, nella storia della medicina, alla figura di Avicenna (Ibn Sīnā) significa da ogni punto di vista accostarsi alla figura di un genio; un genio – non si può non aggiungere – precoce e autodidatta. Pochi sono gli studiosi che come lui hanno influenzato la storia di una disciplina, e ancora meno quelli che, diventati leggenda già in vita, hanno visto la propria esistenza guidata, e condizionata, dalla fama.
La vita e l’opera
Come ci informa egli stesso in una sua autobiografia che copre i primi trenta anni della sua vita – i rimanenti anni sono documentati dal suo allievo, amico e segretario al-Ǧuzağānī – Avicenna nasce nel 980 presso Bukhara (odierno Uzbekistan). Figlio di un funzionario statale che si occupa attentamente della sua educazione, si accosta in primo luogo alla logica, e ancora quasi un bimbo, spiega questioni di logica al suo insegnante. All’età di 16 anni dichiara di avere ultimato – senza la guida di alcun maestro – lo studio della medicina che, scrive, è una scienza non difficile, e illustri medici già lavorano sotto la sua direzione. Guarito l’amīr del Khorasan da una grave malattia, ottiene come ricompensa di frequentare la biblioteca dei principi samanidi: biblioteca in cui si immerge con avidità allo scopo di perfezionare i suoi studi. A 18 anni può dire di aver conosciuto tutte le scienze coltivate ai suoi tempi; a 21 scrive il suo primo libro di filosofia. Subito dopo, si può dire, ha inizio la sua vita travagliata e tumultuosa, divorata proprio da quella fama e da quel successo che il mondo gli accorda. A 22 anni, alla morte del padre, diviene per qualche tempo anche lui un impiegato statale; ma ben presto principi e dignitari richiedono i suoi consigli, non solo in medicina ma anche in politica, ed è più volte ministro e consigliere di uomini di potere. Spirito nato libero e allo stesso tempo indomabile, si attira inevitabilmente invidie e inimicizie: è arrestato, fugge, si sposta sotto falso nome da un luogo all’altro; si presenta talvolta in incognito al capezzale di un malato, riconosciuto solo al momento della soluzione del caso. Dotato di una memoria straordinaria, compone le sue opere ovunque si trovi, a corte e a cavallo, in viaggio e in prigione, citando a memoria gli autori che utilizza, e perseguendo un ordinamento, nella sua vita e nella sua opera, reso spesso difficile dalle circostanze.
Dopo un lungo periodo di instabilità, ripara finalmente presso la corte di Isfahan (odierno Iran), dove trascorre un lungo periodo di tranquillità; muore nel 1037 a Hamadan, durante una spedizione militare del principe suo mecenate ‛Alā al-Daula, che ha accompagnato. Gran parte dell’opera di Avicenna ci è pervenuta, ma non tutta. Ciò è dovuto sia al carattere del personaggio, che quando gli erano richieste opere o fatte domande non sempre conservava i suoi testi; sia a fatti storici che ne hanno impedito la conservazione; il testo del Kitāb al-inṣāf (Libro del giudizio imparziale), ad esempio, scompare nel sacco di Isfahan quando il suo autore è ancora vivente. Il numero di opere attribuito ad Avicenna è tra le 200 e le 300 opere, scritte in campi anche molto diversi (filosofia, letteratura e anche poesia). Tra queste, le opere di medicina, di altissimo livello, sono circa 40, non ancora tutte edite. Tre di esse, le più conosciute, in Occidente come in Oriente, hanno grande fortuna, e tradotte in latino hanno letteralmente fatto la storia della medicina: in primo luogo il Qanūn fī’l-ṭibb (Il canone di medicina), cui è dedicato questo lavoro, uno dei prodotti più significativi nella storia della medicina non solo islamica. Al Canone si aggiungono poi altre due opere: al-Adwiya al-qalbīya (Le medicine del cuore), trattato sulla cura delle malattie cardiache, tradotto in latino da Arnaldo da Villanova (fine XIII secolo); e al-Urǧūza fī’l-ṭibb (Il poema della medicina in metro rağaz), compendio di medicina in versi allo scopo di aiutare la memoria – tradotto da Armengaud Blaise di Montpellier, nipote di Arnaldo – che passa in latino con il titolo di Cantica. Nella tradizione di lingua latina, queste due opere sono spesso stampate insieme al Canone, a comporre una trilogia.
Il Canone e i suoi contenuti
Nel Canone, opera enciclopedica sulla medicina, che tiene dietro ad almeno due illustri predecessori musulmani: il Ḥāwī (lat. Continens) di Abū Bakr al-Rāzī (Rhazes, Abubacer), e il Kitāb al-kāmil o al-malakī (Liber regalis) di ‛Alī ibn al-‛Abbās al-Maǧūsī (Haly Abbas), Avicenna espone non solo la totalità delle conoscenze della medicina della sua epoca (la tradizione seguita è ovviamente la tradizione ippocratica, galenica e post-galenica, cui si sommano contributi di origine persiana e anche indiana), ma anche, ed è ciò che per lo storico della scienza ha una importanza tutta particolare, il metodo da lui seguito nello studio della medicina, ed i suoi personali risultati e avanzamenti.
Nel mondo islamico, e poco dopo nel mondo latino, il Canone, come è noto, ha grandissima fortuna. I medici musulmani lo preferiscono sia all’opera di al-Rāzī che a quella di al-Maǧūsī, e molti sono i commenti scritti su di esso o su parti di esso; tra questi, il Commento all’Anatomia del Canone scritto da Ibn al-Nafīs (m. 1288), opera in cui l’autore fa i primi cenni sulla circolazione polmonare, sconosciuta ai predecessori. Quanto al mondo latino: la traduzione delle opere di Avicenna è condotta su larga scala a Toledo nella seconda metà del XII secolo, ed è qui e in questo tempo che il Canone per la prima volta è tradotto in latino. Il libro è ostico, la traduzione è difficile; il traduttore, illustre, Gerardo da Cremona (m. 1187), confessa esasperato di aver passato quasi cinquant’anni a studiare l’arabo, e di aver fatto molta fatica a tradurre il Canone…. Nonostante i dubbi del suo traduttore, la traduzione ha comunque fortuna: stampata per la prima volta a Milano o a Padova nel 1472 (edizione del solo libro III), conosce prima del 1500, in un arco di soli 30 anni, ben 14 edizioni in latino e una in ebraico. Nel 1527, una buona revisione della traduzione di Gerardo, corredata da un vocabolario dei termini tecnici arabi, è realizzata da Andrea Alpago, medico veneziano che ha passato molti anni in Oriente. Altre traduzioni, non sempre di qualità eccelsa, anche se godono di una buona diffusione, si susseguono nel corso del secolo; e data la popolarità universalmente raggiunta dall’opera, alla versione latina si accompagnano, come avviene da tempo, citazioni, commenti e compendi in latino e nelle lingue vernacolari. Nel 1593, a Roma, presso la Tipografia Medicea Orientale, è realizzata la prima edizione a stampa del testo arabo, seconda opera – si noti – stampata dalla tipografia dopo la traduzione araba dei Vangeli. Grandissima, nel Medioevo e fino a epoca moderna, è la fortuna del Canone nell’insegnamento universitario: introdotto all’università di Parigi tra il 1230 e il 1258, è utilizzato come libro di testo nelle università di Montpellier (inizio intorno al 1240) e di Lovanio fino alla metà del XVII secolo. In Italia, da ricordare in primo luogo l’università di Siena, dove il Canone è forse insegnato in una data anteriore al 1250; seguita a breve distanza da Bologna dove, nel 1260, Taddeo Alderotti introduce il Canone come testo di base per l’insegnamento della medicina, e da Padova, come risulta dalle citazioni contenute nel Tractatus de conservatione sanitatis di Zambonino da Gaza, professore dal 1262. Fino al XV secolo il Canone costituirà da solo circa la metà dell’intero insegnamento della medicina.
Il Canone si compone di cinque libri, che rispettano, anche se non del tutto, l’ordine abitualmente seguito nella composizione delle opere enciclopediche di medicina:
* Libro I, generalità (kullīyāt), diviso in quattro funūn (trattati, pl. di fann): a. definizione della medicina e suo oggetto, elementi (fuoco, aria, acqua e terra), umori (bile gialla, sangue, flegma e bile nera, corrispondenti agli elementi), temperamenti (bilioso, sanguigno, flemmatico, melancolico), anatomia degli organi omogenei, facoltà (psichica/cervello, naturale/fegato e testicoli, animale o vitale/cuore), funzioni; b. classificazione, cause e sintomi delle malattie; c. cause della salute (fisiologia, igiene, esercizio fisico etc.) e delle malattie, cause e inevitabilità della morte; d. classificazione dei tipi di terapia, trattazione generale di regimi e diete; droghe varie; regole dell’evacuazione, clisteri, salassi, cauterizzazioni e chirurgia.
* Libro III. Malattie disposte in ordine a seconda degli organi colpiti, a partire dalla testa; organi eterogenei, la parte che riguarda ogni organo è nella maggior parte dei casi preceduta dalla sua descrizione anatomica.
* Libro IV. Malattie che non sono specifiche di determinati organi. Febbri, prognosi, giorni critici, principi importanti per diagnosi e terapia. Pustole, ascessi, ferite, ortopedia, veleni e creature velenose. Alla fine del libro: capelli, pelle, unghie, obesità e magrezza eccessiva.
Il Libro II e il Libro V sono dedicati alla materia medica: droghe semplici (II) e droghe composte (V).
Nel cuore del vivente, ventricolo sinistro, una combustione, alimentata dall’aria che si respira trasformata nei polmoni, produce il calore necessario alla vita. Grazie al calore generato nel cuore, e a due digestioni, la prima nello stomaco e la seconda nel fegato, l’organismo – a partire dagli elementi fuoco aria acqua e terra contenuti nei cibi che ingerisce – produce gli umori, che nel corpo corrispondono ai quattro elementi: il sangue (→ aria) caldo e umido, frazione equilibrata della digestione, la bile gialla (→ fuoco) calda e secca, frazione più calda e leggera, la bile nera (→ terra) fredda e secca, frazione più densa e pesante, e il flegma (→ acqua), umido e freddo. Tali umori, in primo luogo il sangue, e in quantirà molto minori bili e flegma, a partire dal fegato, tramite la vena cava, e poi vene e capillari (la circolazione del sangue non è conosciuta) – raggiungono ogni parte del corpo e fanno crescere e conservano gli organi. Il complesso individuato dai rapporti in cui gli umori si trovano tra loro è definito come ‘temperamento’, o mescolamento (ar. mizāğ); e l’equilibrio o lo squilibrio individuabile nel temperamento è ciò che definisce lo stato di salute o di malattia.
Sulla base di questi dati, esposti qui necessariamente per sommi capi, si possono già notare alcuni capisaldi della medicina medievale e in particolare islamica. In primo luogo, l’uomo è letteralmente ciò che mangia e ciò che respira, e di qui l’importanza della dieta e dell’ambiente in cui vive: per il medico medievale e musulmano in particolare, la dieta e l’aria che si respira, nella normale attività e nell’esercizio fisico, sono il primo e più delicato punto portato all’attenzione del medico. Secondo punto, che completa il primo: la definizione dello stato di salute. Lungi dall’essere un qualcosa di assoluto e di generale per ogni vivente, il temperamento equilibrato – equilibrio tra gli umori e dunque tra le qualità – che definisce lo stato di salute, è del tutto relativo e variabile. Nel primo libro e primo fann del Canone, Avicenna spiega questo punto con grande chiarezza: l’equilibrio che il medico deve considerare non è l’equilibrio del matematico e del filosofo, per i quali la condizione di equilibrio è data dal concorso di parti tutte uguali tra loro (in questo caso si tratterebbe di parti uguali di elementi e di umori): nei viventi vi è un equilibrio diverso in specie diverse (il temperamento di un cane non è quello di un serpente), e all’interno di ogni specie in classi diverse (il temperamento di uno slavo non è quello di un indiano), e all’interno di una classe in individui diversi (il temperamento di un uomo è diverso da quello di un altro della stessa classe). Per uno stesso individuo, vi è poi un equilibrio diverso a seconda delle circostanze (età, clima, stagione etc.), e all’interno di ogni individuo un equilibrio diverso nei suoi diversi organi (il temperamento del cervello non è quello del cuore), e per uno stesso organo un equilibrio diverso a seconda delle circostanze (il temperamento dello stomaco di un ragazzino non è quello dello stomaco di un vecchio). Conseguenza importante: se il temperamento equilibrato, che definisce lo stato di salute, non è qualcosa di assoluto, ma qualcosa che varia da specie a specie, da individuo a individuo, e, nello stesso individuo, tra due stati diversi e all’interno dello stesso individuo da organo a organo e da uno stato dell’organo a un altro, da ciò consegue necessariamente che lo stato di salute non è lo stesso per tutti gli uomini: ma è un equilibrio che oscilla tra due limiti entro i quali è stabilita la condizione della salute. All’interno di questi limiti, temperamenti che per i matematici e i filosofi sarebbero squilibrati sono posseduti da uomini che, finché lo squilibrio si mantiene in un certo intervallo, devono essere considerati sani: siano essi irascibili, sanguigni, flemmatici o melancolici (predominio nell’ordine di bile gialla, sangue, flegma, bile nera), tutti questi uomini, entro certi limiti. sono uomini sani. Sulla base di queste considerazioni, lo stato di salute si riduce ad essere, in modo pragmatico, lo stato, variabile da uomo a uomo, in cui tutte le funzioni degli organi sono integre. Ogni paziente è così, per il medico, una sfida e un interrogativo di cui venire a capo, e ciò porta in primo piano due componenti necessarie all’esercizio della professione medica: le caratteristiche non solo scientifiche ma anche umane che il medico deve possedere, e il rapporto medico-paziente, poiché solo tramite questo rapporto il medico può giungere a formulare la giusta diagnosi.
Il medico
Per Avicenna, come per ogni altro medico musulmano, non vi è dubbio che il medico debba essere preparato anzitutto in ciò che riguarda la sua disciplina. In epoca medievale, nel mondo islamico, molto si discute sul tipo di preparazione che per il medico è più utile (posto che entrambe sono necessarie): se la cultura dei libri – e qui si tratta della tradizione di lingua greca, di cui circolano, in traduzione araba, molti trattati, e di quanto successivamente elaborato dai grandi medici musulmani – oppure lo studio sotto la direzione di un maestro, e la pratica, effettuata ogni giorno sotto la sua guida in corsia; nell’ospedale islamico, organizzato come un vero e proprio policlinico, sono presenti infatti una biblioteca e una scuola, e giovani medici si esercitano sotto l’occhio vigile di un anziano, equivalente dell’odierno primario.
Nella preparazione del medico, tuttavia, la conoscenza della medicina non è sufficiente. Proprio allo scopo di migliorare la sua capacità nella professione, la sua cultura deve essere molto più ampia: in primo luogo per ciò che riguarda conoscenze per così dire collaterali al suo lavoro, come la farmacologia: molti medici musulmani di epoca classica preparano infatti essi stessi le medicine che prescrivono, e Avicenna è uno di questi (lo si nota ad esempio quando raccomanda, nel Canone, di preparare le pozioni in un luogo riparato sotto una tettoia, perché non vi sia pericolo che qualcosa cada nella pozione e si debba ricominciare da capo). Importanti sono poi anche altre discipline: tra queste la filosofia, con cui il medico non deve dimostrare, cosa che spetta al filosofo naturale, i principi della sua disciplina; ma che è indispensabile perché conduce alla conoscenza dell’anima. Malattie che si generano nell’anima producono col tempo la malattia del corpo, e viceversa, producendo col tempo una sorta di circolo vizioso che non si interrompe se non si risale alla causa prima. Nel Canone, Avicenna porta diversi esempi a questo proposito: il caso della licantropia, eclatante caso di disturbo mentale, generato – egli scrive – da un gravissimo scompenso nel temperamento; o il mal d’amore, disturbo psicologico che, non curato, può condurre col tempo a una malattia fisica, la melancolia, data da produzione sovrabbondante di bile nera ‘combusta’.
Un caso a parte e importante, nella preparazione del medico, è poi costituito dalla musica. Se vuole comprendere fino in fondo ciò che risulta dalla tastazione del polso, il medico non può non conoscere la musica: perché, nello studio del polso, la frequenza equivale, nella musica, al ritmo, mentre la pressione del sangue sull’arteria equivale al volume. Il medico dotato di esperienza musicale può giungere non solo ad avvertire la diastole, di difficilissima percezione, ma anche ad avvertire leggerissime variazioni nei battiti che gli fanno capire le diverse emozioni del paziente nel dialogo che intrattiene con lui, e qui torniamo ai ‘movimenti’ dell’anima.
Tra i requisiti indispensabili di chi voglia esercitare la professione, un fattore che non può essere trascurato è infine la condizione fisica del medico; che deve essere in perfetta salute, e dotato di sensi perfetti. In assenza di una strumentazione che possa essergli d’aiuto, il corpo del medico, nel Medioevo, è lo strumento che deve permettere di valutare e di decidere: la presenza di febbre, ad esempio, scrive Avicenna, è diagnosticata se il paziente risulta al tatto più caldo del corpo del medico in buona salute. Interessante una notazione sui sensi, sempre dal Canone: i sensi che per il medico sono importanti non sono tanto quelli che per il filosofo sono i più nobili, come la vista e l’udito (i due sensi degli angeli), ma quelli che nella filosofia e nella cultura generale sono da tutti ritenuti i più umili: il tatto ed il gusto. Molte malattie non possono essere conosciute dal medico che non tasti il paziente, e in farmacologia due polverine entrambe bianche possono celare prodotti anche molto diversi; rimedi o veleni che solo il gusto può riconoscere.
Il rapporto medico-paziente
Altro elemento necessario al buon risultato nella professione medica è il rapporto medico-paziente, fondamento di ogni diagnosi e cura. Nel rapporto tra medico e paziente, le considerazioni sull’equilibrio del temperamento individuano in primo luogo una situazione ideale: il medico dovrebbe conoscere il suo potenziale paziente prima che si ammali; questo perché per riconoscere lo squilibrio patologico di un temperamento, gioverebbe molto conoscere il temperamento in condizioni normali. Un paziente sanguigno, ad esempio, dunque piuttosto caldo e rosso in viso quando è sano, non sarà considerato malato dal suo medico semplicemente sulla base del suo aspetto fisico.
Ma poniamo che l’uomo che ricorre ad un medico non sia da lui conosciuto; la prima cosa che il medico deve fare è ovviamente decidere se sia sano o malato. Qui la faccenda potrebbe già diventare complessa, perché gli stati dell’uomo, che secondo Galeno erano tre – salute, malattia e stato intermedio – in Avicenna diventano cinque: salute, malattia e uno stato intermedio con tre sottogruppi (incubazione, primo inizio della malattia, e convalescenza). Posto davanti ad un uomo che richiede il suo aiuto, il medico ben preparato saprà tuttavia cosa fare. Terrà in primo luogo il suo interrogatorio, ponendo domande mirate e sollecitando le risposte di cui ha bisogno; procederà successivamente alla visita, mettendo, come si è detto, tutti i suoi sensi al servizio del paziente; trarrà poi le sue conclusioni, tenendo conto di tutti i fattori interni ed esterni che, come prima abbiamo accennato, influenzano il temperamento. In presenza di uno stato che non può essere definito di malattia, o intermedio, primo compito del medico sarà quello di conservare la salute: e dunque ben vengano la dieta equilibrata e i massaggi, l’esercizio fisico e i bagni; poiché primo compito della medicina, recita la tradizione galenica, e anche il Canone, non è quello di restaurare la salute perduta, ma quello di conservarla1. Se lo stato accertato sarà invece uno stato di malattia, in questo caso il medico dovrà produrre diagnosi, prognosi e terapia, concentrando la sua attenzione su tre cose: la malattia, il suo sintomo e la sua causa. Anche qui la faccenda è irta di difficoltà, perché non si tratta semplicemente di individuare la malattia: posto che ciò che si deve curare non è il sintomo ma la causa, un sintomo potrebbe trasformarsi in una malattia o divenire causa di una malattia, o una malattia divenire causa di un’altra malattia.
Fatta la diagnosi, la terapia seguirà necessariamente un andamento graduale: ci si appoggerà in primo luogo a prescrizioni leggere, come la dieta, per passare eventualmente in un secondo tempo alle medicine semplici, e solo in caso di insuccesso delle semplici, alle medicine composte, come la teriaca, che sono più insidiose, perché la presenza di più principi attivi, dagli effetti che si combinano in modi diversi, richiede al medico una maggior perizia. Solo in casi più estremi, si ricorrerà a rimedi più drastici, come la cauterizzazione o il salasso, quest’ultimo controindicato in ogni caso agli anziani e ai bambini, o all’intervento chirurgico.
La descrizione delle malattie, delle loro cause e dei sintomi, l’attenzione dedicata all’indicazione delle cure e alla preparazione delle medicine, ogni aspetto anche pratico che si noti nell’esercizio della medicina, tutto questo è nel Canone curato nei minimi particolari; ma non basta: perché il medico ripara le eventuali disobbedienze del paziente, ad esempio un paziente goloso; consiglia afrodisiaci o rimedi volti a risolvere casi di impotenza e di infertilità, perché – scrive Avicenna – un buon rapporto di coppia può prevenire il disordine nella società; o interviene, in qualche modo, a consolare una umanità nel dolore con riflessioni sull’ineluttabilità della morte. Tutto questo, per secoli, rese il Canone non soltanto un’opera colta ma anche e in molti casi un’opera utile, molto amata non solo dai medici universitari di grado elevato, ma anche da medici praticanti la medicina a livelli molto inferiori, che utilizzavano solo compendi e notizie di seconda e terza mano: ciò che portò senza dubbio a una enorme frammentazione, ma al tempo stesso a una penetrazione profonda nelle società che raggiunse.
Testi
1. causa, malattia, sintomo [Ibn Sīnā, al-Qānūn fī’l-ṭibb, kitāb 1, fann 2, ta‘līm 1, faṣl 1 (ed. cit. M. A. al-Ḍannāwī, I, Bairūt, Dār al-kutub al-‘ilmīya,1999, p. 103 sg.)]:
L’insegnamento sulla causa, la malattia e il sintomo
Nella malattia, la causa è ciò che viene prima di tutto; perché da essa si individua, tra le situazioni in cui può trovarsi il corpo dell’uomo, una determinata situazione, che può essere [temporanea], o duratura. La malattia è una forma non naturale nel corpo dell’uomo, da cui ha luogo, in un modo necessario e primario, un vero e proprio malfunzionamento in una funzione: e questo (la malattia) può essere o un temperamento non naturale o una composizione2 non naturale. Il sintomo è la cosa che tiene dietro a questa forma e non è naturale; sia che sia contrario al naturale, come il dolore nella colica, sia che sia non contrario, come l’eccessivo colorito rosso della guancia nella polmonite. Un esempio: la causa è la putrefazione, la malattia è la febbre, e il sintomo sono la sete e il mal di testa. Altro esempio: la causa è un riempimento nei vasi che scendono all’occhio, la malattia è l’ostruzione all’interno dell’iride; [questa] è una malattia dell’organo e composita, e il sintomo è la perdita della vista. E anche: la causa è una infreddatura violenta, la malattia è una ulcerazione nel polmone e il sintomo è il colore rosso delle guance e l’affezione (deformazione, alterazione del colore etc.) delle unghie.
Il sintomo è detto ‘accidente’ in considerazione della sua essenza (perché è qualcosa che accade) o in confronto con ciò che ad esso è soggetto, ed è detto ‘segno’ in considerazione del fatto che il medico lo esamina e per suo effetto si avvia a conoscere che cos’è la malattia. La malattia può divenire causa di un’altra malattia, come la colica per la sincope o per la paralisi o per la crisi epilettica; e, anche, il sintomo può divenire una causa per la malattia, come il dolore forte diviene una causa per la tumefazione perché le materie si riversano verso il luogo del dolore. E il sintomo può divenire esso stesso una malattia, come il mal di testa che risulta dalla febbre, perché può darsi che diventi fisso e radicato finché diviene una malattia. Confrontata con se stessa e con la cosa che la precede e la segue, una cosa può essere una malattia, un sintomo e una causa: come la febbre della consunzione (tubercolare), è un sintomo dell’ulcerazione del polmone, una malattia in se stessa, come pure una causa dell’indebolimento dello stomaco; e come il mal di testa che risulta dalla febbre, quando diviene radicato, è un sintomo della febbre, una malattia in se stesso, e a volte produce l’infiammazione della pleura o la meningite, divenendo così la causa delle due malattie menzionate.
2. l’esercizio fisico [Ibn Sīnā, al-Qānūn fī’l-ṭibb, kitāb 1, fann 3, ta‘līm 2, faṣl 2 (ed. cit., I, p. 222-4)]:
In questo capitolo, di cui qui riportiamo alcuni passi, Avicenna espone diversi tipi di esercizi. Dato che ogni attenzione e cura devono essere ‘personalizzate’, anche nell’esercizio fisico il medico dovrà distinguere ciò che è più adatto nei diversi casi: per ogni uomo, per ogni organo, per ogni senso, c’è infatti un esercizio, che deve essere conosciuto. Tra le molte citazioni e i molti esempi, figura qui, interessante, una citazione del gioco del polo, gioco forse di origine persiana, molto popolare ai tempi dell’autore.
I diversi tipi di esercizio fisico
Quanto ai tipi dell’esercizio, vi è la lotta, il venire alle mani, il pugilato, il correre portando la testa alta, il camminare di buon passo, il tirare con l’arco, lo stare in piedi su una delle due gambe, il tirare di spada, l’andare a cavallo, e il battere con le mani, che consiste nello stare l’uomo sulle punte dei piedi, mentre allunga le mani avanti e indietro e le muove velocemente; e questo è l’esercizio veloce. Gli esercizi sottili e delicati sono invece il bilanciarsi nei movimenti oscillanti, il camminare a passo lento, stando eretti, facendo piegamenti e mettendosi a terra, lo stare in equilibrio su battelli e battellini; e il più veloce di quelli di questo tipo è il cavalcare i cavalli e i cammelli, lo stare in equilibrio sulle bardature degli elefanti e il cavalcare i vitelli. Degli esercizi forti che si fanno in piazza (campo sportivo), vi è che l’uomo, in una piazza, acceleri la corsa fino al limite, e che poi retrocedendo torni indietro, continuando a diminuire il percorso ogni volta, finché alla fine resti fisso nel centro; sforzarsi nel continuare a compiere un’azione, colpire con i palmi delle mani, saltare, lanciare, giocare con la palla, grande e piccola, giocare con la mazza (gioco del polo), giocare con la racchetta, giocare con la lotta, sollevare le pietre, spronare i cavalli al galoppo e al trotto veloce. Ci sono poi diversi tipi di esercizio ‘forte’ con azione reciproca: tra questi, che ognuno dei due uomini fissi la sua mano sulla vita del suo compagno tenendolo fermo, e ognuno dei due si imponga di liberarsi dal suo compagno che gli sta attaccato, e anche che si pieghi con le mani contro il suo compagno spingendo la destra verso la destra del suo compagno e la sinistra verso la sinistra, mentre il suo viso è rivolto verso di lui, e poi lo sollevi e lo metta sottosopra, specialmente mentre lui ora si piega e ora si distende […]
Ci si deve esercitare nel compiere gli esercizi diversi, senza insistere con uno solo; per ogni organo, infatti, c’è un esercizio che gli è particolare. L’esercizio delle mani e delle gambe non è un segreto (è ben noto). Quanto agli organi della respirazione, ora ci si esercita con la voce grave e sonora ora con la voce acuta, e con una voce che mescola le due; questo è anche un esercizio per la bocca, per l’ugola, per la lingua e anche per l’occhio, migliora il colorito e purifica il petto. Ci si esercita anche soffiando mentre si trattiene il respiro, e questo è un esercizio per tutto il corpo, perché allarga le sue vie. Tenere alto il tono di voce per un tempo molto lungo è un pericolo, perché il permanere violento della necessità di attrarre molta aria è un pericolo. Si deve cominciare a leggere (recitare) dolcemente, poi, leggendo, alzare la voce in modo graduale, poi quando la voce si è fatta più intensa, più forte e lunga, rendere quel tempo limitato, perché se il tempo si prolunga, vi è in questo un pericolo [anche] per quelli che sono equilibrati e in salute […].
Le cavalcate sui vitelli sono azioni efficaci, e sono le più violente di questo genere di azioni; cavalcare il vitello con il viso rivolto all’indietro è utile contro la debolezza del respiro, e molto utile contro la sua oppressione. Stare in equilibrio sui battelli e sulle barche è utile contro l’elefantiasi, l’idropisia, l’apoplessia, il raffreddamento dello stomaco e l’aerofagia; questo se avviene vicino alle rive, ed è utile allo stomaco, quando è sconvolto da nausea e poi si placa. Stare in equilibrio sulle barche mentre il mare è agitato, è più efficace nell’eliminare le malattie menzionate, perché si alternano nell’anima gioia e tristezza […]
La vista si esercita guardando con attenzione le cose quasi impercettibili e volgendo di quando in quando lo sguardo gradualmente e con dolcezza ai luoghi elevati. L’udito si esercita ascoltando le voci quasi non udibili e ascoltando di rado le voci forti. Ogni organo ha un esercizio suo proprio, che noi menzioniamo quando trattiamo della salute, organo per organo […]. Bisogna che quello che si esercita stia in guardia contro il giungere del riscaldamento dell’esercizio al più debole dei suoi organi, a meno che ciò non avvenga come una conseguenza [indiretta dell’esercizio]. Ad esempio: chi soffre di vene varicose ha bisogno di un esercizio che non aumenti il movimento delle sue gambe ma lo diminuisca, e che con il suo esercizio insista sulla parte più alta del suo corpo, collo, testa e torace, in modo che l’influsso dell’esercizio sulle sue gambe venga dall’alto. Al corpo debole esercizio debole, al corpo forte esercizio forte….
3. un male antico, detto bulimia [Ibn Sīnā, al-Qānūn fī’l-ṭibb, kitāb 3, fann 13, maqāla 2, faṣl 7 (ed. cit., p. 447 sg.)]:
Lo squilibrio più grave che si verifichi nell’alimentazione dell’uomo, la bulimia, è dagli antichi attribuito ad alterazioni interne causate da fattori esterni, come ad esempio il gran freddo3. Riprendendo osservazioni presenti in fonti di lingua greca, mediche e non solo – tra queste, quasi certamente Archigene, citato in Galeno, De compositione medicamentorum secundum locos VIII.4 (ed. Kühn XIII, p. 175 sg). – ma compiendo passi ulteriori e significativi, tra i quali la distinzione chiarissima tra fame canina e bulimia, Avicenna individua una doppia componente del danno: una fisica, l’alterazione della facoltà attrattiva, che fa ricercare a ogni organo il suo nutrimento, e l’altra, l’alterazione della percezione, direttamente collegata, tramite i sensi, al cervello. Alle sollecitazioni rivolte allo stomaco del paziente, somministrazioni di bevande e di cibi leggeri e gradevoli, egli aggiunge, con unguenti odorosi, profumi e anche percosse, interventi volti a stimolare il sistema nervoso.
La fame detta ‘bulimia’
La bulimia è [la malattia] conosciuta come ‘la fame bovina’. Nella maggior parte dei casi la precede una fame canina, dopo di che il desiderio [del cibo] si abbatte; se non si verifica dopo di essa, il desiderio [del cibo] si abbatte all’inizio. E’ la fame degli organi che si accompagna alla sazietà dello stomaco, sì che gli organi sono molto affamati e desiderosi del cibo, mentre lo stomaco gli fa ostacolo. E a volte la cosa giunge fino allo svenimento, e i vasi sanguigni diventano vuoti; ma lo stomaco fa ostacolo al cibo, che gli ripugna. Avviene in molti casi a quelli che viaggiano al freddo, molto raffreddati, i cui stomaci sono ispessiti dal freddo intenso. Ne è causa una infermità di temperamento che giunge alla facoltà della percezione e alla facoltà attrattiva. E’ prodotta da umori che si avvolgono alla bocca dello stomaco, si sciolgono e si diffondono nelle sue fibre, e si muovono verso il respingere, ostacolando l’attrazione del cibo; e puoi conoscere i segni da ciò che ti ho ripetuto più volte ed è menzionato nel Canone.
Cure: si deve curare essenzialmente la caduta del desiderio [del cibo]; bisogna insomma che [il paziente] fiuti i cibi appetitosi e speziati, i frutti odorosi e i profumi annusabili in cui vi sia un qualche effetto astringente, perché la facoltà si ricomponga e non si allenti. Gli si dia da mangiare del pane inzuppato nello šarāb4 di buon sapore e gli si dia da bere o da inghiottire del nabīḏ5 profumato; mescolandovi, in particolare, canfora o aloe, se il temperamento è caldo, e sukk6 in caso diverso. Se la causa del male non è il calore, giova loro, contro questo male, lo šarāb di giglio; e se la sua causa non è il calore, si leghino le loro mani e le loro gambe con un laccio robusto, si impedisca loro di dormire, e quando hanno sonno gli si provochi dolore, pungendoli, pizzicandoli, e battendoli con un bastone sottile e flessibile affinché faccia male, senza rompersi. Tra le cose che giovano loro è che si prenda un biscotto, si inzuppi nel maisūsan – o nelle nuḍūḥāt profumate7 – e si bendi con essi lo stomaco, in particolare nello stato dello svenimento; e che con esso si applichino anche gli unguenti profumati, come l’unguento di pino e l’unguento di rose e di mirto; e giova anche che sui loro stomaci si utilizzino le bende preparate da medicine cardiache di buon odore, e che gli si facciano suffumigi con i vapori odorosi d’ambra. Si bendino le loro giunture con un bendaggio preparato con acqua di rose e di mirto, maisūsan, canfora, muschio, zafferano, aloe, sukk e rose. Ci si dia da fare nel riscaldare i loro corpi, se la causa del male è il freddo, e nel raffreddarli se la causa è il caldo; e quando li coglie uno svenimento, si faccia loro anche ciò che abbiamo menzionato sullo svenimento: si spruzzi sui loro volti l’acqua fredda, si stringano le loro mani e le loro gambe, si pungano i loro piedi, e si tirino i loro capelli e le loro orecchie. E quando si riprendono, si dia loro da mangiare pane inzuppato in uno šarāb odoroso, e se nei loro stomaci c’è un umore amaro, o dolciastro, gli si dia da bere una quantità di 2 cucchiai di sakanǧabīn con un miṯqāl di iyāriǧ8, o meno se [il paziente] è debole; ma se [la causa] è stata un freddo eccessivo, gli si dia da bere la teriaca.
1 Ibn Sīnā, al-Qānūn fī’l-ṭibb, incipit: La medicina è una scienza da cui si conoscono gli stati del corpo dell’uomo, sani e devianti dalla salute, allo scopo di conservare la salute se è presente e di ristabilirla se è perduta.
2 Accenno alla malattia ‘composita’ (v. più avanti nel passo), che si ha quando due o più malattie si uniscono a formarne una sola.
3 Hippocratis Aphorismi et Galeni in eos Commentarii, XXI, in: C.G. Kühn ed., Claudii Galeni Opera Omnia, XVII B, Hil- desheim, G. Olms, 1965, p. 501: Nam bulimus facultatis est prostratio ab externo frigore profecta, qui ab esurie quidem ortum duxit, famem vero amplius conjunctam non habet.
4 Termine da cui viene l’italiano ‘sciroppo’.
5 Bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione dei datteri, ma il termine può indicare anche il vino. In epoca classica, le bevande alcoliche, vietate nella religione islamica, sono am- messe se prescritte dal medico e inserite in un piano di cura.
6 Pasticche aromatiche macerate in acqua e olio di violette e di muschio, infilate in un filo di canapa, esposte a seccare e consumate entro un anno dalla preparazione.
7 Maisūsan e nuḍūḥāt: rispettivamente una lozione profumata usata per lavare i capelli e profumi che si diffondono per eva- porazione a calore blando (es. il calore del corpo).
8 Sakanǧabīn e iyāriǧ (termini persiani) sono rispettivamente l’ossimele, sciroppo di aceto e miele, ben noto fin dall’anti- chità, e una medicina composta (lat. hiera) di sapore amaro, che stimola l’evacuazione; il miṯqāl, unità di peso variabile nei tempi e nei luoghi, corrisponde a un peso tra i 4 e i 5 grammi.
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