La «cura» in una prospettiva antropologican.57, 2013, pp.2528-2531, DOI: 10.4487/medchir2013-57-2

Abstract

The challenge of global thinking, looking at the local, means having to use scientific and technical knowledge, all the while knowing that it undergoes deep transformations when applied to different economic and social contexts. The key concepts of contemporary medical anthropology illustrate the willingness to broaden the analysis of health and disease, a privileged field of medical knowledge, to encompass data which are ever more linked to representations of specific and distinct local communities. Three major distinctions are used in the analysis of behavior and theories of disease, health care, and consequently: 1) the distinction of the emic-ethical approach 2) The Anglo-Saxon (British) distinction, which breaks the notion of disease down into a triangulation using the terms disease / illness / sickness 3) the peculiarity of aid and relief to the “victim” in contemporary conflicts and wars, which places all humanitarian procedures into “high risk” moral zone.

* Professore ordinario di antropologia, Università di Montreal. Questo testo è una sintesi della relazione presentatata alla Conferenza permanente delle classi di laurea e lauree magistrali delle professioni sanitarie, presso l’Università statale di Milano, il 18 maggio del 2012.

Articolo

La scuola medica di Harvard negli anni 70’, all’avanguardia nel proporre un modello di formazione in costante dialogo con le scienze sociali, introdusse nell’ambito dell’antropologia medica, una genealogia più complessa della categoria della malattia, articolandola nella triade disease illness sickness.

Disease rinviava alla malattia come alterazione biologica, illness ricordava la percezione e l’esperienza puramente soggettiva della malattia, l’attitudine dell’individuo rispetto alle sue aspettative, credenze e pratiche relative allo stato di salute o all’evento malattia. Sickness corrispondeva alla descrizione della malattia nella sua dimensione «sociale»; il modo in cui un gruppo sociale, rappresentava, interpretava, metteva in atto strategie legate alla malattia «socializzata».

Questa triade ha di certo prodotto una rivoluzione nel totemico sapere della biomedicina aprendo un nuovo dialogo sul linguaggio culturale del sintomo, sulla polivalenza causale della malattia, sulla dimensione narrativa della sofferenza, sulla cura del corpo come arena biopolitica, sulla crescente interdipendenza fra alterazione biologica e conflitti sociali. Inoltre la categoria di “cura” ha esteso i suoi confini interpretativi anche alle disuguaglianze sociali, di genere, di minoranze, percorso obbligato per nuove strategie di intervento nei luoghi dove progressivamente crescevano e si contaminavano i pluralismi identitari. Ne sono un esempio gli Stati Uniti e il Canada poichè l’antropologia medica, entrata in un’era di globale riconoscimento scientifico e politico, ha giocato un ruolo di trasformazione nei curricula formativi di tutte le professioni sanitarie.

In Europa e in Italia questa sensibilità si è andata affermando, anche se in ritardo, con una tensione alimentata dai crescenti fenomeni migratori e dalle strategie dell’OMS nei programmi di salute globale. La nozione di «cura» ci sembra al centro di questa costellazione di trasformazioni con una porosità «biopolitica» che possiamo leggere nelle pratiche di controllo dei corpi e nelle politiche di gestione delle popolazioni (Foucault 1990). Si intensificano nuovi protocolli di intervento, norme che tracciano il confine giuridico fra la vita e la morte (pensiamo alla definizione di morte cerebrale, nuove regole che definiscono il normale e il patologico) e infine nuovi diritti di accesso alla cura, dove alla categoria del malato si privilegia quella della vittima. L’estensione paradigmatica della biopolitica sviluppatasi a partire dal pensiero di Michel Foucault, Giorgio Agamben e nella corrente di pensiero che va da Walter Beniamin a Hannah Arendt, ha prodotto quello che potrebbe essere definito un «dialogo in tensione», della contemporaneità. Da qui molti protagonisti dell’antropologia medica critica hanno creato un nuovo campo di riflessione sugli aiuti umanitari, in cui le analisi teoriche e le riflessioni sull’esperienza disegnano un nuovo paradigma della contemporaneità fra esperienze professionali di lavoro in Organizzazioni non governative (ONG) o in diversi organismi internazionali, ruoli di esperti e di consultanti con esperienze di ricerche sul terrono e riflessioni teoriche su forme crescenti di «dominazione terapeutica». Nel momento in cui ci troviami davanti a moltitudini di esseri viventi in fuga dalle violenze, dalle sofferenze vacilla il senso e il limite che accompagnano i diritti umani e si segnala una crisi radicale della nostra contemporaneità. La nozione di «cura» allora, necessariamente amplia il valore etico dell’esercizio biomedico, si pone interrogativi morali dei confini fra i diritti di cittadinanza, i diritti umani e i diritti della Bios: la nozione di cura ha come sfida l’impostazione di un nuovo dialogo fra tecnica e pietas.

In un interessante capitolo del volume Mezzi senza fine, intitolato “Al di là dei diritti dell’uomo”, Giorgio Agamben ci ricorda che “nella generale corrosione delle categorie giuridico-politiche tradizionali, il rifugiato è forse la sola pensabile figura del popolo del nostro tempo e […] la sola categoria nella quale ci sia oggi consentito intravedere le forme e i limiti di una comunità politica a venire” (Agamben, 1996: 21). Il corto circuito fra cura, controllo, sicurezza e gestione diventa nella figura del rifugiato, contraddizione emblematica del nostro mondo occidentale: si è controllati e curati dentro barriere, cancelli, prefabbricati, tende, fili spinati, nella compressione spazio temporale che viene imposta quando esseri umani privi dei diritti di cittadinanza vengono «tutelati» dai militari o dalle organizzazioni umanitarie con mandato internazionale in una zona grigia aporia del diritto alla cura e del non diritto all’ uguaglianza giuridica o sociale.

La grande sfida

Una nuova riflessione critica in antropologia medica apre un nuovo spazio politico della salute con i programmi di lotta all’AIDS in Africa, il trauma in Kosovo o in Palestina, con il progetto Asian tsunami disaster reconstruction della IOM dove nella comunità di Aceh viene coivolta anche la scuola medica di Harvard con il programma CHRP (Community Health Revitalisation Program).

Le strategie di intervento e di cura si modellano sull’urgenza e il malato viene trasformato progressivamente in vittima, (di esclusioni o di violenze, di catastrofi naturali, di conflitti armati). O ancora; le procedure che impongono il diritto alla cura ma nello stesso tempo percorrono le tappe amministrative di espulsione dei clandestini obbligano ad una riflessione complessa sulla contraddizione «globale» che regola la gestione della sofferenza e spingono a a sviluppare un passaggio particolarmente esaustivo da un’antropologia medica critica a un’antropologia della ragione umanitaria fino a prospettare un nuovo orizzonte per un’antropologia politica e morale (Fassin 1996, Fassin, 2009).

Negli ultimi 20 anni assistiamo ad una trasformazione progressiva dell’autorità del sapere e delle pratiche mediche: la logica dei medici senza frontiere e dell’umanitarismo planetario ha inaugurato una nuova stagione “etica” della “cura”. La logica del diritto dovere di ingerenza di curare il malato perchè vittima inerme di conflitti e di sovranità dispotiche si delinea con la semplice domanda “perchè un’azione di ingerenza è necessaria”? E con la semplice risposta perchè un numero crescente di individui, nelle zone di crisi o di conflitti, ci spinge verso imperativi morali pressanti.

Diventano centrali temi di riflessione e trasformazione: il diritto dovere all’intervento medico, all’azione umanitaria indipendentemente da vincoli territoriali, in una rinnovata sensibilità del diritto internazionale.

Dal diritto dovere di ingerenza dei sanfrontieristi del passato alla responsabilità di proteggere del 20051, la biopolitica della sofferenza umana ha trasformato nelle ultime decadi la legittimità degli interventi umanitari, delineando un nuovo paradigma della contemporaneità. Esiste una peculiarità dell’aiuto e del soccorso della «vittima» che pone tutte le procedure umanitarie in una zona morale di «alto rischio»: l’emergenza (la catastrofe umanitaria), l’urgenza (la temporalità di azione) e l’ingerenza (il dovere/diritto all’azione senza vincoli normativi dei singoli Stati) compongono il triangolo dove si consuma una nuova modalità dell’azione politica della «cura».

Da un lato la «cura» contempla la gestione dei corpi, da salvare, da nutrire, da guarire, dall’altro «la cura» appare sempre più interdipendente dal controllo militare o di polizia (come nel caso di Haiti) per gestire simultaneamente l’aiuto e la sicurezza in interventi il cui rischio e quello di perennizzare la crisi, in una crescente e opaca gerarchia di vittime “ideali”.

La costellazione umanitaria, composta da un set di vari attori instituzionali come le organizzazioni non governative, le agenzie delle nazioni unite, la croce rossa internazionale agisce rispondenso all’imperativo: quando si legittima un intervento umanitario? Quando si verificano il deterioramento o la crisi delle autorità centrali governative, i conflitti etnici o religiosi, le violazione dei diritti umani, le carestie e crisi macro economiche, i movimenti di popolazioni in fuga, di popolazioni dislocate di rifugiati .

Di fronte ad un evento che rientra in queste categorie viene messo in atto una serie di azioni, che progressivamente tendono a svincolarsi dalle politiche nazionali specifiche. È un circuito di azioni legato all’idea di intervenire sulla «sofferenza parziale», poichè la sofferenza assoluta, l’evento spesso identificato come «barbarie» o come «catastrofe» non permette azioni di supporto.

Solo quando si sarà prodotta la temporalità della catastrofe, della barbarie (genocidio, stupri, violenze, guerre, epidemie) si potrà legittimare l’azione. L’intervento umanitario nella maggioranza dei suoi atti non è preventivo : ha bisogno dell’evento.

È ormai evidente che il dovere di ingerenza umanitaria si è posto, in questi anni di transizione verso un nuovo ordine internazionale, come un tema politico-morale decisivo. La nuova frontiera etico-politica è stata tracciata dalla guerra civile in Ruanda, dalla Bosnia e l’assedio di Sarajevo e da altri territori della crisi che hanno posto in una nuova dimensione l’esigenza di un nuove misure di protezione, anche militarizzate, contro le violazioni dei diritti umani. In Kosovo la stessa Nato ha dato mandato nel ’99 alla prima guerra umanitaria definendo l’intervento militare legittimo anche se illegale.

Nella logica umanitaria tutti gli atti della «cura» si colorano di nuove regole morali che legittimano il diritto dovere all’ingerenza e sono quasi tutti Medici i protagonisti di questa nuova stagione “etico-politica”. Sono generalmente Europei quelli che progressivamente creano una scena etico-politica innovativa che necessita di un nuovo sistema di regole giuridiche internazionali. E anche se, le tensioni e i conflitti sulla neutralità che l’azione umanitaria deve avere cortocircuiterà i protagonisti o le pratiche imposte per salvare e curare corpi, la grande sfida, in ogni segmento del sapere o delle pratiche delle professioni sanitarie, spingerà verso una dimensione globale in cui i relativismi culturali del passato si traformano in un’acritica dimensione universale del diritto, dovere all’agire.

Bernard Kouchner, Roy Brauman, Jean Christophe Rufin, Gino Strada fondano Médecins sans frontières, Médecins du monde, Emergency, teorizzano la neutralità, la professionalità dell’atto umanitario, teorizzano il dovere e l’urgenza dell’intervento e della cura oltre la neutralità , ponendosi in una zona di «diritto» oltre i diritti delle sovranità nazionali, di fronte al solo imperativo morale: quello della sofferenza della vittima.

Per comprendere dunque la genealogia di quella che oggi viene definita l’antropologia dell’umanitario bisogna ripercorrere dagli anni 1990 il confronto, non sempre facile, fra l’antropologia medica “critica” in Europa e in Nordamerica. In Europa emerge la tensione-dialogo nell’ultimo decennio che sviluppa una crescente posizione critica fra gli stessi protagonisti dell’umanitario arricchita anche da una dimensione di riflessione teorica più ampia che tenta di mettere in risalto i diversi e contraddittori volti dell’umanitario.

In Nordamerica due le linee emergenti: da un lato il dibattito critico sulla legittimità dell’antropologia dello sviluppo che aveva dominato i programmi delle università americane dagli anni ‘60 agli anni ‘80. Dall’altro appare interessante e emblematico il ruolo di Paul Farmer, medico e antropologo, professore di antropologia medica di Harvard e fondatore della ONG Patners in health. Farmer legittima una nuova stagione di partecipazione a programmi di global health, di un impegno “morale” certamente, ma anche di un ruolo di organizzatore “mediatico” per la raccolta di fondi, con un rapporto privilegiato, ad esempio, con la Bill & Melinda Gates Foundation. Dalle epidemie in zona di conflitti, alla turbercolosi nelle prigioni russe, dalla lotta alla povertà e alle epidemie in Haiti l’antropologia medica critica nordamericana appare sempre più impegnata in un coinvolgimento “morale” di intervento, dove ruoli e impegno civile si mescolano con esigenze accademiche e finanziarie dei nuovi programmi sulla salute globale. Pensiamo al coinvolgimento, nel programma dell’IOM in Indonesia, nel post tsunami, di Byron Good e Mary Jo del Vecchio Good di Harvard, le ricerche di Peter Redfield dell’università del Nord Carolina sulla neutralità e sull’etica della professionalità, o ancora di VinKim Nguyen dell’Université de Montreal consultante e esperto di molti programmi sul controllo e cura dell’AIDS in Africa, o il lavoro particolarmente originale sull’economia morale e i diversi volti della ragione umanitatia di Didier Fassin medico e antropologo. Il percorso di questi medici che operano e teorizzano, si arricchisce di orizzonti diversi : l’economia politica, le teorie postcoloniali, la critica all’antropologia dello sviluppo e permette di rinnovare la ricerca antropologica consacrata alla biomedicina occidentale, ai suoi effetti e pratiche nel mondo contemporaneo. L’azione umanitaria come azione di cura che ingloba diritti umani, etica globale e specificità professionale è a tutti gli effetti, il nuovo “fatto sociale globale” rivelatore, attraverso il diritto dovere alla cura delle nuove sensibilità e orientazioni politiche mondiali, delle aporie che si celano fra cittadinanza e bios, dei paradigmi di una nuova emergente governance “terapeutica” (Pupavac 2005), zona grigia fra diritti degli individui e/o diritti dei corpi.

Bibliografia

1) Agamben, Giorgio, 1996 Mezzi senza fine, Torino: Bollati Boringhieri

2) Badie, Bertrand 2002 La diplomatie des droits de l’homme: entre éthique et volonté de puissance, Paris: Fayard.

3) Bettati Mario Droit humanitaire (a cura di) Paris: Editions du Seuil 2000

4) Foucault, Michel 1990 (1975-1976) Difendere la società. Dalla guerra delle razze al razzismo di stato. Firenze, Ponte alle Grazie.

5) Ignatieff, Michael 2003 [2002] Impero light. Dalla periferia al centro del nuovo ordine globale, Roma: Carocci.

6) Pandolfi, Mariella 1990, «Traversing Boundaries: European and North American Perspectives on Medical and Psychiatric Anthropology», numéro spécial de Culture, Medicine, Psychiatry, 14 (2), Harvard University, Kluver Publishers, 2002 «Moral Entrepreneurs», souverainetés mouvantes et barbelés: le bio-politique dans les Balkans postcommunistes, Anthropologie et Sociétés, numéro spécial, Politiques jeux d’espaces, Mariella Pandolfi et Marc Abélès (dirs.), 26 (1):29-50.

7) Pandolfi, Mariella, Didier Fassin (a cura di) 2010 Contemporary States of Emergency. The Politics of Military and Humanitarian Interventions, New York, Zone Books.

8) Pupavac, Vanessa «Human Security and the Rise of Global Therapeutic Governance» Conflict, Security and Development, Vol 5 (2), 2005, pp. 161-181.

9) Rieff, David 2003 [2002] Un giaciglio per la notte. Il paradosso umanitario. Roma: Carocci.

10) Rufin, Jean-Christophe 1999a Pour l’humanitaire. Dépasser le sentiment d’échec, Le Débat, 105:4-21. 1999b Les humanitaires et la guerre du Kosovo, Le Débat, 106:3-26.

Cita questo articolo

Pandolfi, M.,  La «cura» in una prospettiva antropologica, Medicina e Chirurgia, 57: 2528-2531, 2013. DOI:  10.4487/medchir2013-57-2

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