Caro Direttore,
alcune righe per, augurabilmente, suscitare nella sede ufficiale di Medicina e Chirurgia un dibattito su un tema della formazione medica davvero maltrattato.
Comincerò con parole non mie: «… dedicano tempo agli ammalati, li sanno ascoltare, più di quanto non facciano tanti medici. Questo sì che è medicina. E all’università non si insegna a parlare con i pazienti, a coinvolgersi, ad allearsi con loro contro la malattia». E’ il leitmotiv che si ritrova in numerosissime articoli di divulgazione scientifica: nelle Facoltà di Medicina italiane non si insegna nulla sulla comunicazione e sulla relazione con il paziente. E ad affermarlo non sono commentatori inesperti; ad esempio, le parole citate – sul Corriere della Sera – sono di Giuseppe Remuzzi, ricercatore di fama internazionale e osservatore attento di molti aspetti della medicina contemporanea.
In questo numero compare un articolo del nostro gruppo sul Corso di Comunicazione e Relazione nel Polo San Paolo della Facoltà di Medicina di Milano. Il Corso è impegnativo (attribuisce 8 crediti) ed esiste ormai dai 12 anni. Scorrendo la bibliografia dell’articolo, il lettore potrà rendersi conto che, solo su questa esperienza, sono usciti nell’ultimo periodo diversi lavori (ne vengono citati 8). Eppure si continua a sostenere che nelle Facoltà mediche non si insegna a parlare con il malato. Vale la pena di chiedersi (l’abbiamo detto, si tratta anche di commentatori attenti) il perché di questa ‘leggerezza informativa’.
Una prima ragione può risiedere nel fatto che se Milano non rappresenta l’unica eccezione (ci sono corsi in cinque-sei altre Facoltà), nella maggior parte degli Atenei lo spazio dedicato alla formazione alla comunicazione è residuale, confinato nei corsi elettivi, o occasionale. Manca la pratica di un core curriculum, ovvero sembrano essere mancate fino ad oggi da parte del o dei – più probabilmente – SSD implicati in questo percorso culturale la forza e la generosità di saper e voler convergere su iniziative largamente condivise. E, naturalmente, una realtà non coordinata e a macchie di leopardo può essere con facilità sottovalutata o, addirittura, ignorata.
Una seconda ragione, altrettanto convincente, risiede nel fatto che è difficilissimo ottenere, in questo campo, dei risultati convincenti. Possiamo forse dire che gli studenti del Polo San Paolo saranno alla fine dei loro studi più capaci dei loro colleghi nella comunicazione e nella relazione con il paziente? Purtroppo no. A parte la straordinaria difficoltà di questa misurazione (il tema meriterebbe di per se’ una seria riflessione), gli studenti del San Paolo (come quelli provenienti da analoghe esperienze in altre Facoltà) entrano in una miriade di reparti in cui le acquisizioni sulla relazione medico-paziente vengono soffocate dalla pratica di una medicina cosiddetta disease-centred. La sintesi finale inevitabilmente si sposterà in questa direzione. Una diversa sintesi può avvenire solo se tutti – o la maggior parte – dei docenti e dei tutor di una Facoltà preposti alla formazione dei giovani condividano un medesimo modello di medicina in cui venga dato un adeguato spazio all’architettura di una visita centrata sulle esigenze cognitive ed emotive del paziente.
Il percorso che ci separa da questa meta è davvero lungo e tortuoso; nel frattempo teniamoci pronti a subire altre reprimende: nell’università italiana non si insegna a parlare con i malati…
Egidio A. Moja
Professore Ordinario di Psicologia Clinica
Facoltà di Medicina e Chirurgia
Università degli Studi di Milano