Le linee guida e i loro effetti sulla colpa penale medican.59, 2013, pp.2650-2651, DOI: 10.4487/medchir2013-59-6

Abstract

It is contrary to common sense to speak about a medical criminal liability. The doctor works for the purpose of the patient’s health and it is absurd, at the same time, is liable for the damage to his physical integrity. In this direction it is very important the new provision in the law 189/2012 which gives a restrictive effect of criminal responsibility to comply with the guidelines by the physician.

Articolo

Quello della responsabilità penale del medico è un settore che va affrontato oggi con molta delicatezza e attenzione, e questo per molte buone ragioni.

Una di queste è che già il semplice parlare di responsabilità penale del medico, almeno con riferimento alle ipotesi colpose, sembra stridere con il comune buon senso. Risale a parecchi anni orsono una descrizione molto efficace di questo paradosso che evoca l’immagine di una professione finalizzata a fare il bene e, tuttavia, troppe volte sul banco degli imputati per la lesione dell’integrità fisica del paziente.

Senza alcun sofisma, è necessario evidenzia- re questo forte scollamento tra la realtà delle cose guardata con gli occhiali del buon senso e la disciplina che la nostra legge stabilisce per determinati accadimenti. Un simile rilievo, tuttavia, per importante e significativo che sia, non toglie nulla al problema ma, anzi, semmai lo acuisce. Quel che occorre per far pace con la realtà è piuttosto una modificazione delle norme.

Questa breve premessa già consente di cogliere il senso e la portata della disposizione introdotta con l’art. 3 del c.d. decreto Balduzzi in materia sanitaria, convertito con la legge 189 del 2012, in base alla quale “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.

Il primo dato che emerge è proprio il riferimento espresso alla responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria e la sua “limitazione” ai soli casi di (dolo) e colpa grave. E’ corretto quindi affermare che la nuova norma rappresenta proprio quella modificazione del diritto (o quanto meno di una parte) necessaria a superare il divario tra la legge e la realtà, anche e soprattutto considerando che sono proprio i reati colposi il vero problema da risolvere (sia perché sono quelli normalmente contestati ai medici, sia perché una condanna fondata sull’imperizia può produrre sulla reputazione del medico pregiudizi particolari). Una valutazione d’insieme sembrerebbe por- tare ad un apprezzamento positivo per la riforma, considerandone lo spirito, le intenzioni ed il fatto che, come affermato di recente dalla Corte di Cassazione, si è di fatto attuata una vera e propria depenalizzazione dei reati colpo- si commessi dal medico con colpa lieve. Volendo approfondire, tuttavia, la formulazione della norma presta il fianco a molte obiezioni. A questo riguardo, basti ricordare che con ordinanza del 21 marzo 2013 il tribunale di Milano ha sollevato la questione di illegittimità costituzionale della norma in questione sulla base, in verità, di molte ragionevoli argomentazioni, la più efficace delle quali è probabilmente quella dell’estrema genericità e vaghezza del riferimento alle linee guida. Più nel dettaglio, il discrimine tra il lecito e l’illecito sta prima di tutto nel rispetto o meno delle linee guida e delle buone pratiche accreditate presso la comunità scientifica. Già il significato dell’espressione utilizzata non è di immediata comprensione. Ancora una volta, il comune buon senso, vorrebbe che, date delle linee guida e accertata la loro osservanza, il giudizio di responsabilità debba essere necessariamente negativo. La realtà, tuttavia, è un’altra, e cioè che di linee guida ce ne sono molte e di molti tipi. In sostanza, posto che le linee guida rappresentano una serie di indicazioni, generiche e non specifiche, direttive di massima più che precetti, che indirizzano l’attività del medico in alcuni casi, è pur vero che uno stesso fenomeno può essere trattato in modo diverso da linee guida regionali, nazionali, europee e così via. Alla base di queste direttive, infatti, stanno ovviamente degli studi e delle ricerche le quali, giocoforza, risentono di una serie di fattori quali la provenienza dei fondi impiegati, gli interessi della committenza, il metodo utilizzato e la sua oggettività. Va da sé che a seconda del parametro preso in considerazione potranno quelle linee guida essere considerate più o meno attendibili. Queste considerazioni sono state espresse dalla Corte di Cassazione che, nella prima sentenza applicativa della nuova disposizione (Cass. pen., sez. IV, 29 gennaio 2013, n. 268), con spirito costruttivo ha cercato di interpretare la norma valorizzandone il significato piuttosto che abbandonarsi ad una mera critica di essa. Più in particolare, la Suprema Corte ha valorizzato quel requisito dell’accreditamento delle linee guida presso la comunità scientifica per valutare la condotta del medico. Non ogni linea guida, in sostanza, esonera da responsabilità, ma solo quelle che godono di un certo grado di apprezzamento e condivisione preso la comunità scientifica, evidenziando la figura del medico come professionista attento al sapere scientifico che connota la sua professione. Il grado di condivisione delle linee guida concretamente osservate sarà l’oggetto di un accertamento compiuto dal giudice penale che inevitabilmente si avvarrà dell’aiuto di esperti i quali, in verità, non saranno chiamati a rendere soltanto la loro autorevolissima opinione su come l’imputato avrebbe potuto o dovuto agire ma soprattutto se il modo in cui egli ha concretamente operato sia la rappresentazione di modalità tecniche accreditate presso la comunità dei medici. Ove il medico abbia rispettato linee guida o buone pratiche di questo genere andrà esente da responsabilità penale per colpa live e con riguardo ai reati colposi di volta in volta con- testati. Sul punto si impone una precisazione. Perché si produca l’effetto di esenzione da responsabilità è necessario che l’evento lesivo in concreto verificatosi sia stato causato proprio dal comportamento del medico rispettoso delle linee guida, ovvero che sia stato determinato proprio dal comportamento conforme a quelle regole di perizia ivi contenute.

Le linee guida, in effetti, contenendo regole tecniche, limitano la responsabilità del medico solo quando questa sia dovuta ad imperizia e non invece anche nei casi di negligenza e imprudenza. Il medico, infatti, è chiamato in ogni caso a tenere un comportamento ispirato a diligenza e prudenza ed in caso di inosservanza di questi due canoni fondamentali risponderà sia in caso di colpa grave che in caso di colpa lieve.

Esemplificando, qualora il medico abbia agito nel pieno rispetto delle regole di perizia poste dalle linee guida ma nel corso del trattamento medico si sia allontanato lasciando il paziente alle cure di un infermiere, è evidente che, qualora si verifichi una complicazione in questa fase ed il paziente ne ricavi una lesione, quest’ultima sarà oggettivamente riferibile all’imprudenza o alla negligenza del medico, non avendo nulla a che fare con il rispetto delle linee guida (questo caso è stato concretamente affrontato proprio dalla Cassazione nei mesi scorsi trattando dell’ipotesi di un medico ginecologo che aveva lasciato la partoriente alle cure della sola ostetrica allontanandosi dalla sala operatoria).

Allo stato attuale, pertanto, è possibile concludere affermando come il rispetto delle linee guida sia consigliabile, rappresentando in una certa misura un indizio dell’assenza di colpa, per riprendere le affermazioni della Corte di Cassazione, anche se è pur sempre necessario che il medico, in quello spazio valutativo personale e professionale rappresentato da “scienza e coscienza”, valuti pur sempre se il suo operato sia o meno in linea con le migliori prassi adottate nel mondo sanitario.

Nell’attesa che la Corte Costituzionale si pronunci sulla costituzionalità della disposizione commentata non si può comunque fare a meno di rilevare come lo spirito costruttivo che ha animato la Cassazione sia sicuramente condivisibile anche se, e questa volta ci sia concesso un margine di critica, bene farebbe il legislatore a ripensare seriamente ed organicamente al problema, evitando di consegnare il destino del medico a margini troppo ampi di discrezionalità tecnica del giudice e imboccando la strada di una radicale eliminazione della responsabilità penale colposa del medico.

Cita questo articolo

Callipari N., Le linee guida e i loro effetti sulla colpa penale medica, Medicina e Chirurgia, 59: 2650-2651, 2013. DOI:  10.4487/medchir2013-59-6

Il consenso informato e i soggetti fragilin.56, 2012, pp.2485-2486, DOI: 10.4487/medchir2012-56-4

Abstract

The informed consent comes normally from a major person, who has the control on his life and the capacity to decide for his own. But there are many cases in which the patient has not the age asked by law to give the authorization to the medical treatment, although he understands the situation and could decide for himself. In this sense too we speak about a weak person.

Articolo

Ai fini della piena comprensione del significato e della portata dell’istituto del consenso informato è essenziale calarsi in una nuova e diversa prospettiva  rispetto ad affermazioni da tempo oramai consolidate e mai più poste in discussione sia in dottrina che in giurisprudenza. Si allude, in particolare, alla pretesa unitarietà concettuale del fenomeno del consenso informato, vale a dire della sostanziale sovrapposizione tra il momento informativo e quello propriamente volitivo.

Alla base di questa costruzione vi è un ragionamento indubbiamente corretto, almeno in partenza. In particolare, com’è noto, l’affermazione del diritto del paziente al consenso informato trova origine e fondamento costituzionale, nella misura in cui, richiamando gli art. 2, 13 e 32 Cost., si pone l’accento sulla concezione personalista espressa dalla nostra Carta Costituzionale. Non vi sarebbe alcun rispetto della dignità umana, intesa come diritto fondamentale, nonché della stessa libertà personale e del diritto alla salute, qualora fosse possibile praticare un trattamento medico chirurgico indipendentemente dalla volontà del paziente.

Questa è la ragione per la quale l’art. 32 Cost. afferma il principio della volontarietà dei trattamenti sanitari e stabilisce il vincolo della riserva di legge per quelli di natura obbligatoria che siano necessari per tutelare anche la salute collettiva.

A queste considerazioni certamente condivisibili, tuttavia, se ne è aggiunta un’altra che in questa sede si intende porre in discussione. Si è detto, in sostanza, che un vero consenso, per essere tale, dovrebbe essere anche consapevole e, poiché è assai difficile esser consapevoli senza essere informati, ne deriva che non vi può essere altro consenso che quello informato.

L’assunto contiene una parte di verità nel momento in cui lega il consenso all’informazione, considerando i due aspetti come due facce della stessa medaglia ed evidenziando il rapporto di strumentalità dell’informazione rispetto al consenso. Ciò che questa concezione unitaria rischia però di far passare è un’impropria sovrapposizione tra l’informazione ed il consenso la quale porta a sua volta a svalutare l’autonomia dei due concetti ed a considerare la prima come un mero accessorio del secondo.

Si tratta di un risultato erroneo che nella realtà dei fatti determina uno svilimento del momento informativo che viene ad essere totalmente appiattito sul consenso.

L’attività informativa del medico va posta su un piano autonomo rispetto al consenso e ne va pertanto rinvenuto un altrettanto autonomo fondamento giuridico. Non trovandosene menzione nella Costituzione, che parla invece del consenso, la fonte dell’obbligo di informare il paziente non può che esser ravvisata nello stesso rapporto che lo lega al medico o alla struttura sanitaria. Restando al rapporto con la struttura sanitaria, in definitiva, l’obbligo di informazione trova fondamento proprio nel contratto di assistenza sanitaria.

Il consenso informato deve essere così scomposto in due distinte ed autonome attività con fondamento giuridico diverso: uno di ordine costituzionale, l’altro di natura contrattuale.

Questa precisazione risulterà estremamente utile per comprendere il modo in cui opera il consenso informato con riguardo ai soggetti fragili dei quali in questa sede si intende occuparsi.

La caratteristica del soggetto fragile, almeno in via di prima approssimazione, è quella di essere maggiore di età, e pertanto presuntivamente capace di intendere e di volere, ma al tempo stesso in possesso di una capacità che risulta fortemente menomata a causa dell’età e del decadimento cognitivo. Un soggetto, in sostanza, che, benché presuntivamente capace, in realtà non lo è. A questo punto è necessario in qualche modo collegare questa realtà con la dimensione contrattuale nella quale si inquadra la relazione terapeutica.

E’ noto, in proposito, che la giurisprudenza oramai costante intende il rapporto tra paziente e struttura sanitaria come un rapporto di natura contrattuale, e la contrattualità vale sempre e comunque, senza che abbia rilievo che il paziente sia un minore o altrimenti incapace, salvo poi verificare, caso per caso, chi debba essere il destinatario dell’attività informativa e chi debba esprimere il consenso.

E’ evidente che si pone un problema che ha a che fare con la rappresentanza degli incapaci e con i limiti di tale potere, con la comprensione di quali sono le attività nelle quali vi può essere la sostituzione del rappresentante al rappresentato e quali, invece, le situazioni così personali che non ammettono tale opzione.

Torna utile, a questo proposito, proprio la distinzione posta in apertura di questo contributo con riguardo al diverso fondamento giuridico dell’informazione e del consenso. Si consideri, infatti, che la necessità di ottenere il consenso del paziente, avendo una forte derivazione costituzionale, è presente in ogni caso, sia che si tratti di persona capace sia che si tratti di persona incapace di intendere o di volere. Al contrario, l’informazione, avendo un fondamento giuridico di natura contrattuale, segue necessariamente le regole del contratto. Con riferimento al contratto di assistenza sanitaria trova quindi applicazione la regola posta dall’art. 2 c.c. che fissa nel compimento del diciottesimo anno di età il momento di acquisizione della capacità generale di agire.

Questi principi in apparenza così lineari creano non poche tensioni e incongruenze con riguardo alla categoria dei soggetti c.d. fragili. Per definire più compiutamente tale categoria, alla quale già si è in precedenza accennato, occorre rilevare che la realtà si mostra molto più complessa delle previsioni astratte. Non esistono solo i soggetti maggiorenni e pienamente capaci, così come non esistono, dall’altro lato dell’alternativa, solo quelli che, minorenni o maggiorenni, siano privi della capacità di intendere e di volere  e necessitino del ricorso agli strumenti della rappresentanza. Tra queste due categorie, infatti, se ne distingue una terza che potremmo definire intermedia.

Esistono persone, infatti, che sono sì minorenni ma al tempo stesso sono in possesso di una buona capacità di discernimento, e così risultano in grado di comprendere la portata ed il significato delle proprie azioni, e, ancora, persone che, sebbene maggiorenni, soffrono per motivi di età o per situazioni emozionali di natura anche solo transitoria una riduzione della capacità naturale.

Costoro sono i c.d. soggetti fragili e si tratta di una categoria di non scarsa importanza soprattutto considerando la consistenza numerica dei pazienti in essa inquadrabili.

Se si ha riguardo a questo gruppo di soggetti è evidente che i principi generali entrano giocoforza in rotta di collisione. Accanto al momento costituzionale, che opera sempre e comunque, si pone infatti la disciplina contrattuale che, invece, non può non tener conto della capacità del soggetto. Tutto questo crea una situazione ben difficile da gestire, foriera peraltro di una conseguenza a dir poco paradossale: applicando in questi casi i principi generali e contemperando questi ultimi, per ovvie ragioni di realismo, con considerazioni che in qualche misura ad essi derogano, si finisce col creare un regime giuridico solo in apparenza certo, dal momento che le eccezioni diventano numericamente superiori alle regole nella pratica applicazione.

Ecco, allora, che potrebbe essere davvero utile chiedersi se in un contratto fantasma, al quale il legislatore non ha ancora deciso di metter mano, lasciando il difficile compito della pur necessaria regolamentazione ad interpreti e giudici, valga davvero la pena di continuare ad applicare la regola generale in materia di capacità di agire oppure, come accade per altri contratti ed istituti, prevedere una regola diversa. Questa regola, a nostro modo di vedere, dovrebbe rendere sufficiente un età diversa e inferiore rispetto a quella ordinaria per quanto riguarda la conclusione del contratto e l’esercizio dei diritti da questo derivanti e che, in ogni caso, faccia riferimento alla sola sua capacità di intendere e di volere, trattandosi di un contratto che coinvolge chiaramente i diritti fondamentali della persona.

In conclusione, la regola della capacità di intendere e di volere, rapportata al coinvolgimento di valori personalistici di portata costituzionale, pare più che corretta, coordinandosi, peraltro, con gli istituti della rappresentanza legale con riferimento a tutti i soggetti privi della capacità naturale.

Cita questo articolo Callipari N., Il consenso informato e i soggetti fragili, Medicina e Chirurgia, 56: 2485-2486, 2012. DOI:  10.4487/medchir2012-56-4

Dal concetto di “consenso informato” a quello di “consenso condiviso”n.54, 2012, pp. 2417-2419. Doi: 10.4425/medchir2012-54-8

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Informed consent is more than a simple authorization collected from the patient; instead, it is the beginning of a biunivocal process in which the patient is directly involved in its health’s choices. Each patient is unique and unique is the medical approach as unique is the way the patient copes with his/her disease. The informed consent therefore becomes a condivided consent in which the major role is played by the constant dialogue. At this point the patient will be able to operate an intelligent consent. Beginning from university, doctors should train in communication skills by offering them dedicated communication courses.

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[tab name=”Articolo”]

Sicuramente oggi possiamo affermare che la relazione tra medico e paziente si inserisce in un contesto culturale del tutto diverso rispetto a qualche decennio fa. Nella moderna società il cittadino conosce, infatti, gli enormi successi e progressi della medicina, che ha raggiunto un grande livello scientifico-tecnico. La medicina contemporanea, infatti, rende possibili e plausibili molteplici iniziative diagnostiche e cure terapeutiche di diversa invasività e rischiosità che esigono la ponderazione di una molteplicità di elementi valutativi che non sempre sono di esclusiva competenza medica, ma che implicano necessariamente il coinvolgimento del paziente.

Sotto questo profilo si assiste ad una maggiore partecipazione del paziente alla cura medica, ciò soprattutto grazie alle varie fonti di informazione a cui può accedere il cittadino. Si pensi all’incidenza di internet nella ricerca delle informazioni in materia sanitaria che ha permesso ai pazienti di apprendere ed approfondire la propria conoscenza sulle tematiche di salute, malattie e possibili trattamenti terapeutici.  Sulla base di una ricerca condotta a livello europeo da una società indipendente di analisi di mercato (“Datamonitor”), è emerso che i cittadini europei hanno cercato informazioni relative alla salute, oltre che attraverso i tradizioni mezzi quali ad esempio le  riviste scientifiche , attraverso fonti di informazione online, permettendo così agli stessi di aumentare la consapevolezza sulla propria condizione di salute e sulle possibili cure esistenti. Certamente il ricorso al web ha permesso ai cittadini di svolgere un ruolo sempre più attivo nel rapporto clinico, ma è opportuno altresì evidenziare come ancora oggi l’utilizzo di Internet non può dirsi soddisfacente ai fini di un’adeguata informazione, posto che molto spesso le notizie presenti online sono ancora inaffidabili ed incomplete. Seppure inadeguato nella qualità dei contenuti offerti, il web è riuscito, pur tuttavia, ad incrementare il dialogo tra il medico e il paziente.

In questo nuovo contesto socio-culturale il medico necessariamente deve prendere coscienza del nuovo ruolo dell’assistito, assumendo un approccio che coinvolga quest’ultimo nel processo decisionale in ordine alle cure terapeutiche. Si assiste, infatti, ad un ripensamento del rapporto medico-paziente, ove ha un valore fondamentale la persona del paziente e la sua libertà di scelta in ordine alla propria salute, libertà che si esprime attraverso il consenso dato dal paziente stesso dopo essere stato adeguatamente informato.

Ed invero, fino ad oggi, i medici hanno recepito la problematica del consenso in termini riduttivi, nel senso che hanno considerato il consenso informato come un fastidioso obbligo informativo che esulerebbe dalla propria attività medica, non cogliendo, invece, la reale natura e portata dell’istituto del consenso svuotandolo del suo significato, non solo giuridico, ma anche etico.

Il consenso da parte del paziente, infatti, non deve rappresentare una mera formalità “burocratica” tramite un’affrettata apposizione di una firma su un modulo prestampato. Sul punto, va sottolineato come la prassi di far sottoscrivere al paziente un generico formulario precompilato abbia svuotato di ogni significato il concetto di “consenso informato”, vissuto come una imposizione esterna dalla quale difendersi, posto che il semplice modulo viene utilizzato dai professionisti per precostituirsi una prova scritta da esibire in una eventuale causa intentata avanti l’autorità giudiziaria da parte di pazienti, oggi sempre più insoddisfatti del rapporto che si è venuto ad instaurare con la classe medica. L’atteggiamento assunto dai medici, infatti, ha condotto alla c.d. “medicina difensiva”, orientata ad una prassi poco incline al rispetto della dignità della persona.

Al fine di uscire da questa empasse è necessario ricostituire un sereno rapporto fiduciario tra medico e paziente e, per raggiungere questo obiettivo, sicuramente appare necessario un mutamento di atteggiamento da parte dei medici, che non devono più sentire il consenso come un obbligo estraneo, bensì come un processo di partecipazione.

Non momento in cui il consenso informato viene assunto come partecipazione attiva del paziente a scelte importanti, tra alternative terapeutiche possibili, che ricadono sulla sua aspettativa e qualità di vita, l’informazione da parte del medico non deve più essere avvrtita come uno strumento volto ad ottenere un semplice “assenso” del paziente, ma deve assurgere a “presupposto” di una relazione effettiva, nella quale il medico coinvolga il paziente. Si osservi, infatti, come l’informazione in sé e per sé non comporta necessariamente la partecipazione attiva del paziente, in quanto il messaggio verbale unidirezionale tra medico e paziente può essere non compreso da quest’ultimo. E’ importante, invece, che il medico renda possibile una reale partecipazione del paziente e ciò può avvenire attraverso non una semplice “informazione”, ma una “comunicazione” che permetta uno scambio bidirezionale tra medico e paziente. In tal modo l’informazione si inserisce in un dimensione comunicativa, nell’ambito della quale viene preso in considerazione il vissuto della singola persona e soprattutto la sua esperienza soggettiva, posto che il medico si relaziona ogni volta con il singolo individuo con la sua unicità e complessità. Nella relazione terapeutica, infatti, il paziente vive un’esperienza che influisce nel suo modo di percepire la malattia e che nella maggior parte dei casi sconvolge la propria vita.

Deve essere pertanto superata l’idea che l’informazione contenga in sé la comunicazione. L’informazione innesca un complesso processo che coinvolge la relazione almeno tra due soggetti, ossia medico e paziente, e che non può essere compiutamente realizzata se non è sostenuta dall’ascolto e soprattutto dalla comunicazione bidirezionale con il paziente. La comunicazione, dunque, esprime un processo di costruzione collettiva e condivisa della cura terapeutica, o meglio un processo di consapevolezza orientato a costruire e a dare un significato all’informazione e comporta, inoltre, un diverso livello partecipativo orientato verso la realizzazione di una umanizzazione del rapporto tra medico e paziente.

Di qui sarebbe più corretto parlare non tanto di “consenso informato”, quanto piuttosto di “consenso comunicato” perché solo in tale modo si potrà ottenere una partecipazione attiva del paziente alla decisione medica, partecipazione che deve essere costruita lungo tutto l’arco di tempo della cura e dunque della relazione medico-paziente. Non va invero sottaciuto il fatto come spesso il corso della malattia possa cambiare la percezione che il paziente ha del proprio vissuto e così come la malattia stessa possa evolversi nel tempo. La relazione terapeutica deve essere, pertanto, continua: il dialogo tra medico e paziente deve essere non solo effettivo ma anche continuo.

Il consenso è, infatti, un processo che esso stesso si modifica nel tempo: il paziente, sulla base di ulteriori informazioni o del proprio vissuto della malattia, può cambiare idea.

Le informazioni cliniche devono, pertanto, diventare un momento della comunicazione e per far ciò le informazioni di per sé non sono sufficienti, perché una cosa è riferire nozioni al paziente, magari procurandogli incertezze e paure, altra cosa è giungere ad un rapporto comunicativo, ove assumono un ruolo fondamentale l’ascolto e il dialogo con il paziente.

Sicuramente per ottenere un consenso consapevole e partecipato, è necessario che esso sia preceduto da un attento ascolto da parte del medico e da un effettivo dialogo con il paziente. Il consenso deve essere, dunque, non solo informato ma anche condiviso.

Oggi il paziente ha bisogno di condivisione più che si semplice informazione, nel senso che egli sente sempre più l’esigenza che la decisione sulla cura sia adottata insieme al medico, attraverso un rapporto dialogico.

Consenso informato-condiviso significa, dunque, che il paziente esprime la propria volontà di sottoporsi o meno ad una determinata terapia soltanto a seguito di un dialogo con il medico che lo abbia informato sulla diagnosi, sulle conseguenze, sui rischi e sulle scelte terapeutiche alternative.

Nel momento in cui si giunge ad una determinazione del trattamento terapeutico attraverso la condivisione, si può senz’altro affermare che il paziente manifesta in modo consapevole il proprio assenso o dissenso al trattamento stesso.

In tal modo si assiste ad una condivisione delle conseguenze e dei rischi della scelta clinica, per la quale è necessario che il medico coinvolga il paziente per renderlo partecipe nelle scelte e si assicuri che quest’ultimo comprenda ciò che gli viene riferito.

Tanto ciò è vero che lo stesso Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB), in un parere del 1992, ha precisato che, in caso di malattie importanti e di procedimenti diagnostici e terapeutici prolungati, il rapporto medico-paziente non può essere limitato ad un unico, fugace incontro. Il medico deve possedere sufficienti doti di psicologia, tali da consentirgli di comprendere la personalità del paziente e la sua situazione ambientale, per regolare su queste basi il proprio comportamento nel fornire le informazioni, evitando esasperate precisazioni di dati (percentuali esatte, oltretutto difficilmente definibili, di complicanze, di mortalità, insuccessi funzionali) che interessano gli aspetti scientifici del trattamento. In ogni caso, il paziente dovrà essere posto in condizione di esercitare a pieno i suoi diritti dando vita ad un compiuto e reale processo volitivo rispetto ai rischi ed alle alternative che gli vengono proposte.

Tutte le considerazioni svolte in queste brevi pagine, lascerebbero tuttavia insoddisfatti laddove non si procedesse a una constatazione davvero elementare. La declamazione a gran voce della “condivisione” del trattamento sanitario rimane un esercizio meramente retorico se non si provvede a fornire al medico una preparazione specifica in tema di comunicazione con il paziente.

Per essere chiari, nelle facoltà italiane di medicina non è presente alcun insegnamento volto alla preparazione del futuro medico circa le modalità di approccio e di relazione con il paziente. Ai giovani studenti e laureandi non viene insegnato come gestire il rapporto con il malato e ciò rappresenta una lacuna oggi non più accettabile.  E’ importante, infatti, insistere sulla necessità di introdurre un insegnamento sistematico del metodo di comunicazione, facendo sì che il medico abbia appreso già nel corso degli studi universitari come parlare al paziente e come ascoltarlo. Nel rapporto con il paziente, del resto, assumono un ruolo importantissimo non solo gli aspetti oggettivi e strettamente clinici, ma anche quelli soggettivi ed emotivi dell’assistito. Il medico deve saper tenere nella giusta considerazione anche il vissuto del singolo paziente che a lui si rivolge.

E’ fondamentale, in sintesi, che il mondo clinico percepisca la necessità impellente di una condivisione del trattamento sanitario con il paziente., attraverso la creazione di un sistema più evoluto che implica la conoscenza e la partecipazione dei medici. Questo risultato, giova ribadirlo, può esser raggiunto in gran parte attraverso l’introduzione di metodi formativi adeguati nei corsi universitari e di specializzazione, in modo tale che un corretto approccio comunicativo con il paziente divenga parte integrante e non secondaria del bagaglio culturale e professionale dei medici di oggi.

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[tab name=”Cita questo articolo”]

Callipari N., Dal concetto di consenso informato a quello di consenso condiviso, Medicina e Chirurgia, 54: 2417-2419, 2012. DOI: 10.4425/medchir2012-54-8

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