Quale formazione per i laureati in Medicina? Scienziati applicati al malato o Medici che si prendono cura della persona?n.61, 2014, pp.2720-2722, DOI: 10.4487/medchir2014-61-2

Abstract

Recently American medical education literature has argued about the failure of a curricular predominance of biomedical science to realize the ideal of the “good doctor”1-3; biomedical science should be conceptualized as just one form of knowledge in medical education, albeit an important one . Contrast opinion argued that doctors do not need preparation in the kind of philosophical thinking, but rather they should be prepared to be “applied scientists”, that is doctors who bring the patient and biomedical science into apposition in an attempt to maximize health benefit, and act as an intermediary between the human and the increasingly complex, autonomous universe of technology3. In this sense, maximizing health benefit is a normative idea, and the very concept of “health” hinges on what we value  in a human life. The scientist-doctor has several social responsibilities, all of which are aimed at bringing about improved health outcomes. Defining these aims implicate the limitations of the sole scientific knowledge and skills, as not equipped to address issues of value. Actually the technically skilful application of scientific and technological resources alone does not make one a doctor, for that, one also needs to be able to reach a thoughtful professional judgment about what the patient needs are that this skilful application are believed to served. Such values cannot exist as values in the abstract form, but they need to be defined in a normative standpoint and applied in the form of specific teaching strategies. 

Articolo

Le recenti prove di ammissione alla facoltà di medicina tenutesi in tutta Italia hanno evidenziato che questa facoltà continua ad essere la più ambita dai giovani che escono dal liceo o da un istituto tecnico o professionale. Le domande di iscrizione di quest’anno sono infatti aumentate di oltre il 20% rispetto all’anno scorso, con un rapporto tra domande e posti disponibili, a livello nazionale, di 8 a 1. Questo significa che solo uno studente su otto ha raggiunto il punteggio minimo per qualificarsi idoneo all’iscrizione. L’evento ha suscitato scalpore sui giornali e sui media, non solo per l’alto numero di richieste, ma ancor di più per le modalità di ammissione alla facoltà stessa tramite i test di ingresso (quiz a risposta multipla), considerati da molti del tutto inadeguati per una ponderata selezione di candidati dotati di caratteristiche intellettuali e umane adeguate per diventare futuri dottori in medicina. Tuttavia poco o nulla si è scritto e detto su quale tipo di medico la società vuole avere, quale formazione debba essere adottata per avere medici adeguati a far fronte ai nuovi bisogni della società, quale formazione medica deve perseguire l’università nei confronti della società. In altre parole non si è affrontata la domanda: Qual è il compito e il mandato del medico nella società del 21° secolo?

Una risposta a questa domanda non può essere elusa. Il medico infatti svolge nella società un compito professionale di grandi responsabilità, individuali e sociali, tutte indirizzate a ottenere migliori condizioni di salute della popolazione. Ora, la società odierna ha assistito in questi ultimi decenni, tra il finire del secolo scorso e l’attuale,  a profondi cambiamenti, da attribuire principalmente alle migliorate condizioni di vita, all’aumento del livello socio economico, all’estesa attuazione della prevenzione primaria e secondaria di molte malattie, agli enormi progressi delle scienze bio-mediche e delle tecnologie applicate, alla scoperta di nuovi farmaci. Questi progressi  hanno portato a un significativo aumento della vita media, all’adozione di schemi terapeutici che hanno consentito non solo di guarire tante malattie acute, ma anche di stabilizzare molte malattie croniche degenerative, con la conseguenza di un aumento non solo della vita media, ma anche del sommarsi di più malattie croniche nello stesso individuo, spesso invalidanti, che richiedono molteplicità di cure, di controlli medici e di assistenza. Questo impegno ha raggiunto proporzioni rilevanti, con aumento notevole della spesa sanitaria, a fronte di una crisi economica che investe l’intero l’occidente. Le conseguenze a livello politico si traducono in decisioni  impopolari di risparmio sulla spesa pubblica, con restrizioni dell’ assistenza gratuita e dei posti letto ospedalieri.

Tuttavia vi è un argomento di particolare criticità che non è mai stato affrontato. Non ci si chiede infatti chi ha in mano la penna per prescrivere accertamenti diagnostici, ricoveri ospedalieri o nuove terapie; non ci si chiede se non vi sia un eccesso diagnostico e terapeutico, o il perché di tanta medicina difensiva da parte di molti medici.

Ecco allora diventare prioritario il tema della formazione del medico. Se l’università vuole mantenere la responsabilità della formazione di persone che intendono diventare medici, la domanda cruciale è: che cosa deve dare l’Università a queste persone? E quali indicazioni è in grado di dare la stessa società all’università, in merito a questa rilevante domanda che riguarda pienamente e totalmente la società stessa? E di quale formazione si sta parlando?

La risposta è duplice a seconda di come si interpreta la persona, sana o malata, e il ruolo del medico. Da un lato si afferma che i dottori in medicina devono avere una preparazione esclusivamente scientifica da applicare al malato, devono essere cioè, come li definiscono gli anglosassoni, degli applied scientists o scientist-doctors. Dall’altro si sostiene che i dottori in medicina devono essere medici colti e competenti di scienze mediche, esperti nella cura della persona malata1-3. La differenza è importante: nel primo caso la formazione medica rimane ferma alla fase di acquisizione e di applicazione di conoscenze scientifiche, senza considerare chi e come le riceve; nel secondo caso la preparazione del medico comporta l’acquisizione anche di competenze e di esperienze di pratica medica indirizzate al singolo individuo, con lo scopo di risolvere i suoi problemi medici e comprendere i bisogni di salute della persona. Nel primo caso è sufficiente acquisire e applicare conoscenza scientifica, nel secondo caso il medico ha anche bisogno di una formazione antropologica, etica e morale. Si dirà che questa seconda proposta è sicuramente desiderabile, addirittura ovvia, da non mettere in discussione. Tuttavia la realtà dei fatti smentisce questa convinzione e questa prassi, in quanto l’attuale formazione del medico e l’odierno curriculum degli studi sono pressoché totalmente incentrati (non solo nel corso di laurea in medicina, ma anche nei corsi di specializzazione), sulla sola trasmissione e acquisizione di conoscenze scientifiche e di abilità tecniche.

Il medico non può essere semplicemente uno scienziato che applica la scienza biomedica al malato nel tentativo di rendere massimi i benefici della salute, agendo quasi da intermediario tra l’umano e l’universo tecnologico a lui disponibile, come recentemente sostenuto in alcune sedi1 e anche in Italia. E questo innanzitutto perché il medico, nel suo compito prioritario  di rendere migliore la salute delle persone, assume delle responsabilità sociali, quali il coinvolgimento dei pazienti, la valutazione critica dei bisogni del malato, la determinazione del rischio e l’uso adeguato delle risorse, alle quali responsabilità può far fronte solo se possiede conoscenze e competenze che esulano dalla pura scienza biomedica e tecnologica. Nessuno infatti mette in discussione che lo scopo del medico sia quello di rendere migliore la salute delle persone, ma piuttosto si discute il fatto che rendere migliore la salute delle persone sia un concetto ovvio, cioè si spieghi da solo! Il punto cruciale è che rendere migliore la salute delle persone non è un obiettivo perseguibile con la scienza, cioè non è passibile di spiegazione scientifica, ma è un concetto normativo, vale a dire strettamente connesso con il valore che il medico dà alla vita umana. Nell’ipotesi che i medici siano da considerare semplicemente degli esperti dotati di conoscenza scientifica e di abilità tecniche da applicare ai malati ogniqualvolta ALTRI decidono che tale applicazione è necessaria allo scopo di rendere migliore la salute delle persone, allora la tesi sopra riportata è da considerare sensata e accettabile. Tuttavia occorre ribadire che i medici non sono semplicemente dei tecnici, seppure esperti nell’ applicazione di una scoperta scientifica o di un protocollo o di una linea guida, ma sono dei professionisti e come tali dotati di capacità di giudizio critico e di decisione clinica razionale. Ma un giudizio professionale richiede conoscenza e comprensione della bontà di una pratica professionale, cioè richiede una valutazione di merito, valutazione che si compie nel momento del trasferimento della decisione razionale (basata sulle conoscenze scientifiche) alla realtà concreta. Questa valutazione di merito presuppone il riferimento a principi e a valori, quali il buono, il vero e il giusto, che richiedono di esser definiti nella loro tipologia, valutati criticamente, acquisiti a livello intellettivo, razionale e applicativo. La scienza, sia pura che applicata, non è dotata di questa capacità di valutazione, in quanto non è strutturata per definire concetti di valore. La scienza stessa sussiste ed è resa possibile grazie ai presupposti metafisici di aspirazione alla verità e grazie alle scelte etiche di bene, di comprensione e di armonia che ogni ricercatore più o meno coscientemente si è dato4-6.

In secondo luogo, occorre precisare che il medico applica le sue conoscenze e la sua esperienza a una persona che a lui si rivolge per chiedere una salute migliore. Orbene, il concetto di persona presuppone l’esistenza di un essere razionale dotato di autonomia e individualità, ma anche capace di relazione, di alterità, di partecipazione alla vita nel consesso degli uomini. Pertanto la persona che chiede al medico migliore salute, non si attende solo una spiegazione scientifica degli eventi che hanno alterato la sua salute, ma anche una comprensione e una partecipazione alla  sofferenza e al suo vivere, attraverso una relazione empatica, non contemplata dalle leggi scientifiche. Queste capacità se parzialmente possono essere innate, esse soprattutto si acquisiscono durante il periodo formativo  da docenti tutori capaci di trasmetterle. Il curriculum degli studi richiede l’inserimento di questa formazione, che riguarda concetti di filosofia, di etica e di morale2. Questa conoscenza non rientra nell’orizzonte della scienza e per questo viene troppo spesso bollata come conoscenza non razionale, ambito della pura soggettività, di iniziativa personale, di buonismo medico, da escludere quindi da ogni curriculum formativo. In realtà le discipline che si occupano del senso della vita e dei valori della conoscenza e delle scelte decisionali sono pienamente razionali, così come lo sono le teorie filosofiche  e le leggi scientifiche7.

Si deve riconoscere pertanto alla scienza proprietà analitiche ed esplicative, cioè in grado di spiegare i fatti sulla base di leggi scientifiche precostituite, formulate su base sperimentale; essa è dotata quindi di spiegazione. La valutazione del merito di una decisione avviene invece sulla base di principi e di valori, i quali esprimono giudizi, mai assoluti, ma orientati al bene e al vero e considerati meritevoli di essere perseguiti per contrastare la dittatura dell’individualismo e dell’egoismo, fattori questi ultimi distruttivi di ogni società7. La valutazione del merito e l’attuazione della decisione avvengono attraverso  la relazione che è partecipazione al vivere dell’altro, è cioè comprensione dell’altro e della sua realtà esistenziale, aspetto questo del tutto trascurato nella formazione del medico di oggi.

Ma non è sempre stato così. In passato la capacità e l’attitudine alla comprensione attraverso la relazione con il malato venivano trasmesse non con insegnamenti dalla cattedra, ma attraverso una esperienza diretta che lo studente aveva con il suo docente durante la visita medica, docente che quasi sempre era anche maestro di comportamento, testimone di valori, di razionalità critica  e di rispetto per il malato. I cambiamenti legati alla modernità hanno portato ad una progressiva ghettizzazione di concetti quali  cultura, etica, logica, valori umani e sociali, senso della vita e dell’esistenza, concetti che una tradizione culturale aveva mantenuto vivi nell’insegnamento universitario fino alla prima metà del secolo scorso, poi gradualmente affievoliti di fronte al modernismo, all’enorme e talora incontrollato sviluppo scientifico e tecnologico e al benessere sociale della seconda metà del secolo passato. Si dirà che a questa crisi di valori si è cercato di far fronte introducendo l’insegnamento delle scienze umane e sociali anche nel corso di laurea in medicina8. Si deve riconoscere tuttavia con tutta onestà il fallimento di tale insegnamento, non solo perché ghettizzato a spazi e tempi marginali, ma soprattutto perché è apparso fin dall’inizio un correttivo, inserito nel curriculum , indirizzato a trasmettere valori e principi considerati come un qualche cosa di esterno al processo formativo stesso, senza che una vera comprensione di questi argomenti etici e morali potesse in realtà costituire una parte integrante della formazione medica e di ciò che significa diventare un medico colto e formato e fare il medico nella relazione con i pazienti9. Il fallimento dell’insegnamento delle scienze umane nel curriculum formativo del medico non è solo fenomeno italiano, ma riconosciuto anche nei paesi anglosassoni1, tanto che il filosofo e teologo americano William Stempsey (1999) lo ha definito come “la quarantena delle scienze umane”.

Un’altra considerazione merita rilievo. I principi che ispirano l’agire e il decidere in medicina e i valori che ne costituiscono il presupposto possono essere tramessi solo da docenti dotati di tali caratteristiche e capaci non solo di insegnarle, ma soprattutto di viverle nella loro attività medica quotidiana di corsia o di ambulatorio. A fronte di questa ineludibile verità, il colpo di grazia all’ esclusione di tale formazione dal curriculum degli studi medici sta per essere inferto dall’attuazione della vigente legge che regola i concorsi universitari e l’arruolamento dei docenti, non solo nella facoltà di medicina, ma nell’intera università. Si tratta della cosiddetta “legge Gelmini” (dal nome del ministro dell’università e della ricerca che l’ha proposta), promulgata nel dicembre 2010 allo scopo di por fine agli scandali dei concorsi universitari, documentati  in molte sedi ed enfatizzati dai media.  Orbene, l’accesso alla valutazione nazionale, che consente di ottenere l’abilitazione per accedere poi alla nomina di professore universitario nelle singole sedi universitarie,  richiede la presentazione di un curriculum esclusivamente scientifico, basato cioè sulle pubblicazioni del candidato  su riviste scientifiche in grado di documentare la sua capacità e le sue doti di ricerca. Nessuna richiesta è prevista in merito alle capacità didattiche, né tanto meno a quelle professionali. L’attuazione di questa nuova legge induce a pensare che avremo docenti dotati di altissima competenza scientifica, in altre parole degli scienziati veri e propri, chiamati peraltro a insegnare non solo la medicina scientifica, ma anche il processo decisionale medico, il metodo clinico, la relazione con il malato, la complessità clinica, le scelte prioritarie da seguire per far fronte ai bisogni di salute della società10. Dove e come sono state acquisite queste capacità? E chi ha valutato la preparazione didattica e professionale di questi docenti?

In conclusione, il presupporre principi, valori e fini dà risposta alla grande domanda sul senso della vita e dell’esistenza, sul destino dell’uomo e dell’umanità, domanda che non si può in alcun modo eludere11 e che il malato stesso si pone, talora inconsciamente. Nessun laboratorio e nessuna scoperta scientifica, nessun esperimento e nessun calcolatore elettronico possono dare risposta a questa domanda e risolvere questo problema. Pertanto, se l’acquisizione di conoscenze scientifiche e di abilità tecniche è da considerare elemento indispensabile per diventare medici preparati e competenti, tuttavia questi obiettivi da soli non sono da considerare sufficienti affinché un laureato in medicina possa dire di essere medico nel senso proprio della parola, né tanto meno possa affermare di saper fare il medico, vale a dire di svolgere la professione di chi si prende cura della persona nella sua totalità e assume le responsabilità che la società intende affidargli.  L’atto medico è una decisione della volontà, che, nell’intento di perseguire fini di bene e di giustizia per la vita e per l’esistenza, muove l’intelligenza attingendo dalla conoscenza scientifica e dall’esperienza umana e professionale e traduce in azione operante le decisioni elaborate a livello critico e razionale. Questo passaggio dalla teoria alla prassi avviene attraverso l’applicazione del metodo clinico che comporta il costruire una relazione, prioritariamente tra due persone, il malato e il medico. Esso presuppone valori e principi, intuizione e razionalità e richiede pertanto di essere conosciuto, praticato e insegnato. Il tema del metodo, fondamentale per fare il medico, richiede piena attenzione ed esaustiva rinnovata trattazione.

Bibliografia

1) Swanwick T. Doctors, science and society. Medical Education 2013; 47:7-9

2) Martin C. Recostructing a lost tradition: the philosophy of medical education in an age of reform. Medical education 2013; 47: 33-39

3) Ruitenberg C. Why the conception of the doctor as applied scientisti s inadequate. Medical Education, 2013; 47:956-7

4) Einstein A. Scienza e religione. Tr. it. In Pensieri degli anni difficili. Boringhieri Editore, Torino 1965

5) Weber M. Il lavoro intellettuale come professione. Einaudi Editore. Torino, 1967

6) Antiseri D. La conoscenza scientifica. In: G. Reale, D. Antiseri. Quale ragione ? Raffaello Cortina Editore, Milano 2001

7) Antiseri D. Come si ragiona in filosofia. La Scuola Editrice. Brescia 2011

8) Lenzi A, et al. Una proposta unitaria della Conferenza dei Presidi e Presidenti di Corso di Laurea Magistrale in Medicina e chirurgia per il RaD-DM 270/04. Med Chir 43, 1816-1836, 2008

9) COLMED-09. L’innovazione in Medicina Interna. Documenti. Ed. Colmed-09/SIMI, 2010

10) Elder A, et al. The road back to the bedside. JAMA 2013; 310, 799-10

11) Bobbio N. Che cosa fanno oggi i filosofi? Bompiani, Milano 1988

Cita questo articolo

Realdi G, Quale formazione per i laureati in Medicina? Scienziati applicati al malato o Medici che si prendono cura della persona? Medicina e Chirurgia, 61: 2720-2722, 2014. DOI:  10.4487/medchir2014-61-2

La scuola internistica padovana di medicina clinica e sperimentale di Gino Patrassin.60, 2013, pp.2710-2712

Gino Patrassi nacque ad Amelia (Terni) il 31 agosto del 1904. Laureatosi a Firenze nel 1927, si dedicò nei suoi primi anni accademici allo studio della morfologia, come allievo e docente nell’Istituto di Anatomia Patologica diretto dal prof. Bindo De Vecchi, e ottenne l’incarico di insegnamento di Istologia Patologia  e poi di Anatomia Patologica presso l’Università di Firenze. Completò la sua preparazione mediante periodi di perfezionamento all’estero, in Germania, presso le scuole allora famose di Rossle e a Berlino, presso l’Istituto di von Bergmann, il padre dell’anatomia funzionale. Al ritorno dalla Germania passò dall’Anatomia Patologica alla Clinica medica, diretta dal prof. Pio Bastai, con il quale si trasferì, come suo aiuto,  alla Clinica Medica di Padova nel 1939. Divenne professore straordinario di Patologia Speciale Medica nel 1949, cattedra tenuta presso l’Università di Cagliari, e poi di nuovo a Padova, chiamato dalla Facoltà ad occupare la medesima cattedra e a dirigere l’Istituto. Nel 1963 è chiamato a dirigere la cattedra e l’istituto di Clinica Medica generale dell’Università, dove rimase fino al 1974, anno del suo pensionamento. Il prof. Patrassi morì a Padova, il 12 settembre 1981.

La sua produzione scientifica è multiforme, come si usava nelle cliniche mediche quando la medicina non era così specializzata com’è adesso. La sua bibliografia contiene studi sulla patologia del sangue – meritano di essere ricordate l’anemia ellitto-poichilocitica che ha avuto l’eponimo di Fanconi-Patrassi e gli studi sulle leucemie aleucemiche e subleucemiche; poi gli studi di splenoepatologia, di cui fondamentale fu la monografia su La questione del Morbo di Banti, contributo a quell’epoca fortemente originale, indirizzato allo studio delle correlazioni fisiopatologiche tra malattie epatiche progressive fino alla cirrosi e all’ipertensione portale e le variazioni emodinamiche nel contesto splenico e splancnico. Da qui gli studi sulle cirrosi splenomegaliche e sulla circolazione portale, argomento conclusosi, con la partecipazione degli allievi C. Dal Palù, A. Ruol e P. D’Agnolo, con la relazione La pletora portale, al Congresso Nazionale di Medicina Interna, tenutosi a Torino, nel 1961, in collaborazione con il chirurgo di Roma, prof. P. Valdoni. Altro settore di studio di Patrassi fu la patologia endocrina in particolare quella tiroidea, che culminò con una  relazione al Congresso nazionale di Medicina Interna sulla Terapia delle Distireosi, allora agli albori della pratica clinica. Ancora, a sottolineare la multiformità degli studi clinici di Patrassi e il suo prestigio a livello nazionale, vi furono le relazioni, sempre alla Medicina Interna nazionale, sull’Ipertensione reno-vascolare”1968), in collaborazione con C. Dal Palù e A. Ruol, e sulle Iperlipoproteinemie (1971), in collaborazione con G. Crepaldi. Ma sono soprattutto i suoi contributi sulla descrizione di casi clinici che stanno a significare la sua profonda capacità e competenza clinica in tutti i settori della medicina, espresse dalla visita quotidiana in corsia, dove era di impareggiabile insegnamento il suo rapporto con il malato e la sua grande umanità con pazienti, personale paramedico, studenti, giovani medici e assistenti anziani. Era puntuale nella visita e meticoloso nell’ascolto dell’anamnesi e nell’esame obiettivo, sereno nella discussione, sempre attento a cogliere il problema principale e proporne soluzioni concrete. Parallelamente alla notevole competenza clinica, ebbe sempre altrettanta attenzione ai giovani, espressa in particolare nell’insegnamento della Medicina interna, sia in lezioni magistrali, sia durante la visita medica, al letto del malato.

La sua attività didattica si svolse per quasi mezzo secolo a Firenze, a Padova, a Cagliari e poi ancora a Padova, ove è ricordato dagli allievi per chiarezza di pensiero, equilibrio, compiutezza di aggiornamento, indirizzo verso le decisioni concrete, essenzialità delle nozioni, nonché la sua innata arguzia toscana. Memorabile fu una sua relazione del 1964 su Prospettive di riforma degli studi medici, dove egli delinea il quadro di grave crisi a cui stava incamminandosi l’Università italiana, quasi a presagire i grandi sconvolgimenti che avrebbero portato alle manifestazioni studentesche del ’68 e alle sue conseguenze. In questa relazione colpisce soprattutto la logica con cui sono delineati i possibili piani di studio in funzione del tipo di medico che si vuole far uscire dall’Università; prevede una maggiore attenzione alla formazione medica e clinica generale, con approccio globale al malato attraverso gli strumenti prioritari dell’anamnesi e dell’esame obiettivo, una riduzione del carico didattico di argomenti specialistici, già allora eccessivamente prevaricanti nel corso di laurea. Riteneva indispensabile una solida formazione metodologica e clinica internistica, prima di approdare a qualsiasi specializzazione, che peraltro guardava sempre con un certo sospetto per l’ineludibile componente riduzionistica propria di ogni specialità, a fronte della visione olistica del malato che sempre aveva propugnato e testimoniato. Auspicava inoltre il coinvolgimento dei medici ospedalieri, in particolari quelli dei grandi ospedali, nella formazione pratica dei neo laureati. Infine illustrava le modalità con cui si sarebbero dovute svolgere le carriere dei ricercatori e degli assistenti. Proposte ragionevoli e illuminate, dettate da esperienza e saggezza, dove la preparazione scientifica e di ricerca doveva trovare un forte connubio con la preparazione clinica e didattica: proposte rimaste inascoltate in questi 40 anni di vita universitaria, dove le riforme degli studi medici succedutesi hanno portato le facoltà mediche alla deplorevole condizione attuale, con progressiva frammentazione della preparazione medica, carenze formative nell’approccio al malato e prevalente dominio dei settori specialistici e tecnologici.

Coerentemente con i suoi interessi scientifici preminenti, il prof. Patrassi ha fondato a Padova e organizzato il Centro di Splenoepatologia, tuttora attivo come centro di ricerche sperimentali e cliniche ad opera degli allievi e dei successori. Patrassi fu insignito della medaglia d’oro dei Benemeriti della Scuola e della Cultura e dell’Arte e gli fu riconosciuto il premio Ganassini e il premio Marzotto, negli anni 1967-68.

Nell’ambito delle iniziative accademiche ha contribuito a fondare e avviare la Facoltà di Medicina presso l’Università di Trieste, facendo parte del Comitato Ordinatore assieme al prof. Valdoni; inoltre ha fondato e avviato la Facoltà di Medicina presso l’Università di Verona, come sede distaccata dell’Università di Padova. Numerosi suoi allievi furono chiamati ad occupare cattedre di Medicina interna e di specialità mediche presso queste nuove facoltà, dalle quali gemmarono prestigiose Scuole cliniche e di ricerca, affermatasi a livello nazionale e internazionale. A testimoniare il suo vivo interesse per il governo dell’Università, Patrassi fu anche preside di facoltà negli ultimi anni della sua carriera accademica, a dire il vero senza grandi soddisfazioni.

Il ricordo di Gino Patrassi come Maestro e come scienziato sarebbe decisamente parziale e astratto se dovesse prescindere dalla sua personalità reale, ben presente in chi lo ha potuto conoscere direttamente. Tutti coloro che gli sono stati vicini, nelle buone come nelle tristi vicende della vita, lo hanno apprezzato ancor di più come uomo, con il suo corredo di grandi doti intellettuali, morali e civili e anche, perché no (come ebbe a dire Piero Leonardi, uno dei suoi Aiuti più amato, nel ricordo che di Patrassi fece all’Ordine dei Medici di Padova nel 1982 e dal quale sono tratte queste note), di qualche piccola umana debolezza, che imponeva a chiunque lo conoscesse non tanto di venerarlo come un mito, quanto di circondarlo di comprensione e di affetto. Immenso infatti fu il suo attaccamento alla famiglia, negli ultimi anni ripetutamente e atrocemente colpita, il senso di responsabilità e la comprensione verso i malati, la costante fedeltà ai suoi ideali, avulsi da ogni interesse materiale, la profonda onestà intellettuale e professionale, l’amor di Patria, in pace e in guerra, la passione per la musica e le arti in genere, l’entusiasmo per una partita di caccia, la sana giocondità espressa nei convivi con gli amici, ove non si contavano le battute spiritose o pungenti, il riconoscimento ed il rammarico di qualche suo inevitabile errore e infine la serenità con la quale ha accettato la fine dei suoi giorni, da lui lucidamente prevista e coraggiosamente affrontata, sempre circondato dall’affetto dei suoi cari e degli allievi più amati.

Gli Allievi

Professori di prima fascia

Titolarità di Cattedra di 1° Fascia conseguita durante la vita accademica del Maestro

– In Medicina Interna: M. Austoni (Padova), G. Crepaldi (Padova), C. Dal Palù (Padova, Trieste, Verona, Padova), G. De Sandre (Padova, Verona), A. Ruol (Padova, Trieste, Padova)

– In Cardiologia: S. Dalla Volta (Padova)

Titolarità di Cattedra di 1° Fascia conseguita con gli Allievi del Maestro

– In Medicina Interna: G. Baggio (Sassari), R. Corrocher (Parma, Verona), R. Fellin (Ferrara), A Gatta (Padova), D. Girelli (Verona), O. Olivieri (Verona), A. Pagnan (Castelfranco Veneto, Padova), P. Palatini (Padova), P. Pauletto (Padova-Treviso), A.C. Pessina (Trieste, Verona, Padova), P. Prandoni (Padova), G. Realdi (Siena, Sassari, Padova), G.P. Rossi (Padova), L. Vettore (Verona)

– In Geriatria-Gerontologia: G. Curri (Trieste), G. Enzi (Padova), M. Frezza (Trieste), E. Manzato (Padova)

– In Malattie del Metabolismo: A. Avogaro (Padova), S. Del Prato (Pisa), D. Fedele (Padova), M. Muggeo (Verona), A. Tiengo (Padova)

– In Cardiologia: G.P. Trevi (Chieti, Novara, Torino)

– In Immunologia Clinica ed Ematologia: G. Perona (Verona), G. Pizzolo (Verona), G.P. Semenzato (Padova)

– In Oncologia Medica: R. Cellerino (Ancona), G.L. Cetto (Verona)

– In Gastroenterologia: A. Alberti (Padova)

– In Pneumologia: M. Saetta (Padova), R. Zuin (Padova)

– In Anatomia Umana Normale: F. Munari (Padova)

– In Alimentazione e Nutrizione Umana: P. Tessari (Parma, Padova)

Professori di 2° fascia con responsabilità primariale

– G.B. Ambrosio (Venezia), G.C. Falezza (Verona-Negrar), L. Caregaro Negrin (Padova), A. Semplicini (Venezia)

Primari ospedalieri

– G. Andolfatto-Zaglia, P. Avogaro, G. Battaglia, G. Belloni, A. Benedetti, G. Bertelli, F. Binda, A. Bonanome, A. Bonadonna, G. Bovo, G. Buttò, D. Corà, V. Crepaldi, G. Dagnini, B. D’Agnolo, L. Dalla Palma, C. Dalla Rosa, I. Dal Zotto, S. De Biase, M. Di Lollo, G. Diodati, W. Donadon, G. Donaggio, Francescon, F. Furlanello, S. Gabaldo, G. Ghiotto, Gregoris, P. Leonardi, L. Lusiani, A. Maggia, I. Masetto, G. Mazzei, R. Miori, Nardini, F. Palermo, E. Piccolo, Porro, G. Roberti, P. Spandri, F. Tremolada, R. Trevisan, G. Vescovo, Vignato, A. Visonà, S. Zamboni, E. Zerbini, Zerman

Principali linee di ricerca della Scuola

– Linea di Medicina Interna (epidemiologia clinica, metodologia clinica e sperimentale): M. Austoni, C. Dal Palù, A. Ruol, G. Crepaldi, G. Realdi, R. Corrocher

– Linea cardiovascolare (clinica e sperimentale): C. Dal Palù, S. Dalla Volta, A. Pessina, A. Pagnan, G.P. Trevi, R. Corrocher, G.P. Rossi, P. Palatini, P. Pauletto, O. Olivieri, D. Girelli

– Linea endocrina-metabolica: (patologia endocrina, dislipidemie, diabete): G. Crepaldi, A. Tiengo, M. Muggeo, G. Enzi, E. Manzato, G. Baggio, D. Fedele, A. Avogaro, S. Dal Prato

– Linea ematologica-immunologica: (clinica e sperimentale) G. De Sandre, G. Perona, L. Vettore, G. Pizzolo, G.P. Semenzato

– Linea pneumologica (clinica e sperimentale): M. Saetta, R. Zuin

– Linea gastroenterologica ed epatologica (Clinica e sperimentale): A. Alberti, A. Gatta, G. Realdi

– Linea oncologica: R. Cellerino, G.L. Cetto