Il Canone di medicina (al-Qanūn fī’l-ṭibb) di Avicennan.65, 2015, pp.2946-2954, DOI: 10.4487/medchir2015-65-5

Abstract

In his Canon, encyclopaedic treatise on medicine. Avicenna (Ibn Sīn, d. 1037) exhibits at the same time all the medical knowledge that existed in the world up to his time, his personal achievements and advancements, and the method he followed in the study of medicine. This work, translated for the first time into Latin at the end of the twelfth century, and adopted since the thirteenth century as a textbook in european universities, has over the centuries an immense fortune, due in part to the amplitude and to the rational character of his teaching, and also. in part, to the space granted to practice, both in medicine and pharmacology. The Canon is used in European medical schools as late as the half of 17th century; so, in the history, not only of medicine, it is perhaps the scientific text remained unsurpassed for the longest time.

Articolo

Accostarsi, nella storia della medicina, alla figura di Avicenna (Ibn Sīnā) significa da ogni punto di vista accostarsi alla figura di un genio; un genio –  non si può non aggiungere – precoce e autodidatta.  Pochi sono gli studiosi che come lui hanno influenzato la storia di una disciplina, e ancora meno quelli che, diventati leggenda già in vita, hanno visto la propria esistenza guidata, e condizionata, dalla fama.

La vita e l’opera

Schermata 2015-04-27 alle 15.04.21Come ci informa egli stesso in una sua autobiografia che copre i primi trenta anni della sua vita – i rimanenti anni sono documentati dal suo allievo, amico e segretario al-Ǧuzağānī – Avicenna nasce nel 980 presso Bukhara (odierno Uzbekistan). Figlio di un funzionario statale che si occupa attentamente della sua educazione, si accosta in primo luogo alla logica, e ancora quasi un bimbo, spiega questioni di logica al suo insegnante. All’età di 16 anni dichiara di avere ultimato – senza la guida di alcun maestro – lo studio della medicina che, scrive, è una scienza non difficile, e illustri medici già lavorano sotto la sua direzione. Guarito l’amīr  del Khorasan da una grave malattia, ottiene come ricompensa di frequentare la biblioteca dei principi samanidi: biblioteca in cui si immerge con  avidità allo scopo di perfezionare i suoi studi. A 18 anni può dire di aver conosciuto tutte le scienze coltivate ai suoi tempi; a 21 scrive il suo primo libro di filosofia.  Subito dopo, si può dire, ha inizio la sua vita travagliata e tumultuosa, divorata proprio da quella fama e da quel successo che il mondo gli accorda. A 22 anni, alla morte del padre, diviene per qualche tempo anche lui un impiegato statale; ma ben presto principi e dignitari richiedono i suoi consigli, non solo in medicina ma anche in politica, ed è più volte ministro e consigliere di uomini di potere. Spirito nato libero e allo stesso tempo indomabile, si attira inevitabilmente invidie e inimicizie: è arrestato, fugge, si sposta sotto falso nome da un luogo all’altro; si presenta talvolta in incognito al capezzale di un malato, riconosciuto solo al momento della soluzione del caso. Dotato di una memoria straordinaria, compone le sue opere ovunque si trovi, a corte e a cavallo, in viaggio e in prigione, citando a memoria gli autori che utilizza, e perseguendo un ordinamento, nella sua vita e nella sua opera, reso spesso difficile dalle circostanze.

Schermata 2015-04-27 alle 15.04.37Dopo un lungo periodo di instabilità, ripara finalmente presso la corte di Isfahan (odierno Iran), dove trascorre un lungo periodo di tranquillità; muore nel 1037 a Hamadan, durante una spedizione militare del principe suo mecenate ‛Alā al-Daula, che ha accompagnato. Gran parte dell’opera di Avicenna ci è pervenuta, ma non tutta. Ciò è dovuto sia al carattere del personaggio, che quando gli erano richieste opere o fatte domande non sempre conservava i suoi testi; sia a fatti storici che ne hanno impedito la conservazione; il testo del Kitāb al-inṣāf (Libro del giudizio imparziale), ad esempio, scompare nel sacco di Isfahan quando il suo autore è ancora vivente. Il numero di opere attribuito ad Avicenna è tra le 200 e le 300 opere, scritte in campi anche molto diversi (filosofia, letteratura e anche poesia). Tra queste, le opere di medicina, di altissimo livello, sono circa 40, non ancora tutte edite. Tre di esse, le più conosciute, in Occidente come in Oriente, hanno grande fortuna, e tradotte in latino hanno letteralmente fatto la storia della medicina: in primo luogo il Qanūn fī’l-ṭibb (Il canone di medicina), cui è dedicato questo lavoro, uno dei prodotti più significativi nella storia della medicina non solo islamica. Al Canone si aggiungono poi altre due opere: al-Adwiya al-qalbīya (Le medicine del cuore), trattato sulla cura delle malattie cardiache, tradotto in latino da Arnaldo da Villanova (fine XIII secolo); e al-Urǧūza fī’l-ṭibb (Il poema della medicina in metro rağaz), compendio di medicina in versi allo scopo di aiutare la memoria – tradotto da Armengaud Blaise di Montpellier, nipote di Arnaldo – che passa in latino con il titolo di Cantica. Nella tradizione di lingua latina, queste due opere sono spesso stampate insieme al Canone, a comporre una trilogia.

Il Canone e i suoi contenuti

Nel Canone, opera enciclopedica sulla medicina, che tiene dietro ad almeno due illustri predecessori musulmani: il Ḥāwī (lat. Continens) di Abū Bakr al-Rāzī (Rhazes, Abubacer), e il Kitāb al-kāmil o al-malakī (Liber regalis) di ‛Alī ibn al-‛Abbās al-Maǧūsī (Haly Abbas), Avicenna espone non solo la totalità delle conoscenze della medicina della sua epoca (la tradizione seguita è ovviamente la tradizione ippocratica, galenica e post-galenica, cui si sommano contributi di origine persiana e anche indiana), ma anche, ed è ciò che per lo storico della scienza ha una importanza tutta particolare, il metodo da lui seguito nello studio della medicina, ed i suoi personali risultati e avanzamenti.

Nel mondo islamico, e poco dopo nel mondo latino, il Canone, come è noto, ha grandissima fortuna. I medici musulmani lo preferiscono sia all’opera di al-Rāzī che a quella di al-Maǧūsī, e molti sono i commenti scritti su di esso o su parti di esso; tra questi, il Commento all’Anatomia del Canone scritto da Ibn al-Nafīs (m. 1288), opera in cui l’autore fa i primi cenni sulla circolazione polmonare, sconosciuta ai predecessori. Quanto al mondo latino: la traduzione delle opere di Avicenna è condotta su larga scala a Toledo nella seconda metà del XII secolo, ed è qui e in questo tempo che il Canone  per la prima volta è tradotto in latino. Il libro è ostico, la traduzione è difficile; il traduttore, illustre, Gerardo da Cremona (m. 1187), confessa esasperato di aver passato quasi cinquant’anni a studiare l’arabo, e di aver fatto molta fatica a tradurre il Canone…. Nonostante i dubbi del suo traduttore, la traduzione ha comunque fortuna: stampata per la prima volta a Milano o  a Padova nel 1472 (edizione del solo libro III), conosce prima del 1500, in un arco di soli 30 anni, ben 14 edizioni in latino e una in ebraico. Nel  1527, una buona revisione della traduzione di Gerardo, corredata da un vocabolario dei termini tecnici arabi, è realizzata da Andrea Alpago, medico veneziano che ha passato molti anni in Oriente. Altre traduzioni, non sempre di qualità eccelsa, anche se godono di una buona diffusione, si susseguono nel corso del secolo; e data la popolarità universalmente raggiunta dall’opera, alla versione latina si accompagnano, come avviene da tempo, citazioni, commenti e compendi in latino e nelle lingue vernacolari. Nel 1593, a Roma, presso la Tipografia Medicea Orientale, è realizzata la prima edizione a stampa del testo arabo, seconda opera – si noti – stampata dalla tipografia dopo la traduzione araba dei Vangeli. Grandissima, nel Medioevo e fino a epoca moderna, è la fortuna del Canone  nell’insegnamento universitario: introdotto all’università di Parigi tra il 1230 e il 1258, è utilizzato come libro di testo nelle università di Montpellier (inizio intorno al 1240) e di Lovanio fino alla metà del XVII secolo. In Italia, da ricordare in primo luogo l’università di Siena, dove il Canone è forse insegnato in una data anteriore al 1250; seguita a breve distanza da Bologna dove, nel 1260, Taddeo Alderotti introduce il Canone come testo di base per l’insegnamento della medicina, e da Padova, come risulta dalle citazioni contenute nel Tractatus de conservatione sanitatis di Zambonino da Gaza, professore dal 1262.  Fino al XV secolo il Canone costituirà da solo circa la metà dell’intero insegnamento della medicina.

Il Canone si compone di cinque libri, che rispettano, anche se non del tutto, l’ordine abitualmente seguito nella composizione delle opere enciclopediche di medicina:

* Libro I, generalità (kullīyāt), diviso in quattro funūn (trattati, pl. di fann): a. definizione della medicina e suo oggetto, elementi (fuoco, aria, acqua e terra), umori (bile gialla, sangue, flegma e bile nera, corrispondenti agli elementi), temperamenti (bilioso, sanguigno, flemmatico, melancolico), anatomia degli organi omogenei, facoltà (psichica/cervello, naturale/fegato e testicoli, animale o vitale/cuore), funzioni; b. classificazione, cause e sintomi delle malattie; c. cause della salute (fisiologia, igiene, esercizio fisico etc.) e delle malattie, cause e inevitabilità della morte; d. classificazione dei tipi di terapia, trattazione generale di regimi e diete; droghe varie; regole dell’evacuazione, clisteri, salassi, cauterizzazioni e chirurgia.

* Libro III. Malattie disposte in ordine a seconda degli organi colpiti, a partire dalla testa; organi eterogenei, la parte che riguarda ogni organo è nella maggior parte dei casi preceduta dalla sua descrizione anatomica.

* Libro IV. Malattie che non sono specifiche di determinati organi. Febbri, prognosi, giorni critici, principi importanti per diagnosi e terapia. Pustole, ascessi, ferite, ortopedia, veleni e creature velenose.  Alla fine del libro: capelli, pelle, unghie, obesità e magrezza eccessiva.

Il Libro II e il Libro  V sono dedicati alla  materia medica: droghe semplici (II) e droghe composte (V).

Nel cuore del vivente, ventricolo sinistro, una combustione, alimentata dall’aria che si respira trasformata nei polmoni, produce il calore necessario alla vita.  Grazie al calore generato nel cuore, e a due digestioni, la prima nello stomaco e la seconda nel fegato, l’organismo – a partire dagli elementi fuoco aria acqua e terra contenuti nei cibi che ingerisce –  produce gli umori, che nel corpo corrispondono ai quattro elementi: il sangue (→ aria) caldo e umido, frazione equilibrata della digestione, la bile gialla (→ fuoco) calda e secca, frazione più calda e leggera, la bile nera (→ terra) fredda e secca, frazione più densa e pesante, e il flegma (→ acqua), umido e freddo. Tali umori, in primo luogo il sangue, e in quantirà molto minori bili e flegma, a partire dal fegato, tramite la vena cava, e poi vene e capillari (la circolazione del sangue non è conosciuta) – raggiungono ogni parte del corpo e fanno crescere e conservano gli organi. Il complesso individuato dai rapporti in cui gli umori si trovano tra loro è definito come ‘temperamento’, o mescolamento (ar. mizāğ);  e l’equilibrio o lo squilibrio individuabile nel temperamento è ciò che definisce lo stato di  salute o di malattia.

Sulla base di questi dati, esposti qui necessariamente per sommi capi, si possono già notare alcuni capisaldi della medicina medievale e in particolare islamica. In primo luogo, l’uomo è letteralmente ciò che mangia e ciò che respira, e di qui l’importanza della dieta e dell’ambiente in cui vive: per il medico medievale e musulmano in particolare, la dieta e l’aria che si respira, nella normale attività e nell’esercizio fisico, sono il primo e più delicato punto portato all’attenzione del medico. Secondo punto, che completa il primo: la definizione dello stato di salute. Lungi dall’essere un qualcosa di assoluto e di generale per ogni vivente, il temperamento equilibrato – equilibrio tra gli umori e dunque tra le qualità –  che definisce lo stato di salute, è del tutto relativo e variabile. Nel primo libro e primo fann del Canone, Avicenna spiega questo punto con grande chiarezza: l’equilibrio che il medico deve considerare non è l’equilibrio del matematico e del filosofo, per i quali la condizione di equilibrio è data dal concorso di parti tutte uguali tra loro (in questo caso si tratterebbe di parti uguali di elementi e di umori): nei viventi vi è un equilibrio diverso in specie diverse (il temperamento di un cane non è quello di un serpente), e all’interno di ogni specie in classi diverse (il temperamento di uno slavo non è quello di un indiano), e all’interno di una classe in individui diversi (il temperamento di un uomo è diverso da quello di un altro della stessa classe). Per uno stesso individuo, vi è poi un equilibrio diverso a seconda delle circostanze (età, clima, stagione etc.), e all’interno di ogni individuo un equilibrio diverso nei suoi diversi organi (il temperamento del cervello non è quello del cuore), e per uno stesso organo un equilibrio diverso a seconda delle circostanze (il temperamento dello stomaco di un ragazzino non è quello dello stomaco di un vecchio). Conseguenza importante: se il temperamento equilibrato, che definisce lo stato di salute, non è qualcosa di assoluto, ma qualcosa che varia da specie a specie, da individuo a individuo, e, nello stesso individuo, tra due stati diversi e all’interno dello stesso individuo da organo a organo e da uno stato dell’organo a un altro, da ciò consegue necessariamente che lo stato di salute non è lo stesso per tutti gli uomini: ma è un equilibrio che oscilla tra due limiti entro i quali è stabilita la condizione della salute. All’interno di questi limiti, temperamenti che per i matematici e i filosofi sarebbero squilibrati sono posseduti da uomini che, finché lo squilibrio si mantiene in un certo intervallo, devono essere considerati sani: siano essi irascibili, sanguigni, flemmatici o melancolici (predominio nell’ordine di bile gialla, sangue, flegma, bile nera), tutti questi uomini, entro certi limiti. sono uomini sani. Sulla base di queste considerazioni, lo stato di salute si riduce ad essere, in modo pragmatico, lo stato, variabile da uomo a uomo, in cui tutte le funzioni degli organi sono integre. Ogni paziente è così, per il medico, una sfida e un interrogativo di cui venire a capo, e ciò porta in primo piano due componenti necessarie all’esercizio della professione medica: le caratteristiche non solo scientifiche ma anche umane che il medico deve possedere, e il rapporto medico-paziente, poiché solo tramite questo rapporto il medico può giungere a formulare la giusta diagnosi.

Il medico

Per Avicenna, come per ogni altro medico musulmano, non vi è dubbio che il medico debba essere preparato anzitutto in ciò che riguarda la sua disciplina. In epoca medievale, nel mondo islamico, molto si discute sul tipo di preparazione che per il medico è più utile (posto che entrambe sono necessarie): se la cultura dei libri – e qui si tratta della tradizione di lingua greca, di cui circolano, in traduzione araba, molti trattati, e di quanto successivamente elaborato dai grandi medici musulmani – oppure lo studio sotto la direzione di un maestro, e la pratica, effettuata ogni giorno sotto la sua guida in corsia; nell’ospedale islamico, organizzato come un vero e proprio policlinico, sono presenti infatti una biblioteca e una scuola, e giovani medici si esercitano sotto l’occhio vigile di un anziano, equivalente dell’odierno primario.

Nella preparazione del medico, tuttavia, la conoscenza della medicina non è sufficiente. Proprio allo scopo di migliorare la sua capacità nella professione, la sua cultura deve essere molto più ampia: in primo luogo per ciò che riguarda conoscenze per così dire collaterali al suo lavoro, come la farmacologia: molti medici musulmani di epoca classica preparano infatti essi stessi le medicine che prescrivono, e Avicenna è uno di questi (lo si nota ad esempio quando raccomanda, nel Canone,  di preparare le pozioni in un luogo riparato sotto una tettoia, perché non vi sia pericolo che qualcosa cada nella pozione e si debba ricominciare da capo). Importanti sono poi anche altre discipline: tra queste la filosofia, con cui il medico non deve dimostrare, cosa che spetta al filosofo naturale, i principi della sua disciplina; ma che è indispensabile perché conduce alla conoscenza dell’anima. Malattie che si generano nell’anima producono col tempo la malattia del corpo, e viceversa, producendo col tempo una sorta di circolo vizioso che non si interrompe se non si risale alla causa prima. Nel Canone, Avicenna porta diversi esempi a questo proposito: il caso della licantropia, eclatante caso di disturbo mentale, generato – egli scrive – da un gravissimo scompenso nel temperamento; o il mal d’amore, disturbo psicologico che, non curato, può condurre col tempo a una malattia fisica, la melancolia, data da produzione sovrabbondante di bile nera  ‘combusta’.

Un caso a parte e importante, nella preparazione del medico, è poi costituito dalla musica. Se  vuole comprendere fino in fondo ciò che risulta dalla tastazione del polso, il medico non può non conoscere la musica: perché, nello studio del polso, la frequenza equivale, nella musica, al ritmo, mentre la pressione del sangue sull’arteria equivale al volume.  Il medico dotato di esperienza musicale può giungere non solo ad avvertire la diastole, di difficilissima percezione, ma anche ad avvertire leggerissime variazioni nei battiti che gli fanno capire le diverse emozioni del paziente nel dialogo che intrattiene con lui, e qui torniamo ai ‘movimenti’ dell’anima.

Tra i requisiti indispensabili di chi voglia esercitare la professione, un fattore che non può essere trascurato è infine la condizione fisica del medico; che deve essere in perfetta salute, e dotato di sensi perfetti. In assenza di una strumentazione che possa essergli d’aiuto, il corpo del medico, nel Medioevo, è lo strumento che deve permettere di valutare e di decidere: la presenza di febbre, ad esempio,  scrive Avicenna, è diagnosticata se il paziente risulta al tatto più caldo del corpo del medico in buona salute. Interessante una notazione sui sensi, sempre dal Canone:  i sensi che per il medico sono importanti non sono tanto quelli che per il filosofo sono i più nobili, come la vista e l’udito (i due sensi degli angeli), ma quelli che nella filosofia e nella cultura generale sono da tutti ritenuti i più umili: il tatto ed il gusto. Molte malattie non possono essere conosciute dal medico che non tasti il paziente, e in farmacologia due polverine entrambe bianche possono celare  prodotti anche molto diversi; rimedi o veleni che solo il gusto può riconoscere.

Il rapporto medico-paziente

Altro elemento necessario al buon risultato nella professione medica è il rapporto medico-paziente, fondamento di ogni diagnosi e cura. Nel rapporto tra medico e paziente, le considerazioni sull’equilibrio del temperamento individuano in primo luogo una situazione ideale: il medico dovrebbe conoscere il suo potenziale paziente prima che si ammali; questo perché per riconoscere lo squilibrio patologico di un temperamento, gioverebbe molto conoscere il temperamento in condizioni  normali. Un paziente sanguigno, ad esempio, dunque piuttosto caldo e rosso in viso quando è sano, non sarà considerato malato dal suo medico semplicemente sulla base del suo aspetto fisico.

Ma poniamo che l’uomo che ricorre ad un medico non sia da lui conosciuto; la prima cosa che il medico deve fare è ovviamente decidere se sia sano o malato. Qui la faccenda potrebbe già diventare complessa, perché gli stati dell’uomo, che secondo Galeno erano tre – salute, malattia e stato intermedio – in Avicenna diventano cinque: salute, malattia e uno stato intermedio con tre sottogruppi (incubazione, primo inizio della malattia, e convalescenza).  Posto davanti ad un uomo che richiede il suo aiuto, il medico ben preparato saprà tuttavia cosa fare. Terrà in primo luogo il suo interrogatorio, ponendo domande mirate e sollecitando le risposte di cui ha bisogno; procederà successivamente alla visita, mettendo, come si è detto, tutti i suoi sensi al servizio del paziente; trarrà poi le sue conclusioni, tenendo conto di tutti i fattori interni ed esterni che, come prima abbiamo accennato, influenzano il temperamento. In presenza di uno stato che non può essere definito di malattia, o intermedio, primo compito del medico sarà quello di conservare la salute: e dunque ben vengano la dieta equilibrata e i massaggi, l’esercizio fisico e i bagni;  poiché primo compito della medicina, recita la tradizione galenica, e anche il Canone, non è quello di restaurare la salute perduta, ma quello di conservarla1.  Se lo stato accertato sarà invece uno stato di malattia, in  questo caso il medico dovrà produrre diagnosi, prognosi e terapia, concentrando la sua attenzione su tre cose: la malattia, il suo sintomo e la sua causa. Anche qui la faccenda è irta di difficoltà, perché non si tratta semplicemente di individuare la malattia: posto che ciò che si deve curare non è il sintomo ma la causa, un sintomo potrebbe trasformarsi in una malattia o divenire causa di una malattia, o una malattia divenire causa di un’altra malattia.

Fatta la diagnosi, la terapia seguirà necessariamente un andamento graduale: ci si appoggerà in primo luogo a prescrizioni leggere, come la dieta, per passare eventualmente in un secondo tempo alle medicine semplici, e solo in caso di insuccesso delle semplici, alle medicine composte, come la teriaca, che sono più insidiose, perché la presenza di più principi attivi, dagli effetti che si combinano in modi diversi, richiede al medico una maggior perizia. Solo in casi più estremi, si ricorrerà a rimedi più drastici, come la cauterizzazione  o il salasso, quest’ultimo controindicato in ogni caso agli anziani e ai bambini, o all’intervento chirurgico.

Schermata 2015-04-27 alle 15.05.04La descrizione delle malattie, delle loro cause e dei sintomi, l’attenzione dedicata all’indicazione delle cure e alla preparazione delle medicine, ogni aspetto anche pratico che si noti nell’esercizio della medicina, tutto questo è nel Canone curato nei minimi particolari; ma non basta:  perché il  medico ripara le eventuali disobbedienze del paziente, ad esempio un paziente goloso; consiglia afrodisiaci o rimedi volti a risolvere casi di impotenza e di infertilità, perché – scrive Avicenna – un buon rapporto di coppia può prevenire il disordine nella società; o interviene, in qualche modo, a consolare una umanità nel dolore con riflessioni sull’ineluttabilità della morte. Tutto questo, per secoli, rese il Canone  non soltanto un’opera colta ma anche e in molti casi un’opera utile, molto amata  non  solo dai medici universitari di grado elevato, ma anche da  medici praticanti la medicina a livelli molto inferiori, che utilizzavano solo compendi e notizie di seconda e terza mano: ciò che portò senza dubbio a una enorme frammentazione, ma al tempo stesso a una penetrazione profonda nelle società che raggiunse.

Testi

1. causa, malattia, sintomo  [Ibn Sīnā, al-Qānūn fī’l-ṭibb, kitāb 1, fann  2, ta‘līm 1, faṣl  1 (ed. cit. M. A. al-Ḍannāwī, I, Bairūt, Dār al-kutub al-‘ilmīya,1999, p.  103 sg.)]:

L’insegnamento sulla causa, la malattia e il sintomo

Nella malattia, la causa è ciò che viene prima di tutto; perché da essa si individua, tra le situazioni in cui può trovarsi il corpo dell’uomo, una determinata situazione, che può essere [temporanea], o duratura. La malattia è una forma non naturale nel corpo dell’uomo, da cui ha luogo, in un modo necessario e primario, un vero e proprio malfunzionamento in una funzione: e questo (la malattia) può essere  o un temperamento non naturale o una composizione2 non naturale. Il sintomo è la cosa che tiene dietro a questa forma e non è naturale; sia che sia contrario al naturale, come il dolore nella colica, sia che sia non contrario, come l’eccessivo colorito rosso della guancia nella polmonite. Un esempio: la causa è la putrefazione, la malattia è la febbre, e il sintomo sono la sete e il mal di testa. Altro esempio: la causa è un riempimento nei vasi che scendono all’occhio, la malattia è l’ostruzione all’interno dell’iride; [questa] è una malattia dell’organo e composita, e il sintomo è la perdita della vista. E anche: la causa è una infreddatura violenta, la malattia è una ulcerazione nel polmone e il sintomo è il colore rosso delle guance  e l’affezione (deformazione, alterazione del colore etc.) delle unghie.

Il sintomo è detto ‘accidente’ in considerazione della sua essenza (perché è qualcosa che accade)  o in confronto con ciò che ad esso è soggetto, ed è detto ‘segno’ in considerazione del fatto che il medico lo esamina e per suo effetto si avvia a conoscere  che cos’è  la malattia.  La malattia può divenire causa di un’altra malattia, come la colica per la sincope o per la paralisi o per la crisi epilettica; e, anche, il sintomo può divenire una causa per la malattia, come il  dolore forte diviene  una causa per la tumefazione perché le materie si riversano verso il luogo del dolore. E il sintomo può divenire esso stesso una malattia, come il mal di testa che risulta dalla febbre, perché può darsi che diventi fisso e radicato finché diviene una malattia. Confrontata con se stessa e con la cosa che la precede e la segue, una cosa può essere una malattia, un sintomo e una causa: come la febbre della consunzione (tubercolare), è un sintomo dell’ulcerazione del polmone, una malattia in se stessa, come pure una causa dell’indebolimento dello stomaco; e come il mal di testa che risulta dalla febbre, quando diviene radicato, è un sintomo della febbre, una malattia in se stesso, e a volte produce l’infiammazione della pleura o la meningite, divenendo così la causa delle due malattie menzionate.

2. l’esercizio fisico [Ibn Sīnā, al-Qānūn fī’l-ṭibb, kitāb 1, fann 3, ta‘līm 2, faṣl 2 (ed. cit., I, p. 222-4)]:

In questo capitolo, di cui qui riportiamo alcuni passi,  Avicenna espone diversi tipi di esercizi. Dato che  ogni attenzione e cura devono essere ‘personalizzate’, anche nell’esercizio fisico il medico dovrà distinguere ciò che è più adatto nei diversi casi: per ogni uomo, per ogni organo, per ogni senso, c’è infatti un esercizio, che deve essere conosciuto. Tra le molte citazioni e i molti esempi, figura qui, interessante,  una citazione del gioco del polo, gioco forse di origine persiana, molto popolare ai tempi dell’autore.

I diversi tipi di esercizio fisico

Quanto ai tipi dell’esercizio, vi è la lotta, il venire alle mani, il pugilato, il correre portando la testa alta, il camminare di buon passo, il tirare con l’arco, lo stare in piedi su una delle due gambe, il tirare di spada, l’andare a cavallo, e il battere con le mani, che consiste nello stare l’uomo sulle punte dei piedi, mentre allunga le mani avanti e indietro e le muove velocemente; e questo è l’esercizio veloce. Gli esercizi sottili e delicati sono invece il bilanciarsi nei movimenti oscillanti, il camminare a passo lento, stando eretti, facendo piegamenti e mettendosi a terra, lo stare in equilibrio su battelli e battellini; e il più veloce di quelli di questo tipo  è il cavalcare i cavalli e i cammelli, lo stare in equilibrio sulle bardature degli elefanti  e il cavalcare i vitelli.  Degli esercizi forti che si fanno in piazza (campo sportivo), vi è che l’uomo, in una piazza, acceleri la corsa fino al limite, e che poi retrocedendo torni indietro, continuando a diminuire il percorso ogni volta, finché alla fine resti fisso nel centro; sforzarsi nel continuare a compiere un’azione, colpire con i palmi delle mani, saltare, lanciare, giocare con la palla, grande e piccola, giocare con la mazza (gioco del polo), giocare  con la racchetta, giocare con la lotta, sollevare le pietre, spronare i cavalli al galoppo e al trotto veloce. Ci sono poi diversi tipi di esercizio ‘forte’ con azione reciproca: tra questi, che ognuno dei due uomini fissi la sua mano sulla vita del suo compagno tenendolo fermo, e ognuno dei due si imponga di liberarsi dal suo compagno che gli sta attaccato, e anche che si pieghi con le mani contro il suo compagno spingendo la destra verso la destra del suo compagno e la sinistra verso la sinistra, mentre il suo viso è rivolto verso di lui, e poi lo sollevi e lo metta sottosopra, specialmente mentre lui ora si piega e ora si distende […]

Ci si deve  esercitare nel compiere gli esercizi diversi, senza insistere con uno solo; per ogni organo, infatti, c’è un esercizio che gli è particolare. L’esercizio delle mani e delle gambe non è un segreto (è ben noto). Quanto agli organi della respirazione, ora ci si esercita con la voce grave e sonora ora con la voce acuta, e con una voce che mescola le due; questo è anche un esercizio per la bocca, per l’ugola, per la lingua e anche per l’occhio, migliora il colorito e purifica il petto. Ci si esercita anche soffiando mentre si trattiene il respiro, e questo è un esercizio per tutto il corpo, perché allarga le sue vie. Tenere alto il tono di voce per un tempo molto lungo è un pericolo, perché il permanere violento della necessità di attrarre molta aria è un pericolo. Si deve cominciare a leggere (recitare) dolcemente,  poi, leggendo, alzare la voce in modo graduale, poi quando la voce si è fatta più intensa, più forte e lunga, rendere quel tempo limitato, perché se il tempo si prolunga, vi è in questo un pericolo [anche] per quelli che sono equilibrati e in salute […].

Le cavalcate sui vitelli sono azioni efficaci, e sono le più violente di questo genere di azioni; cavalcare il vitello con il viso rivolto all’indietro è utile contro la debolezza del respiro, e molto utile contro la sua oppressione. Stare in equilibrio sui battelli e sulle barche è utile contro l’elefantiasi, l’idropisia, l’apoplessia, il raffreddamento dello stomaco e l’aerofagia; questo se avviene vicino alle rive, ed è utile allo stomaco, quando è sconvolto da nausea e poi si placa. Stare in equilibrio sulle barche mentre il mare è agitato, è più efficace nell’eliminare le malattie menzionate, perché si alternano nell’anima gioia e tristezza […]

La vista si esercita guardando con attenzione le cose quasi impercettibili e volgendo di quando in quando lo sguardo gradualmente e con dolcezza ai luoghi elevati. L’udito si esercita ascoltando le voci quasi non udibili e ascoltando di rado le voci forti. Ogni organo ha un esercizio suo proprio, che noi menzioniamo quando trattiamo della salute, organo per organo […]. Bisogna che quello che si esercita stia in guardia contro il giungere del riscaldamento dell’esercizio al più debole dei suoi organi, a meno che ciò non avvenga come una conseguenza [indiretta dell’esercizio]. Ad esempio: chi soffre di vene varicose ha bisogno di un esercizio  che non aumenti il movimento delle sue gambe ma lo diminuisca, e che con il suo esercizio insista sulla parte più alta del suo corpo, collo, testa e torace, in modo che l’influsso dell’esercizio sulle sue gambe venga dall’alto. Al corpo debole esercizio debole, al corpo forte esercizio forte….

3. un male antico, detto bulimia [Ibn Sīnā, al-Qānūn fī’l-ṭibb, kitāb 3, fann 13, maqāla 2, faṣl 7 (ed. cit., p.  447 sg.)]:

Lo squilibrio più grave che si verifichi nell’alimentazione dell’uomo, la bulimia, è dagli antichi attribuito ad alterazioni interne causate da fattori esterni, come ad esempio il gran freddo3. Riprendendo osservazioni presenti in fonti di lingua greca, mediche e non solo – tra queste, quasi certamente Archigene, citato in Galeno, De compositione medicamentorum secundum locos VIII.4 (ed. Kühn XIII, p. 175 sg). – ma compiendo passi ulteriori e significativi, tra i quali la distinzione chiarissima tra fame canina e bulimia, Avicenna individua una doppia componente del danno: una fisica, l’alterazione della facoltà attrattiva, che fa ricercare a ogni organo il suo nutrimento, e l’altra, l’alterazione della percezione, direttamente collegata, tramite i sensi, al cervello. Alle sollecitazioni rivolte allo stomaco del paziente, somministrazioni di bevande e di cibi leggeri e gradevoli, egli aggiunge, con unguenti odorosi, profumi e anche percosse, interventi volti a stimolare il sistema nervoso. 

La fame detta ‘bulimia’

La bulimia è [la malattia] conosciuta come ‘la fame bovina’. Nella maggior parte dei casi la precede una fame canina, dopo di che il desiderio [del cibo] si abbatte; se non si verifica dopo di essa, il desiderio [del cibo] si abbatte all’inizio. E’ la fame degli organi che si accompagna alla sazietà dello stomaco, sì che gli organi sono molto affamati e desiderosi del cibo, mentre lo stomaco gli fa ostacolo. E a volte la cosa giunge fino allo svenimento, e i vasi sanguigni diventano vuoti;  ma lo stomaco fa ostacolo al cibo, che gli ripugna. Avviene in molti casi a quelli che viaggiano al freddo, molto raffreddati, i cui stomaci sono ispessiti dal freddo intenso. Ne è causa una infermità di temperamento che giunge alla facoltà della percezione e alla facoltà attrattiva. E’ prodotta da umori che si avvolgono  alla bocca dello  stomaco, si sciolgono e si diffondono nelle sue fibre, e si muovono verso il respingere, ostacolando l’attrazione del cibo; e  puoi conoscere i segni da ciò che ti ho ripetuto più volte ed è menzionato nel Canone.

Cure: si deve curare essenzialmente la caduta del desiderio [del cibo]; bisogna insomma che [il paziente] fiuti i cibi appetitosi e speziati, i frutti odorosi e i profumi annusabili in cui vi sia un qualche effetto astringente, perché la facoltà si ricomponga e non si allenti. Gli si dia da mangiare del pane inzuppato nello šarāb4 di buon sapore  e gli si dia da bere o da inghiottire del nabīḏ5 profumato; mescolandovi, in particolare, canfora o aloe, se il temperamento è caldo, e sukk6 in caso diverso. Se la causa del male non è il calore, giova loro, contro questo male, lo šarāb di giglio; e se la sua causa non è il calore, si leghino le loro mani e le loro gambe con un laccio robusto, si impedisca loro di dormire,  e quando hanno sonno gli si provochi dolore, pungendoli, pizzicandoli, e battendoli con un bastone sottile e flessibile affinché faccia male, senza rompersi. Tra le cose che giovano loro è che si prenda un biscotto, si inzuppi nel maisūsan – o nelle nuḍūḥāt  profumate7 – e si bendi con essi lo stomaco, in particolare nello stato dello svenimento; e che con esso si applichino anche gli unguenti profumati, come l’unguento di pino e l’unguento di rose e di mirto; e giova anche che sui loro stomaci si utilizzino le bende preparate da medicine cardiache di buon odore, e che gli si facciano suffumigi con i vapori odorosi d’ambra. Si bendino le loro giunture con un bendaggio preparato con acqua di rose e di mirto, maisūsan, canfora, muschio, zafferano, aloe, sukk e rose. Ci si dia da fare nel riscaldare i loro corpi, se la causa del male è il freddo, e nel raffreddarli se la causa è il caldo; e quando li coglie uno svenimento, si faccia loro anche ciò che abbiamo menzionato sullo svenimento: si spruzzi sui loro volti l’acqua fredda, si stringano le loro mani e le loro gambe, si pungano i loro piedi, e si tirino i loro capelli e le loro orecchie. E quando si riprendono, si dia loro da mangiare pane inzuppato in uno šarāb odoroso, e se nei loro stomaci c’è un umore amaro, o dolciastro, gli si dia da bere una quantità di 2 cucchiai di sakanǧabīn con un miṯqāl  di iyāriǧ8, o meno se [il paziente] è debole; ma se [la causa] è stata un freddo eccessivo, gli si dia da bere la teriaca.

Note

1 Ibn Sīnā, al-Qānūn fī’l-ṭibb, incipit: La medicina è una scienza da cui si conoscono gli stati del corpo dell’uomo, sani e devianti dalla salute, allo scopo di conservare la salute se è presente e di ristabilirla se è perduta.

2 Accenno alla malattia ‘composita’ (v. più avanti nel passo), che si ha quando due o più malattie si uniscono a formarne una sola.

3 Hippocratis Aphorismi et Galeni in eos Commentarii, XXI, in: C.G. Kühn ed., Claudii Galeni Opera Omnia, XVII B, Hil- desheim, G. Olms, 1965, p. 501: Nam bulimus facultatis est prostratio ab externo frigore profecta, qui ab esurie quidem ortum duxit, famem vero amplius conjunctam non habet.

4 Termine da cui viene l’italiano ‘sciroppo’.

5 Bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione dei datteri, ma il termine può indicare anche il vino. In epoca classica, le bevande alcoliche, vietate nella religione islamica, sono am- messe se prescritte dal medico e inserite in un piano di cura.

6 Pasticche aromatiche macerate in acqua e olio di violette e di muschio, infilate in un filo di canapa, esposte a seccare e consumate entro un anno dalla preparazione.

7 Maisūsan e nuḍūḥāt: rispettivamente una lozione profumata usata per lavare i capelli e profumi che si diffondono per eva- porazione a calore blando (es. il calore del corpo).

8 Sakanǧabīn e iyāriǧ (termini persiani) sono rispettivamente l’ossimele, sciroppo di aceto e miele, ben noto fin dall’anti- chità, e una medicina composta (lat. hiera) di sapore amaro, che stimola l’evacuazione; il miṯqāl, unità di peso variabile nei tempi e nei luoghi, corrisponde a un peso tra i 4 e i 5 grammi.

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Cita questo articolo

Carusi P., Il Canone di medicina (al-Qanūn fī’l-ṭibb) di Avicenna, Medicina e Chirurgia, 65: 2846-2954, 2015. DOI:  10.4487/medchir2015-65-5

Il libro per chi fa a meno dei (degli altri) libri di Abū’l-Qāsim Khalaf ibn ‘Abbās al-Zahrāwīn.61, 2014, pp.2753-2759, DOI: 10.4487/medchir2014-61-8

Abstract

For several centuries in the Latin Middle Ages and until the modern era, the name of the Spanish Muslim al-Zahrāwī (d. 1013?) is well known: the thirtieth book of his treatise on medicine al-Taṣrīf li-man ‘ajiza ‘an al-ta’ālif, dedicated to surgery, was studied and taught by the most famous physicians, from Rogerius Salernitanus (12th century) to Fabricius ab Aquapendente (d. 1619), and his techniques, many of which completely original, were applied and imitated by many. This work provides hints on what is known about his life and his work, and presents some significant passages on surgeries performed by him, and surgical instruments which he described.

Articolo

A seconda del campo in cui si svolge per la maggior parte del tempo la loro attività, nel mondo islamico medievale i medici possono essere divisi approssimativamente in tre grandi gruppi: l’internista, l’oculista, il chirurgo. Il medico più tenuto in considerazione è sempre e dovunque l’internista, considerato anche il maggior teorico della disciplina; solo dopo di lui, abbastanza dopo, vengono l’oculista e il chirurgo, entrambi considerati dei tecnici, sia pure di livello elevato1:  l’oculista – importante, data la grande diffusione di malattie degli occhi, dallo pterigio al tracoma – e il chirurgo, necessario, come ben si comprende, non solo in pace ma anche in guerra, sul campo di battaglia.

Il ruolo subalterno della chirurgia, ruolo che vede il chirurgo costretto ad attività limitate e per così dire di ultima sponda, dipende da motivi pratici e anche teorici:

pratici. Nell’antichità e nel Medioevo non esistono, o esistono solo in una forma molto rudimentale, due grandi e indispensabili collaboratrici del chirurgo:

l’anestesia, necessaria per effettuare interventi di una certa importanza (si utilizzano oppiacei e stupefacenti di tipi diversi, che però non sono risolutivi);

l’antisepsi, che deve garantire il felice esito nel periodo post-operatorio.

Da ciò consegue il fatto che le operazioni che il chirurgo riesce a compiere sono di solito piccoli interventi: salassi, scarificazioni, cauterizzazioni, riduzioni di fratture etc., e tutto questo solo raramente lo porta a chiara fama;

teorici. Da Galeno e da tutta la medicina antica:

il corpo umano è considerato come una sorta di paradigma della bellezza, e lo studio dell’anatomia umana come la porta che conduce dalla medicina alla filosofia e alla riflessione sulla divinità;

l’organismo è considerato come un tutto, come una bilancia il cui equilibrio deve essere mantenuto o restaurato.

Sulla base di queste considerazioni – la medicina è la scienza, scrive Galeno, che si preoccupa di mantenere la salute se c’è, o di ristabilirla se è perduta – compito del medico è occuparsi dell’intero organismo e di cercare di mantenere o di ristabilire la condizione equilibrata naturale che gli è propria. Né l’una né l’altra cosa sono curate dalla chirurgia, scienza che necessariamente si occupa di parti, e che non è conservativa, ma compie sul corpo interventi che sono duri e invasivi.

Nonostante le difficoltà e gli impedimenti, il chirurgo, sia egli d’urgenza, come il medico di guerra, o il risolutore di parti difficili, si rivela tuttavia in molti casi indispensabile; della sua attività sono testimoni non solo i testi, in qualche caso generosamente illustrati con tavole anatomiche e immagini della strumentazione chirurgica (mannaie e coltelli di diverse misure, cateteri e siringhe per irrigazioni, apparecchi per flebotomia, aghi cavi per la rimozione della cataratta, cucchiai affilati per tonsillectomia e operazioni di diverso tipo)2, ma anche un certo numero di reperti archeologici e di strumenti ricostruiti a partire dalle descrizioni dei testi, conservati nei musei di tutto il mondo.

Una molto ampia documentazione – testo e immagini – sulla chirurgia praticata nel mondo islamico tra X e XI secolo si può trovare nella figura e nell’opera di un chirurgo musulmano di Spagna, Abū’l-Qāsim Khalaf ibn ‘Abbās al-Zahrāwī3, cui molto devono in seguito la chirurgia del Medioevo latino e  la chirurgia e medicina italiana e francese della prima epoca moderna.

Abū’l-Qāsim Khalaf ibn ‘Abbās al-Zahrāwī

Noto nel mondo latino come Abulcasis / Albucasis, Alsaharavius e diversi altri nomi4, al-Zahrāwī nasce (come si vede dalla sua isba ((Nome di attribuzione, o relativo, che indica l’origine, la provenienza o l’appartenenza.))) ad al-Zahrā’ presso Cordova, intorno al 936 (Anno della fondazione di al-Zahrā’, la Versailles di Spagna, da parte del Califfo ‘Abd al-Raḥmān III (m. 961).)), e muore nella stessa città, secondo alcuni intorno al 1036, secondo altri (Leone Africano) nel 10135; altre date tuttavia sono state proposte, e la questione è tuttora incerta. Molto poco si sa della sua vita: forse i suoi antenati vengono dall’Arabia (epoca della conquista), e appartengono all’aristocrazia di origine medinese (al-anṣār) vicina al Profeta; certo è che vive in un periodo di grande splendore per la storia della Spagna musulmana. Secondo alcuni, diviene medico personale del califfo omayyade ‘Abd al-Raḥmān III, o di Ḥakam II suo successore, o di al-Manṣūr, il suo famoso ministro; la circostanza è tuttavia poco probabile, perché, anche ammettendo che egli stesso taccia la cosa per modestia, nessuno dei suoi biografi6 ne  fa menzione.

Una indagine sulla personalità scientifica e anche umana di al-Zahrāwī rivela, in primo luogo, tratti di grande umanità e  dedizione alla professione: ammirevoli sono, ad esempio, la cura e l’amorevolezza che dimostra verso i malati e il disinteresse con cui prodiga le sue cure.  Scrive di lui il copista del ms. Istanbul, Süleymaniye ‘Umūmī Kütüphanesi, Veliüddin 2491, f. 228b:

Mi è stato detto che al-Zahrāwī – Dio abbia misericordia di lui – era estremamente ascetico; che metà del suo lavoro ogni giorno la faceva gratuitamente, come carità, e che scrisse questo compendio per i suoi figli in un periodo di quarant’anni. 

I suoi figli, qui menzionati, dovrebbero essere i suoi allievi, o comunque i medici della generazione che lo segue; nel Medioevo islamico, come è noto, una parte rilevante dell’insegnamento, in particolare nelle scienze ‘operative’, si realizza in un rapporto di apprendistato presso il maestro (si veda, ad esempio, in medicina, la presenza degli allievi nei padiglioni, nelle aule e nella biblioteca dell’ospedale7), e può accadere anche che l’allievo vada ad abitare per un certo tempo nella casa del suo maestro.

Nato e morto nella stessa regione e nello stesso luogo, al-Zahrāwī, a differenza di altri studiosi e medici come ad esempio Avicenna, non è uomo che fa grandi viaggi. Si occupa di medicina per cinquant’anni, scrive una sola opera, capitale: Taṣrīf li-man ‘ağiza ‘an al-ta’ālif  [Il libro per chi fa a meno dei (degli altri) libri]8, enciclopedia medica in trenta libri, completandola intorno all’anno 1000. Discute, in questa opera, non solo di chirurgia (trentesimo libro del Taṣrīf,  primo trattato razionale e completo sul tema), ma anche di farmacologia, di preparazioni cosmetiche, di cucina e dietetica, pesi e misure, terminologia tecnica della medicina, chimica medica, terapeutica e psicoterapia.

Il Taṣrīf

Nel trentesimo trattato del Taṣrīf, dedicato alla chirurgia, al-Zahrāwī dichiara di voler seguire gli antichi (auctoritates), da Ippocrate a Paolo di Egina. Uomo dotto e di solida erudizione, non si comporta, tuttavia, come un pedissequo lettore di libri: dando prova di essere un chirurgo lungamente formato ‘sul campo’, le operazioni che egli descrive sono spesso resoconti di vita vissuta; elaborazioni sue proprie, o comunque appartenenti alla pratica araba contemporanea.

In chirurgia, oltre a interventi relativamente semplici e collaudati, come la tonsillectomia, e l’estrazione della safena nel caso di vene varicose, pratica la litotomia e descrive l’estrazione di calcoli per via vaginale; risolve dislocazioni e riduce fratture, intervenendo con successo, in particolare, sulla frattura della rotula; consolida con fili d’oro i denti che si muovono, e accenna al riposizionamento e alla legatura di denti caduti e all’utilizzazione di denti artificiali di osso di bue; lega le arterie e raccomanda diversi tipi di budelli e fili per sutura; applica gessi e bende alle fratture; introduce, in ostetricia, la posizione più tardi detta ‘di Walcher’9; inventa diversi tipi di forcipi e di strumenti chirurgici. Nella descrizione di operazioni chirurgiche, presenta, a parole e con illustrazioni, gli strumenti utilizzati, fornisce in dettaglio i modi della loro utilizzazione, e i tempi e i modi degli interventi dei collaboratori (si noti che anche nel Medioevo islamico la chirurgia si presenta regolarmente come un lavoro di équipe, in cui all’abilità del chirurgo deve aggiungersi quella dei suoi assistenti).

Come abbiamo in precedenza accennato, l’attività di al-Zahrāwī non si limita alla chirurgia. In medicina, descrive diverse malattie, tra cui l’idrocefalo10 e, forse, l’emofilia11; in un rapporto diretto e continuo con il paziente, prescrive misure igieniche, diete per salute e malattia, medicine di buona qualità (nel Medioevo molto spesso il medico prepara egli stesso le medicine). Estende le sue considerazioni all’educazione dei bambini, al buon comportamento, anche a tavola; compie utilissime valutazioni sull’istruzione scolastica e sulla preparazione accademica, ed è in questo contesto, mentre si muove nel campo che gli è più caro, che espone con grande chiarezza l’alto concetto che ha della sua scienza: a suo parere, sarebbe bene iniziare gli studi di medicina dopo avere ricevuto una educazione in lingua, grammatica, religione, poesia, matematica, astronomia, logica e filosofia12.

I suoi interessi, già come si vede molto ampi, vanno anche oltre la medicina: è esperto di scienza naturale e chimico applicato; descrive flora e fauna spagnole, fornendo dati utilissimi per la storia della botanica; cita medicine semplici di origine minerale, vegetale e animale, come si trovano, come si conservano etc. Discute metodi tecnici per purificare sostanze chimiche come il litargirio (ossido di piombo II), la cerussa (o biacca, carbonato di piombo), la pirite (un solfuro di ferro), i vetrioli (in genere sono solfati), il verderame; raccomanda l’uso di minerali, di elementi e anche di pietre preziose a scopo terapeutico.

In psichiatria fa uso di droghe, e non è il solo. Tra queste, un preparato a base di oppio, che rilassa, toglie le preoccupazioni, modera i temperamenti e agisce contro la melancolia.

Come chirurgo al-Zahrāwī è certamente insuperato almeno fino al XIII secolo. Nel Medioevo islamico non ha molto seguito, anche se di lui si moltiplicano le citazioni, ma nell’Occidente latino diviene presto ben noto. Il suo trattato sulla chirurgia, tradotto da Gerardo da Cremona – Toledo, XII secolo – con il titolo di Liber Alsaharavi de cirurgia, diviene famosissimo, ed esercita poi una grande influenza su chirurghi italiani e francesi. Tra i molti medici che lo utilizzano e su di esso fondano le loro conoscenze, dal Medioevo all’età moderna: Rogerio Frugardi (Rogerius Salernitanus, XII secolo)13 e il suo allievo Rolando Capelluti (Rolandus Parmensis, m. dopo il 1279)14, Guglielmo da Saliceto (m. 1277), e forse Arnaldo da Villanova (m. 1311)15. Nel XIV secolo, Guy de Chauliac (m. 1368)16 accosta Albucasis a Ippocrate e Galeno; e ancora nel XVII secolo, Girolamo Fabrici17 (Fabricius ab Aquapendente, m. 1619) lo menziona tra i tre autori a cui deve di più: il romano Celso, il greco Paolo di Egina e, appunto,  l’arabo Albucasis.

Testi

Presentiamo qui di seguito alcuni capitoli del trattato del Taṣrīf  sulla chirurgia: questo perché una corretta comprensione della mentalità e del contesto in cui il chirurgo musulmano del Medioevo si trova a operare si può ottenere soltanto con una diretta meditazione sui testi. Ai primi quattro capitoli che riguardano la pratica chirurgica, direttamente eseguita dal medico, abbiamo aggiunto una sezione dedicata al trattamento dei parti difficili: qui, come è noto, dato il fatto che nella tradizione islamica il medico, uomo, non può intervenire direttamente sulla paziente, le indicazioni fornite dal medico hanno la funzione di  istruzioni per le levatrici. La necessità di ricorrere a terze persone nella diagnosi e nella cura delle pazienti è deplorata con forza dai medici, e dallo stesso Zahrāwī, ed è forse per questo che nella Spagna del XII secolo è segnalata l’esistenza di  dottoresse18, appartenenti alla famiglia del grande medico Avenzoar,  delegate alla cura delle  donne dell’harem del califfo.

1 – Il trattamento della tumescenza delle tonsille e di altre tumescenze che si formano nella gola (Taṣrīf  30.2.36, op. cit.3, pp. 300-305;  v. infra figura alla fine dell’articolo).

A volte si producono nella gola dei bubboni chiamati ‘tonsille’, che somigliano ai bubboni che si producono all’esterno del corpo. Quando hai usato i rimedi descritti nel loro luogo (nella sezione ad essi dedicata), senza effetto, esamina, e se la tumescenza è dura, scura, e priva di sensazione non toccarla con uno strumento. Se è rossa, con una radice grossa, non toccarla ugualmente con uno strumento, per paura di una emorragia, ma lasciala maturare; a questo punto puoi perforarla o lasciarla scoppiare per conto suo. Ma se è di colore pallido, rotonda, con un peduncolo sottile, questo è il tipo che si dovrebbe tagliare.

Prima di operare bisogna vedere se la sua (del paziente) tumescenza infiammata è già completamente esaurita o in qualche misura diminuita. Allora fa sedere il paziente alla piena luce del sole con la sua testa sul tuo grembo. Apri la sua bocca, ed abbi un assistente davanti a te che gli spinga in basso la lingua con uno strumento come questo. Dovrebbe essere fatto di bronzo o d’argento, e sottile come un coltello. E quando la lingua è abbassata con il suo aiuto, la tumescenza ti sarà  manifesta e il tuo sguardo diretto vi cadrà sopra. Allora prendi un uncino e fissalo in una tonsilla e tirala in avanti quanto più puoi, ma sta attento a non tirare via con essa qualche parte di mucosa. Poi tagliala con uno strumento di questa forma. E’ come una forbice, eccetto che le sue estremità sono curve, con il becco di ognuna che incontra l’altro, e molto affilato. Dovrebbe essere fatto di ferro indiano o di acciaio di Damasco. Se non hai questo tipo di strumento, tagliala con uno scalpello di questa forma, da una parte affilato, dall’altra completamente smussato. E quando una tonsilla è stata tagliata, rimuovi l’altra esattamente allo stesso modo. Poi, dopo l’operazione, fa fare al paziente dei gargarismi con acqua fredda o aceto e acqua. Ma se si verifica una emorragia, fagli fare gargarismi con acqua in cui sia stata bollita scorza di melograno o foglie di mirto o simili astringenti finché cessa l’emorragia: poi curalo finché sarà ristabilito…

2. Sul modo di irrigare la vescica con una siringa e le forme degli strumenti che servono a questo (Ibidem, 30.2. 59, pp. 406-409).

61_10_1Quando si produce un’ulcera nella vescica, o vi è dentro un grumo di sangue o un deposito di pus, e tu vuoi instillarvi dentro lozioni e medicamenti, questo si fa con l’aiuto di uno strumento chiamato siringa. E’ fatto di argento o di avorio, cavo, con un lungo tubo fine, come una sonda, interamente cavo, eccetto per la fine che è solida con tre buchi, due da un lato e uno dall’altro come vedi. La parte cava che contiene lo stantuffo è di una misura tale da poter essere esattamente chiusa da esso, in modo che ogni liquido sia aspirato quando lo tiri su; e quando lo spingi giù è spinto in un getto, come è fatto dal proiettore quando si spruzza la nafta nelle battaglie navali. Dunque, quando vuoi iniettare un fluido nella vescica, immergi la punta della siringa nel fluido e tira su il pistone, perché il fluido sia aspirato nella cavità della siringa. Poi introducila nell’uretra come abbiamo descritto per la cateterizzazione; poi espelli il fluido per mezzo del pistone; il fluido scorrerà immediatamente nella vescica e il paziente avvertirà il suo ingresso…

3. L’escissione delle varici (Ibidem, 30.2. 90, pp.  594-597).

Le varici sono vene contorte e ingrossate, piene di superfluità melancoliche. Si verificano in molte parti del corpo, ma generalmente nelle gambe, in particolare nelle gambe dei corrieri, dei contadini e dei facchini. Per prima cosa devi purgare il corpo dalla bile nera, più volte, con forza; poi devi fare un salasso nella vena basilica19. Il trattamento chirurgico (lett.: con il coltello) è di due tipi: uno è che si incide e si porta fuori tutto il sangue nero, l’altro è che si tira fuori la vena e si estrae.

L’incisione si fa in questo modo: prima di tutto tampona (fai un impacco) per bene la gamba con l’acqua calda finché (in modo che) il sangue denso e torbido si sciolga. Poi lega con una benda la gamba del paziente, da sopra alla (dalla parte alta della) coscia a sotto il ginocchio. Poi incidi la vena, con una incisione ampia, in un solo punto, o in due o tre punti. Poi estrai il sangue nero [premendo] con la mano dalla parte bassa della gamba verso l’alto e dall’alto verso il basso, finché viene fuori, del sangue, la quantità che ti sembra sufficiente, o quella che è in grado di sopportare la forza del paziente. Poi fasciala, e ordinagli (al paziente) di astenersi dai cibi che generano la bile nera. L’evacuazione e il salasso si ripetono quando le vene si riempiono di nuovo e ciò reca danno al paziente.

L’estrazione si fa in questo modo: radi la gamba del paziente se è molto pelosa, poi fallo entrare nel bagno e fa’ impacchi alla gamba con l’acqua calda finché diventa rossa e le vene si riempiono. Oppure, se non c’è bagno a disposizione, fagli fare esercizi violenti finché l’arto diviene caldo. Poi pratica una incisione longitudinale nella pelle sopra la vena, o in corrispondenza dell’estremità superiore di essa vicino al ginocchio o nella parte bassa vicino alla caviglia. Poi con gli uncini apri la pelle e distacca la vena da ogni parte finche essa è tutta aperta alla vista. Quando è visibile, la vedrai di color rosso porpora (rosso scuro), e quando è liberata dalla pelle la vedrai come se fosse una corda. Allora introduci sotto di essa un bastoncino, finché, quando si è sollevata ed è uscita dalla pelle, la agganci con un uncino spuntato e levigato. Poi, vicino a quella incisione, fai un’altra incisione ad una distanza di tre dita, e distacca la pelle dalla vena finché diviene visibile. Poi sollevala con il bastoncino come hai fatto in precedenza, e agganciala con un altro uncino come hai fatto prima. Poi fai un’altra incisione o diverse altre, se ne hai bisogno.  61_10_2Poi estrai la vena e tagliala all’altezza dell’incisione più bassa, presso la caviglia, poi tirala ed estraila (tirala fuori) finché emerge dalla seconda incisione. Poi tirala verso l’incisione che è sopra di essa. Fa’ questo finché la tiri dalla terza incisione, che è al di sopra di tutte le altre, finché è uscita tutta: allora taglia. Se non risponde ai tuoi tentativi di tirare e di estrarre, infila in un ago un filo forte e doppio, legala e tirala; introduci sotto di essa il bastoncino e gira con esso la tua mano in ogni direzione finché viene fuori; ma sta attento che non si rompa, perché se si rompe, l’estrazione totale ti sarà molto difficile e da ciò verrà un danno al paziente. Quando hai finito (l’hai estratta tutta), applica alle incisioni lana imbevuta in uno šarāb (it. => sciroppo) e in olio di rose, o in olio [di oliva], e curalo (il paziente) finché si sarà ristabilito…

4. Il trattamento della dislocazione del ginocchio (Ibidem  30.3. 32, p. 828-9).

La dislocazione del ginocchio può essere di tre tipi: verso l’interno, verso l’esterno e verso il basso, cioè posteriore. Non c’è mai dislocazione anteriore. Per sapere se vi è dislocazione, ordina [lett.: il segno della dislocazione è che tu ordini] al paziente di flettere la gamba verso la coscia: se non raggiunge (riesce a raggiungere) la coscia, sappi che il ginocchio è dislocato. Il modo di mettere a posto tutti i tipi di dislocazione del ginocchio è far sedere il paziente con entrambe le gambe distese, se può, con un assistente che siede dietro di lui per tenerlo per la vita e lo tenga un po’ inclinato all’indietro. Poi tu devi sederti sulle sue cosce con la tua schiena rivolta verso la sua fronte e mettere la sua gamba tra le tue; poi devi applicare le palme delle tue mani al suo ginocchio, e unirle insieme allacciando le dita; poi, con le palme, devi esercitare una forte pressione su entrambi i lati del suo ginocchio, mentre un altro assistente gli tira la gamba, finché il ginocchio torna al suo posto. Il segno che il ginocchio è tornato al suo posto è che la gamba può essere flessa indietro facilmente e senza impedimento. Poi applica ad esso (ginocchio) una benda; piega la gamba sulla coscia e fasciali insieme per tre o quattro giorni; poi scioglili. Dovrebbe camminare poco per alcuni giorni finché riguadagna le forze. Ma se non puoi effettuare la riduzione con questo metodo, applica una potente estensione  con le bende come descritto sopra per il trattamento dell’anca, finché torna a posto.

5. Addestramento delle levatrici su come trattare feti viventi quando non escono nel modo naturale (Ibidem, 30.2. 75, pp.  468-471).

Per cominciare, la levatrice deve sapere come avviene un travaglio normale. Tra i segni di questo, eccone alcuni. Se vedi che la donna sforza il suo addome e desidera respirare più aria e le doglie le vengono facilmente ed essa si affretta a spingere fuori il bambino, da questo tu sai che il travaglio seguirà un corso normale e che si presenterà la testa con la placenta o insieme con il bambino oppure attaccata al cordone ombelicale. E quando osservi questi segni sarà necessario spingere sull’addome per fare uscire rapidamente il bambino. Perché quando si presenta di testa la placenta viene giù con essa ed essa (la partoriente) è subito liberata da queste superfluità.

Ma un parto che è contrario a questo è innaturale e sbagliato. A volte il bambino è partorito dai piedi, o dalle mani, prima che dalla testa o dai piedi, o una singola mano o piede, oppure la testa viene insieme con un piede. Oppure viene fuori tutto contorto,  mostrando per primo la nuca del collo, o in altre posizioni sbagliate. Così la levatrice deve avere sapienza e destrezza ed essere accorta in tutti questi casi e guardarsi da insuccessi ed errori. Io spiegherò la tecnica da seguire in questi tipi di parto  in modo che essa possa essere istruita e informata di tutti.

Quando il feto viene fuori dalla testa nel modo normale e tuttavia vedi che il parto è di grande difficoltà per la donna, e vedi che le sue forze stanno venendo meno, allora falla sedere su una sedia, tienila saldamente  e fomenta il suo grembo in un decotto di fienogreco e olii blandi. Poi la levatrice dovrebbe tenere tra due dita un piccolo scalpello e praticare una incisione nella membrana fetale, o aprirla con l’unghia del dito per permettere alle acque contenute di scorrere via; ed esercitare una pressione sull’addome della donna finché il feto viene fuori. Ma se non uscirà allora la donna dovebbe ricevere un clistere di mucillagine di fienogreco con olio di sesamo. Poi dopo il clistere, ordinale di premere e con ptarmica stimolala a starnutire; chiudile la bocca ed il naso per un attimo e il feto verrà fuori alla svelta.

Se si presentano le mani del feto, dovresti lentamente e gentilmente spingerle indietro, e se non vanno indietro, allora metti la donna su di una sedia con i piedi alzati, e intanto muovi la sedia; ma la donna dovrebbe essere tenuta durante il movimento perché non cada. Ma se le mani non vanno indietro e il feto è morto, tagliale (le mani) e tira fuori quel che rimane. Oppure lega dei nastri alle mani e tirale fuori con calma, e verrà fuori.

Presentazione podalica: quanto il feto si presenta con  i piedi, per prima cosa tu dovresti alzarli entrambi, poi dovresti molto gentilmente girare il feto in modo da raddrizzarlo. Poi prendi uno dei piedi e tiralo gentilmente. Quando vengono fuori fino alle anche, ordinale di premere, falla starnutire con ptarmica,  e verrà fuori. Ma se non verrà fuori con questi mezzi che abbiamo descritto, dovresti rigirare gentilmente il feto finché lo avrai posto nella posizione naturale; allora verrà fuori facilmente.

Ma se sfida tutto ciò che abbiamo descritto, prendi mucillagine di altea, fienogreco, olio di sesamo e gomma disciolta,  pestali bene insieme nel mortaio e ungi i genitali della donna e la parte bassa del suo addome, poi falla sedere in acqua calda fino alle costole. E quando vedi che le parti basse sono ammorbidite, fa una supposta di mirra e fagliela mettere, e quando ha preso la supposta, in un attimo falla starnutire, chiudendole il naso e la bocca, e premi gentilmente sull’addome; allora il feto emergerà immediatamente… 

Nonostante il ruolo di primo piano che gli è riconosciuto nella storia della medicina, il Taṣrīf  è forse ancora troppo poco indagato; ciò può dipendere anche dal fatto che dei suoi manoscritti molti non contengono l’intera opera, ma solo, come spesso avveniva in questi casi, singole parti copiate dagli interessati, e non sempre in bella scrittura. Dopo la prima traduzione in un lingua moderna europea, pubblicata da Leclerc nel 186120, alcuni studi rilevanti sono stati tuttavia effettuati sia nell’ambito di storie generali della medicina e della chirurgia che in ricerche dedicate specificamente a Zahrāwī21.  Altri studi condotti su trattati del Taṣrīf che precedono il trentesimo22, e in particolare su sezioni dedicate alla farmacologia23, costituiscono recenti e interessanti aperture volte a riconoscere il valore di al-Zahrāwī oltre che come chirurgo e come internista, come membro di spicco della comunità scientifica e della società musulmana di Spagna degli inizi dell’XI  secolo.

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Cyrurgia Albucasis 30.2.36, in: Guy de Chauliac, Cyrurgia parva…, Venetiis 1500, ff. 6r – 42v, f. 17r: a destra gli strumenti utilizzati nella tonsillectomia, a sinistra la legatura  dei denti instabili.

 

Bibliografia

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20) Turgut M., Surgical scalpel used in the tratment of “infantile hydrocephalus” by Al Zahrawi (936-1013 A.D.), Child Nerv Syst, 25.9 (2009), pp. 1043-1044.

21) Zahrāwī al-, Un tratado de estética y cosmética en Abulcasis, tr. L. M. Arvide Cambra, [Granada], Grupo editorial universitario, 2010.

22) Zahrāwī al-, Tratado de pastillas medicinales según Abulcasis, tr. L. M. Arvide Cambra, Almeria, Universidad de Almeria, 1996.

23) Zahrāwī al-, Un tratado de odontoestomatología en Abulcasis, tr. L. M. Arvide Cambra, Almeria, Universidad de Almeria, 2003.

24) Zahrāwī al-, Un Tratado de oftalmología en Abulcasis, tr. L. M. Arvide Cambra, Almeria, Universidad de Almeria, 2000.

25) Zahrāwī al-, Un tratado de polvos medicinales en al-Zahrāwī, tr. L. M. Arvide Cambra, Almeria, Universidad de Almeria, 1994.

26) Zanobio B., Fabrici, Girolamo, in: Dictionary of Scientific Biography, C.C. Gillispie ed., IV, New York, C. Scribner’s Sons, 1971, pp. 507-512.

Cita questo articolo

Carusi P., Il libro per chi fa a meno dei (degli altri) libri di Abū’l-Qāsim Khalaf ibn ‘Abbās al-Zahrāwī, Medicina e Chirurgia, 61: 2753-2759, 2014. DOI:  10.4487/medchir2014-61-8

  1. E. Savage-Smith, Médecine, in Histoire des sciences arabes, sous la direction de R. Rashed, III. Technologie, alchimie et sciences de la vie, Paris, Seuil, 1997, pp. 155-212, in particolare pp. 197-203. Si noti tuttavia che nel Medioevo, data la più o meno totale assenza di ogni idea di specializzazione, è praticamente impossibile incontrare medici che siano esclusivamente oculisti o chirurghi; si tratta, in genere, di esperti di medicina generale che dedicano una parte importante del loro lavoro all’oculistica o alla chirurgia []
  2. Illustrazioni che mostrano diversi tipi di interventi (emorroidi, dislocazioni, odontoiatria), e tavole anatomiche tratte da manoscritti sono mostrate in S.H. Nasr, Islamic Science. An Illustrated Study, [London], World of Islam Festival Publishing Company Ltd, 1976, Chapter VIII. Medicine and Pharmacology, pp. 153-192. In al-Jazarī, The book of knowledge of ingenious mechanical devices, transl.  D.R. Hill, Dordrecht, Reidel, 1974, tra i diversi congegni rappresentati in figura e di cui è spiegato il funzionamento, c’è anche (p. 77) un apparecchio per flebotomia, utilizzato per misurare la quantità di sangue che si preleva. []
  3. Su al-Zahrāwī, la sua biografia e la sua opera la nostra prima fonte è Albucasis, On surgery and instruments. A definitive edition of the arabic text with english translation and commentary, M.S. Spink G.L. Lewis edd., Berkeley Los Angeles, University of California Press, 1973.  Si vedano anche: L. Leclerc, Histoire de la médecine arabe, vv. 2, Paris, E. Leroux, 1876, I, pp. 437-457 (rist. anast. Rabat, Ministère des habous et des affaires islamiques Royaume du Maroc, 1980); S.K. Hamarneh G. Sonnedecker, A pharmaceutical view of Abulcasis al-Zahrāwī in Moorish Spain, Leiden, Brill, 1963; S. Hamarneh, al-Zahrāwī, in Dictionary of Scientific Biography, C.C. Gillispie ed., XIV, New York, C. Scribner’s Sons, 1976, pp. 584-5 ; E. Savage-Smith, al-Zahrāwī,  in The Encyclopaedia of Islam. New Edition, XI, Leiden, Brill, 2002, pp. 398-399. []
  4. Cfr. Hamarneh Sonnedecker, op. cit.3, p. 17. []
  5. Questa data è ritenuta probabile anche da Spink e Lewis, op.cit.3, p. VII; v. anche Hamarneh Sonnedecker, op. cit.3, pp. 18-22, 22. Leo Africanus (attribuito a), De viris quibusdam illustribus apud Arabes (completato nel 1527), in  J.H. Hottinger, Bibliothecarius quadripartitus, Tiguri, M. Stauffacher, 1664, p. 256. []
  6. Scrivono di lui, tra gli altri, ma solo in brevi citazioni, Ibn Ḥazm (m. 1064), Ibn Futūḥ al-Ḥumaidī (m. 1095), che di lui cita ciò che ha scritto Ibn Ḥazm, e Ibn Abī Uṣaibi‘a (m. 1270). Ibn Ḥazm, Risāla  fī faḍā’il ahl al-andalus, riportata per intero in al-Maqqarī, Analectes sur l’histoire et la littérature des arabes d’Espagne, R. Dozy et al. edd., tt. 2, Amsterdam, Oriental Press, 1967, II, p. 109 sgg. (la citazione di al-Zahrāwī si trova a p. 119; a p. 125, in ciò che Ibn Sa‘īd al-Maghribī aggiunge alla Risāla  di Ibn Ḥazm, e che al-Maqqarī puntualmente riporta, al-Zahrāwī è citato come fonte del grande farmacologo Ibn al-Baiṭār); Ibn Futūḥ al-Ḥumaidī, Ğadhwat al-muqtabis, ed. M. b. T. al-Tanğī, al-Qāhira, Maktab nashr al-thaqāfat al-islāmīya, [1953], p. 195, n. 421; Ibn Abī Uṣaibi‘a, ‘Uyūn al-anbā’ fī ṭabaqāt al-aṭibbā’,  vv 2., al-Qāhira, al-maṭba‘at al-wahhabīya,1882, II, p. 52. []
  7. Sugli ospedali islamici e il loro funzionamento è ancora utile: A. Issa Bey, Histoire des bimaristans (hôpitaux) à l’epoque islamique, Le Caire,  Imprimerie Paul Barbey, 1928. []
  8. Albucasis, On surgery…, op. cit.3.  Questo titolo ha creato molte difficoltà ai traduttori, ma nell’introduzione al Taṣrīf  lo stesso al-Zahrāwī ne spiega chiaramente il significato: si tratta di un libro che può essere utile al medico in molti modi, al punto che chi lo conosce può fare a meno degli altri libri (Hamarneh Sonnedecker, op. cit.3, pp. 36-7). []
  9. Posizione in cui la partoriente è distesa sulla schiena con le gambe che pendono dal letto. []
  10. M. Turgut, Surgical scalpel used in the tratment of “infantile hydrocephalus” by Al Zahrawi (936-1013 A.D.), Child’s Nervous System, 25.9 (2009), pp. 1043-1044. []
  11. Cfr. A.N. Kaadan M. Angrini, Who discovered hemophilia?, Journal of the International Society for the History of Islamic Medicine 8-9 / 15-16-17-18 (2009-2010), pp. 46-50. []
  12. Possiamo qui ricordare un altro grande medico, Avicenna, che tra le conoscenze necessarie del medico include anche la musica, indispensabile, scrive nel Canone, per il medico che voglia comprendere la pulsazione: dove la frequenza della pulsazione corrisponde, nella musica, al ritmo, e la durezza della vena al volume del suono. []
  13. Rogerio Frugardi (Rogerius Salernitanus) scrive intorno al 1170 un importante trattato dal titolo Practica Chirurgiae, noto anche come Chirurgia  Magistri RogeriiChirurgia  Magistri Rogerii, in Collectio Salernitana  II, Napoli, Sebezio, 1853 (rist. anast. Napoli, D’Auria, 2001). []
  14. La sua Chirurgia, che può essere considerata quasi come un commento di quella del suo maestro,  anche se non sempre del tutto concorde, è ristampata più volte, a partire dal 1498 (edizioni successive: 1499, 1516, 1519, 1541); le prime volte con Guy de Chauliac, la quinta volta, nel 1541, con Albucasis. []
  15. Nella sua Vita di Arnaldo, premessa all’edizione dell’Opera omnia pubblicata a Lione nel 1520 (Arnaldi de Villanova medici acutissimi opera nuperrime revisa…, Lyon, G. Huyon, 1520), S. Champier ricorda la conoscenza che Arnaldo ebbe della lingua araba e le traduzioni da lui effettuate da questa lingua (cita in particolare il De viribus cordis di Avicenna). []
  16. Chirurgo francese (c. 1300-1368), medico, ad Avignone, del Papa Clemente VI e di due suoi successori. Nella sua Cyrurgia magna (1363), opera usata come manuale di medicina per circa 300 anni, al-Zahrāwī è da lui indicato tra le sue fonti, e citato, anche letteralmente, più di 200 volte. In tre edizioni a stampa realizzate a Venezia negli anni 1497, 1499 e 1500, il suo trattato Cyrurgia parva  viaggia insieme alla Cyrurgia di al-Zahrāwī (traduzione latina di Gerardo da Cremona). []
  17. B. Zanobio, Fabrici, Girolamo, in Dictionary of Scientific Biography,  C.C. Gillispie ed., IV,  New York, C. Scribner’s Sons, 1971, pp. 507-512. []
  18. Leclerc, Histoire…, op. cit.3, II, p. 94. []
  19. La vena ancor oggi detta ‘basilica’ è la vena principale del braccio che corre verso l’ascella. Si noti qui l’utilizzazione del termine greco: basilik» = reale, è il nome di questa vena già nella medicina antica. []
  20. L. Leclerc, La Chirurgie d’Abulcasis, Paris, J.-B. Baillière,1861. []
  21. Segnaliamo qui due articoli apparsi recentemente su riviste pubblicate in rete in ambienti scientifici:  I.M.L. Donaldson, The Cyrurgia of Albucasis and others works, 1500, Journal of the Royal College of Physicians of Edinburgh 41.1 (2011), pp. 85-89.  S.H. Chavoushi, Surgery for gynecomastia in the Islamic Golden Age: al-Taṣrīf of al-Zahrawi (936-1013 AD), ISRN Surgery 2012 (2012), Article ID 934965, 5 pages (http://dx.doi.org/10.5402/2012/934965). []
  22. al-Zahrāwī,  Un tratado de estética y cosmética en Abulcasis, tr. L. M. Arvide Cambra, [Granada], Grupo editorial universitario, 2010. Della stessa studiosa: al-Zahrāwī, Un tratado de polvos medicinales en al-Zahrāwī,  Almeria, Universidad de Almeria, 1994; Tratado de pastillas medicinales según Abulcasis, Almeria, Universidad de Almeria, 1996; Un Tratado de oftalmología en Abulcasis, Almeria, Universidad de Almeria, 2000; Un tratado de odontoestomatología en Abulcasis, Almeria, Universidad de Almeria, 2003. []
  23. Cfr. in particolare Hamarneh Sonnedecker, op. cit.3.  Nel Taṣrīf , tra i libri e le sezioni dedicati alla farmacologia – le indicazioni farmacologiche sono disseminate in libri diversi – il libro 28, sulla preparazione dei semplici, è tradotto in latino, alla fine del XIII secolo, dall’ebreo Abraham Judaeus da Tortosa e da Simone da Genova, con il titolo Liber servitoris,  e più tardi  è stampato più volte, a partire dal 1471. Citazioni di preparazioni farmacologiche tratte dal Taṣrīf  si trovano, nei testi arabi, in due importanti trattati dedicati il primo a botanica e agricoltura, e il secondo alla farmacologia: Ibn al-‘Awwām e Ibn al-Baiṭār. Ibn al-῾Awwām al-Išbīlī, Le livre de l’agriculture, trad. fr. J.J. Clement Mullet, vv. 3, Tunis, Bouslama, 1983 (I ed. Paris, Librairie A. Frank, 1864-1866), Article 4, p. 797 sgg. (acqua di rose); Ibn al-Baiṭār, al-Ğāmi‘  li-mufradāt al-adwiya wa al-aghdhiya, vv. 4 in tt. 2, [al-Qāhira], Dār al-Madīna, [1874], I, pt. 2, p. 109 sg. (olio di mattoni). []